Mese: aprile 2013

Responsabilità da prodotto difettoso, onere della prova

Corte di Cassazione Sez. III, 8 ottobre 2007, n. 20985

Con il seguente arresto la Corte di Cassazione ha affermato il seguente principio: << Nell’ipotesi di responsabilità civile da prodotti difettosi, disciplinata dal d. P.R. 24 maggio1988, n. 224, il primo comma dell’art. 8 del citato d.p.r. (“Il danneggiato deve provare il danno, il difetto e la connessione causale tra difetto e danno …”) va interpretato nel senso che detto danneggiato deve provare (oltre al danno ed alla connessione causale predetti) che l’uso del prodotto ha comportato risultati anomali rispetto alle normali aspettative e tali da evidenziare la sussistenza di un difetto ai sensi di cui all’art. 5 D.P.R. cit.; invece il produttore deve provare (ex artt. 6 ed 8 D.P.R. cit.), che è probabile che il difetto non esistesse ancora nel momento in cui il prodotto è stato messo in circolazione. >>

Ha altresì puntualizzato che il Giudice del rinvio dovrà tenere presente – a proposito dell’onere probatorio in questione – la norma dell’art. 12 del d.P.R. 24 maggio1988, n. 224. “Clausole di esonero da responsabilità” : “1. È nullo qualsiasi patto che escluda o limiti preventivamente, nei confronti del danneggiato, la responsabilità prevista dal presente decreto”, articolo la cui applicazione è era stata invocata dal ricorrente nell’ambito di argomentazioni strettamente connesse con l’accolta censura.

 

CORTE DI CASSAZIONE CIVILE

Sez. III, 8 ottobre 2007, n. 20985

Pres. Nicastro – Est. Talevi – P.M. (conf.) – D. B. c. Mentor Corporation spa ed altra

Svolgimento del processo. – Nell’impugnata decisione lo svolgimento del processo è esposto come segue.

“Con citazione affidata alla notifica mediante servizio postale il 21 giugno 1995 D. B. conveniva avanti al Tribunale di Mantova la Mentor Corporation e la spa Comesa per sentirle condannare in solido al risarcimento dei danni da lei patiti per la rottura di una protesi mammaria di fabbricazione della prima e distribuita dalla seconda.

Precisava che, sottopostasi ad intervento di mastectomia radicale per neoplasia mammaria presso l’ospedale di Mantova, le era stata applicata, in data 1 febbraio 1992, una protesi mammaria di fabbricazione della Mentor.

Purtroppo, in data 14 maggio 1994 ella aveva notato una certa asimmetria e, sottopostasi a visita, era stato accertato che la protesi, costituita in sostanza da un involucro contenente soluzione salina, si era inspiegabilmente svuotata e la soluzione si era diffusa nei tessuti circostanti. Si era imposto, pertanto, altro intervento, praticato il 9 giugno 1994 presso l’ospedale di Verona per la rimozione dell’involucro e il drenaggio dei tessuti, operazione cui erano seguite altre terapie e previsione di altra operazione di alta specializzazione e di corrispondente costo.

Lamentava gravi danni sia materiali, sia di comprensibile riverbero psichico e precisava che la protesi rimossa era tuttora custodita “…presso il reparto di 2^ divisione chirurgia plastica presso gli istituti ospedalieri di Verona di Borgo Trenta…”.

Resisteva la Comesa spa, negando proprie responsabilità contrattuali o extracontrattuali quanto meno per assoluto difetto dell’elemento psicologico. Precisava, infatti, di essere stata semplice fornitrice della protesi in questione, pervenutale dal fabbricante in confezione sterile e sigillata destinata all’apertura e al controllo da parte del chirurgo in sede di applicazione, così che nulla poteva a lei essere imputato, non senza considerare la propria carenza di legittimazione passiva inammissibile essendo l’azione nei di lei confronti nella ipotesi, qui ricorrente, che il produttore della cosa asseritamente difettosa fosse noto. Infine contestava, difettando al riguardo ogni prova, che la protesi avesse avuto effettivamente vizi.

Resisteva anche la Mentor osservando che la disciplina codicistica era stata integrata dalla legge n. 224 del 1988 che aveva introdotto una particolare figura di responsabilità extracontrattuale di tipo “oggettivo”, vale a dire svincolata dalla colpa del produttore e basata, invece, sul mero rapporto di causalità tra il difetto del prodotto e il danno. La legge stabilisce, infatti, che “il produttore è responsabile del danno cagionato da difetti del suo prodotto” (art..), ma precisa che”un prodotto è difettoso quando non offre la sicurezza che ci si può legittimamente attendere” alla luce di una serie di fattori fra cui “…il modo in cui il prodotto è stato messo in circolazione, la sua presentazione, le istruzioni e le avvertenze fornite..”(art.5).

Premesso ciò, sottolineava la convenuta come la protesi in questione fosse messa in commercio corredata di dettagliate istruzioni che senza mezzi termini ammonivano il consumatore sulle possibilità di rischio del suo impiego, sui limiti di affidabilità, sulle controindicazioni, sulle situazioni in cui era addirittura sconsigliato l’impiego e, in particolare, sulla possibilità, espressamente prevista, di sgonfiamento legata ad una lunga serie di fattori possibili e individuati, nonché ad una serie ulteriore di fattori inconoscibili.

Sottolineava anche la Mentor che non si trattava affatto di un prodotto in libero commercio, bensì di un prodotto non reclamizzato, né offerto direttamente al pubblico, ma fornito su espressa richiesta del medico a propria volta tenuto ad informare il paziente di tutti i rischi e le controindicazioni di esso, così che l’attrice doveva essere pienamente consapevole di tutto ciò nel momento in cui aveva accettato di lasciarsi impiantare la protesi de qua, con conseguente assenza di ogni responsabilità a carico della deducente anche alla luce del disposto dell’articolo 10 della legge secondo cui “…il risarcimento non è dovuto quando il danneggiato sia stato consapevole del difetto del prodotto e del pericolo che ne derivava e nondimeno vi si sia volontariamente sottoposto …”.

