Mese: dicembre 2016

Tutela del credito. L’assegno dato in garanzia e postdatato è  nullo

 

Corte di Cassazione sent.  24 maggio 2016, n. 10710

L’emissione di un assegno in bianco o postdatato, cui di regola si fa ricorso per realizzare il fine di garanzia – nel senso che esso è consegnato a garanzia di un debito e deve essere restituito al debitore qualora questi adempia regolarmente alla scadenza della propria obbligazione, rimanendo nel frattempo nelle mani del creditore come titolo esecutivo da far valere in caso di inadempimento -, è contrario alle norme imperative contenute nella R.D. 21 dicembre 1933, n. 1736, artt. 1 e 2 e dà luogo ad un giudizio negativo sulla meritevolezza degli interessi perseguiti dalle parti, alla luce del criterio della conformità a norme imperative, all’ordine pubblico ed al buon costume enunciato dall’art. 1343 cod. civ..

Pertanto, non viola il principio dell’autonomia contrattuale sancito dall’art. 1322 cod. civ. il giudice che, in relazione a tale assegno, dichiari nullo il patto di garanzia e sussistente la promessa di pagamento di cui all’art. 1988 cod. civ.

 Il Giudice di Legittimità, richiamando precedenti pronunce (Cass. Civ, Sez. n. 3, n.26232 del 22 novembre 2013 e Cass. Civ., Sez. n. 2, n.4368 del 19 aprile 1995), ha formulato il principio di diritto riportato in massima e, ritenendo meritevole di accoglimento il motivo proposto, ha accolto il ricorso rinviando a diversa composizione della Corte di Appello affinché, applicato detto principio di diritto, valutasse nuovamente il merito della controversia .

Dunque il giudice di legittimità ha ritenuto nullo il decreto ingiuntivo ottenuto dal creditore  sulla base di un assegno postdatato rilasciatogli dal debitore: e questo perché l’assegno è pagabile a vista e ogni accordo diverso da tale regola è nullo. Dunque, il patto tra creditore e debitore con cui quest’ultimo conferisce al primo un assegno postdatato a garanzia di un futuro pagamento è nullo.

E’ una decisione che merita attenzione,  tenuto conto del fatto che, nel recente passato, l’assegno postdatato è stato ritenuto un titolo valido.   Infatti l giurisprudenza di legittimità  con  sentenza n. 26161/2014  aveva statuito  che l’assegno bancario postdatato non è nullo, risultando nullo solamente il patto di postdatazione;  in altri e più chiari termini, l’assegno bancario postdatato deve considerarsi venuto ad esistenza come titolo di credito e mezzo di pagamento al momento della sua emissione, ovverosia con il distacco dalla sfera giuridica del traente ed il passaggio nella disponibilità del prenditore (il creditore, cioè, che ha materialmente in mano l’assegno).

