Anno: 2014

Denominazione di origine protetta, prodotti confezionati, etichette , illecito amministrativo

 

Tribunale di Bologna Sentenza n. 1653/2014 pronunziata il 07.05.2014 (depositata il 12.06.2014 )

 Secondo il Ministero delle politiche Agricole, Alimentari e Forestali l’autorizzazione del Consorzio a tutela della denominazione di origine protetta deve essere ottenuta per ciascun prodotto posto in commercio, cosicché l’impiego commerciale di prodotti in assenza di autorizzazione costituisce una diversa violazione, con rispettiva contestazione di illecito amministrativo, per ciascun prodotto considerato.

Nel caso di specie, distinte denominazioni d’origine protette (“Parmigiano Reggiano“; “Grana Padano“; “Pecorino Romano“) sono state utilizzate per etichettare e, quindi, contrassegnare migliaia di prodotti differenti per tipologia, natura e contenuto (sugo alla siciliana, pesto alla genovese, sugo alla sorrentina, ecc.), sussumibili in tredici gruppi omogenei.

Il Tribunale ha confermato le ordinanze ingiunzione con cui sono state irrogate le sanzioni ritenendo che l’utilizzo ripetuto e, nei termini sopra esposti, anche differenziato, costituisce per ciò una pluralità di condotte distinte, integranti un numero di illeciti amministrativi corrispondente a quello dei gruppi omogenei di prodotto recanti le denominazioni sopra indicate.

Infine ha ritenuto che  la locuzione “impiega commercialmente” non   implica  che il prodotto debba essere già stato posto in commercio e che nella fattispecie l’enorme quantità rinvenuta e sequestrata di prodotti confezionati, provvisti di etichette  recanti denominazioni d’origine protette a fini specificamente di presentazione promozionale e descrizione della merce, l’ubicazione di tali prodotti in luoghi non segregati, la validità ed idoneità merceologica ed alimentare della merce, costituiscono circostanze di fatto che, per gravità, precisione e concordanza, devono  indurre a qualificare la detenzione di detti prodotti come propedeutica all’imminente immissione sul mercato

La sentenza

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE ORDINARIO di BOLOGNA

SEZIONE SPECIALIZZATA IN MATERIA DI IMPRESA

Il Tribunale, in composizione collegiale nelle persone dei seguenti magistrati:

dott. Pasquale Liccardo – Presidente

dott. Maurizio Atzori – Giudice

dott. Giovanni Salina – Giudice Relatore

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nelle riunite cause civili di I Grado iscritte ai NN. r.g. 10770/2013  12482/2013  13447/2013 promosse da:

ALFABETA S.p.A. (c.f. …omissis…), con il patrocinio dell’avv. Sandra Gruppioni e dell’avv. Francesco Soncini (c.f. …omissis…), elettivamente domiciliata in Via Caprarie 7, 40124 Bologna, presso il difensore avv. Sandra Gruppioni.

XX (c.f. …omissis…), con il patrocinio dell’avv. Sandra Gruppioni e dell’avv. Francesco Soncini (c.f. …omissis…), elettivamente domiciliata in Via Caprarie 7, 40124 Bologna, presso il difensore avv. Sandra Gruppioni..

RICORRENTI

Contro

MINISTERO POLITICHE AGRICOLE ALIMENTARI E FORESTALI (c.f. …omissis…), con il patrocinio dell’avv. Fabio Fiorbianco presso il Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali, Via Quintino Sella 42, Roma.

CONVENUTO

CONCLUSIONI

Le parti hanno concluso come da fogli allegati al verbale d’udienza di precisazione delle conclusioni.

FATTO E SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con separati ricorsi ex artt. 22 e segg. L. n. 689/1981 e 120 c. IV D.lvo n. 30/2005, XX, in proprio e quale legale rappresentante pro tempore della società ‘Alfabeta’ S.p.A., proponeva opposizione avverso n. 13 ordinanze con cui il Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali aveva loro ingiunto di pagare, in solido, la complessiva somma di Euro 32.500,00, oltre spese, a titolo di sanzione relativa all’illecito amministrativo di cui all’art. 1 lett. c.) D.lvo n. 297/2004, per aver prodotto, confezionato, posto in commercio o detenuto merce e materiale per etichettatura recanti riferimento a denominazioni d’origine protette (“Parmigiano Reggiano“; “Grana Padano“; “Pecorino Romano“) senza la necessaria autorizzazione del Consorzio titolare.

In particolare, i ricorrenti, quali motivi di opposizione, deducevano : 1) illegittimità delle ordinanze oggetto di impugnazione per omessa audizione della parte interessata che ne aveva fatto richiesta ex art. 18 c. I L. n. 689/1981; 2) illegittimità delle predette ordinanze per erroneo frazionamento in una pluralità di reati della unitaria condotta addebitata ai ricorrenti; 3) illegittimità degli impugnati provvedimenti per mancata applicazione dell’esenzione di cui al citato art. 1 D.lvo n. 297/2004; 4) illegittimità delle suddette ordinanze per mancata applicazione retroattiva dell’autorizzazione concessa dai Consorzi titolari delle privative oggetto di causa; 5) illegittimità delle opposte ordinanze per insussistenza dell’illecito loro contestato.

Concludevano, pertanto, gli opponenti chiedendo che l’adìto Tribunale previa declaratoria di illegittimità delle ordinanze oggetto di gravame, revocasse i provvedimenti impugnati o, in subordine, riducesse la sanzione pecuniaria in proporzione al numero degli illeciti effettivamente sussistenti.

Si costituiva in giudizio il Ministero convenuto, il quale, contestando la fondatezza dei motivi di gravame ex adverso dedotti, concludeva chiedendo il rigetto della opposizione proposta da controparte.