Osservava, poi, che, sempre secondo la legge, “…la responsabilità è esclusa…se il difetto che ha cagionato il danno non esisteva quando il produttore ha messo in circolazione il prodotto…”. Precisava che, prima di uscire dalla fabbrica, ciascuna protesi viene sottoposta ad accurati controlli qualitativi e a sterilizzazione e, in ogni caso, le informazioni allegate prevedevano ben specifici test che il chirurgo avrebbe dovuto effettuare sulla protesi prima di impiantarla. Orbene, se il chirurgo impiantò la protesi, ciò vuol dire che i test avevano dato risultati soddisfacenti e, se così fu se ne trae necessariamente che non esistevano difetti al momento della messa in circolazione del prodotto. Se, viceversa, il giudizio implicito (di assenza di difetti) era stato determinato dalla non corretta esecuzione dei test nonostante le raccomandazioni di essa produttrice, di certo della cattiva riuscita dell’impianto l’attrice non aveva titolo per dolersi nei confronti del produttore. Inoltre, le protesi venivano consegnate vuote, essendo compito del chirurgo provvedere al loro riempimento, al momento dell’impiego, con una soluzione salina e secondo specifiche istruzioni fornite dalla Mentor, così che se tutto ciò era stato fatto ne conseguiva necessariamente che la protesi era apparsa integra al chirurgo che aveva deciso, quindi di impiantarla. Non senza considerare che l’articolo 8 secondo comma della Legge stabilisce che “…ai fini dell’esclusione da responsabilità prevista nell’articolo 6 lettera b, è sufficiente dimostrare che, tenuto conto delle circostanze, è probabile che il difetto non esistesse ancora nel momento in cui il prodotto è stato messo in circolazione…”. Contestava, infine, il nesso causale fra le voci di danno indicate dall’attrice e l’episodio contestato, ribadendo, in ogni caso, l’assenza di propria responsabilità.

Alla causa era riunita altra causa nel frattempo instaurata dalla Mentor nei confronti di F. B. e dell’ospedale Carlo Poma di Mantova dai quali, nella rispettiva qualità di chirurgo che aveva proceduto all’impianto della protesi e di ospedale presso cui l’operazione era stata eseguita, la Mentor chiedeva essere manlevata nell’ipotesi di accoglimento della domanda attrice.

Entrambi si erano costituiti con unico patrocinio respingendo ogni addebito.

Si procedeva a tentativo di conciliazione che non riusciva, quindi a consulenza tecnica medica e, infine, dopo alcune deduzioni e controdeduzioni e l’assunzione di prova testimoniale, la causa era decisa con sentenza 13 giugno 2001 che accoglieva la domanda svolta nei confronti della Mentor e della spa Comesa, nonché la domanda di manleva svolta da quest’ultima nei confronti della Mentor, che condannava alle spese nei confronti di B. e dell’ospedale Carlo Poma e, in solido con la Comesa, nei confronti dell’attrice.

Appellava la Mentor con citazione notificata il 16 ottobre 2001 e, nel contraddittorio della B., che resisteva al gravame proponendo impugnazione incidentale, della spa Comesa e di F. B., il quale avanzava domanda di condanna della spa Mentor per lite temeraria e dell’ospedale Carlo Poma, la causa era trattenuta in decisione sulle sopra trascritte conclusioni.

Con sentenza 8.1 -20.5.2003 la Corte d’Appello di Brescia decideva come segue: “1n riforma della sentenza 13 giugno 2001 del giudice unico del Tribunale di Mantova, respinge la domanda di D. B. e ne compensa le spese con Mentor Corporation e spa Co.Me.Sa.. Condanna la Mentor Corporation a rifondere a F. B. e all’ospedale Carlo Poma di Mantova le spese dei due gradi liquidate in complessivi € 3,000,00 quanto al primo ed € 3.500,00 quanto al presente”.

Contro questa decisione ha proposto ricorso per tassazione D. B..

Ha resistito con controricorso la Mentor Corporation.

  1. B. ha depositato memoria.

Motivi della decisione. – Con il primo motivo di ricorso D. B. denuncia “Violazione e falsa applicazione della norma di diritto in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c. violazione dpr 224/88 e agli artt. 1490-1494-2043 c.c.” esponendo varie dog1ianze; le prime di queste vanno riassunte come segue. Accogliendo in toto le tesi difensive dell’appellante Mentor Corporation il Giudice dell’Appello, omettendo qualsiasi considerazione sulle opposte tesi difensive dell’appellata B., ha violato il fondamento della normativa posta a tutela del consumatore, stravolgendone, con un ragionamento incompleto, incoerente ed illogico, lo spirito e il contenuto. Orbene in base al d.p.r. 24 maggio 1988 n. 224 il produttore è responsabile per i danni causati da difetti dei suoi prodotti. Il giudice d’appello ha ritenuto che dopo due anni e quattro mesi (lasso temporale assolutamente inaccettabile) dalla installazione lo svuotamento della protesi non concreta difetto quanto piuttosto manifestazione della possibile esistenza di un difetto. L’onere della prova dell’assenza di difetti incombe in ogni caso sul produttore non sul consumatore come ha erroneamente ritenuto, stravolgendo lo spirito della norma, il Giudice d’Appello (“incombeva all’attrice dimostrare:. . . il difetto e il nesso causale tra questo e il danno”; v. a pag. 10 sentenza Corte D’Appello) né può essere soppressa o limitata la responsabilità del produttore con clausole esonerative o limitative della responsabilità come erroneamente ritenuto dallo stesso giudice. Il tribunale di Mantova, correttamente e conformemente allo spirito della norma, con sentenza 597/01 ha sottolineato che “il fatto che il produttore non garantisca la durata illimitata della protesi non può portare ad escludere la sua responsabilità in tutti quei casi in cui la protesi ha avuto una durata tanto limitata nel tempo (nella fattispecie poco più di due anni) da deludere le aspettative, anche le più pessimistiche, di un paziente che decide di sottoporsi ad un intervento chirurgico”. L’art. 12 del DPR 224/88 stabilisce il divieto assoluto di clausole di esonero della responsabilità.. Nel caso in esame, dalla copiosa documentazione prodotta in atti dalla dr.ssa B. relativa al contenzioso dei consumatori portatori di protesi di produzione Mentor Corporation in essere negli USA, ingiustificatamente trascurata dal giudice d’appello, appare più che evidente la responsabilità del produttore per quella tipologia di protesi. La Mentor Corporation non ha superato l’onere della prova dell’assenza di difetti, né ha superato il principio del neminem laedere che implica l’onere di vigilare affinché i beni non presentino difetti di sicurezza tali da arrecare danno alle persone.

Il primo punto essenziale affrontato dalla parte ricorrente riguarda dunque il sopra citato onere della prova.

La Corte d’Appello basa il suo assunto sul seguente rilievo:

“. . . Pur se il d.p.r. 24 maggio 1988 n.224 ha reso più accessibile la tutela extracontrattuale avendo sollevato il danneggiato dall’onere di dimostrare la colpa del produttore, per altro verso ha ribadito la necessità che egli dimostri “…il danno, il difetto e la connessione causale tra difetto e danno…”(art. 8). Che nella specie danno vi sia stato, a parte le distinzioni proposte dall’odierna appellante fra conseguenze dirette dello svuotamento e affezioni meglio ricollegabili alla morbilità pregressa, è, sostanzialmente, fuori discussione. Ciò che incombeva all’attrice dimostrare erano quindi gli altri due requisiti, vale a dire il difetto e il nesso causale fra questo e il danno ….”.

