Anno: 2017

Alimenti. Frode in commercio. Porre in vendita prodotti dolciari da forno congelati o surgelati all’ origine senza tale indicazione integra il reato di tentativo di frode commerciale.

“Ciò che rileva ai fini della sussistenza del reato di frode in commercio, è la consegna dell’aliud pro alio, che si concreta certamente di per sé, allorché, come nel caso di specie, vengano consegnati prodotti sfusi, in quanto la condotta di averli previamente rimossi dalla confezione del produttore e posti in vendita senza alcuna indicazione di origine e provenienza induce il potenziale acquirente a ignorare tale caratteristica e concreta l’aliud pro alio, analogamente a quanto accade allorché si pongano in vendita prodotti all’origine congelati o surgelati senza tale indicazione, restando del tutto irrilevante il valore del bene , le sue caratteristiche di utilizzabilità e qualità.

” La circostanza che tali condotte integrino anche violazioni amministrative dal momento che il reato di frode nell’esercizio del commercio può concorrere con la normativa che disciplina e sanziona gli illeciti amministrativi atteso che quest’ultima opera su un piano e risponde ad una “ratio” diversi rispetto a quelli della fattispecie penale“.

(Corte di Cassazione 1 marzo 2017 avente numero 10015)

Pe la lettura della sentenza integrale vedansi:

http://www.italgiure.giustizia.it/xway/application/nif/clean/hc.dll?verbo=attach&db=snpen&id=./20170301/snpen@s30@a2017@n10015@tS.clean.pdf

Successioni e donazioni: E’ nulla la donazione effettuata mediante bonifico bancario. Cass.civ., sezioni unite, sentenza del 27 luglio 2017, n. 18725  

Non è infrequente che tra persone legate da vincolo di parentela e non solo, avvengano trasferimenti di denaro o  altri valori a titolo gratuito, per  mera liberalità.

Da quando poi è invalsa la prassi di compiere operazioni mediante home banking comodamente  operando dalla consolle del computer o tramite smartphone, si assiste al trasferimento con bonifico di denaro o altri strumenti finanziari ( e cosìpure  titoli, mediante bancogiro) con crescente frequenza, senza che di tali atti siano soppesate le implicazioni dal punto di vista giuridico.

Ebbene, le Sezioni Unite della Cassazione, chiamate a  dirimere un contrasto   fonte di conflittualità e di incertezze, hanno  stabilito che simili operazioni, a meno che non si tratti di trasferimenti di modico valore, devono essere considerate vere e proprie donazioni in forma diretta e perciò nulle in difetto di un atto pubblico  di donazione (alla presenza di testimoni) tra beneficiante e beneficiario.

Nella fattispecie ad una banca era stato impartito l’ordine di  trasferire  valori mobiliari (per l’importo di circa 241.000,00 euro) da un uomo, malato, a favore di una donna con la quale aveva un rapporto sentimentale, la quale lo aveva curato durante la malattia.
Apertasi la successione ab intestato, la figlia del de cuius chiedeva, per la quota di un terzo  che le spettava per legge sul patrimonio ereditario, la restituzione del valore degli strumenti finanziari, ammontanti complessivamente, alla data dell’esecuzione dell’operazione, a Euro 241.040, sulla scorta del  presupposto della nullità del negozio siccome privo della forma solenne richiesta per la validità della donazione.
Il Tribunale di Trieste accoglieva la domanda, ma la Corte d’Appello di Trieste, in riforma della sentenza di primo grado riteneva che il negozio rientrasse nel perimetro delle liberalità indirette e, come tale, svincolato da ogni formalismo.
La Corte di Cassazione ha cassato la sentenza della C. d’Appello sulla scorta del principio sopra enunciato, ritenendo che non di una donazione indiretta si è trattato, bensì di una donazione tipica, seppure a esecuzione indiretta, da cui la necessità della forma dell’atto pubblico (ex art. 782 c.c.)

Per il testo integrale della sentenza vedansi:

http://www.cortedicassazione.it/cassazione-resources/resources/cms/documents/18725_07_2017_no-index.pdf

Banche. Espropriazione presso terzi, ritenuta d’acconto

“ Dalla lettura dell’ art . 27 comma 15 della legge 21 dicembre 7991 n. 449, come integrato con Decreto del Direttore dell’Agenzia delle Entrate 34155/2010, si desume che nel- caso in cui il pagamento avvenga a seguito di ordinanza di assegnazione emessa nel corso di procedura di  espropriazione presso terzi ed il credito sia riferito a somme per le qual deve essere operata una ritenuta alla fonte, il terzo se riveste la qualifica di sostituto d’imposta deve operare all’atto del pagamento la  ritenuta d’acconto nella misura del 20%, salvo che sia a conoscenza della riferibilità del credito a somme o valori diversi da quelli assoggettabili a ritenute alla fonte.”   ( Trib.le di Benevento  sent. N. 1030/2017 ).

Testo della sentenza

TRIBUNALE DI BENEVENTO

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale di Benevento, in composizione monocratica, nella persona del Giudice dott.ssa Serena Berruti, ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa iscritta al n. 4915 R.G. Cont. anno 2015

VERTENTE TRA

SAVIANO ANGELINA (c.f. SVNNLN4 4B5 6C359V)

Rappresentata e difesa    dall’avv. SARNO ALFREDO giusta procura     a

margine del ricorso per   decreto ingiuntivo, depositato   in atti,  e

domiciliata in BENEVENTO  presso il suo studio -parte attrice nel giudizio di merito ex art.            616                        -c.p.c.,

opposta-

UNICREDIT S.P.A. in persona del legale rappresentante prò tempore (P.IVA 00348170101)

Rappresentata e difesa dall’avv. CLAUDIO GIORGIO SUPPA –

-parte convenuta nel giudizio dì merito ex art. 616 c.p.c.,

opponente-

Oggetto: opposizione all’esecuzione mobiliare n. 260/2015 r.g.e.. CONCLUSIONI: come formulate all’udienza del 28 ottobre 2016.

IN FATTO E IN DIRITTO

Il presente giudizio ha ad oggetto la fase di merito dell’opposizione all’esecuzione proposta da UNICREDIT s.p.a. nella procedura espropriativa mobiliare avente n. 260/2015 intentata nei suoi confronti da SAVIANO ANGELINA -conclusasi con ordinanza di sospensione della procedura esecutiva mobiliare, avente n. 260/2015, poi riformata in sede di reclamo con ordinanza depositata in data 8 gennaio 2016- introdotta nel termine fissato dal G.E. nell’ordinanza ex art. 616 c.p.c. dalla Saviano.                                           ,

Saviano Angelina ha chiesto al giudice della cognizione il rigetto dell’opposizione all’esecuzione proposta ex art. 615 comma 1 c.p.c. dalla Unìcredit s.p.a. in quanto inammissibile ed infondata in fatto ed in diritto e con conseguente accertamento del suo diritto a procedere nell’esecuzione forzata intentata nei confronti della, convenuta opponente n. 260/2015 r.g.e..

Ha dedotto ed allegato a sostegno’ delle proprie ragioni:

  • che illegittimamente il terzo pignorato aveva, nel l’eseguire il pagamento a favore della Saviano della somma oggetto di assegnazione nella procedura esecutiva n. 1314/2012, provveduto ad applicare la ritenuta d’acconto del 20%, avendo la stessa avuto , conoscenza della natura del credito dell’assegnatario, estraneo a quelli assoggettabili a ritenuta d’acconto;
  • che infatti, nel caso di specie 1′ art. 21, c. 15 della legge 449/97 (come modificato dall’art. 15 del DL 78/2009), aveva

disposto che, “qualora il credito sia riferito a somme per le quali, ai sensi delle predette disposizioni, deve essere operata una ritenuta alla fonte”, laddove il terzo pignorato rivesta la qualifica di sostituto d’imposta, questi all’atto del pagamento deve operare la ritenuta d’acconto nella misura del 20%” e l’art. 1 del protocollo n. 34755/2010 del Direttore dell’Agenzia delle Entrate, chiamato dalla norma di legge richiamata a dettare le modalità operative del procedimento, aveva chiarito che “il terzo erogatore non effettua la ritenuta se è a conoscenza che il credito è , riferibile a somme o valori – diversi da quelle assoggettabili a ritenute alla fonte”;

-che non si doveva ritenere vincolante, ai fini della verifica della ricorrenza del richiamato requisito della conoscenza, alla luce dei princìpi che regolano la gerarchia delle fonti normative, la circolare n.8 del 2 marzo 2011 dell’Agenzia delle Entrate, con la quale era stato precisato che la detta conoscenza era acquisibile esclusivamente mediante produzione, da parte del creditore, di propria dichiarazione sostitutiva di atto notorio corredata dal documento di riconoscimento;

– che nel caso di specie il difensore della Saviano, su richiesta della Banca opponente di chiarire la natura fiscale del credito, aveva dato comunicazione alla Unicredit s.p.a. della natura del credito attivato dalla Saviano in executlvis, riferendo circostanze oggettive note al medesimo in virtù dell’incarico conferitogli, con conseguente .illegittimità della trattenuta dei 20% effettuata, nonostante tale comunicazione, dall’istituto di credito ;

– che neppure sussisteva il pericolo, rappresentato dall’opponente, di effettuare un doppio pagamento, quale terzo pignorato e quale sostituto d’imposta, alla luce di quanto disposto dall’art. 38 del D.P.R. 602/1973, secondo il quale il terzo pignorato aveva diritto di chiedere ed ottenere il rimborso di ritenute mal versate entro il termine di decadenza.

Nel costituirsi in giudizio la parte convenuta opponente ha chiesto accogliersi l’opposizione in quanto fondata, e riconoscere che l’inesistenza del credito vantato dalla Saviano nei propri confronti nella procedura esecutiva n. 260/2015.

Ha dedotto ed allegato a sostegno delle proprie ragioni:

– la legittima applicazione, nel pagare la somma di cui all’ordinanza di assegnazione emessa nella procedura esecutiva n. 1314/2012, della ritenuta a tìtolo di acconto del 20% così come imposto dalla legge, tenuto conto che, in caso di pignoramento presso terzi, in base all’art. 1 comma 2, del decreto legge del 1 luglio del 2009 n. 78, il soggetto erogatore in qualità di sostituto di imposta doveva effettuare la ritenuta pari al 20%, e che, secondo la circolare dell’Agenzia delle Entrate 8/E del 2 marzo 2011, gli erogatori dovevano sempre operare una ritenuta del 20% a titolo dì acconto dell’Irpef dovuta dal creditore pignoratizio, salvo che il creditore, con dichiarazione resa personalmente chiarisse la estraneità del credito alla detta ritenuta, anche per il principio della vicinanza della prova;

-che infatti nel caso di specie tale dichiarazione non era stata resa dalla Saviano;

-che non risultava efficace, a tal fine, la dichiarazione resa dal difensore della medesima, esulando il potere dovere di rendere la detta dichiarazione i poteri conferitigli nella procura alle liti;. – che infatti la circolare richiamata non si riferiva ad Una conoscenza attraverso qualsiasi modalità bensì ad una conoscenza attraverso una dichiarazione proveniente direttamente dalla parte, analogamente a quanto previsto, dall’art. 152 disp. att. c.p.c. in materia di giudizi per l’ottenimento di prestazioni previdenziali ed assistenziali;    .

  • che solo il sostituito e non il sostituto era legittimato a chiedere la restituzione              di quanto eventualmente versato   in eccedenza all’erario.

I motivi di opposizione proposti      dalla Unicredit   s.p.a.

non risultano fondati.

Infatti, confermando l’orientamento già manifestato da questo Tribunale in sede collegiale con l’ordinanza depositata l’8 gennaio 2016 nel procedimento per reclamo avente n. 3604/2015, questo Giudice ritiene che dalla lettura dell’art. 21 comma 15 della legge 27 dicembre 1997 n. 449, come integrato con Decreto del Direttore dell’Agenzia delle Entrate 34755/2010, si desume che nel caso in cui il pagamento avvenga a seguito di ordinanza di assegnazione emessa nel corso di procedura espropriativa presso terz^ ed il credito sia riferito a somme per le quali deve essere °PSrata ^ ritenuta alla fonte, il terzo, se riveste la sostituto d’imposta deve operare all’atto del pagamento la ritenuta d’acconto nella misura del 20%, salvo che sia a conoscenza della riferibilità del credito a somme o valori diversi da quelli assoggettabili a ritenute alla fonte.

Le norme citate non richiedono necessariamente, per escludere la ritenuta d’acconto, l’obbligo del creditore procedente di rendere una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà – che pure sembra imposta dalla Circolare n. 8/2011- dell’Agenzia delle Entrate- tenuto conto della non vincolatività della stessa (sul punto cfr. ex multis Cass. Sez. 5, Sentenza n. 6699 del 21/03/2014, che chiarisce che “la circolare dell’Agenzia delle Entrate interpretativa di una norma tributaria, anche ove contenga una direttiva agli uffici gerarchicamente subordinati, esprime esclusivamente un parere, non vincolante per il contribuente (oltre che per gli uffici), per il giudice e per la stessa autorità che l’ha emanata”), a differenza di quanto espressamente revisto dal legislatore dall’art. 152 disp. . att. c.p.c., conseguentemente non comparabile al caso di specie.

La detta dichiarazione sostitutiva costituisce solo uno degli strumenti mediante i quali il terzo sostituto di imposta può raggiungere la detta conoscenza.

Bisogna a questo punto applicare        al          caso di  specie i principi appena richiamati. Per farlo occorre innanzi tutto rilevare che nel caso di specie è pacifica tra le parti la natura del credito attivato dalla Saviano in via esecutiva, non assogettabile a ritenuta d’acconto (desumibile, peraltro, anche dalla lettura del titolo esecutivo, prodotto nel fascicolo dell’esecuzione) . Ebbene, proprio in assenza di una specifica previsione normativa che imponga la dichiarazione sostitutiva di notorietà, si ritiene che la conoscenza rilevante per evitare l’effettuazione della ritenuta  d’acconto da parte dell’istituto di credito,nella qualità di sostituto d’imposta, sìa integrata dalla comunicazione fatta all’istituto di credito da parte del difensore della creditrice, nella fase immediatamente successiva alla emissione dell’ordinanza di assegnazione nella procedura esecutiva espressamente richiamata dallo stesso istituto di credito nel verbale di causa del 2 luglio 2015 della procedura espropriativa mobiliare avente n. 260/2015, tenuto conto del principio di leale collaborazione tra le parti, essendo emerso dalla documentazione prodotta da entrambe le parti che il terzo pignorato si rivolse, all’indomani dell’ordinanza di assegnazione, direttamente al difensore della Saviano, chiedendogli genericamente di precisare la natura del credito attivato in. via esecutiva, salvo poi a ritenere insufficiente la sola dichiarazione resa dal suo difensore (cfr. mali intercorse tra le parti, prodotte da entrambe).