All’udienza del 14/11/2013, il Tribunale, in composizione collegiale, disponeva la riunione dei procedimenti e, successivamente, all’udienza dell’8/5/2014, sentiti i difensori delle parti, tratteneva la causa in decisione, provvedendo come da dispositivo letto in udienza.

MOTIVI DELLA DECISIONE

L’opposizione proposta dai ricorrenti volta all’annullamento, totale o, in subordine, parziale, delle ordinanze-ingiunzioni di cui in premessa è infondata, in fatto ed in diritto, e va quindi rigettata.

Con il primo motivo di gravame, parte ricorrente ha dedotto l’illegittimità delle ordinanze oggetto di impugnazione in ragione della mancata audizione della parte interessata che ne aveva fatto richiesta ex art. 18 c. I L. n. 689/81, asserendo, secondo citato orientamento giurisprudenziale (Cass. Civ. Sez. 121.8.97. n. 7811), che l’incombente pretermesso costituisca condizione di validità del procedimento e dell’atto amministrativo, nel senso che la sua violazione produrrebbe un vizio insanabile di nullità del provvedimento.

La più recente giurisprudenza di legittimità, cui il Collegio aderisce, condividendo i principi enunciati, ha, tuttavia, statuito che “In tema di ordinanza ingiunzione per l’irrogazione di sanzioni amministrative [ … ] la mancata audizione dell’interessato che ne abbia fatto richiesta in sede amministrativa non comporta la nullità del provvedimento, in quanto, riguardando il giudizio di opposizione il rapporto e non l’atto, gli argomenti a proprio favore che l’interessato avrebbe potuto sostenere in sede di audizione dinanzi all’autorità amministrativa ben possono essere prospettati in sede giurisdizionale” (Cass. Sez. Un. n. 28.01.2010 n. 1786).

Infatti, il giudice adito mediante opposizione ex art. 22 L. n. 689/1981 ha cognizione piena nella valutazione delle deduzioni difensive proposte in sede amministrativa ed eventualmente non precedentemente esaminate oppure respinte senza alcuna motivazione, sicché il mancato uso della facoltà di cui al citato art. 18, comma I, L. n. 689/1981 non arreca alcuna lesione al diritto di tutela del trasgressore, atteso che, come detto, quelle ragioni potranno essere integralmente prospettate in sede giurisdizionale.

Con il secondo motivo, gli opponenti assumono l’illegittimità delle impugnate ordinanze per aver ingiustamente frazionato in una pluralità di illeciti ciò che, invece, la normativa dettata dall’art. 1, lett. c), D.lvo 19.11.2004 n. 297 sanziona in modo complessivo ed unitario.

Secondo i ricorrenti, la condotta integrante illecito amministrativo, infatti, consisterebbe nell’impiego di uno o più denominazioni protette per una stessa tipologia di prodotti (“sughi” per la pasta), al di là del fatto che l’ingiusto utilizzo avvenga in modo reiterato.

Al contrario, l’amministrazione convenuta sostiene come l’autorizzazione del Consorzio a tutela della denominazione di origine protetta debba essere ottenuta per ciascun prodotto posto in commercio, cosicché l’impiego commerciale di prodotti in assenza di autorizzazione costituisce una diversa violazione, con rispettiva contestazione di illecito amministrativo, per ciascun prodotto considerato.

Da un’attenta lettura dei verbali di contestazione redatti dal Nucleo dei Carabinieri di Parma si evince che, nel caso di specie, distinte denominazioni d’origine protette (“Parmigiano Reggiano“; “Grana Padano“; “Pecorino Romano“) sono state utilizzate per etichettare e, quindi, contrassegnare migliaia di prodotti differenti per tipologia, natura e contenuto (sugo alla siciliana, pesto alla genovese, sugo alla sorrentina, ecc.), sussumibili in tredici gruppi omogenei.

Tale utilizzo ripetuto e, nei termini sopra esposti, anche differenziato, costituisce per ciò una pluralità di condotte distinte, integranti un numero di illeciti amministrativi corrispondente a quello dei gruppi omogenei di prodotto recanti le denominazioni sopra indicate.

Considerato che la norma della lett. c) dell’art. i D.lvo 297/2004 sanziona l’utilizzo ai fini commerciali di “prodotti, composti, elaborati o trasformati“, occorre procedere ad un’attività interpretativa volta a valutare l’operato dell’autorità amministrativa.

Un primo possibile significato che può ricavarsi potrebbe essere quello per cui la disposizione in commento sanzioni la commercializzazione di ogni prodotto in assenza di apposita autorizzazione.

Tale interpretazione appare tuttavia in contrasto con il tenore letterale della norma stessa che utilizza il plurale (prodotti, composti, elaborati o trasformati) per indicare l’oggetto della condotta illecita.

Viepiù, qualora il Legislatore avesse voluto sanzionare attraverso differenti illeciti la commercializzazione di ogni singolo prodotto, avrebbe presumibilmente inserito il pronome indicativo “ciascun“, “ogni“, o altri, ed avrebbe conseguentemente utilizzato le parole prodotti, composti, elaborati o trasformati declinandoli al singolare.

Pertanto, una simile interpretazione appare fuorviante e deve essere respinta.

Una seconda esegesi dell’articolo in commento, che coincide con quella offerta dai ricorrenti, porterebbe a sanzionare, attraverso la previsione di un unico illecito, il comportamento complessivo di chi impiega commercialmente una o più denominazione di origine protetta.

In altre parole, la norma non sanzionerebbe la messa in commercio di ogni prodotto frazionando il comportamento illecito in più singoli illeciti differenziati.

Giova precisare che, se è pur vero che la disposizione in esame non contempla singoli illeciti differenziati per ogni prodotto commercializzato, è altrettanto ragionevole che la norma abbia inteso riferirsi a più prodotti, composti, elaborati o trasformati che rientrino nello stesso gruppo di prodotti omogenei.