Testo della sentenza

Suprema Corte di Cassazione

sezione I civile

sentenza 24 maggio 2016, n. 10710

Rilevato che

I. S.B. ha proposto opposizione al decreto ingiuntivo emesso dal Presidente del Tribunale di Sciacca il 18/19 marzo 2002 con il quale veniva ingiunto all’opponente e a O.U. di pagare, in favore di G.T., la somma di 41.500.000 oltre interessi legali e spese del procedimento monitorio. Il decreto ingiuntivo era fondato su un atto di transazione stipulato il 19 luglio 1993 tra i sigg.ri U. e T. e su un assegno di conto corrente rilasciato in pari data dallo stesso opponente in favore dell’opposta, a garanzia dell’obbligazione assunta dall’U., da riscuotersi il 31 dicembre 1993 in caso di mancato adempimento da parte del debitore principale. L’opponente ha rilevato che l’emissione di un assegno postdatato in garanzia è contraria alle norme imperative di cui agli artt. 1 e 2 del R.D. n. 1763/1933, con conseguente nullità del patto di garanzia stipulato tra le parti e ha chiesto la revoca del decreto ingiuntivo.
2. Si è costituita G.T. e ha rivendicato la validità del titolo di credito emesso in funzione del contratto autonomo di garanzia intercorso con il B..
3. Il Tribunale di Palermo, con sentenza del 25 agosto – 23 dicembre 2003, ha respinto l’opposizione.
4. Ha proposto appello S.B. ribadendo che la emissione di un assegno postdatato comporta la nullità del patto di garanzia sottostante, qualificabile, nella specie, come fideiussione e ha rilevato altresì che la T. era decaduta dal suo diritto, ai sensi dell’art. 1957 c.c., non avendo proceduto nei confronti del debitore principale nei sei mesi successivi la scadenza del credito, e che egli era liberato, ex art. 1955 c.c., per fatto del creditore che con il suo comportamento aveva causato un grave pregiudizio consistito nell’impedimento del suo diritto di surroga nei confronti del debitore principale.
5. La Corte di appello di Palermo, con sentenza n. 803/09, ha respinto l’appello ritenendo che la postdatazione non renda il titolo nullo in sé, ma rende nulla solo la postdatazione con la conseguenza che il prenditore può esigerne l’immediato pagamento e che pertanto resta valido il sottostante patto di garanzia.
6. Propone ricorso per cassazione S.B. affidandosi a due motivi di impugnazione.
7. Si difende con controricorso G.T..

Rilevato che

8. Con il primo motivo il ricorrente deduce violazione della legge assegni e formula il seguente quesito di diritto: se l’emissione di un assegno bancario postdatato a garanzia di un altrui futuro adempimento comporta, stante la violazione degli articoli 1 e 2 della legge assegni e dell’articolo 1343 del codice civile, la nullità del sottostante patto di garanzia, stante la natura imperativa delle norme citate.
9. Con il secondo motivo il ricorrente deduce violazione di legge con riferimento all’articolo 112 del codice di procedura civile nonché 1957 e 1955 del codice civile e sottopone alla Corte il seguente quesito: se la mancata pronuncia del giudice d’appello in ordine a domande spiegate in atto di appello comporti violazione dell’articolo 112 cpc e delle norme di diritto sostanziale poste a fondamento delle stesse.
Ritenuto che
10. I1 primo motivo di ricorso è fondato alla luce della giurisprudenza di legittimità (da ultimo Cass. civ. sez. III, n. 26232 del 22 novembre 2013) secondo cui l’emissione di un assegno in bianco o postdatato, cui di regola si fa ricorso per realizzare il fine di garanzia – nel senso che esso è consegnato a garanzia di un debito e deve essere restituito al debitore qualora questi adempia regolarmente alla scadenza della propria obbligazione, rimanendo nel frattempo nelle mani del creditore come titolo esecutivo da far valere in caso di inadempimento -, è contrario alle norme imperative contenute negli artt. 1 e 2 del R.D. 21 dicembre 1933 n. 1736 e dà luogo ad un giudizio negativo sulla meritevolezza degli interessi perseguiti dalle parti, alla luce del criterio della conformità a norme imperative, all’ordine pubblico ed al buon costume enunciato dall’art. 1343 cod. civ.. Pertanto, non viola il principio dell’autonomia contrattuale sancito dall’art. 1322 cod. civ. il giudice che, in relazione a tale assegno, dichiari nullo il patto di garanzia e sussistente la promessa di pagamento di cui all’art. 1988 cod. civ. (cfr. Cass. civ. sezione II, n. 4368 del 19 aprile 1995).
11. Va pertanto accolto il primo motivo, restando assorbito il secondo motivo, con conseguente cassazione della sentenza impugnata e rinvio alla Corte di appello di Palermo che, in diversa composizione, applicato il principio di cui sopra, valuterà nuovamente il merito della controversia e deciderà anche sulle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, assorbito il secondo. Cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di appello di Palermo, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di cassazione.

 

 

Il Direttore dei lavori risponde anche dell’errato calcolo delle strutture ?