Da tale brano e dal contesto della motivazione si evince: che secondo detta Corte il danneggiato ha l’onere di provare tra l’altro che il produttore ha messo in circolazione un prodotto con il difetto che ha cagionato il danno.

Se ci si limita a considerare il primo comma dell’art. 8 cit. (avente il contenuto citato nella sentenza) tale tesi interpretativa può apparire a prima vista fondata.

Ma la questione va in realtà affrontata considerando il complesso di norme in questione.

In particolare il secondo comma di detto art. 8 recita: “… Il produttore deve provare i fatti che possono escludere la responsabilità secondo le disposizioni dell’art. 6. ai fini dell’esclusione da responsabilità prevista nell’art. 6, lettera b), è sufficiente dimostrare che, tenuto conto delle circostanze, è probabile che il difetto non esistesse ancora nel momento in cui il prodotto è stato messo in circolazione.”.

L’articolo 6 (“Esclusione della responsabilità”) citato da detta norma stabilisce quanto segue: “1. La responsabilità e esclusa: a) se il produttore non ha messo il prodotto in circolazione; b) se il difetto che ha cagionato il danno non esisteva quando il produttore ha messo il prodotto in circolazione….”.

La circostanza che il legislatore abbia incluso nell’onere probatorio a carico del produttore la circostanza di cui al punto b) ora citato, e cioè abbia previsto che sia detto produttore a dover provare che “… Il difetto che ha cagionato il danno non esisteva quando il produttore ha messo il prodotto in circolazione….”, rende impossibile sostenere che un onere siffatto gravi sul danneggiato. In altri termini esclude che il danneggiato debba dimostrare la sussistenza del difetto fin dal momento in cui il produttore ha messo il prodotto in circolazione.

A questo punto l’unica interpretazione logicamente possibile e coerente con la ratio del D.P.R. in esame (chiaramente volta ad assicurare una maggiore tutela del danneggiato) consiste nell’interpretare il primo coma dell’art. 8 cit. (art. 8. Prova 1. “Il danneggiato deve provare il danno, il difetto e la connessione causale tra difetto e danno …”) nel senso che detto danneggiato deve dimostrare (oltre al danno ed alla connessione causale predetta) che l’uso del prodotto ha comportato risultati anomali rispetto alle normali aspettative; e cioè ha l’onere di provare (secondo le specifiche previsioni del legislatore contenute nell’art. 5: “… Art. 5. Prodotto difettoso. 1. Un prodotto è difettoso quando non offre la sicurezza che ci si può legittimamente attendere tenuto conto di tutte le circostanze, tra cui: …”) che il prodotto (durante detto uso) si è dimostrato “… Difettoso …” non offrendo “… La sicurezza che ci si …” poteva “… Legittimamente attendere tenuto conto di tutte le circostanze …” di cui al prosieguo dell’art. 5 cit.

Una volta che il danneggiato ha dimostrato che il prodotto ha evidenziato il difetto durante l’uso, che ha subito un danno e che quest’ultimo è in connessione causale con detto difetto, è il produttore che ha l’onere di provare che quest’ultimo (il difetto riscontrato) non esisteva quando ha posto il prodotto in circolazione.

Nella fattispecie in esame D. B. aveva dunque l’onere di dimostrare che nel corso dell’uso (entro un congruo periodo di tempo dall’impianto) la protesi aveva manifestato il difetto (si era vuotata), che vi era stato un danno e che sussisteva il suddetto nesso eziologico.

La Mentor Corporation doveva a questo punto adempiere l’onere probatorio previsto dall’art. 6 ed 8 cit. dimostrando, in particolare, che era probabile che il difetto non esistesse ancora nel momento in cui il prodotto era stato emesso in circolazione (in altre parole la problematica dei traumatismi dopo l’impianto rientrava – in linea generale – nell’ambito dell’onere probatorio incombente su detta società).

In conclusione va enunciato il seguente principio di diritto: “il primo comma dell’art. 8 del D. P. R. 24 maggio 1988, n. 224 (“Il danneggiato deve provare il danno, il difetto e la connessione causale tra difetto e danno …”) va interpretato nel senso che detto danneggiato deve provare (oltre al danno ed alla connessione causale predetti) che l’uso del prodotto ha comportato risultati anomali rispetto alle normali aspettative e tali da evidenziare la sussistenza di un difetto ai sensi di cui all’art. 5 D.P.R. cit.; invece il produttore deve provare (ex artt. 6 ed 8 D.P.R. cit.), che è probabile che il difetto non esistesse ancora nel momento in cui il prodotto è stato emesso in circolazione.”.

La corte di merito non ha applicato tale principio di diritto.

L’impugnata sentenza va dunque cassata.

Le ulteriori doglianze debbono ritenersi assorbite (e potranno essere riproposte nel giudizio di rinvio) in quanto tutte le risultanze probatorie dovranno essere riprese in esame dal Giudici del rinvio alla luce del principio ora enunciato (tenendo peraltro anche presente l’art. 12. Clausole di esonero da responsabilità: “1. È nullo qualsiasi patto che escluda o limiti preventivamente, nei confronti del danneggiato, la responsabilità prevista dal presente decreto”, articolo la cui applicazione è giustamente invocata dal ricorrente nell’ambito di argomentazioni strettamente connesse con la censura – sopra accolta – circa l’onere probatorio in questione).

I1 Giudice del rinvio va individuato nella medesima Cotte di Appello di Brescia in diversa composizione.

A detto Giudice va rimessa anche la decisione sulle spese del giudizio di c.

Nullità del contratto di lavoro a tempo determinato

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 20 dicembre 2012 – 3 aprile 2013, n. 8120

Presidente Amoroso – Relatore Curzio

La mancanza di specificità delle ragioni giustificative del ricorso alla somministrazione temporanea di lavoro comporta la nullità del contratto di lavoro stesso. Viene infatti richiesto un elevato grado di specificità che consenta facilmente di classificare le suddette ragioni giustificative come legittimanti un contratto a tempo determinato, nonchè la verifica della loro effettività.

Ragioni della decisione

La ABB spa chiede l’annullamento della sentenza della Corte d’appello di Brescia, pubblicata il 13 ottobre 2009, che ha confermato la decisione con la quale il Tribunale di Bergamo aveva dichiarato la nullità del contratto di somministrazione stipulato con la Man Power spa e ordinato alla ABB di riammettere in servizio di Giacomo D..R. dal 9 agosto 2004. modificando la sentenza di primo grado solo in ordine al punto relativo alla entità della detrazione dell’aliunde perceptum.

Il ricorso è articolato in tre motivi.