Venendo quindi ad illustrare quella che è l’ultima interpretazione ricavabile dalla disposizione in esame, occorre far notare come la norma sanzioni quella condotta che abbia ad oggetto prodotti, composti, elaborati o trasformati “che rechino nell’etichettatura, nella presentazione o nella pubblicità” il riferimento ad una denominazione di origine protetta.

L’etichettatura, la presentazione, la pubblicità dei prodotti vengono, quindi, ad assumere un ruolo determinante nella fase applicativa della sanzione, poiché l’amministrazione procedente dovrà contestare tanti diversi illeciti quanti sono i gruppi omogenei di prodotti, ovvero gli insiemi di prodotti che presentano le medesime caratteristiche.

Conformemente all’interpretazione che è stata data alla lett. c) dell’art. 1 del D.lvo 297/2004, non può ritenersi, infatti, come i diversi prodotti costituiscano un solo gruppo di prodotti, rectius, di sughi.

Non appare neppure corretto ritenere, come sostiene invece parte ricorrente, che nel caso di specie avrebbero potuto essere considerate solamente tre le diverse violazioni poste in essere, l’una per l’utilizzazione della denominazione di origine protetta “Grana Padano“, l’altra per quella di “Parmigiano Reggiano” e l’ultima, infine, per quella di “Pecorino Romano“.

Tale argomentazione, che si fonda sulla correlazione tra prodotto ed ingrediente (rectius, denominazione di origine protetta), assume erroneamente l’univocità della lesione alla denominazione protetta, a prescindere dal numero di prodotti o dai gruppi omogenei di prodotti commercializzati.

Sennonché, come già detto, nel caso di specie sono ravvisabili diversi gruppi di prodotti aventi proprie caratteristiche di etichettatura, pubblicitarie o promozionali.

Del resto, secondo recente giurisprudenza di legittimità, in tema di sanzioni amministrative pecuniarie, la L. n. 689 del 1981, art. 8, prevede il cumulo cosiddetto “giuridico” delle sanzioni per le sole ipotesi di concorso formale, omogeneo od eterogeneo, di violazioni, ossia nelle ipotesi di più violazioni commesse con un’unica azione od omissione; non lo prevede, invece, nel caso di molteplici violazioni commesse con una pluralità di condotte.

In tale ultima ipotesi non è applicabile per analogia la normativa in materia di continuazione dettata per i reati dall’art. 81 c.p., sia perché la menzionata L. n. 689 del 1981, art. 8, al comma 2, prevede una simile disciplina solo per le violazioni in materia di previdenza e assistenza obbligatoria (evidenziandosi così l’intento del legislatore di non estendere detta disciplina ad altri illeciti amministrativi), sia perché la differenza qualitativa tra illecito penale e illecito amministrativo non consente che attraverso l’interpretazione analogica le norme di favore previste in materia penale possano essere estese alla materia degli illeciti amministrativi (Cass. Civ. 4 marzo 2011 n. 5252).

Per quel che concerne il terzo motivo di opposizione, l’esenzione invocata dai ricorrenti a norma dell’art. 1, lett. c), D.lvo. n. 297/2004, non è, nella fattispecie in esame, applicabile, in quanto il riferimento alla denominazione d’origine protetta è contenuto non solo tra gli ingredienti del prodotto confezionato, ma è operato anche e soprattutto a fini descrittivi e di presentazione promozionale della merce, con conseguente lesione dei diritti dei Consorzi titolari delle suddette privative.

In relazione al quarto motivo (insussistenza dei contestati illeciti per sopravvenuta concessione dell’autorizzazione), è sufficiente rilevare come il D.lvo n. 297/2004 sanzioni l’uso non autorizzato di DOP, quale illecito a consumazione istantanea, senza, tuttavia, prevedere l’efficacia sanante retroattiva del successivo eventuale rilascio della prescritta autorizzazione.

Né dell’invocata sanatoria può farsi applicazione in via analogica, ostando a ciò la specialità dell’istituto e della normativa che la prevedono.

Nel silenzio della disposizione normativa, se da un lato può ritenersi che la concessione dell’autorizzazione da parte del Consorzio valga a sanare i rapporti tra lo stesso e l’imprenditore, dall’altro non può affermarsi lo stesso per quanto concerne i rapporti tra il trasgressore e l’amministrazione procedente.

Quanto all’ultima censura, i ricorrenti contestano le ordinanze-ingiunzione loro notificate perché carenti di un presupposto normativo.

In particolare, affermando che la locuzione “impiega commercialmente” di cui all’art. 1 del D.lvo 297/2004 sarebbe da intendersi nel senso di “impiega a fini commerciali“, gli stessi eccepiscono che la effettiva commercializzazione sarebbe stata di fatto impedita proprio dall’intervenuto sequestro.

Parte convenuta, al contrario, sostiene che le operazioni di etichettatura svolte da controparte erano di per sé sufficienti a qualificare l’attività come impiego commerciale, in maniera diretta o indiretta, di denominazioni di origine protetta, sussumibile, pertanto, nella condotta punita dalla norma in commento.

In assenza di una interpretazione autentica, occorre nuovamente procedere ad un’attività esegetica della disposizione citata.

Una prima interpretazione che può trarsi dalla lettura della norma può essere quella fornita da parte convenuta che sostiene come anche le sole operazioni di etichettatura costituiscano attività di impiego commerciale.

Tale lettura, che si fonda sulla rilevanza che ha l’apposizione di un’etichetta nel sistema alimentare, appare in realtà troppo rigida e foriera di applicazioni fuorvianti.

Condividendo tale tesi, infatti, si potrebbe concludere per l’illiceità dell’attività di detenzione di confezioni recanti un’etichettatura contenente denominazioni protette anche per finalità estranee a scopi commerciali, quali quelle di valutarne l’efficacia comunicativa.