Corte di Cassazione sentenza  13 aprile 2015 n. 7370

Con questo arresto la Corte di Cassazione  giunge ad affermare  che il direttore dei lavori, nell’accettare l’incarico, deve poter garantire al committente quanto meno una capacità di supervisione e di controllo anche sulla corretta esecuzione degli elementi portanti. Qualora una tale capacità non abbia o non possa esercitare, è tenuto ad astenersi dall’accettare l’incarico o a delimitare specificamente fin dall’origine le prestazioni promesse e le sue conseguenti responsabilità, in relazione alle sue effettive competenze.”.

Nel contesto della motivazione il giudice di legittimità afferma che  “Il direttore dei lavori è la persona di fiducia del committente, incaricata di sorvegliare che le opere vengano correttamente eseguite dall’appaltatore e dal personale di cui questi si avvalga (cfr. fra le tante Cass. civ. Sez. 2, 29 agosto 2013 n. 198 95), intervenendo per tempo anche solo a fermarne l’esecuzione, qualora questa manifesti vizi o difetti“.

Le competenze del Direttore dei Lavori  implicherebbero  un suo coinvolgimento anche nei calcoli strutturali, cosiddetti calcoli dei cementi armati:  “… il geometra direttore dei lavori, pur se non competente per l’esecuzione dei calcoli in cemento armato, fosse o dovesse essere competente a valutare in corso d’opera come l’appaltatore ed i suoi ausiliari, ivi incluso l’ingegnere progettista delle strutture, eseguissero il loro lavoro, sì da rilevare per tempo i gravi difetti delle opere, prima che esse venissero completate in termini talmente difettosi da avere addirittura sollecitato un ordine di sgombero da parte dell’autorità, a causa del pericolo di crollo.”.

 

Testo della sentenza

Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 27 gennaio – 13 aprile 2015, n. 7370
Presidente Russo – Relatore Lanzillo

Svolgimento del processo

Vi.Si. ha proposto opposizione al decreto ingiuntivo n. 51/2002, emesso dal Tribunale di Forlì su ricorso dell’impresa edile di v.g. , recante condanna al pagamento di Euro 28.380,54, a saldo del corrispettivo dei lavori di costruzione di una villetta, dati in appalto all’impresa ricorrente.
A fondamento dell’opposizione la Vi. ha dedotto di avere sospeso il pagamento del saldo dei lavori, essendosi evidenziati gravi vizi nella costruzione, in relazione ai quali aveva proposto ricorso per accertamento tecnico preventivo, ed ha chiesto in via riconvenzionale la condanna dell’impresa al risarcimento dei danni.
L’impresa v. ha resistito, negando ogni sua responsabilità per avere eseguito quanto richiestogli dal direttore dei lavori e progettista, geom. V.L. , di cui ha chiesto ed ottenuto la chiamata in causa.
Il V. si è costituito, chiedendo a sua volta che il Tribunale autorizzasse la chiamata in causa ai sensi dell’art. 107 cod. proc. civ. dell’ing. L.A. , progettista e direttore dei lavori strutturali, e del Dott. A.P.L. , geologo.
I chiamati in causa si sono costituiti resistendo alle domande Esperita l’istruttoria anche tramite CTU, con sentenza n. 122/2006 il Tribunale ha revocato il decreto ingiuntivo e ha condannato l’impresa v. , V.L. e L.A. al pagamento di Euro 430.615,60 in risarcimento dei danni, disponendo – quanto ai rapporti interni fra i corresponsabili che il V. e il L. fossero tenuti a manlevare l’impresa nella misura di un terzo ciascuno.
Proposto appello principale dal V. e appelli incidentali dall’impresa v. , dal L. e dalla Vi. – quest’ultima limitatamente al mancato rimborso delle spese di ATP – la Corte di appello ha confermato la decisione di primo grado, accogliendo solo l’appello incidentale della Vi. . Il V. propone quattro motivi di ricorso per cassazione, con atto notificato il 20 luglio 2011.
Resistono con separati controricorsi la Vi. e A.P.L. .
Con atto in data 5.5.2012, designato come comparsa di costituzione di nuovo difensore, la Vi. ha integrato le proprie difese e ha dichiarato di avere sostituito l’avv. Guido Maria Pottino, già nominato codifensore e domiciliatario in Roma, con l’avv. Aldo Seminaroti, quale mero domiciliatario in Roma.
Il ricorrente e la Vi. hanno depositato memoria.