Occorre inoltre sottolineare che la conoscenza     della natura del credito attivato in via esecutiva poteva essere     desunta dal terzo pignorato da una semplice lettura del titolo esecutivo attivato nella procedura esecutiva n. 1314/2012 (e prodotto nel presente fascicolo), alla luce del contenuto precettivo dell’atto di ” pignoramento presso terzi, in particolare ex art. 543 comma 2 n. c.p.c., allo stesso istituto di credito notificato.

Nessun rilievo può assumere, ai fini della    definizione della presente controversia, la circostanza, peraltro non provata,dell’avvenuto pagamento della somma oggetto di ritenuta all’ente impositore da parte dell’istituto di credito reclamato, tenuto conto che anche il sostituto, nel caso di indebito pagamento, può richiedere il rimborso all’amministrazione finanziaria ai sensi del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 38, impugnando poi dinanzi al giudice tributario l’eventuale rifiuto.

Alla luce delle motivazioni esposte l’opposizione proposta da Unicredit s.p.a. nei confronti di Saviano Angelina nella procedura espropriativa n. 260/2015 non può essere accolta.

La Unicredit s.p.a., soccombente, deve essere condannata a rifondere a Saviano Angelina le spese di lite, liquidate nel dispositivo. Deve essere disposto il pagamento delle spese di lite direttamente a favore del difensore della Saviano, che ha dichiarato di aver anticipato e le spese e non ricevuto compensi.

P.Q.M.

Il  Tribunale di Benevento, in persona del Giudice Dott.ssa Serena Berruti, definitivamente pronunciando, ogni altra domanda ed eccezione disattesa, così dispone:

-non accoglie l’opposizione proposta da Unicredit s.p.a. nei confronti di Saviano Angelina nella procedura espropriativa n. 260/2015;

-condanna la Unicredit s.p.a. a rifondere a Saviano Angelina le spese di lite, liquidate nella complessiva somma di € 1212,00 per compenso ed € 120,00 per spese vive, oltre spese .generali al 15% ed oneri di legge, disponendone il pagamento a favore-, del difensore.

Benevento, 22 maggio 2017.

Il Giudice Serena Berruti

 

 

 

 

Apple, Google & Co. e il simulacro dell’Europa unita

Pubblichiamo questa interessante riflessione del Prof. Alessandro Giovannini, ordinario di diritto tributario all’Università di Siena, riguardante il tema degli accordi tra “tributo merce” a proposito  dell’accordo tra il nostro paese e  le multinazionali ritenute responsabili di evasione fiscale per centinaia di milioni

Di Alessandro Giovannini  Professore ordinario di diritto tributario nell’Università degli studi di Siena

L’unità europea è un simulacro. Dal punto di vista fiscale è innegabile, vano girarci intorno.

La recente vicenda dell’accordo tra Italia e Google, col quale il colosso del web chiude un contenzioso relativo a una presunta evasione durata per 5 anni, pagando circa 250 milioni su oltre ottocento quantificati dalla magistratura, ne è dimostrazione lampante.

Non è in discussione, qui, l’accordo e neppure il comportamento dell’Agenzia delle Entrate. E neanche l’esistenza di un’autonoma organizzazione occulta della casa madre in seno a Google Italia. In discussione, piuttosto, è l’idea europea di imposizione e, di conseguenza, l’eticità della legislazione. Il problema è etico, anzitutto, e il motivo lo vedremo tra poco.

La vicenda Google Italia è sostanzialmente identica a quella che alcuni mesi fa coinvolse Apple Italia e a quella che, sempre pochi mesi fa, vide l’Irlanda condannata dalla Commissione europea per violazione del divieto di aiuti di stato concessi sotto forma di riduzione dell’imposizione, proprio, al gigante di Cupertino.

Il modello adottato da queste multinazionali è sempre lo stesso. L’impresa statunitense “Mela” costituisce in un paese europeo (ad esempio, l’Irlanda) la società “Baco” consentendo a questa di utilizzare il marchio e il software progettati negli Stati Uniti. “Baco” sfrutta i benefici fiscali di quel paese raggiungendo accordi con le autorità fiscali, che prevedono la detassazione degli utili, poniamo, per il 98 per cento. “Baco” costituisce poi un’ulteriore società, “Calicina”, con sede in un altro paese dell’Unione (l’Olanda), il quale permette di fare uscire denari verso “paradisi fiscali” senza nessuna segnalazione alle autorità valutarie. “Calicina” è legata a “Baco” da un contratto, formalmente ineccepibile, avente anch’esso ad oggetto lo sfruttamento del marchio e del software. “Calicina”, a sua volta, ha società satellite che commercializzano nei singoli stati europei i prodotti col marchio della casa madre (Mela Francia, Mela Spagna, Mela Italia). In forza di tutti questi contratti, le società satellite corrispondono a “Calicina” royalties ingentissime, royalties che “Calicina” a sua volta corrisponde a “Baco”. “Baco”, però, si avvale di una “scatola” societaria ulteriore, che entra in scena a questo punto della catena, “scatola” identificabile solamente per il codice IBAN perché collocata in un paradiso fiscale. Le royalties, quindi, alla fine della fiera, arrivano in paradiso e lì godono della pace fiscale eterna.

La soluzione politica di questi casi a livello europeo, al di là di proposte immediate frutto di scelte tecnocratiche, peraltro non risolutive, come può essere quella di istituire la Common consolidated corporate tax base (o CCCTB), passa da scelte chiare e univoche.

Il punto reale sul quale l’Europa è chiamata ad una scelta definitiva è l’attribuzione della sovranità impositiva all’Europa stessa, anche con un coordinamento vincolante delle politiche fiscali dei singoli stati, evitando, così, che all’interno di un simulacro unitario si perseveri in politiche aggressive tra gli stati membri.

Tra questi, infatti, è in corso una vera e propria guerriglia fiscale: il tributo, specialmente sui redditi e sui patrimoni, è divenuto una merce che, come tale, viene posta sul mercato da ogni stato.

Intendere il tributo come merce è però pericoloso e dannoso: lo è perché attenta alla pace sociale delle singole comunità e ancora prima alle loro economie, al loro sistema di welfare, al lavoro, all’integrazione tra i popoli. E lo è perché mina uno degli elementi di unificazione della collettività: la redistribuzione delle ricchezze anche con politiche fiscali uniformi ed eque. Ecco il motivo per il quale la questione della concorrenza fiscale e del tributo merce è anzitutto questione etica. Di etica pubblica, di equità della tassazione, di convivenza ordinata degli stati e fra gli stati.

Il tema etico, inteso come questione dei valori intorno ai quali si organizza il sentire comune del giusto e dell’ingiusto e dunque della scelta di cosa fare per il bene di tutti, è il vero nodo che ogni discorso intorno all’Europa dovrebbe porsi.

Ma nessuno lo pone seriamente o ha la forza di imporlo alla discussione.

Esso, anzi, viene accuratamente evitato perché guardarlo negli occhi significherebbe affrontare ciò che probabilmente è la vera causa della crisi del progetto europeo: e cioè il disperato tentativo di unificare le economie con politiche di convergenza forzata, con il risultato paradossale di trasferire la crisi dalla finanza, dove è nata, all’economia reale e disintegrare, così, cinquant’anni di riflessione e lavoro.

Certo, quelle convergenze, sebbene forzate, hanno avuto ed hanno tuttora lo scopo di garantire stabilità alla moneta unica. Anzi, l’equilibrio della moneta come garanzia dello sviluppo economico è perno delle scelte europee degli ultimi quindici anni: il “triangolo magico” che avrebbe dovuto assicurare la buona riuscita dell’euro sul piano dell’economia interna, avrebbe dovuto fondarsi proprio sulla convergenza della spesa pubblica, dei debiti in stock e della “fissità” del rapporto deficit/PIL.

Le cose stanno andando diversamente. Questo dimostra come il modello, al di là della teoria, sia da ripensare alla radice. Ed è per questo che politiche fiscali uniformi o tendenzialmente tali devono, con urgenza, essere poste al centro della discussione, così da divenire pietre d’angolo di un nuovo modello di unità europea.

Se riguardate in questa prospettiva, le recenti vicende di Apple o di Google sono soltanto dei catarifrangenti indicativi di pericoli e d’inciampi ulteriori sulla strada dell’integrazione.

“Che il cielo ti salvi dalla guazza e dagli assassini”‘, si sentì dire Pinocchio dal Grillo parlante prima di affrontare il bosco in una nottata scura. Tragicamente, è un augurio ancora attuale.

 

Liquidazione Coatta Amm. Il caso UNIECO, istruzioni per l’uso. Lo stato d’insolvenza.

Alcune recenti sentenze ci offrono l’occasione per affrontare un altro aspetto della procedura di Liquidazione coatta amministrativa di non secondaria importanza, in quanto destinato a riverberare effetti sugli atti pregiudizievoli ai creditori (vale a dire sugli atti – in prevalenza pagamenti –  che alterano la par condicio, compiuti  dall’impresa sottoposta alla procedura, in un arco di tempo  precedente  la dichiarazione d’insolvenza che,  ad es. ex art. 67 l.f., varia da 6 mesi a 1 anno ) che devono essere resi inefficaci.

In effetti, diversamente da quanto previsto per il fallimento, nella l.c.a. lo stato di insolvenza (così come qualificato dall’art. 5 l.fall.) non è sempre presente, posto che la procedura può aprirsi anche per presupposti diversi, previsti dalle leggi speciali e riconducibili sia alla sussistenza di ragioni di interesse pubblico accertate dall’autorità di vigilanza, sia alla violazione di norme legali, regolamentari o statutari.

Lo stato di insolvenza, dunque, può rappresentare uno dei presupposti per l’apertura della l.c.a., ma non ne costituisce un requisito indefettibile.

Per inciso va osservato che, nella l.c.a., la dichiarazione di insolvenza non è preclusa dalla circostanza che l’ammontare dei debiti scaduti e non pagati sia complessivamente inferiore a trentamila euro, non applicandosi l’ultimo comma dell’art. 15  l.fall., avente carattere eccezionale.

L’accertamento giudiziale dell’insolvenza di un soggetto cui si applica esclusivamente la disciplina della l.c.a. può precedere (eccezion fatta per gli enti pubblici) oppure seguire l’apertura della procedura concorsuale

Si possono presentare quindi due diversi scenari.

1) La dichiarazione di insolvenza è pronunciata anteriormente al provvedimento di l.c.a. (art. 195 l.fall.). L’istanza può essere presentata da: a) uno o più creditori; b) l’autorità governativa che ha la vigilanza sull’impresa; c) l’impresa stessa; d) il commissario giudiziale, quando nel corso di una precedente procedura di concordato preventivo si è verificata la cessazione della procedura e sussiste lo stato di insolvenza; e) il pubblico ministero.

2) La dichiarazione di insolvenza è pronunciata posteriormente al provvedimento di l.c.a. (art.  202 l.fall.). L’istanza può essere presentata da: a) il commissario liquidatore nominato nella procedura di l.c.a.; b) il pubblico ministero.

Qualora la dichiarazione di insolvenza sia pronunciata anteriormente al provvedimento di l.c.a. (art. 195 l.fall.) l’istanza può essere presentata da uno o più creditori,  dall’autorità governativa che ha la vigilanza sull’impresa, dall’impresa stessa, dal commissario giudiziale, quando nel corso di una precedente procedura di concordato preventivo si è verificata la cessazione della procedura e sussiste lo stato di insolvenza, dal pubblico ministero, nel caso in cui i beni dell’impresa siano stati sottoposti a sequestro o confisca penali. È dunque da escludere, in ossequio alla disciplina fallimentare generale, il potere dell’autorità giudiziaria di dichiarare lo stato d’insolvenza d’ufficio

Ora, soltanto la dichiarazione di insolvenza da parte del Tribunale, sia essa anteriore o posteriore al provvedimento di l.c.a., legittima  l’applicazione delle norme fallimentari relative agli effetti del fallimento sugli atti pregiudizievoli ai creditori ( art. 203 co. 1, l.fall.). In particolare si applicano le norme in materia di revocatoria fallimentare e ordinaria (artt. 64-70 l.fall.), persino nei confronti dei soci a responsabilità illimitata, anche se la l.c.a. non si estende a detti soggetti.  Le azioni di revoca degli atti compiuti in frode ai creditori sono promosse dal commissario liquidatore (art. 203, co. 2, l.fall.).

Le recenti sentenze – e in particolare e tra le altre quella che pubblichiamo –  hanno affrontato la questione del termine dal quale calcolare a ritroso il periodo sospetto ai fini dell’esercizio dell’azione revocatoria .

E’ stato affermato che se la dichiarazione d’insolvenza precede l’emissione del provvedimento amministrativo detto termine decorre dalla data della sentenza. Va precisato, tuttavia, che nel caso inverso in cui il provvedimento amministrativo preceda la sentenza dichiarativa dell’insolvenza, la decorrenza deve essere fatta risalire al primo, cioè all’atto ministeriale perché è a detta data che la sentenza fa risalire l’insolvenza.

Corte di Cass. 28.02.17 n. 5054

Massima

“Secondo la giurisprudenza consolidata di questa Corte nelle procedure concorsuali di liquidazione coatta amministrativa e di amministrazione straordinaria il decorso del periodo sospetto deve essere fatto risalire alla dichiarazione di insolvenza della società: giacché, diversamente opinando, l’esito delle azioni revocatorie riuscirebbe compromesso dal ritardo nell’emanazione di un provvedimento amministrativo, in una situazione non più di sospetto, ma di già accertata insolvenza (conformi Cass. 19. 01.,n. 803 Cass. 09. 04. 1008 n. 9177)”

Testo della sentenza

Corte di cassazione Sezioni unite civili Sentenza 28 febbraio 2017, n. 5054

Presidente: Rordorf – Estensore: Bernabai

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato il 24 settembre 2000 la Leucci Industriale s.p.a. in amministrazione straordinaria, dichiarata insolvente con sentenza 27 luglio 1995 del Tribunale di Brindisi, conveniva dinanzi al Tribunale di Bologna la Sardelli s.r.l. – più tardi incorporata dalla Trattamenti Superficiali Metalli-T.S.M. s.r.l. – per sentir dichiarare inefficaci ex art. 67, primo comma, n. 2, e secondo comma, della legge fallimentare pagamenti e cessioni di credito a scopo solutorio eseguiti nel periodo sospetto, per complessivi euro 258.391,83.