Un secondo significato della norma, fatto proprio dai ricorrenti, è quello per cui la locuzione sarebbe da intendersi come destinazione effettiva al commercio del prodotto.

Tale interpretazione, seppure più garantista nei confronti del trasgressore, porta ad escludere dall’ambito di applicazione della norma quelle condotte che, pur rientrando all’interno dell’attività commerciale del soggetto, appaiono come prodromiche o preparatorie alla messa in commercio del prodotto.

Nel caso di specie, invece, l’enorme quantità rinvenuta e sequestrata di prodotti confezionati, provvisti di etichette, come detto, recanti denominazioni d’origine protette a fini specificamente di presentazione promozionale e descrizione della merce, l’ubicazione di tali prodotti in luoghi non segregati e non inaccessibili, la validità ed idoneità merceologica ed alimentare della merce, costituiscono circostanze di fatto che, per gravità, precisione e concordanza, inducono a qualificare la detenzione di detti prodotti come propedeutica all’imminente immissione sul mercato, come peraltro può desumersi, sia pure ex post, dal sopravvenuto rilascio della necessaria autorizzazione da parte dei Consorzi di tutela su pregressa richiesta della società opponente che intendeva farne commercio.

Pertanto, alla luce delle considerazioni che precedono, le opposizioni proposte dai ricorrenti devono essere rigettate e, per l’effetto, le impugnate ordinanze-ingiunzioni devono essere integralmente confermate.

Infine, le spese di lite seguono la soccombenza e, quindi, come da dispositivo, vanno liquidate a carico degli opponenti in solido tra loro.

P.Q.M.

Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni altra istanza ed eccezione disattesa o assorbita, così dispone:

visti gli artt. 22 e segg. L. n. 689/1981

RIGETTA

le opposizioni proposte da ‘Alfabeta’ S.p.A. e da XX e, per l’effetto, conferma le impugnate ordinanze-ingiunzioni.

CONDANNA

parte opponente all’integrale rifusione delle spese di lite che si liquidano in € 1.500,00 per compensi di avvocato, oltre accessori di legge se ed in quanto dovuti.

Così deciso in Bologna, nella Camera di Consiglio della Sezione Specializzata in Materia di Impresa del Tribunale, il 7/5/2014.

Il Presidente

dott. Pasquale Liccardo

Il Giudice estensore

dott. Giovanni Salina

 

 

 

Immobiliare-real-estate

Arbitrato rituale, lodo, appello, sospensione, appalto,

Corte d’Appello di Bologna ordinanza 19.2.2013

Il sig. C.V. difeso dall’Avv. G. S., risultato soccombente nella controversia sottoposta a giudizio arbitrale promossa dalla società X s.r.l. difesa dall’Avv. Giovanni Orlandi, ha proposto appello  formulando preliminare istanza di  sospensione dell’esecutività del lodo pronunciato in rimo grado.

Il Collegio giudicante, con l’ordinanza qui pubblicata, ha respinto l’istanza ritenendo  che non ci fossero ragioni sufficienti per disporre la sospensione del lodo arbitrale (reso esecutiva dal Trib.le di Reggio E.), nonostante l’elevato importo che l’istante C.V. era stato condannato a pagare (oltre 236.000,00 euro) con il lodo arbitrale,  in quanto non ha ravvisato l’immanenza di un pericolo di pregiudizio patrimoniale, anche in considerazione della capacità economica delle parti in causa.

 

CORTE D’APPELLO DI BOLOGNA

PRIMA SEZIONE CIVILE

Il Collegio, riunito in Camera di consiglio e formato dai magistrati:

Dr. Vincenzo De Robertis – Presidente

Dr. Lucio Montorsi – Consigliere

Dr. Antonella Palumbi – Consigliere Relatore

Ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

Letta l’istanza presentata da C.V. per la sospensione dell’efficacia esecutiva del lodo arbitrale pronunciato inter partes in data 16.7.2012 portante la condanna dell’istante al pagamento della somma capitale di euro 216.271,54;

Considerato che il temuto pregiudizio derivante dall’esecuzione del lodo ha esclusivamente natura patrimoniale e non può pertanto ritenersi irreparabile; che inoltre, a prescindere o meno dalla fondatezza o meno dell’impugnazione della decisione arbitrale, non sussiste in concreto il presupposto dei “gravi e fondati motivi” di cui all’art. 283 c.p.c. in quanto, come evincibile dalla documentazione prodotta dalla parte resistente soc. X s.r.l., la stessa presenta in relazione alla propria attività risultati di esercizio positivi ed è titolare di cespiti immobiliari e disponibilità liquide costituenti ampia garanzia patrimoniale, mentre l’asserita carenza di risorse economiche in capo a C.V. è smentita dalla sue partecipazioni in società aventi notevoli immobilizzazioni e dalla sua titolarità di beni immobili,

P.Q.M.

Rigetta l’istanza di sospensione dell’esecutività del lodo

Si comunichi.

Bologna 19.2.2013

Il Consigliere est.

 

Tutela del credito, società di persone, preventiva escussione del patrimonio sociale ex art. 2304 c.c.

Tribunale di Reggio Emilia, ordinanza 10 settembre 2004

Il provvedimento annotato offre uno spunto di riflessione su un problema che si presenta frequentemente nella pratica.  Com’è noto, ai sensi dell’art. 2304 c.c “I creditori sociali, anche se la società è in liquidazione, non possono pretendere il pagamento dai singoli soci, se non dopo l’escussione del patrimonio sociale”.         Continue reading “Tutela del credito, società di persone, preventiva escussione del patrimonio sociale ex art. 2304 c.c.”