Motivi della decisione

1.- Con il primo motivo il ricorrente V. denuncia violazione di varie norme del codice di procedura civile, ed in particolare dell’art. 112, nonché omessa od insufficiente motivazione su “fatti decisivi” (non meglio specificati), per il fatto che la Corte di appello – emettendo condanna a suo carico, in solido con l’impresa v. – avrebbe accolto una domanda nuova, incorrendo in ultrapetizione.
Assume che l’impresa – unica convenuta – si è limitata a contestare la propria responsabilità nei confronti della committente e a proporre domanda di manleva contro esso V. e che la committente ha proposto la domanda di condanna del V. e degli altri chiamati in causa solo all’udienza di precisazione delle conclusioni.
Né sussisterebbe identità o connessione obiettiva fra i titoli in base ai quali l’impresa v. ed esso V. sono chiamati a rispondere, presupposto per poter estendere la domanda al terzo chiamato (richiama Cass. n. 25559/2008).
2.- Vanno preliminarmente respinte le eccezioni di inammissibilità delle censure, sollevate dalla resistente Vi. .
L’esposizione in fatto del ricorso è sufficientemente chiara e la denuncia di violazione di molteplici norme di diritto di cui non è specificata la pertinenza con le censure sollevate, pur se non encomiabile, non è tale da impedire alla Corte di comprendere agevolmente – dalle argomentazioni difensive l’essenza delle censure rilevanti ai fini della decisione. Neppure è fondata l’eccezione di inammissibilità per difetto di autosufficienza e per la mancata trascrizione degli atti difensivi poiché – avendo le censure carattere processuale – è consentito alla Corte di cassazione di valutarne la fondatezza o meno, mediante diretto accesso agli atti.
2.2.- Nel merito, il motivo non è fondato.
La Corte di appello si è uniformata al principio, più volte affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, per cui la domanda dell’attore si estende automaticamente al terzo chiamato in causa in tutti i casi in cui la chiamata del terzo sia effettuata al fine di ottenere la liberazione dello stesso convenuto dalla pretesa dell’attore, in ragione del fatto che il terzo deve essere individuato come unico obbligato nei confronti dell’attore, in vece e luogo dello stesso convenuto. In tal caso si realizza un ampliamento della controversia in senso soggettivo (divenendo il chiamato parte del giudizio in posizione alternativa con il convenuto) ed in senso oggettivo (inserendosi l’obbligazione del terzo, dedotta dal convenuto verso l’attore, in alternativa rispetto a quella individuata dall’attore), ma resta ferma, in ragione di detta duplice alternatività, l’unicità del complessivo rapporto controverso (Cass. civ. Sez. 3, 28 gennaio 2005 n. 1748; Idem, 21 ottobre 2008 n. 25559; Idem, 7 ottobre 2011 n. 20610). La Corte di appello ha accertato che il tenore letterale ed il contenuto sostanziale sia della comparsa di costituzione dell’impresa v. , con la richiesta di chiamata in causa del terzo, sia della conseguente citazione del V. , esprimono inequivocabilmente la volontà di ricondurre a quest’ultimo la responsabilità dei vizi denunciati dalla committente; che pertanto la chiamata in causa è stata effettuata non al solo scopo di garanzia, ma affinché il terzo chiamato rispondesse direttamente e per intero della pretesa dell’attore. Trattasi di interpretazione degli atti di parte, rimessa alla valutazione discrezionale del giudice di merito e non censurabile in sede di legittimità se non sotto il profilo dei vizi di motivazione, che nella specie non sono stati prospettati ed obiettivamente non sussistono.