Il R. si è difeso con controricorso. La ABB spa ha depositato una memoria.
Con il primo motivo la ABB denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 21 d. lgs. 276 del 2003 assumendo che tale norma “impone solo dei requisiti di forma” e che, “contrariamente a quanto affermato dalla Corte di merito, non è quindi richiesta alcuna “specificazione” delle ragioni sottostanti il ricorso al lavoro in somministrazione. Sarebbe pertanto sufficiente “la forma scritta e l’indicazione di una delle fattispecie indicate al comma 1”.

Con il secondo motivo si denunzia “omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio”. Viene denunciata una pretesa contraddizione nel ragionamento giuridico della Corte derivante dal fatto che, da un lato, ha ritenuto generica l’indicazione delle ragioni, dall’altro ha ritenuto di poter entrare nel merito della valutazione, il che attesterebbe che quella formula non era così generica da rendere impossibile valutazione e controllo.

Con il terzo motivo si denunzia “omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio. Violazione dell’art. 20, quarto comma, d. lgs. 276 del 2003”. Con tale motivo si contesta che le ragioni che giustificano la somministrazione debbano essere collegate ad eventi eccezionali, non ripetibili negli stessi tempi e con le medesime modalità, ovvero ad eventi che sconvolgano la normale programmazione e la cui durata non sia prevedibile.

Il ricorso non è fondato e la decisione deve essere confermata, anche se con motivazione in parte diversa da quella sentenza impugnata.

Prima di passare all’esame dei motivi, deve premettersi che tra la Abb spa ed il R. sono intercorsi più rapporti di lavoro a termine, basati su contratti commerciali di somministrazione stipulati tra la ABB spa e l’agenzia di lavoro interinale Man Power spa.

La Corte di Brescia ha dichiarato la nullità del primo contratto commerciale di somministrazione, stipulato il 6 agosto 2004, ritenendo generica l’indicazione delle ragioni del ricorso alla somministrazione. La nullità è stata dichiarata per violazione dell’art. 21 d. lgs 276 del 2003, che così recita: “il contratto di somministrazione di manodopera è stipulato in forma scritta e contiene i seguenti elementi:…… c) i casi e le ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche riferibili all’ordinaria attività dell’utilizzatore;…”.

L’ultimo comma della norma, nella versione applicabile al rapporto in esame “ratione temporis” dispone: “in mancanza di forma scritta, con indicazione degli elementi di cui alle lettere…c) del comma 1, il contratto di somministrazione è nullo e i lavoratori sono considerati a tutti gli effetti alle dipendenze dell’utilizzatore”.

La Corte di Brescia ha poi formulato una motivazione ulteriore, sottolineando che comunque le ragioni addotte risultavano inidonee a giustificare la somministrazione perché sussistevano già agli inizi del 2003, come rilevato dal Tribunale di Bergamo e quindi ben prima dell’epoca di stipulazione del contratto.

Il primo motivo di ricorso affronta la questione esaminata dalla Corte di Brescia nella prima parte della sua motivazione.

La questione è in realtà duplice. Il primo problema è quello di stabilire, in termini generali, se il contratto commerciale di somministrazione tra l’agenzia somministratrice e l’utilizzatore del lavoro interinale debba contenere la specificazione delle ragioni per le quali l’impresa utilizzatrice ricorre alla somministrazione. Problema distinto è poi quello di verificare se le ragioni indicate nel singolo contratto siano o meno specifiche.

La società ricorrente assume che “contrariamente a quanto affermato dalla Corte di merito, non è richiesta alcuna “specificazione” delle ragioni sottostanti il ricorso al lavoro temporaneo somministrato”.

La tesi non è fondata.

La disciplina della somministrazione di lavoro è dettata dagli artt. 20 – 28 del d. lgs. 276 del 2003.

Il primo di tali articoli, Part. 20, è intitolato “condizioni di liceità”, definisce il contratto di somministrazione e distingue tra somministrazione a tempo determinato e a tempo indeterminato.

Con riferimento alla somministrazione a tempo determinato, le condizioni di liceità sono indicate al quarto comma, con questa disposizione: “la somministrazione a tempo determinato è ammessa a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili alla ordinaria attività dell’utilizzatore”.

L’articolo successivo, il 21, statuisce che il contratto di somministrazione di manodopera deve essere stipulato in forma scritta e deve contenere una serie di elementi. Tra gli elementi necessari, il punto c) indica “i casi e le ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo di cui ai commi 3 e 4 dell’art. 20”.

Il termine “casi” è riferito al terzo comma concernente la somministrazione a tempo indeterminato, consentita nella casistica delineata ai punti da a) e i) di quel comma.

Il termine “ragioni” è riferito al quarto comma, concernente il contratto di somministrazione a tempo determinato, ammesso solo in presenza di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo.

Tutto ciò premesso, la risposta da dare al problema concernente la necessità o meno che le ragioni del ricorso alla somministrazione siano specificate, non può che essere positiva.

Come si è visto, la normativa prevede come “condizione di liceità” che il contratto sia stipulato solo in presenza di ragioni rientranti in quelle categorie ed impone di indicarle per iscritto nel contratto a pena di nullità (ultimo comma dell’art. 21); inoltre, il terzo comma dell’art. 27, sancisce che il controllo giudiziale è limitato “all’accertamento della esistenza delle ragioni” (e quindi consiste proprio in tale verifica).

La conseguenza di tutto ciò è che tali ragioni devono essere indicate per iscritto nel contratto e devono essere indicate, in quella sede, con un grado di specificazione tale da consentire di verificare se rientrino nella tipologia di ragioni cui è legata la legittimità del contratto e da rendere possibile la verifica della loro effettività.

L’indicazione, pertanto, non può essere tautologica, né può essere generica. Non può risolversi in una parafrasi della norma, ma deve esplicitare il collegamento tra la previsione astratta e la situazione concreta.

Nel caso in esame le ragioni del ricorso al lavoro in somministrazione sono state indicate in “punte di più intensa attività produttiva”, alle quali non era possibile far ricorso con i normali assetti produttivi aziendali, determinate “dall’acquisizione di commesse” o dal “lancio di nuovi prodotti”.

Questa indicazione delle ragioni in sede contrattuale è stata valutata dalla giurisprudenza di legittimità sufficientemente specifica. Esaminando una situazione del tutto simile, si è affermato: “….si tratta di causali ben note e sperimentate nella pratica contrattuale, che hanno rinvenuto espressa consacrazione in risalenti norme legali relative al contratto al termine (ed, in particolare, nel d.l. n. 876 del 1977, convertito nella l. n. 18 del 1978, che ha introdotto la disciplina del contratto a termine per punte stagionali”, poi estesa dalla l. n. 79 del 1983, art. 8-bis a tutti i settori economici, anche diversi da quello commerciale e turistico), e conferma negli orientamenti della stessa giurisprudenza, che, sotto il vigore della precedente disciplina della materia, ne aveva patrocinato una interpretazione allargata, e cioè comprensiva anche delle punte di intensificazione dell’attività produttiva di carattere meramente gestionale (v. già Cass. n. 3988/1986), sì da rispondere, in perfetta consonanza con gli orientamenti contrattuali, alle più svariate esigenze aziendali di flessibilità organizzativa delle imprese.
Ne deriva che le punte di intensa attività “non fronteggiabili con il ricorso al normale organico risultano sicuramente ascrivibili nell’ambito di quelle ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili all’ordinaria attività dell’utilizzatore, che consentono, ai sensi del d. Igs. n. 276 del 2003, art. 20, comma 4, il ricorso alla somministrazione di lavoro a tempo determinato e che il riferimento alle stesse ben può costituire valido requisito formale del relativo contratto, ai sensi dell’art. 21, comma 1, lett. c, della legge stessa” (Cass. 21 febbraio 2012, n. 2521).