E-commerce, vendita, rete eBay, sospensione dell’account, inadempienza contrattuale

Tribunale di Catanzaro, ordinanza 18 – 30 aprile 2012

Vigendo nel nostro ordinamento il principio di libertà delle forme, la tecnica “del tasto virtuale” o “point and click”, utilizzata normalmente nella contrattazione telematica, è sufficiente a manifestare il consenso contrattuale e ritenere perfezionato il contratto.

Riguardo alle clausole vessatorie on line, non è sufficiente la sottoscrizione del testo contrattuale, ma è necessaria la specifica sottoscrizione delle singole clausole, che deve essere assolta con la firma digitale. Dunque, nei contratti telematici a forma libera il contratto si perfeziona mediante il tasto negoziale virtuale, ma le clausole vessatorie saranno efficaci e vincolanti solo se specificamente approvate con la firma digitale.

Sulla questione, infine, della conoscibilità delle condizioni generali nei contratti telematici, si ritiene che tale condizione sia soddisfatta anche quando le condizioni generali non sono riportate nel testo contrattuale, ma sono contenute in altre schermate del sito o in pagine di secondo livello, purché venga dato risalto al richiamo e la postazione contenente la clausola richiamata sia accessibile mediante il relativo collegamento elettronico (link). ( Secondo opinioni più intransigenti la sussistenza della conoscibilità, il sito deve essere organizzato in modo tale che non sia possibile approvare il testo contrattuale se non dopo essere passati dalla pagina contenente le clausole contrattuali ed avere confermato l’avvenuta lettura).

La conoscibilità, poi, per comune opinione, richiede la intelligibilità della clausola, avuto riguardo alla sua formulazione, alla linguistica e alla presentazione grafica. (Massima non ufficiale)

 

Tribunale di Catanzaro

Sezione I Civile

Ordinanza 18 – 30 aprile 2012

Fatto e diritto

Clotec Elettronica e Tecnologia di D.C., svolgente attività di commercializzazione tramite internet di prodotti di elettronica, informatica, modellismo, subacquea ed altro, con ricorso depositato il 25.05.2011, esponeva che il gestore della piattaforma virtuale di eBay, aveva illegittimamente sospeso l’account professionale “clotec_com” utilizzato per la pubblicità e la vendita dei suoi prodotti agli utenti della rete eBay.

In particolare, evidenziava che il gestore eBay aveva attuato una serie di ingiustificate restrizioni sino a giungere, nel gennaio del 2011, alla sospensione a tempo indeterminato dell’account clotec_com; che tale grave limitazione, equivalente negli effetti ad una risoluzione del contratto, avveniva senza previo avviso e in assenza di un inadempimento grave della ricorrente, la quale, anzi, nel corso delle sue transazioni sulla piattaforma eBay, aveva conseguito un elevato grado di soddisfazione degli acquirenti, rivelandosi quindi un venditore serio ed affidabile.

Chiedeva, pertanto, che il giudice designato, con provvedimento di urgenza, ai sensi dell’art. 700 c.p.c. ordinasse a eBay Europe s.a.r.l., eBay international AG, eBay Italia s.r.l. di riattivare l’account “clotec_com”, con vittoria di spese del giudizio.

Alle richieste della ricorrente le resistenti replicavano che unica legittimata passiva nel giudizio era eBay Europe s.a.r.l., essendo le altre due estranee al rapporto contrattuale; che la sospensione dell”account clotec_com era avvenuta legittimamente in ragione delle gravi e reiterate violazioni di Clotec ad una pluralità di regole previste nel regolamento contrattuale, relative, precisamente, al gradimento degli utenti, alla performance del venditore, alla offerta di oggetti vietati, ai metodi di pagamento, all’utilizzo di link non consentiti e al divieto di inserzioni di siti web personali o aziendali; che i pregiudizi lamentati configuravano mero danno economico non tutelabile con il ricorso d’urgenza.

Il giudice con ordinanza depositata il 23.08.2011 rigettava il ricorso osservando che, seppure la clausola intitolata “Abuso di eBay” contenuta nell’Accordo per gli utenti (documento disciplinante le condizioni generali di contratto), invocata da eBay come titolo giustificativo del potere di risolvere il contratto, dovesse ritenersi nulla ex art. 1341 ce, per assenza di specifica sottoscrizione da parte di Clotec, configurandosi come clausola vessatoria attributiva al provider del potere di recedere ad nutum dal contratto, tuttavia la sospensione dell’account clotec_com aveva costituito legittimo rifiuto del provider di eseguire la propria prestazione, ai sensi dell’art. 1460 ce, a fronte di un grave inadempimento della controparte alle regole sull'”inadempimento del venditore”, presenti sul portale www.ebay.it e vincolanti tra le parti in quanto conoscibili con l’ordinaria diligenza.

Avverso la predetta ordinanza proponeva reclamo Clotec , reiterando le argomentazioni svolte nei precedenti atti difensivi e deducendo in particolare che il Giudice aveva omesso ogni valutazione sulla gravità dell’inadempimento, basandosi solo sulle non dimostrate affermazioni di controparte e che, non avendo controparte mai proposto l’eccezione di inadempimento ex art. 1460 cc, il Giudice, nel rilevarla d’ufficio, era andato ultrapetita.

EBay Europe s.a.r.l., eBay international AG, eBay Italia s.r.l., ribadendo le argomentazioni e difese illustrate nella prima fase, insistevano per il rigetto del reclamo e la conferma dell’ordinanza impugnata.

Il Tribunale, esaminati gli atti, rileva quanto segue.

In punto di legittimazione passiva devono condividersi le valutazioni del Giudice di prima istanza che ha ritenuto che legittimata passivamente fosse unicamente eBay Europe s.a.r.l.