Costituitasi ritualmente, la Sardelli s.r.l. eccepiva, in via pregiudiziale, l’incompetenza territoriale e la carenza di legittimazione passiva, quale mera conferitaria dell’azienda dell’imprenditore individuale Tommaso Sardelli, in ordine ad un preteso debito eventualmente derivato da rapporti contrattuali da questo antecedentemente intrattenuti, non desumibile dalle scritture contabili, ex art. 2560, secondo comma, c.c.

Eccepiva altresì, in via gradata, la prescrizione del credito e l’improponibilità della domanda, ai sensi dell’art. 49 del d.lgs. 8 luglio 1999, n. 270 (Nuova disciplina dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza), in carenza di autorizzazione del programma di cessione dei complessi aziendali; e nel merito chiedeva il rigetto per infondatezza della domanda.

Dopo l’interruzione del processo, per intervenuta fusione per incorporazione della Sardelli s.r.l. nella T.S.M. s.r.l. e la successiva riassunzione, veniva espletata prova per interrogatorio formale e testi.

Con sentenza 10 settembre 2009, il Tribunale di Bologna accoglieva la domanda di revoca, con la conseguente condanna alla rifusione delle spese di lite.

Il successivo gravame della T.S.M. s.r.l. era rigettato dalla Corte d’appello di Bologna, con sentenza 25 giugno 2014; mentre, veniva accolta l’impugnazione incidentale della Leucci Industriale s.p.a. in amministrazione straordinaria, volta ad ottenere anche la condanna alla restituzione delle somme pagate.

La corte territoriale motivava:

– che l’imprenditore individuale Tommaso Sardelli, originario accipiens dei pagamenti revocati, aveva conferito con atto pubblico 31 dicembre 1996 la propria azienda, in Brindisi, con tutti i relativi rapporti attivi e passivi, nella Sardelli s.r.l.;

– che andava affermata, quindi, la legittimazione passiva di quest’ultima, succeduta anche nel debito restitutorio derivante dall’azione revocatoria;

– che sussisteva la prova presuntiva che gli atti solutori fossero stati annotati nelle scritture contabili obbligatorie, a fronte di fatture regolarmente emesse;

– che, in ordine ai mezzi anomali di pagamento, tramite cessioni di credito, la creditrice non aveva offerto la prova della propria inscientia decoctionis; mentre, per quanto riguardava i pagamenti eseguiti in contanti e mediante bonifici bancari, si doveva ritenere conosciuta dal Sardelli l’appartenenza della società debitrice al cd. gruppo Fochi, la cui insolvenza era stata resa nota dalla stampa, non solo locale e comunque emergeva, nei rapporti diretti con il creditore, da ritardi nei pagamenti di fatture di ammontare considerevole e dalla concessione di plurime proroghe dei termini di pagamento;

– che, in particolare, premessa l’irrilevanza della data di scadenza del debito della Leucci Industriale s.p.a., il relativo pagamento, seppur andasse riportato – come pretendeva la T.S.M. s.r.l. – alla data dell’addebito della valuta (31 agosto 1994), anziché a quella dell’operazione bancaria (5 settembre 1994), non esulava dal periodo sospetto annuale, decorrente, a ritroso, dalla dichiarazione giudiziale dello stato di insolvenza della Leucci industriale S.p.A. (27 luglio 1995).

Avverso la sentenza, non notificata, la Trattamenti Superficiali Metalli s.r.l. proponeva ricorso per cassazione, articolato in tre motivi e notificato il 18 settembre 2014.

Deduceva:

1) la violazione degli artt. 1346, 1362-1366, 1371 e 2560, secondo comma, 2697, 2727 e 2729 c.c., e 41, primo comma, Cost., nella ritenuta legittimazione passiva in ordine alla domanda di ripetizione di una somma pagata, nel periodo sospetto, non a sé o alla propria incorporata Sardelli s.r.l., bensì all’imprenditore individuale Tommaso Sardelli, autore del conferimento di azienda;

2) la violazione degli artt. 2697, 2727, 2729 c.c., 115 e 116 c.p.c., 67, primo comma, n. 2, e secondo comma, l. fall., nonché la carenza di motivazione nell’accertamento dell’elemento psicologico della fattispecie revocatoria;

3) la violazione dell’art. 1, ultimo comma, l. 95/1979 e degli artt. 67 e 203 l. fall., ed inoltre il vizio di motivazione, per l’erronea collocazione temporale dei termini di decorrenza del cd. periodo sospetto.

Resisteva, con controricorso, la Leucci industriale s.p.a. in amministrazione straordinaria.

La causa, assegnata alla prima sezione civile, veniva rimessa dal collegio al Primo Presidente, ai fini dell’eventuale assegnazione alle sezioni unite, considerata la particolare importanza delle questioni di diritto sollevate e l’esigenza di prevenire un possibile contrasto giurisprudenziale, in ordine all’applicazione dell’art. 2560 c.c. ai debiti restitutori da accoglimento di azione revocatoria fallimentare.

Dopo il conforme provvedimento presidenziale, la causa passava in decisione all’udienza del 22 novembre 2016, sulle conclusioni in epigrafe riportate.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il thema decidendum consta di una questione di massima di particolare importanza, concernente l’interpretazione dell’art. 2560 c.c. (art. 374, secondo comma, c.p.c.); cui fa seguito, nella motivazione della sentenza impugnata, un accertamento di fatto, in ordine all’oggetto del conferimento, sindacabile in questa sede entro i ristretti limiti di cui all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c.

Sotto il primo profilo, la premessa maggiore del ragionamento sillogistico seguito dalla corte territoriale è che la legittimazione passiva in tema di azione revocatoria fallimentare avente ad oggetto pagamenti eseguiti in favore di un imprenditore che abbia poi conferito la propria azienda in una società – ma il problema si porrebbe negli stessi termini in caso di cessione – vada riconosciuta alla stessa società conferitaria (o cessionaria) dell’azienda: essendo sufficiente, ai fini dell’insorgere della responsabilità solidale prevista dalla norma, la conoscibilità, tramite i libri contabili obbligatori, del precedente rapporto contrattuale intrattenuto dal dante causa con un imprenditore, divenuto poi insolvente alla data del pagamento: pur se il concreto debito restitutorio maturi solo all’esito dell’accoglimento della domanda di revoca, in epoca successiva al trasferimento aziendale (Cass., sez. 1, 28 luglio 20101, n. 17668).

Tale tesi interpretativa non può essere seguita.

Essa, infatti, dilata a dismisura l’ambito di applicazione dell’art. 2560, secondo comma, c.c., includendo nella previsione di solidarietà obbligazioni non ancora venute alla luce, sulla sola base di un documentato fatto genetico mediato: e dunque, un mero rischio di sopravvenienza passiva, anziché un debito già maturato ed annotato nei libri contabili, come testualmente previsto dalla norma.

In contrario, si deve ricondurre la responsabilità dell’avente causa nell’alveo dell’evidenza diretta, risultante dai libri contabili obbligatori dell’impresa, a tutela del suo legittimo affidamento, essenziale per il corretto svolgimento della circolazione di beni di particolare rilievo commerciale.

La chiara dizione della rubrica (Debiti relativi all’azienda ceduta) e del testo dell’art. 2560 c.c. non consente, infatti, di ritenere estensivamente inclusa nel trasferimento dell’azienda commerciale anche una situazione non già di debito, bensì di soggezione ad una successiva azione revocatoria promossa dal curatore del fallimento del solvens.

A questi rilievi – che valorizzano non solo il dato letterale della norma (parametro ermeneutico prioritario e poziore: art. 12 disposizioni sulla legge in generale), ma pure la ratio protettiva summenzionata – piuttosto che ad implicazioni legate alla natura costitutiva dell’azione, va ricondotto il principio di diritto testé enunciato. La natura costitutiva (e non dichiarativa) dell’azione revocatoria – lungamente dibattuta in giurisprudenza e dottrina ed affermatasi infine nella giurisprudenza di legittimità (Cass., sez. 1, 21 marzo 2013, n. 7182; Cass., sez. 1, 30 luglio 2012, n. 13560, sulla scia di Cass., Sez. un., 15 giugno 2000, n. 437), soprattutto in considerazione della sua irriducibilità all’illecito aquiliano (il che non eccettua, peraltro, il carattere antidoveroso del comportamento dell’accipiens: rivelato, già prima facie, dal requisito psicologico del consilium fraudis, o scientia fraudis) – non escluderebbe, infatti, di per sé sola, la possibile retroattività ex tunc degli effetti: normale, anzi, in talune azioni costitutive tipiche, quali quelle di risoluzione (art. 1458 c.c.) o di annullamento di un contratto (Cass., sez. 2, 11 febbraio 1998, n. 1395).

La ricostruzione ermeneutica così delineata dell’ambito applicativo dell’art. 2560, cpv., c.c. incontra un limite – del resto, evidente – solo nella carenza di un’effettiva alterità soggettiva delle parti titolari dell’azienda: come nell’ipotesi di trasformazione, anche eterogenea, della forma giuridica del soggetto (artt. 2498 e segg. c.c.) – stante la continuità dei rapporti giuridici pendenti – ed in quella di conferimento dell’azienda di un’impresa individuale in una società unipersonale (che non costituisce una trasformazione in senso tecnico): in cui, pure, è ravvisabile una perdurante identità soggettiva – sostanziale, se non formale – significativa di una conoscenza diretta dei rapporti giuridici in fieri, estranea alla ratio protettiva del successore a titolo particolare nell’azienda, sottesa all’art. 2560 c.c.

Così corretto il principio di diritto enunciato dalla Corte d’appello di Bologna, si osserva però che ad esso ha fatto seguito, nella sentenza impugnata, l’accertamento di fatto, congruamente motivato, e come tale sottratto a riesame nel merito, che con la dichiarazione resa nel corso dell’assemblea straordinaria della Sardelli s.r.l. e raccolta nel verbale steso a ministero del notaio Vincenzo Ianaro, in data 31 dicembre 1996, l’imprenditore Tommaso Sardelli (che aveva ricevuto i pagamenti, in parte con mezzi anomali, oggetto dell’azione revocatoria svolta in seguito dalla Leucci Industriale s.p.a. in amministrazione straordinaria) aveva inteso conferire nel capitale della predetta società la totalità dei rapporti attivi e passivi rientranti nell’universitas juris aziendale (“considerata nella complessità dei beni che della stessa fanno parte, materiali ed immateriali, nessuno escluso o eccettuato”): e cioè, anche i debiti futuri, derivanti dall’esercizio dell’azione revocatoria di pagamenti risultanti dalla contabilità aziendale.

A tal fine, la corte territoriale ha valorizzato espressioni testuali dell’atto pubblico, senza incorrere in violazioni di norme sull’interpretazione dei contratti (artt. 1362 e segg. c.c.).

La diversa ricostruzione ermeneutica operata dalla ricorrente si risolve, dunque, in un sindacato di merito, che non può trovare ingresso in questa sede.

Eguale, ed ancor più evidente, ragione di inammissibilità si ravvisa nel secondo motivo; nel quale, richiamando perfino deposizioni testimoniali sottoposte ad una lettura diretta di questa Corte, si riafferma la tesi della inscientia decoctionis del Sardelli alla data dei pagamenti ricevuti dalla Leucci Industriale s.p.a, facente parte del gruppo insolvente Fochi.

Il terzo motivo ripropone, con argomentazioni promiscue, la questione dell’anteriorità dell’atto solutorio, oggetto di revoca, al periodo sospetto: sotto il duplice profilo che la sua data andrebbe identificata con quella di scadenza del debito (31 agosto 1994), piuttosto che con quella dell’operazione bancaria di pagamento (5 settembre 1994), e che il dies a quo del computo a ritroso decorrerebbe dal decreto di ammissione alla procedura concorsuale, e non dalla precedente sentenza dichiarativa dell’insolvenza.

La duplice censura è inammissibile.

La prima, per irrilevanza: dal momento che la corte felsinea ha statuito che, anche a voler considerare corretta la data del 31 agosto 1994, prospettata dalla T.M.S. s.r.l., egualmente l’operazione sarebbe rientrata nel periodo sospetto annuale decorrente dalla sentenza 27 luglio 1995 del Tribunale di Brindisi, dichiarativa dello stato di insolvenza della Leucci Industriale s.p.a.: identificata dal Tribunale di Bologna come termine iniziale del relativo decorso retrospettivo, con statuizione non impugnata in parte qua (cfr. sent. Corte d’appello di Bologna, pag. 9).

È pertanto preclusa, ob rem judicatam, la seconda doglianza con cui si contesta tale ultima statuizione in punto di diritto, assumendo che il dies a quo andrebbe ricondotto, piuttosto, alla data di apertura della procedura concorsuale (d.m. 5 settembre 1995).

È appena il caso di aggiungere, peraltro, che la tesi difensiva appare anche infondata, alla luce della giurisprudenza consolidata di questa Corte, che nelle procedure concorsuali di liquidazione coatta amministrativa ed amministrazione straordinaria àncora il decorso del periodo sospetto alla dichiarazione di insolvenza della società: giacché, diversamente opinando, l’esito delle azioni revocatorie riuscirebbe compromesso dal ritardo nell’emanazione di un provvedimento amministrativo, in una situazione non più di sospetta, ma di già accertata insolvenza (Cass., sez. 1, 19 gennaio 2016, n. 803; Cass., sez. 1, 9 aprile 2008, n. 9177).