Il fatto che siano state indicate più causali è anch’esso stato considerato dalla giurisprudenza di legittimità, che, occupandosi dei contratti a termine ha affermato il principio di diritto per il quale la pluralità di ragioni di apposizione del termine non collide con il criterio della specificità, a condizione che entrambe le ragioni specificate per iscritto rispondano a tale requisito e tra le stesse non sussista incompatibilità o intrinseca contraddittorietà (Cass. 16 marzo 2010, n. 6328; ma già Cass. 17 giugno 2008, n. 16396, nonché Cass. 22 febbraio 2012, n. 2622).

Quanto sinora affermato concerne il problema della specificità delle ragioni indicate nel contratto commerciale di somministrazione a spiegazione del ricorso alla somministrazione. Come si è detto, le ragioni devono essere specificamente indicate e quelle indicate nel contratto in esame possono essere considerate specifiche.

Problema distinto è quello della verifica della sussistenza in concreto di tali ragioni.

Potrebbe accadere che le ragioni siano indicate nel contratto in modo specifico e perfettamente confacente a quanto richiesto dalla legge, ma che poi la concreta utilizzazione del lavoratore non abbia alcun collegamento con tali ragioni.

Anche sul punto la giurisprudenza di legittimità si è espressa (Cass. 8 maggio 2012, n. 6933, cui si rinvia anche per i richiami).

La verifica della corrispondenza dell’impiego concreto del lavoratore a quanto affermato nel contratto è l’oggetto centrale del controllo giudiziario. Non vi sarebbe stato bisogno di una norma specifica a tal fine, perché valgono le regole generali dell’ordinamento. Tuttavia, una norma specifica si rinviene nel d.lgs. 276 del 2003 ed è costituita dal terzo comma dall’art. 27. Tale norma precisa che il giudice non può sindacare nel merito le scelte tecniche, organizzative o produttive in ragione delle quali un’impresa ricorre alla somministrazione, ma deve limitare il suo controllo, “all’accertamento delle ragioni che (la) giustificano”, cioè che giustificano il ricorso alla somministrazione. Il controllo giudiziario è concentrato quindi nella verifica della effettività di quanto previsto in sede contrattuale (sul punto, cfr., Cass. 6933 del 2012, cit.; 2521 del 2012 cit. e 15610 del 2011).

Questo accertamento è di competenza del giudice di merito e quindi, se motivato in maniera adeguata e priva di contraddizioni, non può essere rivalutato in sede di legittimità.

Nel caso in esame la Corte di Brescia ha effettuato la verifica con riferimento alle due ragioni indicate dalla società a spiegazione della necessità di in incremento produttivo temporaneo (punte di produttività), rilevando che in realtà solo una delle due ragioni indicate risultava accertata, quella relativa alla introduzione di un nuovo prodotto, ma che tuttavia anch’essa non poteva essere considerata idonea perché non vi era corrispondenza temporale tra il lancio del nuovo prodotto ed il ricorso alla somministrazione, poiché vi era una sfasatura di circa un anno e mezzo.

La motivazione in fatto della decisione sul punto non può dirsi né contraddittoria, né insufficiente e le critiche formulate nel ricorso attengono a valutazioni di merito che sono estranee al giudizio di legittimità e sono pertanto inammissibili in questa sede.

Nella memoria per l’udienza la società ha chiesto l’applicazione dell’art. 32, commi 5-7, della legge n. 183 del 2010, emanata dopo la proposizione del ricorso per cassazione. La richiesta non può essere accolta perché il capo della decisione relativo al risarcimento del danno, non essendo stato oggetto di specifici motivi d’impugnazione, è passato in giudicato (Cass. 3 gennaio 2011, n. 65, 4 gennaio 2011, n. 80, 3 febbraio 2011 n. 2452).

Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato. Le spese devono essere poste a carico della parte che perde il giudizio.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alla rifusione al controricorrente delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in 50,00 Euro per esborsi, nonché in 3.500,00 Euro per compensi professionali, oltre accessori come per legge.

Contratto preliminare – obbligo di conservazione

Contratto preliminare – obbligo di conservazione

 

Corte di Cassazione, sentenza n. 1377 depositata il 17 gennaio 2012

Suscita interesse il principio affermato da tale sentenza che attiene a interessi di natura esclusivamente tributaria e che deve indurre a riflettere e a correggere condotte che potrebbero essere autorizzate diversi principi affermati dalla stessa Corte, in un ottica esclusivamente civilistica, in particolare laddove è stato affermato che l’atto pubblico di vendita sostituisce del tutto i patti contenuti nel preliminare di vendita, atto che dopo la stipulazione del definitivo sembra quindi perdere ogni rilievo al punto da rendere apparentemente inutile la sua conservazione.

         Con questa pronuncia, infatti, la Cassazione penale statuisce che è obbligatorio conservare la convenzione preliminare.

Risponde, infatti, del reato di occultamento e distruzione delle scritture contabili l’agente immobiliare che occulta o distrugge contratti preliminari, impedendo di fatto all’Amministrazione finanziaria la riscossione delle imposte sulle provvigioni.

 

Nel caso in esame, la condotta incriminata è quella disciplinata dall’art. 10 del D.Lgs. 74/2000, ai sensi del quale, salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da 6 mesi a 5 anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, ovvero di consentire l’evasione a terzi, occulti o distrugga, in tutto o in parte, non solo le “scritture contabili” ma anche “i documenti” di cui è obbligatoria la conservazione, in modo da non consentire la ricostruzione dei redditi o del volume d’affari.

La norma citata, secondo la Suprema Corte, intende anche assicurare la possibilità che attraverso il vaglio della documentazione contabile sia possibile operare un controllo delle attività imprenditoriali ai fini fiscali, come lascia intendere il dato testuale laddove fa riferimento alla“ricostruzione dei redditi o del volume d’affari” nell’intento di impedire l’occultamento della distruzione dei documenti.