Neppure va ravvisata l’asserita diversità del titolo in base al quale il convenuto ed il V. sono stati chiamati a rispondere, essendo in entrambi i casi la responsabilità fondata sul contratto di appalto, a cui si ricollega sia la nomina dell’impresa appaltatrice, sia la nomina del direttore dei lavori; sia il rapporto interno di cooperazione e di corresponsabilità fra l’impresa e il direttore dei lavori. Va soggiunto che la più recente giurisprudenza ha esteso l’applicazione del principio sopra enunciato ai casi in cui la chiamata del terzo si fondi su di un rapporto diverso da quello fatto valere in giudizio dall’attore, sul rilievo che si deve avere riguardo all’effettiva volontà del chiamante di attribuire al terzo la responsabilità della cattiva esecuzione delle opere, più che all’identità del rapporto giuridico da cui la responsabilità deriva: ed ha ritenuto che, ove una tale volontà sussista, il giudice può emettere condanna direttamente a carico del terzo, anche se l’attore non ne abbia fatto richiesta, senza incorrere nel vizio di extrapetizione (Cass. civ. 20610/2011 cit.).
3.- Il secondo ed il terzo motivo di ricorso attengono alla questione di merito circa la sussistenza della responsabilità del ricorrente e possono essere congiuntamente esaminati.
Il secondo motivo denuncia violazione del regolamento della professione di geometra (art. 16 r.d. 11 febbraio 1929 n. 274) ed il terzo motivo violazione degli art. 1218, 1292, 1294, 2055, 2230 e 2236 cod. civ., 41 cod. pen., nonché omessa od insufficiente motivazione, sul rilievo che i difetti di costruzione accertati dalla CTU attengono a patologie strutturali della costruzione, la cui esecuzione era affidata al progettista delle strutture ing. L. , ed attiene a calcoli in cemento armato che egli – nella sua qualità di geometra – non ha eseguito e per legge non avrebbe potuto eseguire, trattandosi di competenze riservate agli ingegneri. Ribadisce che egli aveva l’incarico di direttore dei lavori architettonici ed era tenuto a sovrintendere alla mera conformità della costruzione al disegno progettuale, in relazione alla quale i vizi e le difformità denunciate, attinenti alla pavimentazione, al caminetto, alla posa delle luci, a difetti degli intonaci e delle murature e simili, non hanno nulla a che fare con le gravi patologie rilevate; sì che è da ritenere che egli – avendo fatto sospendere il pagamento dell’ultima rata del prezzo (Euro 28.830,54), che non è stata mai corrisposta dalla committente – ha riparato a tutti i danni a lui personalmente imputabili.
3.1.- I motivi non sono fondati.
In primo luogo non vi è violazione delle norme sulla competenza dei geometri, né di quelle generali in tema di inadempimento e di contratto d’opera professionale poiché la Corte di appello ha addebitato al geometra non di avere male eseguito opere di competenza altrui, ma in parte di essere incorso in negligenze ed imperfezioni anche in relazione ai lavori che egli definisce di conformità al progetto architettonico e che attengono al controllo sulla corretta esecuzione da parte dell’impresa delle opere non strutturali e di finitura, quali quelle attinenti alle tubazioni, agli intonaci, ecc.; in parte e soprattutto di non avere svolto diligentemente le mansioni di sua specifica competenza quale direttore dei lavori, considerati nella loro globalità, cioè di non avere esercitato adeguato controllo sull’operato altrui, sì da rilevare in corso d’opera l’inadeguatezza della costruzione degli elementi strutturali – ancorché non di sua competenza – segnalandone per tempo imperfezioni ed errori, pur se ad altri ascrivibili.
Il direttore dei lavori è la persona di fiducia del committente, incaricata di sorvegliare che le opere vengano correttamente eseguite dall’appaltatore e dal personale di cui questi si avvalga (cfr. fra le tante Cass. civ. Sez. 2, 29 agosto 2013 n. 198 95), intervenendo per tempo anche solo a fermarne l’esecuzione, qualora questa manifesti vizi o difetti.
La Corte di appello ha ritenuto – nel suo potere discrezionale di valutazione del comportamento delle parti – che il geometra direttore dei lavori, pur se non competente per l’esecuzione dei calcoli in cemento armato, fosse o dovesse essere competente a valutare in corso d’opera come l’appaltatore ed i suoi ausiliari, ivi incluso l’ingegnere progettista delle strutture, eseguissero il loro lavoro, sì da rilevare per tempo i gravi difetti delle opere, prima che esse venissero completate in termini talmente difettosi da avere addirittura sollecitato un ordine di sgombero da parte dell’autorità, a causa del pericolo di crollo.