Tale principio di diritto, appare in linea, del resto, con il requisito psicologico della scientia decoctionis del creditore, che non può non correlarsi, temporalmente, alla data in cui l’insolvenza è giudizialmente accertata; e trova ulteriore conferma sistematica nel tenore dell’art. 49 (Azioni revocatorie) del d.lgs. 8 luglio 1999, n. 270 (Nuova disciplina dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza, a norma dell’articolo 1 della legge 30 luglio 1998, n. 274 – Prodi-bis), che, al secondo comma, recita: “I termini stabiliti dalle disposizioni indicate nel comma 1 (e cioè, per l’esercizio delle azioni per la dichiarazione di inefficacia e la revoca degli atti pregiudizievoli ai creditori previste dalle disposizioni della sezione III del capo III del titolo II della legge fallimentare) si computano a decorrere dalla dichiarazione dello stato di insolvenza. Tale disposizione si applica anche in tutti i casi in cui alla dichiarazione dello stato di insolvenza segua la dichiarazione di fallimento”.

Cosa diversa, poi, è che le azioni revocatorie degli atti compiuti in frode dei creditori divengano esperibili, in concreto, solo con la nomina del commissario liquidatore, cui compete il loro esercizio (art. 203, secondo comma, l. fall.).

Il ricorso è dunque infondato e va respinto; con la conseguente condanna alla rifusione delle spese di giudizio, liquidate come in dispositivo, sulla base del valore della causa e del numero e complessità delle questioni svolte.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente alla rifusione delle spese di giudizio, liquidate in complessivi Euro 6.200,00, di cui Euro 6.000,00 per compenso, oltre le spese forfettarie e gli accessori di legge.

Si dà atto della sussistenza dei presupposti di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia – t.u. spese di giustizia), art. 13 (Importi), comma 1-quater, introdotto dall’art. 1, comma 17, l. 24 dicembre 2012, n. 228 (Legge di stabilità 2013).

Polizze vita:  i beneficiari  vanno individuati secondo il contratto o secondo le regole della successione ?

” Che l’intenzione comune alle parti debba essere considerata quella di far riferimento sia al modo che alla misura della successione che si verifichera’ e che risulti contemplata risulta conclusione giustificata per il fatto stesso che bene lo stipulante potrebbe, nell’individuare come beneficiari gli eredi testamentari o legittimi, specificare che essi non lo saranno in modo corrispondente alla quota di eredita’ devoluta, ma in misura egualitaria o diversa. Ne segue che nel silenzio dello stipulante la comune intenzione delle parti va ricostruita nel senso indicato.”  Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza n. 19210/15, depositata il 30 settembre )

Le polizze vita ed in particolare i criteri di ripartizione dell’indennizzo, sono oggetto di frequenti dispute tra assicuratori e  beneficiari dopo l’apertura della successione dello stipulante.

Sovente nella polizza l’individuazione dei beneficiari, per il caso morte, viene effettuata, utilizzando la formula “eredi legittimi o testamentari”.

La disputa, sovente, sorge in quanto l’assicuratore, sulla scorta di un orientamento giurisprudenziale ( e dottrinario) dimostratosi, sino a pochi anni addietro, unidirezionale, intende operare il riparto mediante assegnazione di quote uguali (in difetto di diversa esplicita  disposizione)  tra tutti i beneficiari a prescindere dalla misura in cui si verifica la successione, testamentaria o legittima che sia.

In sostanza sino alla pronuncia che si annota l’orientamento era quello di considerare del tutto indifferente il criterio di liquidazione dell’indennizzo assicurativo rispetto alle sorti della successione, sulla base del presupposto che la  identificazione dei beneficiari come  “eredi” non valga ad assoggettare il rapporto alle regole della successione ereditaria. Questo perché, secondo l’orientamento tradizionale, il diritto del beneficiario alla prestazione dell’assicuratore deve trovare fondamento nel contratto ed è autonomo, cioè non derivato da quello del contraente.

Con la sentenza che si annota la Corte capovolge l’orientamento in precedenza affermato da altre pronunce della stessa Corte, anche se risalenti. La tesi, indubbiamente suggestiva, muove da considerazioni di  natura esegetica e logica.

Secondo i giudici della III Sezione civile, se lo stipulante e la societa’ assicuratrice prevedono per il caso di morte dello stipulante come beneficiari gli eredi legittimi o gli eredi testamentari, la comune intenzione delle parti non puo’ che essere se non quella di voler alludere alla misura in cui la successione secondo l’uno a l’altro titolo si verifichera’.

Nel caso di specie, dunque, la pronuncia giunge ad affermare che – ove subentrino nel due eredi in forza di rappresentazione – l’attribuzione della liquidazione di una polizza assicurativa, deve effettuarsi “per stirpi” e non in quote uguali in favore dei beneficiari.

Testo della sentenza

Cassazione III Civile 19210 del 2015 Presidente: VIVALDI ROBERTA Relatore: FRASCA RAFFAELE Data pubblicazione: 29/09/2015
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO.

  • 1. Con sentenza del 5 aprile 2012 la Corte d’Appello di Venezia ha rigettato l’appello proposto da Tizio Tizio contro la sentenza del , Tribunale di Bassano del Grappa del 28 novembre 2011, che aveva rigettato la domanda da lei proposta contro la Alfa per ottenere il riconoscimento della maggior somma a suo dire dovuta rispetto a quella che le era stata liquidata dalla convenuta, nella misura di un terzo, quale quota dell’indennizzo previsto da una polizza di assicurazione sulla vita stipulata dal marito Caio Caio, a seguito del decesso del medesimo.

La ricorrente, a fondamento della domanda aveva dedotto che la compagnia assicuratrice, sulla base di una clausola contrattale che prevedeva come beneficiari gli eredi testamentari o legittimi dello stipulante de cuius, aveva proceduto alla liquidazione dell’indennizzo erroneamente, cioe’ dividendolo in parti eguali fra i tre eredi legittimi del medesimo, id est fra la ricorrente ed i suoi due nipoti, figli della sorella del de cuius, a lui premorta, anziche’ liquidare ad essa deducente la meta’ della somma, soluzione che si sarebbe giustificata perche’, in base alla polizza, gli eredi legittimi si sarebbero dovuti identificare in essa ricorrente e nella sorella del de cuius, sebbene al medesimo premorta.

  • 2. 11 Tribunale adito aveva rigettato la domanda, escludendo che l’attribuzione a favore degli eredi legittimi prevista della clausola della polizza dovesse intendersi “per stirpi”, si che potesse aver rilievo la circostanza che i nipoti del de cuius erano subentrati alla madre per diritto di rappresentazione e, quindi, ritenendo che la ripartizione fosse stata correttamente effettuata dall’assicuratrice per quote eguali.
  • 3. La Corte territoriale ha confermato dette motivazioni.
  • 4. Contro la sentenza ha proposto ricorso per cassazione la Tizio affidandolo a quattro motivi.

La societa’ assicuratrice ha resistito con controricorso.

  • 5. La ricorrente ha depositato memoria.

MOTIVI DELLA DECISIONE

  • 1. Con il primo motivo di ricorso si deduce “violazione dell’art. 360 n. 4 c.p.c. i relazione all’art. 112 c..c. per omesso esame di specifica domanda dell’appellante, costituente il punto essenziale della causa”.

Vi si sostiene che la Corte territoriale non avrebbe esaminato una domandi della ricorrente, che si indica come relativa all’individuazione del significato del riferimento della polizza agli eredi legittimi.

Significato che avrebbe costituito il prius rispetto al posterius delle modalita’ di ripartizione.

  • 1.1. Il motivo, in disparte che nemmeno individua la c.d. domanda in tal senso, con manifesta violazione dell’art. 366 n. 6 c.p.c., e’ del tutto assertorio riducendosi a otto righe nelle quali non si spiega sulla base di quali elementi si dovrebbe evincere la pretesa omissione di pronuncia.

Ne segue la sua inammissibilita’.

  • 2. Con un secondo motivo si prospetta “violazione dell’art. 360 n. 5 c.p.c. per mancanza di motivazione su punto essenziale della controversia”.

Vi si censura la sentenza impugnata perche’, pur concedendo che abbia esaminato quello che si e’ definito prius nel motivo precedente, non avrebbe spiegato perche’ i nipoti del de cuius, eredi legittimi della sua sorella, sarebbero stati eredi legittimi dello stesso de cuius. La Corte territoriale si sarebbe limitata ad enunciare la premessa, cioe’ che i nipoti, certamente eredi legittimi della sorella, erano eredi legittimi della de cuius, ma non avrebbe spiegato il perche’ di tale considerazione.

Con un terzo motivo si denuncia “violazione dell’art. 360 n. 3 c.p.c. in relazione agli artt. 565, 582, 467 e 1920 c.c. per violazione di legge” e si sostiene, se mal non si comprendono le non del tutto chiare deduzioni, che, pur identificati i nipoti come eredi legittimi del de cuius, si sarebbe dovuto dare rilievo al fatto che essi lo erano per diritto di rappresentazione, desumendone l’implicazione che, poiche’ i nipoti erano subentrati a tale titolo alla sorella del de cuius, ai fini della ripartizione dell’indennizzo si sarebbe dovuto tener conto, siccht la ripartizione dell’indennizzo sarebbe dovuta avvenire in parti eguali cosi’ come sarebbe accaduto se l’ascendente dei beneficiari del diritto di rappresentazione avesse concorso con la qui ricorrente.

Con un quarto motivo si fa valere “violazione dell’art. 360 n. 3 c.p.c. in relazione agli artt. 1920, 1365 e 1366 c.c., per violazione di legge: nemo plus iuris in alium transferere potest quam ipse habet” e vi si prospetta, in buona sostanza, che in base agli invocati criteri ermeneutici il riferimento agli eredi legittimi sarebbe da intendere sempre nel senso sostenuto nel motivo precedente. Si sottolinea che, a seguire il criterio della ripartizione proporzionale fra l’erede diretto e chi subentra come tale per diritto di rappresentazione, se al rappresentato subentra un solo soggetto l’indennizzo risulterebbe ripartito in due quote, mentre se al rappresentato subentrano piu’ soggetti del tutto irragionevolmente esso dovrebbe ripartirsi in tante quote eguali fra l’erede diretto ed i soggetti subentrati per rappresentazione.

Cosi’, si esemplifica, se alla sorella del de cuius fossero subentrati per rappresentazione dieci figli, al coniuge del de cuius sarebbe spettato 1/11 dell’ indennizzo.

  • 3. L’esame del secondo, del terzo e del quarto motivo puo’ procedere congiuntamente, atteso che essi si risolvono nella sostanziale prospettazione di un vizio di c.d. sussunzione della fattispecie concreta, costituita dal subentro allo stipulante la polizza di un erede diretto, la moglie ricorrente, e di due eredi per diritto di rappresentazione della sorella premorta, sotto l’esatta disciplina giuridica applicabile. Anche l’omessa . motivazione denunciata dal secondo motivo, sebbene dedotta ai sensi del n. 5 dell’art. 360 c.p.c. nel testo anteriore all’ultima sua versione ed applicabile ratione temporis, non denuncia, infatti, un vizio della sentenza impugnata riguardo alla ricostruzione della quaestio facti, com’e’ conforme alla logica della norma, bensi’ un vizio relativo alla motivazione in iure.
  • 3.1. L’esame congiunto dei motivi giustifica, ad avviso del Collegio, il loro accoglimento per quanto di ragione, sebbene con il superamento dell’orientamento consolidato sul quale la sentenza impugnata ha basato la decisione della controversia nel senso di considerare legittimo il comportamento della societa’ assicuratrice nel ripartire in quote eguali l’indennizzo senza considerare la diversa ripartizione dell’eredita dello stipulante, deceduto ab intestato.
  • 3.2. La resistente ha sostenuto che i motivi sarebbero inammissibili, perche’ supporrebbero un mero riesame del fatto, ma il rilievo, che formalmente potrebbe essere adeguato al solo secondo motivo, e’ privo di fondamento giusta le considerazioni svolte in chiusura del paragrafo 2.
  • 3.3. La resistente ha, poi, sostenuto che il ricorso sarebbe inammissibile ai sensi dell’art. 360-bis n. 1 c.p.c. in quanto non offrirebbe elementi per superare in ordine alla quaestio iuris decisiva sulla base della quale e’ stato deciso il giudizio di merito elementi per indurre questa Corte a superare la giurisprudenza applicata dai giudici di merito e segnatamente dalla sentenza qui impugnata.
  • 3.3.1. Senonche’, va considerato che l’art. 360-bis n. 1, in presenza una decisione di merito che abbia deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte di cassazione, non impedisce alla Corte, valutati i motivi, di rilevare che sono offerti elementi per mutare l’orientamento emergente da detta giurisprudenza e cio’ anche a prescindere dalla direzione che ad essi abbia inteso assegnare in tale senso il ricorrente con la prospettazione del motivo.

La Corte di cassazione puo’, cioe’, nella logica dell’art. 360-bis n. 1 c.p.c. apprezzare gli elementi prospettati dal motivo come idonei a giustificare il , superamento della propria giurisprudenza anche per ragioni diverse da quelle prospettate dal ricorrente, purche’ il superamento sia giustificato dallo scopo del motivo proposto.

Ora, lo scopo dei tre motivi in esame e’ di sostenere che erroneamente la Corte territoriale abbia considerato che, quanto la polizza assicurativa prevede la stipulazione da parte del contraente a favore dei suoi eredi legittimi o testamentari in caso di morte, l’indennizzo debba essere ripartito non facendo riferimento al modo della devoluzione legittima o testamentaria e, quindi, proporzionalmente alla quota per cui ogni erede concorre, bensi’ ripartendolo in quote eguali, come se la relativa obbligazione fosse parziaria per quote eguali.

L’elemento che nella specie offrono i motivi per indurre il superamento di tale orientamento e’ rappresentato e, dunque, articolato, in essi dalla prospettazione che la ripartizione proporzionale sarebbe stata mal fatta dalla societa’ assicuratrice perche’ la posizione dei nipoti di eredi per diritto di rappresentazione avrebbe richiesto la loro considerazione, per essere subentrati a tale titolo, come titolari di una quota proporzionale unica, quella della loro madre ed erede rappresentata. Sicche’, in questo particolare caso, il principio della ripartizione per quote eguali di cui alla giurisprudenza consolidata della Corte lo si vorrebbe applicato nel senso non gia’ del riferimento alla situazione che individua gli eredi a seguito dell’applicazione dei principi del diritto di rappresentazione, bensi’ nel senso che occorrerebbe fare riferimento alla situazione di individuazione degli eredi emergente, per cosi’ dire in via virtuale, prima della detta applicazione.