La regola poi è confortata anche dal disposto dell’articolo 2214, co.2, CC che impone la tenuta delle scritture contabili che siano richieste dalla natura e dalle dimensioni dell’impresa. Inoltre si consideri che normalmente è previsto il versamento, da parte di chi acquista, di una caparra della quale è data quietanza dell’atto, così da conferire al contratto il valore di documento comprovante l’operazione di riscossione della quale deve essere assicurata la conservazione.

Il fatto che la norma faccia riferimento alle scritture richieste dalla natura dell’impresa ha consentito alla giudice di ritenere obbligato alla custodia l’agente immobiliare che consegue il diritto alla provvigione con la conclusione dell’affare cioè con la stipula del contratto preliminare e non per effetto della conclusione del rogito notarile, con la conseguenza che per l’agente immobiliare la provvigione conseguita costituisce un ricavo imponibile.

Estinzione della società, cancellazione dell’ente capacità processualee legittimazione

(Cass. Civ., sez I, 15 ottobre 2012, n. 17637 in Diritto e Giustizia 2012)

La pronuncia di legittimità in commento ha stabilito il principio per cui con la cancellazione viene meno la soggettività dell’ente, e con esso la sua capacità processuale, nonché la legittimazione attiva e passiva dei suoi organi, la quale, relativamente ai processi in corso, si trasferisce ai singoli soci.

Questi ultimi, infatti, a seguito della estinzione, divengono non solo responsabili nei confronti dei creditori sociali per i crediti rimasti insoddisfatti, nei limiti delle somme da loro riscosse nel bilancio finale di liquidazione, ma anche partecipi della comunione sui beni residuati dalla liquidazione o sopravvenuti alla cancellazione, con conseguente configurabilità di una successione a titolo universale che dà luogo, sul piano processuale, all’applicabilità dell’art. 110 c.p.c. Prima della cancellazione, invece, la legittimazione processuale spetta unicamente ai liquidatori ai quali l’assemblea della società abbia attribuito la rappresentanza della stessa, ai sensi dell’art. 2487 c.c., verificandosi, per effetto dell’iscrizione della nomina nel registro delle imprese, la cessazione della carica degli amministratori ed il sub ingresso dei liquidatori nei relativi poteri.

Tale pronuncia si è posta quindi come un superamento in senso confermativo di quell’orientamento risalente della giurisprudenza secondo il quale l’atto formale di cancellazione di una società dal Registro delle Imprese, così come il suo scioglimento, con l’instaurazione della fase di liquidazione, non determinava l’estinzione della società ove non si fossero esauriti tutti i rapporti giuridici ad essa facenti capo a seguito della procedura di .liquidazione, ovvero non fossero definite tutte le controversie giudiziarie in corso con i terzi, e non determinava, conseguentemente, in relazione a detti rapporti rimasti in sospeso e non definiti la perdita della legittimazione processuale della società ed un mutamento della rappresentanza sostanziale e processuale della stessa, che permaneva in capo ai medesimi organi che la rappresentavano prima della cancellazione (cfr, ex multis, Cass. Civ. 646/2007; Cass. Civ. 3221/1999).

         Sia quindi che si segua il nuovo orientamento della Cassazione sia che si voglia optare per quello più risalente la ratiosottesa alle due scelte di campo è unica e cioè evitare che il processo si interrompa per il solo effetto della volontaria cancellazione, non rinvenendosi un successore della stessa legittimato a proseguirlo, e la società estinta possa agevolmente sottrarsi alle proprie obbligazioni (così App. Milano, Sez. I, ord. 1482/2008).

 

Concorrenza sleale – norme ISO

Concorrenza sleale – norme ISO

Ordinanza Trib.le di Modena Sez. Distaccata di Carpi  in data 7 gennaio 2010

Secondo una recente ordinanza del Tribunale di Modena, Sezione Distaccata di Carpi, emessa a seguito di un ricorso ex art. 700 c.p.c. costituisce atto di concorrenza sleale per contrarietà ai principi della correttezza professionale (art. 2598 n. 3 c.c.) ed appropriazione di pregi (art. 2598 n. 2 c.c.) l’apporre una certificazione ISO sul proprio prodotto qualora le qualità dello stesso non siano più aggiornate alle ultime norme ISO (Tribunale Modena, Sezione distaccata di Carpi, ord. 7 gennaio 2010).

         Le conclusioni dell’ordinanza, poi confermata in sede di reclamo, sono in linea di principio da condividere. Il giudicante ha giustamente ritenuto che “non avrebbe senso, infatti, confidare su un prodotto che promette di essere dotato di caratteristiche realizzate secondo la migliore scienza ed esperienza del momento se questa non è più tale perché superata da conoscenze ed esperienze migliori”. D’altronde, sia la dottrina che la giurisprudenza erano da sempre concordi nel ritenere un caso tipico di illecita appropriazione di pregi l’apposizione al proprio prodotto di certificazione ISO qualora questa fosse avvenuta mentre il prodotto era privo delle qualità certificate (VANZETTI-DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Milano, 2009; e App. Milano, 18 marzo 2006).

         Tuttavia l’ordinanza si spinge oltre ritenendo appunto che, non solo si ha illecita appropriazione di pregi quando il prodotto certificato sia completamente sprovvisto degli standard ISO, ma anche quando questo, per così dire, sia “rimasto indietro” nell’aggiornamento di detti standard, millantando caratteristiche che sono rispondenti alle vecchie norme ISO non più aggiornate con la recente normativa.

Ordinanza

Esaminati gli atti di causa e i documenti allegati;

Ritenuta la propria competenza;

Sciogliendo la riserva assunta all’udienza del 02/12/2009;

Atteso che parte ricorrente lamenta: 1) che la convenuta Y vende viti ad alta resistenza – verosimilmente acquistate da produttori dell’estremo oriente – appartenenti alla classe di resistenza 8.8. ma prive della percentuale del 90% di martensite ‘a cuore’ imposta dalla nuova norma ISO 898:1-2009 entrata in vigore il 31/03/2009; 2) che la convenuta ha falsamente certificato la conformità alla suddetta norma ISO di una partita di viti venduta il 03/06/2009 alla società Z; 3) che sussiste quindi un’ipotesi di concorrenza sleale sotto il profilo dell’appropriazione di pregi, del mendacio ingannevole e della violazione di norme pubblicistiche; 4) che sussiste un pregiudizio imminente – consistente nella necessità di Y di esaurire rapidamente le scorte di magazzino e quindi di immettere sul mercato viti non conformi – ed irreparabile – sviamento della clientela, difficoltà di dimostrare, nel futuro giudizio di merito, le vendite illecite effettuate dalla concorrente e l’entità dei danni da questa provocati ad essa ricorrente -;

 