Nell’accordo per gli utenti è indicato chiaramente che “parte contrattuale di coloro che risiedono all’interno dell’Unione Europea è eBay Europe S.a.r.l”. Inoltre, le fatture relative al rapporto con l’impresa ricorrente sono state emesse dalla suddetta società. Ciò è sufficiente per ritenere l’estraneità di eBay Italia s.r.l. e eBay International AG al rapporto negoziale relativo all’utilizzo dei servizi di hosting, che sono dunque carenti di legittimazione passiva in relazione alle istanze formulate dalla ricorrente.

La valutazione del fumus boni iuris, comporta, innanzitutto, l’individuazione della disciplina applicabile al caso di specie.

Come già osservato dal primo Giudice, non può venire in rilievo la tutela apprestata dal codice di consumo (d. lgs. 205/2005), non rivestendo la ricorrente la qualifica di consumatore.

Consumatore, difatti, è colui che utilizza il contratto per il raggiungimento di scopi legati a bisogni o interessi personali, sganciati dall’esercizio di una professione e di un’attività imprenditoriale. Professionista, invece, è colui che acquista o utilizza beni o servizi per scopi riferibili all’attività imprenditoriale e professionale svolta.

L’opinione prevalente ritiene che la verifica circa la finalità del contratto prescinda dall’aspetto soggettivo delle intenzioni del contraente, ma debba effettuarsi su un piano oggettivo, mettendo a confronto cioè le caratteristiche del bene o del servizio con la qualità dell’acquirente e con la natura dell’attività esercitata. E’ necessario, quindi, che il contratto stipulato sia inquadrabile tra le manifestazioni tipiche dell’attività esercitata e non utilizzato solo occasionalmente per lo svolgimento dell’attività. Fatta tale premessa, è indubbio che per colui che svolge professionalmente attività di commercio on line, il contratto avente ad oggetto l’utilizzazione di servizi di hosting appare strettamente connesso, in quanto strumentale e propedeutico, all’attività esercitata; configurandosi quindi, come manifestazione tipica della professione.

Il rapporto negoziale per cui è causa resta fuori anche dall’ambito di applicazione della legge 192/98. Tale normativa, disciplinante la subfornitura nelle attività produttive, presuppone l’inserimento del subfornitore, nel processo produttivo di un’impresa committente, la quale gli conferisce talune fasi di lavorazione o l’incarico di predisporre parti del prodotto finale. La subfornitura non è altro che una lavorazione su commessa, manifestazione del fenomeno del decentramento produttivo, caratterizzata da dipendenza economica e tecnologica dell’impresa subfornitrice. In ragione di ciò, non può in alcun modo ricondursi la relazione commerciale intercorsa tra le parti – concernente l’acquisto da parte di Clotec di un servizio di hostin per la vendita dei propri prodotti, all’istituto della subfornitura, proprio per la diversità dei settori economici su cui operano le parti.

Delimitato dunque il campo di indagine, si può affermare che trattasi di contratto concluso tra due professionisti, secondo lo schema del contratto per adesione, la cui disciplina trova il suo riferimento nell’art. 1341 del codice civile.

E’ necessario, a questo punto, fare una premessa di ordine generale.

Il contratto di adesione a condizione generali, destinato a soddisfare le esigenze della contrattazione di massa, è caratterizzato, come è noto, da asimmetria di potere contrattuale tra le parti, poiché il regolamento è delineato da condizioni generali uniformi unilateralmente predisposte da uno dei contraenti, in assenza, quindi, di trattativa.

Il requisito della conoscenza, previsto dall’art. 1326 cc, in tale categoria contrattuale degrada a mera conoscibilità delle condizioni generali di contratto. Per le clausole vessatorie, elencate al secondo comma, è prescritto l’elemento formale della doppia sottoscrizione per iscritto.

Nell’ipotesi, come quella in esame, in cui il contratto per adesione venga concluso mediante un sistema telematico si pone una triplice serie di questioni relative al perfezionamento del contratto, alla conoscibilità delle condizioni generali di contratto e al requisito formale della approvazione specifica delle clausole vessatorie.

In ordine alla prima questione, è pacifico oramai che, vigendo nel nostro ordinamento il principio di libertà delle forme, la tecnica “del tasto virtuale” o “point and click”, utilizzata normalmente nella contrattazione telematica, è sufficiente a manifestare il consenso contrattuale e ritenere perfezionato il contratto, laddove si tratti di contratto a forma libera.

Con riguardo alle clausole vessatorie on line, l’opinione dottrinale prevalente – alla quale il Tribunale aderisce – ritiene che non sia sufficiente la sottoscrizione del testo contrattuale-, ma sia necessaria la specifica sottoscrizione delle singole clausole, che deve essere assolta con la firma digitale. Dunque, nei contratti telematici a forma libera il contratto si perfeziona mediante il tasto negoziale virtuale, ma le clausole vessatorie saranno efficaci e vincolanti solo se specificamente approvate con la firma digitale.

Sulla questione, infine, della conoscibilità delle condizioni generali nei contratti telematici, si ritiene che tale condizione sia soddisfatta anche quando le condizioni generali non sono riportate nel testo contrattuale, ma sono contenute in altre schermate del sito o in pagine di secondo livello, purché venga dato risalto al richiamo e la postazione contenente la clausola richiamata sia accessibile mediante il relativo collegamento elettronico (link). Posizioni più intransigenti affermano che per la sussistenza della conoscibilità, il sito deve essere organizzato in modo tale che non sia possibile approvare il testo contrattuale se non dopo essere passati dalla pagina contenente le clausole contrattuali ed avere confermato l’avvenuta lettura. La conoscibilità, poi, per comune opinione, richiede la intelligibilità della clausola, avuto riguardo alla sua formulazione, alla linguistica e alla presentazione grafica.

Passando ora all’esame della fattispecie concreta, vi è un contratto tra le parti che si è perfezionato in forma telematica mediante la pressione del tasto virtuale ed il cui testo negoziale, contenente le condizioni generali, è rappresentato dall'”Accordo per gli utenti”.