Il Collegio rileva, quindi, che formalmente e’ stato prospettato nei motivi un elemento che, secondo la prospettazione della ricorrente, determinerebbe non tanto un superamento dell’orientamento consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, bensi’ un suo superamento parziale, cioe’ con riguardo alla peculiarita’ del caso di specie. Si tratterebbe di superamento parziale perche’ • ? appunto con riferimento ad esso occorrerebbe fare applicazione, di contro a quanto postula l’orientamento consolidato, delle particolari regole che disciplinano la successione ah intestato nel caso di ricorrenza della figura della rappresentazione, mentre detto orientamento postula che la disciplina della successione rilevi, ai fini della individuazione del beneficiario della polizza stipulata dal de cuius, esclusivamente quanto alla individuazione di chi sia erede. Secondo la ricorrente nel caso di specie ci si dovrebbe spingere ad un livello di rilevanza ulteriore, perche’ non si dovrebbe considerare il diritto delle successioni solo a quel fine, il che paleserebbe che l’individuazione degli eredi imponga di fare riferimento all’erede subentrato per rappresentazione, bensi’ dovrebbe darsi rilievo alle regole del diritto ereditario che presiedono al diritto di rappresentazione, in modo tale da giustificare la considerazione come erede dell’erede diretto, nella specie la ricorrente, e di colei che erede sarebbe stata se non fosse premorta al de ell i, se non p. n g, co Sulla base di tali considerazioni nessuna ragione di inammissibilita’ ai sensi dell’art. 360-bis n. 1 si configura.

  • 4. Venendo all’esame congiunto dei tre motivi in discorso, si rileva che essi sono fondati per quanto di ragione sulla base di considerazioni che il Collegio intende svolgere a superamento totale dell’orientamento di cui si sollecita il superamento parziale.

Va avvertito che questa Corte puo’ operare tale superamento senza sostituire ai motivi prospettati un motivo individuato d’ufficio perche’ detto superamento avviene nell’esercizio del potere di individuare l’esatto diritto applicabile ai fini della soluzione della questione cui i motivi per come proposti sono funzionali. Lo scopo della ricorrente e’ di censurare in iure, nel modo che si e’ detto, la ripartizione dell’indennizzo per quote proporzionali identiche fra essa deducente ed i due eredi subentrati per diritto di rappresentazione anziche’ sulla base di una quota della meta’ imputabile ad essa e di altra quota della meta’ imputata congiuntamente a detti eredi, in quanto subentrati in quella che idealmente sarebbe stata la quota riferibile, secondo la giurisprudenza consolidata di questa Corte, alla loro madre, se avesse potuto ereditare in mancanza di premorienza.

Poiche’ l’esame dei motivi suppone necessariamente la considerazione dell’esattezza in iure in via generale dell’orientamento consolidato favorevole alla divisione per quote eguali fra tutti gli eredi, questa Corte, nell’esercizio dei sui poteri di individuazione dell’esatto diritto applicabile, puo’ e deve interrogarsi su detta esattezza. E cio’, perche’, se fosse negata, i motivi potrebbero essere per cio’ solo accolti.

Le svolte argomentazioni si giustificano sulla base del seguente principio di diritto: «In ragione della funzione del giudizio di legittimita’ di garantire l’osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, nonche’ per omologia con quanto prevede la norma di cui al secondo comma dell’art. 384 cod. proc. civ. (la’ dove consente la salvezza dell’assetto di interessi, per come regolato dalla sentenza di merito, allorquando la soluzione della questione di diritto data dalla sentenza impugnata sia errata e, tuttavia, esista una diversa ragione giuridica, che, senza richiedere accertamenti di fatto, sia idonea a giustificare la soluzione della controversia sancita dal dispositivo della sentenza in relazione alla questione sollevata dal motivo di ricorso), deve ritenersi che, nell’esercizio del potere di qualificazione in diritto dei fatti, la Corte di cassazione puo’ ritenere fondata la questione, sollevata dal ricorso, per una ragione giuridica diversa da quella specificamente indicata dalla parte e individuata d’ufficio, con il solo limite che tale individuazione deve avvenire sulla base dei fatti per come accertati nelle fasi di merito ed esposti nel ricorso per cassazione e nella stessa sentenza impugnata, senza cioe’ che sia necessario l’esperimento di ulteriori indagini di fatto, fermo restando, peraltro, che l’esercizio del potere di qualificazione non deve inoltre confliggere con il principio del monopolio della parte nell’esercizio della domanda e delle eccezioni in senso stretto, con la conseguenza che resta escluso che la Corte possa rilevare l’efficacia giuridica di un fatto se cio’ comporta la modifica della domanda per come definita nelle fasi di merito o l’integrazione di una eccezione in senso stretto.» (Cass. n. 19132 del 2005; in senso conforme: Cass. n. 20328 del 2006; n. 24183 del 2006; 6935 del 2007; n.4994 del 2008; (ord.) n. 10841 del 2011; da ultimo Cass. n. 3437 del 2014).

  • 5. Tanto premesso, si rileva che la polizza stipulata dal defunto Caio Caio era stata pattuita con la previsione per il “caso morte” della individuazione come beneficiari degli “eredi testamentari dell’assicurato” o, in mancanza testamento, dei “di lui eredi legittimi“.
  • 5.1. Il Collegio e’ consapevole che l’interpretazione di una simile clausola e’ nel senso ritenuto sia dal primo giudice che dalla Corte territoriale.

Quest’ultima, senza richiamarla ha ritenuto legittimo che la societa’ assicuratrice avesse pagato l’indennizzo ripartendolo in tre quote eguali alla qui ricorrente ed ai nipoti del de cuius, sulla base della giurisprudenza consolidata di questa Corte, che e’ ferma su principi di diritto, che risultano espressi;

  1. a) dall’affermazione di Cass. n. 4484 del 1994, nel senso che: ”Nel contratto di assicurazione per il caso di morte, il beneficiario designato e’ titolare di un diritto proprio, derivante dal contratto, alla prestazione assicurativa.

Qualora il contratto preveda che l’indennizzo debba essere corrisposto agli “eredi legittimi o testamentari“, tale designazione concreta una mera indicazione del criterio per la individuazione dei beneficiari, i quali sono coloro che rivestono, al momento della morte del contraente, la qualita’ di chiamati all’eredita’, senza che rilevi la (successiva) rinunzia o accettazione dell’eredita’ da parte degli stessi” (Cass. n. 4484 del 1994);

  1. b) dall’affermazione, piu’ articolata, di Cass. n. 9388 del 1994 nel senso che «Nel contratto di assicurazione contro gli infortuni a favore del terzo, cui si applica la disciplina dell’assicurazione sulla vita, la disposizione contenuta nell’art. 1920, comma 3, cod. civ. (secondo cui, per effetto della designazione, il terzo acquista un diritto proprio ai vantaggi dell’assicurazione) deve essere interpretato nel senso che il diritto del beneficiario alla prestazione dell’assicuratore trova fondamento nel contratto ed e’ autonomo, cioe’ non derivato da quello del contraente. Pertanto, quando in un contratto di assicurazione contro gli infortuni, compreso l’evento morte, sia stato previsto, fin dall’origine, che l’indennita’ venga liquidata ai beneficiari designati o, in difetto, agli eredi, tale clausola va intesa nel senso che il meccanismo sussidiario di designazione del beneficiario e’ idoneo a far acquistare agli eredi i diritti nascenti dal contratto stipulato a loro favore (art. 1920, comma secondo e terzo, cod. civ.). Mentre l’individuazione dei beneficiari-eredi va effettuata attraverso l’accertamento della qualita’ di erede secondo i modi tipici di delazione dell’eredita’ (testamentaria o legittima: artt. 475, comma primo, e 565 cod. civ.) e le quote tra gli eredi, in mancanza di uno specifico criterio di ripartizione, devono presumersi uguali, essendo contrattuale la fonte regolatrice del rapporto e non applicandosi, quindi, la disciplina codicistica in materia di successione con le relative quote. (Nella specie, trattavasi di successione legittima del coniuge con i genitori ed i fratelli del “de cuius”).”;
  2. c) dall’affermazione conseguente che «Poiche’ nel contratto di assicurazione per il caso di morte il beneficiario designato acquista, ai sensi dell’art. 1921 cod. civ., un diritto proprio derivante dal contratto alla prestazione assicurativa (salvi gli effetti dell’eventuale revoca della designazione ex arart. 1921 cod. civ.), l’eventuale designazione dei terzi beneficiari con la categoria degli eredi legittimi o testamentari non vale ad assoggettare il rapporto alle regole della successione ereditaria ,atteso che tale designazione concreta una mera indicazione del criterio per la individuazione dei beneficiari, i quali sono coloro che rivestono, al momento della morte del contraente, la qualita’ di chiamati all’eredita’, senza che rilevi la (successiva) rinunzia o accettazione dell’eredita’ da parte degli stessi.» (Cass. n. 6531 del 2006).

Il Collegio e’ consapevole che la dottrina del diritto delle assicurazioni concorda con i riportati principi e con quello che ne costituirebbe il fondamento, siccome lumeggiato particolarmente dalla seconda decisione.

  • 5.2. Il Collegio reputa, tuttavia, che tale fondamento non resista affatto ad una considerazione delle polizze che prevedono clausole come quella di cui alla polizza di cui e’ processo sulla base della corretta applicazione dei criteri ermeneutici della materia contrattuale.

L’assunto che clausole simili si debbano interpretare nel senso che impongano, ai fini della individuazione del beneficiario, soltanto l’individuazione secondo le regole della successione verificatasi e contemplata dalla clausola, di chi sia erede dello stipulante per il caso di morte, ma non, in mancanza di espresso riferimento anche alla posizione di erede quanto alla ripartizione dell’eredita’ (e, dunque, alla ripartizione secondo le regole della successione legittima o secondo le regole della successione testamentaria), e’ innanzitutto privo di giustificazione sul piano dell’ esegesi letterale, atteso che, secondo il senso letterale dell’espressione “erede”, tanto se l’eredita’ sia stata devoluta ab intestato quanto se sia stata devoluta per testamento, l’evocazione con detta espressione della figura dell’erede non puo’ che implicare un riferimento non solo al modo in cui chi tale qualita’ e’ stata acquisita e, quindi, alla fonte della successione, ma anche alla dimensione di tale acquisizione e, dunque, al valore della posizione ereditaria secondo quella fonte.

Si vuol dire, cioe’ che il dire che qualcuno e’ erede di un soggetto significa, secondo l’espressione letterale, evocare tanto chi lo e’ quanto anche in che misura lo e’: il carattere polisenso dell’espressione letterale esclude che la presenza in una polizza assicurativa di un riferimento agli eredi sic et simpliciter come beneficiari per il caso di morte dello stipulante possa intendersi di per se’ significativa solo dell’individuazione della qualita’ e non anche della misura della posizione ereditaria.

Ma la pretesa di intendere secondo i criteri dell’ esegesi letterale nel modo voluto dall’orientamento da cui si dissente clausole come quelle di cui e’ processo, le quali contengono un espresso riferimento alla natura della devoluzione, cioe’ alla devoluzione legittima o testamentaria, appare ancora meno fondata alla stregua sempre dei criteri che debbono presiedere all’esegesi letterale: invero, l’uso in clausole siffatte dell’espresso riferimento al modo della devoluzione, per il fatto stesso che essa avviene secondo il titolo di successione ma, proprio per cio’, necessariamente secondo i criteri di riparto dell’eredita’ indicati dalla legge e dal testamento, non si comprende come possa essere limitativo della volonta’ di riferirsi non solo al titolo ma anche alla misura della successione.

  • 5.3. Ove, poi, si passi all’uso doveroso, secondo il paradigma dell’arart. 1362 c.c., del criterio dell’interpretazione secondo la comune intenzione delle parti, e’ sufficiente interrogarsi su che cosa comunemente si intenda per erede ah intestato e per erede testamentario e, dunque, riflettere sul fatto che quanto lo stipulante e la societa’ assicuratrice prevedono per il caso di morte dello stipulante come beneficiari gli eredi legittimi in mancanza di eredi testamentari, la comune intenzione delle parti non puo’ che essere se non quella di voler alludere alla misura in cui la successione secondo l’uno a l’altro titolo si verifichera’.

Infatti: aa) dal punto di vista dello stipulante, premesso che egli puo’ aver gia’ fatto testamento e, dunque, ripartito fra gli eredi designati la sua eredita’, oppure, non avendolo fatto ed avendo in animo di farlo, e’ palese che l’intenzione di attribuire il beneficio a chi sara’ erede per il caso di sua morte, tanto nel primo caso quanto nel secondo non puo’ che riferirsi alla misura della chiamata disposta o da disporsi oppure, nel primo caso, a quella emergente da un futuro nuovo testamento o dall’eventuale revoca di quello esistente o con sostituzione con altro o senza farne un altro e quindi dalla misura della chiamata secondo la successione legittima: solo la presenza di elementi testuali contrari e diretti a contraddire che l’attribuzione del beneficio sia egualitaria per tutti coloro che saranno eredi puo’ escludere che l’intenzione dello stipulante sia nei detti sensi; bb) sempre dal punto di vista dello stipulante, qualora egli non avesse fatto testamento, la previsione della attribuzione agli eredi testamentari o legittimi senza la previsione dell’egualitarismo si presta solo ad esprimere l’intenzione di un’attribuzione proporzionata alla misura in cui ciascuno dei sui futuri eredi sara’ tale: appare forzatura ridimensionakice priva di giustificazione l’altra ricostruzione; cc) anche l’intenzione dal punto di vista della societa’ assicuratrice non puo’ non prestarsi ad essere ricostruita nei sensi indicati.

Che l’intenzione comune alle parti debba essere considerata quella di far riferimento sia al modo che alla misura della successione che si verifichera’ e che risulti contemplata risulta conclusione giustificata per il fatto stesso che bene lo stipulante potrebbe, nell’individuare come beneficiari gli eredi testamentari o legittimi, specificare che essi non lo saranno in modo corrispondente alla quota di eredita’ devoluta, ma in misura egualitaria o diversa. Ne segue che nel silenzio dello stipulante la comune intenzione delle parti va ricostruita nel senso indicato.