Atteso che parte ricorrente ha chiesto, conseguentemente, in via cautelare, che sia inibita alla convenuta la commercializzazione di tutte le viti della categoria 8.8 non conformi alla nuova norma ISO (l’individuazione di dette viti andrebbe effettuata risalendo ai medesimi produttori delle viti accertate come non corrispondenti alla norma ISO acquistate da Z e da V s.r.l.) ovvero, in alternativa, che sia inibita la commercializzazione e la certificazione di dette viti non conformi alla suddetta norma ISO se prive della caratteristiche tecniche imposte dalla norma stessa;

Atteso che parte ricorrente, nella memoria depositata in data 16/11/2009, ha integrato le proprie conclusioni aggiungendo una ulteriore subordinata, finalizzata ad imporre alla società convenuta l’eliminazione, sulle viti, sulle scatole, sui documenti commerciali e sui certificati di conformità, di ogni riferimento alla marcatura 8.8 e al nome del produttore, impedendo così alla convenuta di appropriarsi dei pregi derivanti dall’osservanza effettiva della normativa ISO;

Atteso che la parte resistente si è costituita in giudizio chiedendo il rigetto delle domande avverse e allegandole seguenti eccezioni: a) che l’azione di parte ricorrente avrebbe una portata meramente emulativa stante l’esistenza di un procedimento antidumping davanti ad una commissione dell’Unione Europea che vede contrapposte le stesse parti del presente giudizio; b) che all’epoca dei fatti (maggio 2009) la nuova norma ISO non era ancora stata recepita dalla ISO italiana e che solo dal 9 luglio 2009 essa è entrata in vigore in Italia; c) che la certificazione rilasciata a richiesta della Z s.r.l. è stata carpita inducendo in errore un dipendente di Y; d) che in ogni caso non è vietata la vendita di prodotti appartenenti a standard qualitativi antecedenti stante l’assoluta volontarietà della normativa ISO; e) che le prove tecniche richieste da parte ricorrente al Politecnico di Milano al fine di accertare la presenza della percentuale del 90% di martensite a cuore si basano esclusivamente sulla percezione visiva del tecnico che esegue la valutazione e che i risultati di detto accertamento sono conseguentemente inattendibili; f) che sono inapplicabili nel caso di specie le norme sulla concorrenza sleale dal momento che: f.a.) le imprese non hanno le stesse dimensioni e lo stesso mercato (la ricorrente produce le viti e si rivolge prevalentemente a grossisti mentre la convenuta si limita a commercializzare il prodotto rivogendosi prevalentemente a dettaglianti); f.b.) i pregi asseritamente vantati (la conformità alla normativa ISO) non possono essere ritenuti ‘altrui’ non essendo esclusivi di uno specifico concorrente, trattandosi soltanto di standard di produzione; g) che non sussiste alcun periculum in mora mancando qualunque indizio in ordine alla quantità delle scorte di magazzino di Y ed inoltre non vi è alcuna urgenza di vendere le viti conformi alla precedente normativa ISO non sussistendo alcun divieto alla loro vendita;

osserva

         Norme tecniche ISO e concorrenza sleale

Com’è noto, l’Organizzazione internazionale per la normazione (ISO, International Organization for Standardization) è la più importante organizzazione a livello mondiale per la definizione di norme tecniche. Suoi membri sono gli organismi nazionali di standardizzazione di 157 Paesi del mondo. In Italia le norme ISO vengono recepite, armonizzate e diffuse dall’UNI, il membro che partecipa in rappresentanza dell’Italia all’attività normativa dell’ISO.

Se, da una parte, il rispetto delle regole tecniche dettate dall’ISO per le svariate categorie di prodotti non è, di regola, obbligatorio, tranne nei casi in cui le autorità pubbliche ne impongano il rispetto per motivi di sicurezza pubblica, sembra ovvio, dall’altra, che una certificazione di conformità ISO costituisca una promessa di qualità (cfr. art.1497 c.c.), di pregio del prodotto.

Norme ISO succedutesi nel tempo

Sembra altrettanto ovvio che la certificazione di conformità alle nome ISO non possa che rispettare l’ultima regola emanata dall’Organizzazione. Non avrebbe senso, infatti, confidare su un prodotto che promette di essere dotato di caratteristiche realizzate secondo la migliore scienza ed esperienza del momento se questa non è più tale perché superata da conoscenze ed esperienze migliori.

Il rischio di rimanenze di merci conformi ad ISO superate da nuove norme tecniche incombe dunque sul venditore. Il rigore di questa conclusione si attenua se si considera che le revisioni della norma ISO seguono procedure lunghe e complesse mentre gli accordi di modifica vengono pubblicati con grande anticipo prima dell’entrata in vigore. Parte resistente non ha contestato l’asserto avversario relativo alla circostanza che la prima bozza della nuova norma ISO 2009 risale al 2005.

Sembra evidente che la vendita di tali merci non sia, di regola, vietata, ma se alla vendita dovesse accompagnarsi anche la certificazione di conformità ISO tale certificazione sarebbe del tutto impropria e rientrerebbe tra gli atti non conformi ai principi della correttezza professionale vietati dall’art. 2598 n. 3 c.c.

Tali conclusioni sembrano imporsi in vista della tutela degli interessi della collettività che la norma in esame, direttamente o come riflesso indiretto della tutela della concorrenza tra imprenditori, intende garantire. Sotto quest’ultimo profilo appare scontata la sussistenza di un grave danno per l’imprenditore che, dopo aver affrontato i costi  necessari per allinearsi ai nuovi standard, veda poi venduti sul mercato, a prezzi sensibilmente inferiori, prodotti che si approprino di una conformità ISO inesistente o non più aggiornata.

Vigenza della nuova norma UNI EN ISO 898-1

La nuova norma tecnica invocata da parte ricorrente è entrata in vigore per l’Italia il 9 luglio 2009.

Questa circostanza, eccepita da parte resistente, non è stata oggetto di controeccezione da parte della ricorrente, ed è stata anzi confermata dalla ricorrente (cfr. memoria 16/11/2009 p. 4) che aveva indicato nel 31/03/2009 il giorno di entrata in vigore della norma, riferendosi verosimilmente all’ambito internazionale.

Risulta però che Y abbia venduto le viti di cui è causa anche in data 20 ottobre 2009 e 27 ottobre 2009 rispettivamente alle società D’Arcano Sergio e Cagnasso s.r.l. Nel primo caso la vendita risulta accompagnata da una certificazione di conformità alla norma UNI 3740-3:82 non più in vigore, mentre nel secondo caso manca qualunque certificazione. Parte ricorrente ha fondatamente asserito che la sola indicazione della classe del prodotto 8.8. sulla testa della vite e sulle scatole della confezione è idonea a identificare una vite ad alta resistenza conforme alla norma ISO 898-1 in vigore al momento dell’acquisto.

Alla luce dei fatti accertati le vendite risalenti ad epoca successiva al 9 luglio 2009 (a XXX) sono idonee a configurare atti di concorrenza sleale.