Il direttore dei lavori, nell’accettare l’incarico, deve poter garantire al committente quanto meno una tale capacità di supervisione e di controllo anche sulla corretta esecuzione degli elementi portanti. Qualora una tale capacità non abbia o non possa esercitare, è tenuto ad astenersi dall’accettare l’incarico o a delimitare specificamente fin dall’origine le prestazioni promesse e le sue conseguenti responsabilità, in relazione alle sue effettive competenze.
In mancanza, deve quanto meno fornire la prova che i vizi verificatisi non potevano essere obiettivamente rilevati se non a costruzione ultimata: circostanza che nella specie il ricorrente non solo non dichiara di avere dimostrato, ma neppure ha dedotto.
Va condivisa, quindi, la sua affermazione di non essere direttamente responsabile dei vizi strutturali della costruzione, ma non è suscettibile di censura la sentenza impugnata, nella parte in cui gli ha addebitato di non avere saputo esercitare il controllo sull’esecuzione dei lavori anche strutturali, sì da rilevarne per tempo i gravi difetti.
4.- Il quarto motivo denuncia ancora violazione delle norme di cui sopra ed omesso esame di fatti decisivi, ai sensi dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., nel capo in cui la Corte di appello ha ripartito le colpe fra i responsabili attenendosi all’immotivato giudizio del CTU circa l’uguale responsabilità di tutti, senza valutare criticamente la situazione, né tenere conto della diversa efficienza causale, anche in ordine all’entità dei danni, delle imperfezioni addebitabili al geometra e di quelle strutturali, che hanno compromesso la stabilità del fabbricato, richiedendone l’intero rifacimento.
4.1.- Il motivo non è fondato.
La Corte di appello ha affrontato la questione ed ha accertato (al punto 1.3) che dai punti B e C della relazione peritale si desume che “anche i soli difetti degli elementi architettonici, o comunque direttamente legati alle carenze della direzione generale dei lavori, nel caso concreto sono apparsi tali, per numero e natura, da compromettere in modo considerevole le possibilità di godimento e conservazione dell’edificio. La presenza di un progetto e di una direzione strutturale non poteva certo esonerare il geom. V. o l’impresa costruttrice, ciascuno nell’ambito delle proprie competenze, dall’affrontare e risolvere problemi quali – per citarne solo alcuni – a) la presenza di un grado di vincolamento dell’edificio non idoneo, sia in fondazione, sia in copertura; b) la insufficiente cura di essenziali dettagli costruttivi, primo fra tutti il nodo palo-trave-pilastro che rappresenta uno degli elementi principali per la corretta stabilità del fabbricato; c) la mancanza di idoneo coordinamento fra progettisti, direttori dei lavori ed impresa, per sopperire alle mancanze di cui sopra; d) l’introduzione di modifiche in corso d’opera…”, ecc..
Trattasi di motivazione attinente ad accertamenti in fatto circa la specifica rilevanza causale dei vari comportamenti in ordine al danno che si è verificato, alla quale non possono essere mossi addebiti di illogicità o di insufficienza tali da giustificare l’annullamento della decisione.
5.- Il ricorso non può che essere respinto.
6.- Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e vanno rimborsate solo alla Vi. , essendo risultato ininfluente ai fini della decisione il controricorso dell’A. .

P.Q.M.

La Corte di Cassazione rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a rimborsare alla resistente Vi. le spese del giudizio di cassazione, liquidate complessivamente in Euro 4.000,00, di cui Euro 200,00 per esborsi ed Euro 3.800,00 per onorari, oltre al rimborso delle spese generali ed agli accessori di legge.