Anche il criterio della c.d. interpretazione teleologica giustifica, dunque, la ricostruzione del significato delle clausole in discorso nel senso che lo scopo perseguito dalle parti e segnatamente dallo stipulante e’, conforme alla natura dell’assicurazione sulla morte, quello di attribuire il beneficio nello stesso modo in cui risultera’ regolata la sua successione.

Se si interroga il buon senso dell’uomo comune e si propone di intendere le dette clausole come le intende l’orientamento da cui si dissente, la risposta non potra’ che essere nel senso dell’assoluta incomprensibilita’, di fronte alla stipulazione della spettanza agli eredi legittimi o testamentari, di un significato che non sia quello del rifermento alla devoluzione ereditaria sia quanto all’individuazione degli eredi sia quanto alla misura della loro successione.

E tanto evidenzia che anche dal punto di vista dell’intenzione della societa’ assicuratrice circa il contenuto della clausola non possono sussistere dubbi sulla duplicita’ di tale individuazione.

  • 5.4. L’assunto della giurisprudenza da cui si dissente che il diritto nascente dal contratto deriva da esso come pattuizione a favore di terzo e non puo’ essere identificato con un rinvio alle regole della devoluzione testamentaria o legittima, in disparte la sua incomprensibilita’ la’ dove volesse evocare una diretta efficacia di detta devoluzione circa l’individuazione dei beneficiari, non trova alcuna giustificazione al contrario proprio sul piano della ricostruzione della volonta’ contrattuale espressa nella stipulazione.

Come s’e’ veduto e’ sul piano della stessa volonta’ contrattuale che il pur generico riferimento agli eredi testamentari o legittimi nell’intenzione di chi stipula vuole individuare non solo il beneficiario nella sua qualita’ di erede in senso generico, bensi’ anche nel valore che la posizione assume, o per testamento o per legge, all’interno della successione. Pensare che la genericita’ del riferimento agli eredi sottenda che l’indennizzo dovra’ essere attribuito a favore loro per parti eguali e’ una forzatura, che fa violenza al criterio di esegesi letterale, a quello teleologico ed in definitiva al buon senso dell’uomo comune.

D’altro canto, la stessa sottolineatura che la criticata giurisprudenza fa al fatto che il diritto nasce dal contratto e non dalla successione non si comprende come e perche’ debba giuocare solo ai fini dell’individuazione degli eredi e non della misura della loro attribuzione.

Che il secondo comma dell’art. 1920 c.c. attribuisca al terzo erede un diritto proprio e’ principio che riguarda il rapporto contrattuale fra l’assicuratore e il terzo, ma che non si comprende come possa giustificare la totale pretermissione della stessa volonta’ contrattuale ricostruita letteralmente e telelogicamente come qui prospettato. E’ proprio secondo il tenore del contratto e, quindi, in forza dl contratto che il destinatario e’ individuato sia con riferimento alla devoluzione ereditaria che alla sua misura.

Si puo’ opinare che la tesi criticata abbia fondamento tanto nella dottrina delle assicurazioni che l’ha prospettata quanto nella giurisprudenza che l’ha abbracciata in un intento di semplificazione della posizione dell’assicuratore, nel senso di assegnare ad esso una posizione di comodo qual e’ quella che, all’esito della sola dimostrazione della qualita’ di erede da parte di ciascuno dei successori si risolve nel pagare l’indennizzo ripartendolo in quote eguali, una volta appunto palesatisi gli eredi, anziche’ tener conto della quota di ognuno, il che potrebbe portare ad una maggiore lungaggine della fase di liberazione dell’assicuratore dall’obbligo assicurativo.

Ma, se tale esigenza costituisce la surrettizia giustificazione della tesi criticata, in disparte l’assoluta carenza di fondamento sopra evidenziata secondo le regole dell’ermeneutica contrattuale, si tratterebbe di giustificazione che sarebbe priva di alcun fondamento pratico, atteso che la stessa dimostrazione da parte degli eredi della loro qualita’, specie se vi siano contrasti fra loro, puo’ comportare che la situazione non trovi immediatezza di definizione da parte dell’assicuratore.

Si deve aggiungere che l’interpretazione criticata, la’ dove intende le clausole come quelle di cui e’ processo nel senso che si debbano interpretare come dirette ad attribuire agli eredi una quota dell’indennizzo proporzionale alla quota ereditaria, costituisce piana applicazione del criterio indicato dalla legge nell’art. 1314 c.c., posto che esso impone proprio di dividere l’obbligazione di indennizzo per la parte che corrisponde alla posizione di ciascun erede, e cio’ perche’ questa e’ quella che la norma definisce come la “sua parte”.

  • 6. Il secondo, terzo e quarto motivo sono dunque accolti nei sensi di cui in motivazione sulla base del principio di diritto secondo cui:«Nel contratto di assicurazione contro gli infortuni a favore del terzo, cui si applica la disciplina dell’assicurazione sulla vita, la disposizione contenuta nell’arart. 1920, terzo comma, cod. dv. (secondo cui, per effetto della designazione, il terzo acquista un diritto proprio ai vantaggi dell’assicurazione) deve essere interpretato nel senso che il diritto del beneficiario alla prestazione dell’assicuratore trova fondamento nel contratto ed e’ autonomo, cioe’ non derivato da quello del contraente. Quando in un contratto di assicurazione sulla vita sia stato previsto per il caso di morte dello stipulante che l’indennizzo debba corrispondersi agli eredi tanto con formula generica, quanto e a maggior ragione con formulazione evocativa degli eredi testamentari o in mancanza degli eredi legittimi, tale clausola, sul piano della corretta applicazione delle norme di esegesi del contratto e, quindi, conforme a detta disposizione, dev’essere intesa sia nel senso che le parti abbiano voluto tramite dette espressioni individuare per relationem con riferimento al modo della successione effettivamente verificatosi negli eredi chi acquista i diritti nascenti dal contratto stipulato a loro favore (arart. 1920, comma secondo e terzo, cod. civ.), sia nel senso di correlare l’attribuzione dell’indennizzo ai piu’ soggetti cosi’ individuati come eredi in misura proporzionale alla quota in cui ciascuno e’ succeduto secondo la modalita’ di successione effettivamente verificatasi, dovendosi invece escludere che, per la mancata precisazione nella clausola contrattuale di uno specifico criterio di ripartizione che a quelle modalita’ di individuazione delle quote faccia riferimento, che le quote debbano essere dall’assicuratore liquidate in misura eguale.».

Nella specie alla ricorrente, in quanto moglie dello stipulante deceduto ab intestato, si sarebbero dovuti riconoscere, nel concorso dei due nipoti ex sorore per diritto di rappresentazione, addirittura i due terzi dell’indennizzo, concorrendo essa appunto con i nipoti (art. 582 c.c.).

Il giudice di invio, che si designa in altra sezione della Corte lagunare, comunque in diversa composizione, peraltro, nell’applicare il detto principio f ? ? di diritto terra’ conto che la ricorrente non ha rivendicato la differenza fra il terzo liquidatogli conforme all’indirizzo qui disatteso ed i due terzi che le , sarebbero spettati, bensi’ la differenza fino alla concorrenza della meta’ del’indermizzo e, pertanto della limitazione del petitum in tal senso dovra’ necessariamente tenere conto.

Al giudice di rinvio e’ rimesso il regolamento delle spese del giudizio di cassazione.

  1. Q. M.

La Corte dichiara inammissibile il primo motivo di ricorso. Accoglie per quanto di ragione gli altri e cassa la sentenza impugnata. Rinvia ad altra sezione della Corte d’Appello di Venezia, comunque in diversa composizione anche per le spese del giudizio di cassazione.

Così deciso nella Camera di consiglio della Terza Sezione Civile il 28.09.15

Frode commerciale: etichetta attestante il prodotti “Nichel free”

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 7 marzo – 31 luglio 2017, n. 37983 Presidente Cavallo – Relatore Mengoni

Ritenuto in fatto

  1. Con sentenza del 6/5/2015, il Tribunale di Macerata assolveva Wu. Li. dall’imputazione di cui all’art. 515 cod. pen., perché il fatto non sussiste; pur accertata la messa in vendita – con etichetta “Nickel free” o “senza nichel” – di 587 monili vari in realtà contenenti tale metallo, peraltro in concentrazione superiore al consentito, il Giudice riscontrava che gli stessi oggetti non risultavano ceduti ad alcuno, e che non poteva esser configurato neppure il tentativo del reato, non ravvisandosi nessuna contrattazione in atto. 2. Propone ricorso per cassazione il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Ancona, deducendo – con unico motivo -l’inosservanza o erronea applicazione della legge penale. Il Giudice non avrebbe considerato che il tentativo del delitto in esame è ben configurabile a fronte della destinazione alla vendita del prodotto diverso, per origine, provenienza, qualità o quantità, da quello dichiarato o pattuito, come nel caso di specie.

Considerato in diritto

Preliminarmente si osserva che la presente motivazione è redatta in forma semplificata, ai sensi del decreto n. 68 del 28/4/2016 del Primo Presidente di questa Corte. 3. Il ricorso è fondato. Premesso che risulta pacifica la condotta della Wu. come accertata nei termini indicati, osserva il Collegio che – giusta costante e condiviso indirizzo di legittimità – la messa in vendita di prodotti non regolamentari integra il tentativo del reato di frode in commercio, poiché costituisce un aspetto della condotta che non è estraneo allo stadio della trattativa negoziale, risolvendosi, per il luogo di esposizione della merce, in un’offerta al pubblico e perciò configurandosi concretamente come una proposta contrattuale; sicché, non costituendo il contatto con la clientela un elemento necessario per integrare il tentativo del delitto in oggetto (Sez. 3, n. 9276 del 19/01/2011, Fa., Rv. 249784), la stessa messa/esposizione in vendita è condotta pienamente idonea e diretta in modo non equivoco alla conclusione dell’accordo finale, e quindi alla consumazione della frode commerciale di cui all’art. 515 cod. pen., se di questa ricorrono gli elementi oggettivi e soggettivi (Sez. U, n. 28 del 25/10/2000, Mo., Rv. 217295; successivamente, tra le altre, Sez. 3, n. 44340 del 30/9/2015, Ol., Rv. 265237; Sez. 3, n. 42953 del 9/7/2014, Hu., Rv. 265567). Il Tribunale, pertanto, ha errato nel negare la configurabilità del tentativo del reato in esame, assumendo che – al momento del controllo – nessuno stesse acquistando la merce di cui trattasi; tale circostanza di fatto, invero, non costituisce elemento essenziale della fattispecie. La sentenza, pertanto, deve essere annullata con rinvio, affinché il Giudice si adegui al principio di diritto indicato.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio al Tribunale di Macerata in diversa composizione, Così deciso in Roma, il 7 marzo 2017

Agenzia. Può il mandante recedere dal rapporto per il mancato conseguimento del minimo di affari da parte dell’agente di commercio?

“Con riguardo alla clausola risolutiva espressa prevista dall’art.6.3 del contratto individuale, va condiviso quanto espresso sul punto da Corte Cass. 18/5/2011 n.10934, secondo cui in caso di ricorso da parte del preponente ad una clausola risolutiva espressa, tale clausola può ritenersi valida nei limiti in cui (oltre a non porsi in contrasto con eventuali previsioni in materia di accordi collettivi applicabili al rapporto) non venga a giustificare un recesso in tronco attuato in situazioni concrete e con modalità a norma di legge o di accordi collettivi non legittimanti un recesso per giusta causa, sicché in tali casi il giudice deve comunque verificare che sussista un inadempimento colpevole dell’agente integrante giusta causa di recesso.” ( Tribunale di Reggio Emilia, Sentenza 10 maggio 2017, n. 141)

Testo della sentenza

REPUBBLICA ITALIANA

TRIBUNALE DI REGGIO EMILIA

SETTORE LAVORO

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Giudice del lavoro di Reggio Emilia, dott. Elena Vezzosi, ha pronunciato la seguente

SENTENZA

Nel procedimento n. 906/2015 R.G.L. promosso da:

X , (C.F. ***), rappresentata e difesa dall’avv. Giulio Cesare Bonazzi del Foro di Reggio Emilia

-ricorrente-

contro

ALFA S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, signor Selmi Carlo, rappresentata e difesa dall’avv. Monica Rustichelli

-resistente-

 

in punto a: indennità cessazione rapporto, indennità di mancato preavviso, altri importi provvisionali

 

FATTO E DIRITTO

Con ricorso depositato in cancelleria il 17/9/2015 la sig. X conveniva in giudizio dinanzi al Giudice del Lavoro di Reggio Emilia la società ALFA s.p.a. chiedendo dichiararsi la nullità/illegittimità della clausola risolutiva espressa contenuta nel contratto inter partes, l’assenza di giusta causa nel recesso operato dalla mandante in data 4/3/2015 dal contratto di agenzia, ed il conseguente pagamento della somma di Euro 41.325,10 a titolo di indennità di mancato preavviso, € 39.953,61 a titolo di indennità ex art.1751 c.c., oltre a provvigioni su specifici ordini; il tutto con accessori su tali somme dalla cessazione del rapporto al saldo.

La ricorrente esponeva di aver svolto dal 13/1/2010 attività di agente in favore della convenuta –che opera nel settore della produzione e commercializzazione di materiali ceramici- per una parte della Francia (cfr. doc. 1) con reciproca soddisfazione; finchè, del tutto inaspettatamente, con RAR del 4/3/2015 la mandante recedeva ad nutum dal contratto di agenzia per asserita giusta causa (cfr. doc.8), invocando sia gli effetti della clausola risolutiva espressa (art.6 contratto), sia comunque l’art.12, a causa del mancato raggiungimento del budget minimo per l’anno 2014.

La ricorrente afferma non solo di essersi sempre conformata alle direttive aziendali e di aver ottenuto ottimi risultati complessivi in corso di rapporto (a fronte, per altro, della sottrazione da parte dell’azienda, nell’ottobre 2013, dell’importante cliente TRAFFIC 89 s.a.s.); ma che la condotta di ALFA fosse solo strumentale ad omettere il pagamento delle provvigioni su un consistente ordine perfezionatosi successivamente al recesso ma dovuto all’attività dell’agente nei mesi precedenti.

Si costituiva nei termini la società convenuta contestando il contenuto del ricorso e le pretese a credito.

In particolare ALFA evidenziava la legittimità della clausola risolutiva espressa, ed in ogni caso il netto calo del fatturato nella sola zona di competenza della X, a fronte invece di un complessivo incremento delle vendite su tutto il resto della Francia; mentre, con riguardo al cliente TRAFFIC, affermava che sia stato lo stesso cliente a chiedere di essere seguito direttamente dall’azienda a causa dei cattivi rapporti interpersonali con l’agente.