Sussistenza di una fattispecie di concorrenza sleale

Si esamineranno ora più di vicino le eccezioni sollevate da parte resistente.

La circostanza che la certificazione rilasciata a richiesta della Anixter Italia s.r.l. sia stata carpita inducendo in errore un dipendente di X appare del tutto irrilevante se si considera che in altri casi la X ha rilasciato certificazioni di conformità a norme ISO non più in vigore ed inoltre che la testa delle viti vendute continua ad essere marchiata con il numero della classe ISO 8.8.

Analoga irrilevanza manifesta l’eccezione che le prove tecniche richieste da parte ricorrente al Politecnico di Milano al fine di accertare la presenza della percentuale del 90% di martensite a cuore si basino esclusivamente sulla percezione visiva del tecnico che esegue la valutazione e che i risultati di detto accertamento sarebbero conseguentemente inattendibili. La resistente, infatti, ha mostrato di essere consapevole della non conformità alla norma ISO in vigore nel momento in cui ha ammesso l’errore del proprio dipendente nella certificazione rilasciata ad Z.

L’asserita inapplicabilità, nel caso di specie, delle norme sulla concorrenza sleale per il fatto che le imprese odierne contendenti non hanno le stesse dimensioni e lo stesso mercato (la ricorrente produce le viti e si rivolge prevalentemente a grossisti mentre la convenuta si limita a commercializzare il prodotto rivolgendosi prevalentemente a dettaglianti) non sussiste. Infatti, “Sussiste rapporto di concorrenza fra due società quando due imprenditori, pur operando a diversi livelli di mercato, commercializzando prodotti almeno analoghi e si rivolgono ad una medesima categoria di consumatori. (Tribunale Monza, 19 ottobre 1988 Soc. Computerland Europe c. Soc. Polli centro arredamento Giur. it. 1989, I,2,860 (nota). “In tema di concorrenza sleale, presupposto indefettibile dell’illecito è la sussistenza di una situazione di concorrenzialità tra due o più imprenditori, derivante dal contemporaneo esercizio di una medesima attività industriale o commerciale in un ambito territoriale anche solo potenzialmente comune, e quindi la comunanza di clientela, la quale non è data dalla identità soggettiva degli acquirenti dei prodotti, bensì dall’insieme dei consumatori che sentono il medesimo bisogno di mercato e, pertanto, si rivolgono a tutti i prodotti che sono in grado di soddisfare quel bisogno. La sussistenza di tale requisito va verificata anche in una prospettiva potenziale, dovendosi esaminare se l’attività di cui si tratta, considerata nella sua naturale dinamicità, consenta di configurare, quale esito di mercato fisiologico e prevedibile, sul piano temporale e geografico, e quindi su quello merceologico, l’offerta dei medesimi prodotti, ovvero di prodotti affini e succedanei rispetto a quelli offerti dal soggetto che lamenta la concorrenza sleale. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, nella parte in cui, nonostante il diverso pregio dei prodotti delle parti ed il diverso livello dei negozi presso cui essi erano reperibili, aveva ritenuto sussistente la confondibilità tra gli stessi, in virtù della loro appartenenza alla medesima categoria merceologica e dell’adozione di un marchio fortemente confondibile, che avrebbero potuto indurre il pubblico a ritenere entrambi i prodotti riconducibili all’attività della medesima impresa). (Cassazione civile, sez. I, 22 luglio 2009, n. 17144 Soc. calzature Carpan c. Soc. Salvatore Ferragamo Italia Red. Giust. civ. Mass. 2009, 7-8).

Oltre all’innegabile fumus boni juris sussiste anche il periculum in mora, desumibile dalla circostanza che, anche dopo l’inizio del procedimento la resistente continua a vendere viti esplicitamente od implicitamente certificate come conformi alla normativa ISO. Non rileva dunque la mancanza di qualunque indizio in ordine alla quantità delle scorte di magazzino di Y.

Le conclusioni qui accolte appaiono, del resto, confortate da significativi precedenti della giurisprudenza di merito. “Costituisce appropriazione di pregi e comunicazione ingannevole l’apposizione di un marchiaggio, attestante la conformità dei prodotti alle norme di sicurezza UNI EN 124 e successive modifiche, con cui l’imprenditore attribuisce caratteristiche specifiche al proprio prodotto, considerate estremamente positive dagli operatori del mercato e tali da costituire possibile ragione di preferenza, non riscontrabili nel chiusino da esso commercializzato e, invece, costituenti una peculiarità di quelli prodotti dalla concorrente. Nel contempo, la comunicazione ha un suo intrinseco carattere ingannevole nei confronti dei possibili acquirenti ed utilizzatori, censurabile a prescindere dal fatto che altro concorrente distribuisca prodotti con – effettivamente – quelle caratteristiche. (Corte appello Milano, 18 marzo 2006 Soc. R. prefabbricati c. Soc. N. e altro Giur. it. 2006, 10 1867 con osservazione di MASSARO).

Sul tipo di provvedimenti più idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione sul merito

Parte ricorrente ha chiesto che sia inibita alla convenuta la commercializzazione di tutte le viti della categoria 8.8 non conformi alla nuova norma ISO ovvero, in alternativa, che sia inibita la commercializzazione e la certificazione di dette viti non conformi alla suddetta norma ISO se prive della caratteristiche tecniche imposte dalla norma stessa. Nella memoria depositata in data 16/11/2009, la ricorrente ha integrato le proprie conclusioni aggiungendo una ulteriore subordinata, finalizzata ad imporre alla società convenuta l’eliminazione, sulle viti, sulle scatole, sui documenti commerciali e sui certificati di conformità, di ogni riferimento alla marcatura 8.8 e al nome del produttore.

Ritiene il giudicante che il tipo di provvedimento più idoneo ad assicurare gli effetti della decisione sul merito sia il primo richiesto, vale a dire l’inibitoria alla Y s.p.a. di commercializzare e certificare viti non conformi alle norme tecniche in vigore al momento della vendita, con la specificazione che la vendita di prodotti non conformi potrà avvenire soltanto dietro espressa certificazione che il prodotto non è conforme alle norme ISO in vigore.

Per questi motivi

Visto l’art. 700 c.p.c.

–                      Inibisce a Y di commercializzare e certificare viti ad alta resistenza appartenenti alla classe 8.8. non conformi alle norme ISO in vigore al momento della vendita.

–                      La vendita di detti prodotti non conformi potrà avvenire soltanto dietro espressa certificazione che il prodotto non è conforme alle norme ISO in vigore al momento della vendita stessa.

–                      Fissa il termine di giorni sessanta per l’inizio del giudizio di merito.

Si comunichi a cura della Cancelleria.

Carpi, 7 gennaio 2010

 

Il Giudice Designato