Tra le clausole di detto regolamento contrattuale, viene in rilievo quella denominata “abuso di ebay”, in base alla quale: “se ebay ritiene che un utente abbia compiuto azioni che possano comportare problemi, responsabilità legali o che tali azioni siano contrarie alle proprie regole, potrà, a mero titolo esemplificativo, limitare sospendere o interrompere i servizi e l’account dell’utente, vietare l’accesso al sito, ritardare o eliminare i contenuti salvati e prendere provvedimenti tecnici e legali per impedire a tale utente di accedere al sito”.

Secondo la prospettazione di eBay, il diritto di risoluzione del contratto è stato legittimamente esercitato sulla base di tale pattuizione, che può essere inquadrata o nell’art. 1453 c.c. (risolubilità del contratto per inadempimento) o nell’art. 1456 c.c. (clausola risolutiva espressa). Aggiunge, inoltre, che non attribuendo un diritto di recesso, la stessa non abbisogna di specifica approvazione per iscritto ai sensi dell’art. 1341 c.c.

Va osservato, in primis, che il richiamo all’art. 1453 c.c. non è pertinente, riguardando la norma la risoluzione giudiziale per inadempimento, conseguente, cioè, ad una pronuncia costitutiva del Giudice previo accertamento della gravità dell’inadempimento.

Circa, invece, la possibilità di inquadrare la clausola nell’art. 1456 c.c., deve condividersi la valutazione dei primo Giudice che ha escluso la correttezza di una siffatta qualificazione.

Ed invero, affinché la pattuizione possa considerarsi clausola risolutiva espressa, occorre che vi sia una indicazione specifica delle obbligazioni che devono essere adempiute a pena di risoluzione. Se l’indicazione è invece generica o il riferimento è al complesso delle pattuizioni, la clausola non avrà alcun valore, in quanto di mero stile (Cass. 4563/00; Cass. 1950/09). Tale requisito di specificità manca nella clausola “abuso di Ebay”, formulata mediante un riferimento a non meglio identificate “azioni contrarie alle proprie regole”, sicché ne consegue l’impossibilità di qualificarla come clausola risolutiva espressa, a cagione appunto della sua indeterminatezza.

Volendola, invece, interpretare come clausola attributiva di un potere di recesso, deve senz’altro ritenersi inefficace, mancando la specifica sottoscrizione, ai sensi del secondo comma del 1341 c.c. Si è già detto, infatti, che non è sufficiente l’approvazione del testo contrattuale (mediante la pressione del testo virtuale in calce al modulo di registrazione), per riconoscere efficacia alle clausole vessatorie, occorrendo una autonoma visualizzazione delle stesse con una specifica approvazione, o quanto meno una sottoscrizione per gruppo di clausole vessatorie, numericamente indicate. Mancando il requisito della specifica sottoscrizione, appare superfluo addentrarsi nella problematica della equiparabilità del sistema del point and click alla firma digitale debole e della sufficienza della firma digitale debole a soddisfare il requisito della forma scritta.

Pertanto, la clausola, essendo irrimediabilmente affetta da nullità, nessun potere di sospensione del l’account poteva legittimare.

Tuttavia il Giudice ha ritenuto legittimo il comportamento di eBay, poiché inquadrabile nello schema del 1460 c.c. che attribuisce al contraente la facoltà di rifiutare la prestazione a fronte dell’inadempimento della controparte.

Ha osservato che le uniche inadempienze, tra le tante contestate, che potevano legittimare il rifiuto di eseguire la prestazione erano quelle relative all’insufficiente valutazione degli acquirenti, poiché gli ulteriori addebiti non erano stati contestati con la comunicazione del provvedimento di sospensione, ma solo in epoca postuma, e pertanto l’eccezione di inadempimento, con riferimento a tali ultimi addebiti, appariva contraria a buona fede. Ha evidenziato inoltre che le regole sugli standards del venditore per mantenere elevata la soddisfazione degli utenti, indicate nella pagina “inadempimento del venditore” erano vincolanti per le parti perché conoscibili con la diligenza media e che, per il numero di controversie aperte, l’inadempimento di Clotec a tali regole non poteva non ritenersi grave.

Il primo aspetto che occorre approfondire attiene alla conoscibilità delle regole sull’”inadempimento del venditore che individuano i parametri per la valutazione degli standards dì un venditore. Ad avviso del Collegio, il requisito della conoscibilità non è soddisfatto nella ipotesi in esame, per le seguenti ragioni.

Le regole sull’inadempimento del venditore non sono contenute nell’Accordo per gli utenti, costituente – per stessa ammissione di parte resistente- il regolamento contrattuale, accettato dall’utente al momento della registrazione al sito. Si è già illustrato sopra, come la conoscibilità delle clausole contenute in schermate diverse dal testo contrattuale richieda, secondo l’opinione dottrinaria prevalente, che il richiamo alle stesse sia possibile dallo stesso testo contrattuale mediante il collegamento con un link e che, inoltre, si dia risalto a tale richiamo. Dalla documentazione prodotta dalle parti, rappresentativa delle schermate del sito ebay, non sembrano ricorrere tali requisiti. Dall’Accordo per gli utenti non vi è un collegamento diretto alle regole inadempimento del venditore (come avviene ad esempio per gli oggetti di cui è vietata la vendita, per le regole sulla privacy, per le azioni volte a destabilizzare il sistema di feedback ecc.) ed alle stesse l’accordo non conferisce risalto in alcun modo. Poi, non è univoco e intuitivo il percorso ipertestuale che dall’accordo per gli utenti porta a tali regole. Del resto è la stessa eBay ad affermare che alla lettura delle regole sull’inadempimento del venditore si giunge attraverso il percorso che parte dalla sezione “aiuto” o da “mappa del sito” o dal motore di ricerca previo inserimento delle parole chiave. Ritiene il Giudicante che la “conoscibilità” richieda, invece, che alla lettura della regola si possa pervenire dal testo negoziale accettato dalle parti (rectius Accordo per gli utenti) attraverso passaggi univoci e diretti e non già attraverso una ricerca mirata della regola attraverso il motore di ricerca o la mappa del sito (che funge da cartina geografica) o avvalendosi della sezione “aiuto”.