Dopo alcuni rinvii tesi ad una conciliazione, è stata disposta CTU contabile affidata al dr. De Luca; ed all’udienza odierna del 09.05.2017 esaurita la discussione orale, la causa è stata decisa come da sentenza contestuale letta in udienza all’esito della camera di consiglio.

Il ricorso è in parte fondato e va pertanto accolto.

Con riguardo alla clausola risolutiva espressa prevista dall’art.6.3 del contratto individuale[1], la scrivente aderisce (in buona compagnia: cfr. Corte d’Appello Milano 23/7/2013 n.218, Corte d’Appello di Bologna 27/8/2014; Tribunale Pescara sez. lav. 08 luglio 2016 n. 691) a quanto espresso sul punto da Corte Cass. 18/5/2011 n.10934, secondo cui in caso di ricorso da parte del preponente ad una clausola risolutiva espressa, tale clausola può ritenersi valida nei limiti in cui (oltre a non porsi in contrasto con eventuali previsioni in materia di accordi collettivi applicabili al rapporto) non venga a giustificare un recesso in tronco attuato in situazioni concrete e con modalità a norma di legge o di accordi collettivi non legittimanti un recesso per giusta causa, sicché in tali casi il giudice deve comunque verificare che sussista un inadempimento colpevole dell’agente integrante giusta causa di recesso.

Quanto poi a questo istituto, previsto dall’art. 2119 c. 1° c.c. in relazione al contratto di lavoro subordinato, esso è applicabile anche al contratto di agenzia, dovendosi tuttavia tener conto, per la valutazione della gravità della condotta, che in quest’ultimo ambito il rapporto di fiducia in corrispondenza della maggiore autonomia di gestione dell’attività per luoghi, tempi, modalità e mezzi, in funzione del conseguimento delle finalità aziendali- assume maggiore intensità rispetto al rapporto di lavoro subordinato, sicché ai fini della legittimità del recesso, è sufficiente un fatto di minore consistenza (cfr. tra le più recenti Cass. Sez. L. n. 11728 del 26/05/2014 rv. 631050).

Va per concludere ricordato come la giusta causa di recesso sia qualificata dalla norma come il verificarsi di una causa che non consenta la prosecuzione, neanche provvisoria del rapporto di lavoro, e la giurisprudenza è a sua volta assestata nel riconoscere a questa ipotesi connotati di particolare, intensa gravità, legati soprattutto (e soprattutto in materia di agenzia) alla violazione del vincolo fiduciario tra le parti.

In punto di fatto va allora esaminata la causa di recesso contestata da COEN, e cioè sostanzialmente il mancato raggiungimento da parte della X del budget minimo di vendita fissato per l’anno 2014 in € 610.000 (RAR del 8/1/2014, doc.6 ric).

Se da un lato non è contestato che l’agente non abbia raggiunto quel budget (per altro progressivamente aumentato rispetto agli anni precedenti: nel 2010 era pari a € 480.000, nel 2011 € 550.000, nel 2012 590.000, nel 2013 580.000 –cfr. doc.16 ric.), è stato accertato dal CTU (pg.30 perizia; doc.12 conv., che lo stesso CTU dichiara più attendibile del doc.7) che le vendite effettuate dalla ricorrente nell’anno 2014 ammontano ad € 525.749,00, pertanto lo scollamento dal budget è di una percentuale di circa il 13% in meno, percentuale da considerarsi sostanzialmente modesta o comunque di non tale gravità (a fronte dei successi della X nei 4 anni precedenti) da determinare un recesso immediato dal rapporto; certamente lo scostamento dal budget non può definirsi “eclatante” come iperbolicamente esposto dalla società.

Va inoltre osservato come nell’ottobre 2013 alla stessa fosse stato tolto il cliente Traffic (doc.4 ric;) e tale circostanza ha senza dubbio influito sull’andamento del fatturato, poiché esso cliente (anche qualora non raggiunga il vertice di acquisti dell’anno 2013, ove ha comprato per € 252.474 -doc.5 ric.; dato non contestato da COEN) è comunque importante, dal momento che il fatturato medio annuale dello stesso è superiore ai 150mila euro (cfr. doc.12 conv.). Va poi notato che sommando il fatturato Traffic dell’anno 2014 (che è stato singolarmente basso rispetto alla media di cui s’è dato conto, attestandosi in € 120.257,01 –sempre doc.12) a quello prodotto dalla ricorrente, la stessa avrebbe superato il budget minimo concordatocon ALFA (€ 525.749,00 + € 120.257,01= € 646.006); sicchè a maggior ragione l’esclusione di questo cliente ha pesato sul mancato raggiungimento del budget e comunque ha avuto un ruolo determinante nell’andamento degli affari. Va osservato infatti che Traffic era un cliente consolidato e sul quale la X poteva fare affidamento per l’assolvimento degli obblighi contrattuali: venuto meno lo stesso, la stessa ha dovuto riorganizzare il suo ‘giro’ clienti con evidente maggiore difficoltà rispetto ad una gestione consolidata dei contatti e delle visite. Non pare strano che dunque l’anno 2014 ne abbia risentito in termini di un minor risultato economico, il che non corrisponde ad un minore impegno di tempo ed energie di lavoro (anzi, semmai proprio il contrario); avendo per altro dimostrato la ricorrente di avere comunque in quell’anno procacciato due nuovi clienti.

Per altro, è stato anche dimostrato (e comunque accertato dal CTU) che l’andamento dell’anno 2015 si prospettava molto positivo per la zona X, dal momento che nel 2015 si assiste ad una netta ripresa delle vendite ed è stato verificato un fatturato, relativo a 9 mesi, pari ad € 538.814 (pg.30 CTU): di questa ripresa positiva ha avuto merito certamente la stessa X, sia perché è stata in forza all’azienda a tutti gli effetti per i primi tre mesi dell’anno, sia perché già nel 2014 ha dato prova di aver gettato le basi per un futuro lucroso affare con il cliente Pedrazzini per € 144.011,52 (pg.11 CTU).

Una condotta contrattuale di buona fede doveva portare COEN a valutare l’andamento in flessione degli ordini X dell’anno 2014 come transitorio e connesso con la sottrazione del cliente Traffic o comunque con fluttuazioni dell’andamento del mercato possibili di ripresa; ciò avrebbe consentito di attendere gli esiti –anche parziali- del 2015 e di prendere le conseguenti decisioni.

Va infine notato che nessun precedente accenno, prima della lettera di recesso, è stato fatto alla lavoratrice (la cui anzianità senza macchie avrebbe meritato) in corso d’anno richiamandola ad una maggiore attenzione al proprio portafoglio.

Peraltro, non emerge in alcun modo che il contestato calo di fatturato sia significativo del sostanziale disinteresse dell’agente nella cura della zona affidata, o sia altrimenti imputabile, e per quali ragioni, alla ricorrente, ed anzi lo scostamento dei risultati raggiunti dalla ricorrente non appare significativo, se comparato alla media degli altri agenti di zone limitrofe e a quelli raggiunti nell’anno precedente dalla medesimo agente, come risultanti dalla documentazione prodotta, sicché la contestazione appare destituita di fondamento sotto l’aspetto della condotta tenuta dalla lavoratrice (cfr., in materia di qualificabilità dello scarso rendimento come giusta causa di recesso dal rapporto di agenzia, Cass. Sez. L. n. 16772 del 17/07/2009 rv. 610330 e Cass. Sez. 2 n. 6008 del 17/04/2012 rv. 622285).

Sul punto, come esattamente osserva la difesa della ricorrente nelle note finali, i dati di comparazione tra l’operato X e gli altri agenti operanti in Francia offerti da COEN non appaiono omogenei tra loro, sia perché ogni zona presidiata ha le proprie peculiarità produttive e occupazionali (oltre che diversa estensione territoriale), sia perché non è coerente paragonare il fatturato di un solo agente – peraltro organizzato in maniera individuale – con la sommatoria dei fatturati di tutti gli altri agenti francesi.

L’erroneità di un siffatto confronto è facilmente riscontrabile laddove invece di prendere in considerazione il fatturato globale di tutta la Francia si proceda a una disamina dei fatturati dei singoli agenti ALFA (doc. 5 primo foglio fascicolo ALFA) e si raffrontino con quello raggiunto dalla signora X, dal momento che così procedendo si verifica che:

– nel 2010 la signora X ha fatturato secondo le stime del CTU 490.568,00 euro (pag. 30). Tra gli altri 19 agente ALFA per la Francia posti come termine di paragone da ALFA, l’unico che ha avuto un fatturato superiore è stato Eurocem Agence Commerciale che ha fatturato 519.444,72 (cfr. sub doc. 5 fascicolo ALFA) quello che segue la X ha fatturato 222.209,68 euro (ovvero meno della metà del fatturato X);

– nel 2011 la signora X ha fatturato secondo le stime del CTU 555.857,00 euro (pag. 30). Tra gli altri 19 agente ALFA per la Francia posti come termine di paragone da ALFA, nessuno ha fatturato più della X, quello che la segue è Eurocem Agence Commerciale che ha fatturato 489.110,92 euro (cfr. sub doc. 5 fascicolo ALFA), gli altri hanno fatturato meno della metà di quest’ultimo;

– nel 2012 la signora X ha fatturato secondo le stime del CTU 495.506,00 euro (pag. 30). Tra gli altri 19 agente ALFA per la Francia posti come termine di paragone da ALFA, nessuno ha fatturato più della X, quello che la segue è Eurocem Agence Commerciale che ha fatturato 323.152,34 (cfr. sub doc. 5 fascicolo ALFA), gli altri agenti hanno fatturato al massimo 195.398,69 e così solo a diminuire sino a arrivare a euro 311,02.

– nel 2013 la signora X ha fatturato secondo le stime del CTU 602.151,00 euro (pag. 30). Tra gli altri 19 agente ALFA per la Francia posti come termine di paragone da ALFA, nessuno ha fatturato più della X, quello che la segue è NB Diffusion sarl che ha fatturato 510.191,00 (cfr. sub doc. 5 fascicolo ALFA), gli altri agenti hanno fatturato al massimo 165.242,00 euro e così solo a diminuire sino a arrivare a euro 600,60.

– nel 2014 la signora X ha fatturato secondo le stime del CTU 525.749,00 euro (pag. 30). Tra gli altri 19 agente ALFA per la Francia posti come termine di paragone da ALFA, l’unico che ha avuto un fatturato superiore è stata una società, la NB Diffusion sarl, che ha fatturato 679.999,24 (cfr. sub doc. 5 fascicolo ALFA) quello che segue la X ha fatturato 135.758,35 euro (ovvero poco più di 1/5 del fatturato X).

Pare conclusivamente da escludere –per tutto quanto sino ad ora osservato- che al momento del recesso in tronco esistessero elementi di tale gravità da non consentire la prosecuzione, neanche provvisoria del rapporto di lavoro; men che meno si riscontrano nei fatti esaminati elementi –anche semplicemente indiziari- che evidenzino da parte della X violazione del vincolo fiduciario tra le parti.

 

A questo punto, per dirla con la Cassazione, “In tema di rapporto di agenzia, il recesso dell’agente per giusta causa si converte, ove si accerti l’insussistenza di quest’ultima e salvo che non emerga una diversa volontà dell’agente medesimo, in un recesso senza preavviso, che determina la riespansione del diritto della controparte a percepire le previste indennità ed all’eventuale risarcimento del danno” (Cass.Sez. 2, Sentenza n. 19579 del 30/09/2016).

Quindi alla ricorrente è dovuto il preavviso semestrale commutato in indennità, e le terminative di rapporto.

Per quantificare queste poste, è necessario risolvere la questione relativa all’ordine del cliente Pedrazzini, e cioè se per quest’ordine (giunto in azienda nel dicembre 2015) la ricorrente abbia diritto alle provvigioni (anche sotto l’aspetto del risarcimento del danno, come è richiesto in ricorso), e dunque se il calcolo del monte provvigionale complessivo –per poi effettuare il calcolo della misura dell’indennità sostitutiva- debba o meno ricomprendere anche questa somma.

La risposta appare negativa.

Se infatti è stato provato dalla X che la stessa lavorò a quell’affare già da novembre 2014, e comunque inviò proposta/preventivo a gennaio 2015, e pervenne in azienda sempre in costanza di rapporto con X (precisamente il 26/2/2015 –doc.7 bis ric.) lettera con richiesta di ‘protezione’ di esso cliente (il che significava una certa conclusione dell’ordine); è dirimente la circostanza che, per le più varie ragioni, l’ordine si è perfezionato solo in data 10/12/2015 (pg.11 CTU), sicché in periodo successivo ai 4 mesi di copertura successivi alla chiusura del contratto d’agenzia, a fronte di quanto previsto in maniera tassativa e inequivoca dall’u.c. dell’art.6 AEC 20/3/2002.

Pertanto, giusto il conteggio del CTU, l’indennità sostitutiva di preavviso della quale ha diritto la ricorrente è pari a € 19.632,74.

Quanto alle terminative, alla ricorrente spetta indennità per lo scioglimento del contratto di cui all’art.10 AEC 2002 nella fattispecie dell’indennità di risoluzione del rapporto e dell’indennità suppletiva di clientela di cui al capo II lett.A, calcolata della CTU in € 6.961,65.

Per chiarire il ragionamento del Giudice, è opportuno ricordare brevemente il regime delle indennità dovute all’agente a seguito della risoluzione del rapporto di agenzia.

Norma fondamentale è l’art. 1751 c.c., che dispone: “All’atto della cessazione del rapporto, il preponente è tenuto a corrispondere all’agente un’indennità se ricorrono le seguenti condizioni: l’agente abbia procurato nuovi clienti al preponente o abbia sensibilmente sviluppato gli affari con i clienti esistenti e il preponente riceva ancora sostanziali vantaggi derivanti dagli affari con tali clienti; il pagamento di tale indennità sia equo, tenuto conto di tutte le circostanze del caso, in particolare delle provvigioni che l’agente perde e che risultano dagli affari con tali clienti.