Va rilevato, poi, che anche la tecnica di redazione delle regole relative agli standards e all’inadempimento del venditore pecca di chiarezza, poiché molte di esse non hanno una formulazione letterale di evidente contenuto precettivo, ma si presentano sotto forma di esortazione e di consigli, e non già di divieto. Manca, poi, una chiara correlazione tra violazione della regola e relativa sanzione, essendoci solo generici riferimenti alla “possibilità di subire restrizioni nel caso in cui i consigli di eBay non vengano attentamente seguiti”. Tali circostanze possono generare confusione anche in una persona di media diligenza e non rendono edotto il contraente, in maniera puntuale e precisa, dell’ampiezza dei propri obblighi e della portata delle conseguenze di una loro violazione.

Altro aspetto che occorre esaminare attiene alla rilevabilità d’ufficio della eccezione di inadempimento. Ritiene il Collegio che l’exceptio inadimpleti contractus è rimessa alla disponibilità e all’iniziativa della parte, trattandosi di eccezione in senso proprio. Il Giudice che rilevi d’ufficio tale eccezione, incorre nella violazione di cui all’art. 112 c.p.c.

In tal senso è l’orientamento giurisprudenziale maggioritario: “l’exceptio inadimpleti contractus, di cui all’art. 1460 cod. civ., costituisce un’eccezione in senso proprio, rimessa pertanto alla disponibilità ed all’iniziativa del convenuto, senza che il giudice abbia il dovere di esaminarla d’ufficio. Tuttavia, essa, al pari di ogni altra eccezione, non richiede l’adozione di forme speciali o formule sacramentali, essendo sufficiente che la volontà della parte di sollevarla (onde paralizzare l’avversa domanda di adempimento) sia desumibile, in modo non equivoco, dall’insieme delle sue difese e, più in generale, dalla sua condotta processuale, secondo un’interpretazione del giudice del merito che, se ancorata a corretti canoni di ermeneutica processuale, non è censurabile in sede di legittimità”. (Cass. 11728/02; Cass. 20870/09; Cass. 2706/04).

Dalle difese delle resistenti tale eccezione non è mai stata dedotta, né essa è desumibile implicitamente dal tenore delle difese stesse.

Le resistenti, infatti, richiamando gli artt. 1453 c.c. e 1456 c.c., hanno invocato un diritto alla risoluzione discendente dalla legge o dal contratto, mentre l’eccezione di inadempimento è un mezzo di autotutela privata, consentito dalla legge in presenza di determinati presupposti, che legittima il contraente a non adempiere la propria prestazione senza incorrere in responsabilità al riguardo, per evitare una situazione di disuguaglianza tra le parti del rapporto contrattuale. Alla luce, quindi, di tutte le considerazioni sopra esposte, il fumus boni iuris appare sussistente.

Ed infine, quanto al periculum in mora, come è noto, la tutela d’urgenza si è ormai aperta anche a pregiudizi di carattere patrimoniale, tutte le volte in cui ad essi siano indissolubilmente correlate situazioni giuridiche soggettive non patrimoniali, che potrebbero essere pregiudicate irrimediabilmente dal ritardo nella concessione della tutela.

Parte resistente ha affermato che il danno derivante dalla perdita di clienti, per effetto della sospensione dell’account, è un mero danno economico e, come tale, non tutelabile con lo strumento del 700 c.p.c.

Tale affermazione non è condivisibile. Occorre, infatti, considerare che il settore dell’ e-commerce è attualmente caratterizzato da una forte concentrazione nelle mani di pochi operatori e che la piattaforma di eBay è quella che vanta la platea più ampia di utenti. Di fronte a tale dato, è di scarsa rilevanza la circostanza della presenza di propri siti internet da parte di Clotec, non equiparabili, infatti, per diffusione ed importanza alla piattaforma eBay.

Questo sistema oligopolista che attualmente caratterizza il mercato elettronico deve indurre a ritenere che l’esclusione a tempo indeterminato da eBay non si traduca semplicemente in una mera perdita di clienti, ma abbia una incidenza molto più pesante che può arrivare sostanzialmente, ad escludere l’impresa dal mercato stesso. Bisogna poi considerare il danno alla reputazione che subisce l’impresa a seguito della sospensione dell’account. E’ facile immaginare, infatti, che la scomparsa di Clotec dalla vetrina di eBay possa determinare negli utenti del sito il convincimento che la stessa non sia un venditore serio ed affidabile.

Sussiste, pertanto, anche il periculum in mora, poiché, per le ragioni sopra esposte, l’esclusione a tempo indeterminato dalla piattaforma di eBay potrebbe verosimilmente determinare una situazione di insolvenza dell’impresa Clotec, che opera unicamente nel commercio on line.

Il reclamo va dunque accolto e va ordinato a eBay Europe s.a.r.l. di riattivare l’account clotec com.

La complessità e la novità delle questioni giustificano la compensazione delle spese.

P.Q.M.

Decidendo sul reclamo proposto da Clotec Elettronica e Tecnologia di D.C. nei confronti di eBay Europe S.A.R.L., eBay International AG, eBay Italia s.r.l., avverso l’ordinanza del 23.08.2011 del Giudice designato di questo Tribunale, in riforma del provvedimento reclamato ordina a eBay Europe S.A.R.L. di riattivare l’account clotec_com, intestato a C.G.
Compensa interamente le spese del procedimento.

(Presidente Anna Maria Raschellà)