L’indennità non è dovuta: quando il preponente risolve il contratto per un’inadempienza imputabile all’agente, la quale, per la sua gravità, non consenta la prosecuzione anche provvisoria del rapporto; quando l’agente recede dal contratto, a meno che il recesso sia giustificato da circostanze attribuibili al preponente o da circostanze attribuibili all’agente, quali età, infermità o malattia, per le quali non può più essergli ragionevolmente chiesta la prosecuzione dell’attività; quando, ai sensi di un accordo con il preponente, l’agente cede ad un terzo i diritti e gli obblighi che ha in virtù del contratto d’agenzia.

L’importo dell’indennità non può superare una cifra equivalente ad un’indennità annua calcolata sulla base della media annuale delle retribuzioni riscosse dall’agente negli ultimi cinque anni e, se il contratto risale a meno di cinque anni, sulla media del periodo in questione“.

Quindi, l’art. 10 dell’AEC del 20.2.2002 stabilisce:

” Con la presente normativa le parti intendono dare piena ed esaustiva applicazione all’art. 1751 cod. civ. anche in riferimento alle previsioni dell’art. 17 della Direttiva CEE n. 86/653, individuando con funzione suppletiva modalità e criteri applicativi, particolarmente per quanto attiene alla determinazione in concreto della misura dell’indennità in caso di cessazione del rapporto, e introducendo nel contempo condizioni di miglior favore per gli agenti e rappresentanti di commercio, sia per quanto riguarda i requisiti per il riconoscimento dell’indennità, sia per ciò che attiene al limite massimo dell’indennità, stabilito dal terzo comma del predetto art. 1751 cod. civ. 9 A tal fine si conviene che l’indennità in caso di scioglimento del contratto sarà composta da due emolumenti: l’uno, denominato indennità di risoluzione del rapporto, viene riconosciuto all’agente o rappresentante anche se non ci sia stato da parte sua alcun incremento della clientela e/o del fatturato, e risponde principalmente al criterio dell’equità; l’altro, denominato indennità suppletiva di clientela, è invece collegato all’incremento della clientela e/o del fatturato e intende premiare essenzialmente la professionalità dell’agente o rappresentante. L’indennità in caso di scioglimento del contratto, di cui ai successivi capi I e II, sarà computata su tutte le somme, comunque denominate, percepite dall’agente nel corso del rapporto, nonché sulle somme per le quali, al momento della cessazione del rapporto, sia sorto il diritto al pagamento in favore dell’agente o rappresentante, anche se le stesse non siano state in tutto o in parte ancora corrisposte…”.

L’indennità suppletiva di clientela, come si legge nel capo II dell’art. 10 cit., spetta ” A) all’atto dello scioglimento del contratto di agenzia e rappresentanza commerciale, sarà corrisposta direttamente dalla ditta preponente all’agente o rappresentante, in aggiunta all’indennità di risoluzione del rapporto, di cui al precedente capo I, una indennità suppletiva di clientela, da calcolarsi sull’ammontare globale delle provvigioni e delle altre somme corrisposte o comunque dovute all’agente o rappresentante fino alla data di cessazione del rapporto e relative comunque ad affari conclusi dopo il 1° luglio 1989, secondo le seguenti aliquote (omissis) e B) In aggiunta agli importi previsti al capo I ed alla precedente lett. A), sarà riconosciuto all’agente o rappresentante un ulteriore importo a titolo di indennità suppletiva di clientela, a condizione che, alla cessazione del contratto, egli abbia apportato nuovi clienti al preponente e/o abbia sensibilmente sviluppato gli affari con i clienti esistenti, in modo da procurare al preponente anche dopo la cessazione del contratto sostanziali vantaggi derivanti dagli affari con tali clienti“.

L’indennità prevista dall’art. 1751 c.c. e quella delineata dagli accordi economici collettivi del 2002 alla lett.B sono tra loro alternative, e non cumulative.

Sul punto, è ben noto il percorso giurisprudenziale concernente l’attuazione della direttiva del consiglio Cee del 18 dicembre 1986, culminato nella pronuncia della Corte di Giustizia delle comunità europee del 23 marzo 2006 e nel successivo mutamento di indirizzo della S.C. in favore dell’interpretazione, fino ad allora minoritaria, incentrata sulla necessità di valutare ex post e in concreto il carattere di maggiore o minor favore della disciplina pattizia rispetto a quella legale (su cui, da ultimo, v. Casso civ., sez. lav., 14-01-2016, n. 486; 18413/2013; 15203/2010; 12724/2009; 23966/2008; 13363/2008; 405612008; 68712008; 16347/2007; 9538/2007).

Nel caso di specie. le parti, all’art. 11 del contratto di agenzia (doc. 1), hanno espressamente richiamato ai fini dell’integrazione del contenuto di esso le norme del vigente Accordo Economico Collettivo e alle norme del Codice civile; in questo giudizio, l’agente ha però prospettato il carattere di maggior favore dell’indennità legale rispetto a quella prevista in tali contratti, ritenendo equa la misura della media annua delle retribuzioni riscosse dall’agente negli ultimi cinque anni, invocando la disciplina pattizia solo in via subordinata.

La X chiede l’applicazione del trattamento di miglior favore dell’indennità di cessato rapporto prevista dal richiamato art. 1751 c.c. deducendo di aver acquisito nuovi clienti alla mandante e sviluppato sensibilmente gli affari con quelli preesistenti, continuando la società a ricevere sostanziali vantaggi derivanti dagli affari con tali clienti.

Occorre, quindi, preliminarmente verificare, in fatto, la sussistenza dei presupposti richiesti dalla norma invocata per poi, eventualmente, comparare in concreto l’indennità erogata con quella determinabile in base alla legge.

Sul punto è dirimente quanto accertato dal CTU, che a pg.29 e ss. dell’elaborato precisa come: “Dall’esame di tale documento [il doc.15 COEN ndr] si evince che rispetto ad un totale di 49 clienti “serviti” nel tempo dalla signora X, 33 di essi erano stati serviti nei 3 anni precedenti all’inizio del rapporto (anni 2007, 2008 e 2009) e pertanto si possono considerare non “nuovi”. I 16 “nuovi” sono tutti stati serviti anche negli anni 2014 e/o 2015, con l’eccezione di 2 serviti fino al 2013, e pertanto si possono considerare sostanzialmente “acquisiti”. Tuttavia risulta che solo 24 clienti, tra vecchi e “nuovi” sono stati serviti nell’anno 2014 e nei primi 9 mesi del 2015, pertanto più che di un vero e proprio incremento di clienti, pare potersi parlare di una “sostituzione” di clienti vecchi con i nuovi. Se si include anche il 2013, tali clienti diventano 31, e pertanto ci si ricolloca vicino al numero di clienti di partenza (33). Sotto il profilo dei valori, e tenendo conto che per il 2015 sono riportati soltanto i dati di 9 mesi su 12, si assiste nel 2015 ad una netta ripresa delle vendite, a fronte di un calo piuttosto sensibile nel 2014.

Tra il 2009 (anno precedente all’inizio del rapporto) ed il 2014, vi è una certa confrontabilità di dati, mentre appare un marcato miglioramento conseguito nel 2015…”.

In sostanza, i due dati sostanziali che emergono dall’esame svolto dal CTU sono il pressoché identico numero di clienti facenti capo alla X dal 2009 fino alla cessazione del rapporto, dunque con nessun sostanziale incremento del numero degli acquirenti; nemmeno sotto il profilo dell’aumento del fatturato e/o degli affari si riscontra alcun incremento, dal momento che i dati di partenza -2009- e quelli di arrivo -2015- sono pressoché omogeni. Le differenze di introiti riscontrate negli anni 2014 (in calo) e 2015 (in aumento) sono già state più sopra esaminate: il calo 2014 è verosimilmente dovuto alla perdita del cliente Traffic (ovviamente in alcun modo imputabile all’agente), mentre l’aumento 2015 è spiegato dalla grossa commessa Pedrazzini, ma anche dall’intervento sul precedente territorio di un nuovo agente che –com’è prassi- ha investito nuove risorse ed energie sulla piazza di competenza. Tutti questi elementi non possono dunque essere presi in considerazione per valutare l’effettivo incremento di zona ai sensi dell’art.1751 c.c..

Ne emerge il quadro complessivo di un’agente che ha ben lavorato senza eccellere, mantenendo sostanzialmente il parco clienti e il volume di fatturato iniziale.

Il Tribunale, quindi, osserva che, per costante insegnamento della giurisprudenza di legittimità, l’art. 1751 comma 1 c.c. ha introdotto una indennità avente funzione compensativa del particolare merito dimostrato dall’agente (Cass. civ., sez. lav., 23-06-2010, n. 15203), e dunque è necessario, per il suo riconoscimento, che ricorrano tutti i presupposti indicati dalla norma in disamina: l’aver procurato “nuovi clienti al preponente”, ovvero l’avere “sensibilmente sviluppato gli affari con i clienti esistenti”, e il ricevere da parte del preponente “ancora sostanziali vantaggi derivanti dagli affari con tali clienti”.

Non è quindi sufficiente la mera dimostrazione del procacciamento di nuova clientela, se non permangano “sostanziali vantaggi” dagli affari conclusi con costoro, dove i “vantaggi” di cui si fa menzione non possono che riflettersi sull’incremento di affari e quindi di fatturato; in altre parole, non è immaginabile il riconoscimento dell’indennità meritocratica per apporto di nuovi clienti se tale apporto non abbia incrementato di pari passo gli affari, quale conseguenza dell’ampliamento della clientela che deve, perciò, apportare un aumento di vendite e di incassi.

Nel presente giudizio, a prescindere dal dato numerico dei nuovi clienti procacciati, manca certamente la prova di questo requisito.

La domanda in parte qua non è dunque accoglibile.

E’ invece accoglibile la domanda relativa alle differenze provvigionali spettanti all’agente con riguardo agli ordini 840729 e 841370. Se da un lato è certo che entrambi questi ordini sono stati saldati da COEN, è da notare tuttavia che la provvigione calcolata dall’azienda su entrambi è pari al solo 5%, invece che l’8% previsto in contratto.

Tanto per altro si evince dalla @ inviata da ALFA alla X in data 24 febbraio 2015, ove si apprende che per “facilitare la logistica del cantiere” ALFA abbia unilateralmente deciso di non vendere direttamente al cliente “Sociètè Troyes Carrellages” ma alla società Traffic 89 / Point Vert con onere di quest’ultima di approvvigionare la prima (cfr. doc. 13 ric) e con conseguente riconoscimento all’Agente di una provvigione sull’affare pari al 5% anziché all’8% , che è quella applicata al cliente Traffic. Ma l’organizzazione logistica di COEN non può ovviamente ripercuotersi sulle provvigioni spettanti alla ricorrente, sicché la decisione di far transitare l’ordine su Traffic non influisce sulla percentuale applicabile all’ordine.

Pertanto, giusti i calcoli svolti dalla ricorrente a pg.44/45 delle note autorizzate, il complessivo credito provvigionale –basato sul ricalcolo all’8% delle provvigioni- è pari a euro 1.188,15, oltre oneri fiscali.

Quanto alle spese di lite, la solo parziale soccombenza di COEN sia riguardo all’an delle domande che al quantum delle stesse, fa sì che sia equa una parziale compensazione (nella misura di 1/3 del complessivo), mentre i rimanenti 2/3 vanno rifusi a parte ricorrente, anche tenuto conto che l’offerta effettuata da COEN di € 15.000 per transigere la causa si è dimostrata nei fatti del tutto inadeguata rispetto a quanto deciso in sentenza. Le spese sono da distrarsi in favore del procuratore antistatario.

Le spese di CTU vanno poste integralmente a carico dell’azienda, a fronte dei dati discordanti forniti dalla stessa (es: tra il doc. 10 “prospetto andamento fatturati clienti X” ove si leggono dati numerici differenti a quelli riportati nei docc. 5, 6, 7, 7bis e 12 e parzialmente differenti da quelli comunicati all’Agente cf. doc. 15 fascicolo ricorrente) che hanno richiesto una effettiva verifica contabile; ed a fronte comunque della soccombenza in causa della convenuta.

Ex lege la provvisoria esecuzione.

PQM

Il Giudice del Lavoro, ha pronunciato la seguente sentenza:

  1. In parziale accoglimento del ricorso, dichiarata l’illegittimità del recesso ad nutum della preponente per assenza di una giusta causa di recesso, condanna la società ALFA s.p.a a corrispondere a X la somma di € 19.632,74 a titolo di indennità di mancato preavviso e di € 6.961,65 a titolo di indennità suppletiva di clientela di cui all’art.10 punto II lett.A, oltre ad accessori come per legge su tali somme dalla data del recesso al saldo effettivo;
  2. condanna ALFA a corrispondere differenze provvigionali relative agli ordini per il cantiere ‘Galerie exterieure commerciale” pari a netti € 1.188,15, oltre ad accessori di legge dalla data dei pagamenti al saldo effettivo;
  3. rigetta le ulteriori domande svolte da parte ricorrente;
  4. Condanna ALFA s.p.a. a rifondere le spese di lite sostenute da parte ricorrente in misura di 2/3 dell’intero, intero che quantifica in complessivi € 6.500 di cui € 900 per spese oltre ad IVA e CPA., compensato tra le parti il restante terzo; pone definitivamente e per l’intero in carico della convenuta ALFA le spese di CTU già liquidate.
  5. Riserva la motivazione in giorni 60

Reggio Emilia, 09/10/2017

IL GL

Dott.Elena Vezzosi

 

Reati edilizi. Omessa denuncia, reati antisismici, circolari amministrative

 Cassazione penale, sezione III, sentenza 18 maggio 2017, n. 24585

<< In tema di reati antisismici, la contravvenzione di cui agli artt. 93 e 95 del D.P.R. n. 380 del 2001 è applicabile a tutte le opere realizzate in zona sismica, indipendentemente dalla funzione statica dalle stesse svolte; né può rilevare un’eventuale buona fede dell’imputato per essersi uniformato ad una circolare amministrativa, occorrendo la dimostrazione che questi versasse in una situazione di errore scusabile, tenuto conto del consolidato indirizzo interpretativo della giurisprudenza di legittimità in materia di obblighi di informazione sulla normativa settoriale >>

Agli imputati era stato contestato di avere omesso di presentare allo Sportello unico per l’edilizia la denuncia delle opere strutturali, realizzate in zona sismica, consistenti in un muro di confine, in piloni di sostegno di un cancello, in un muretto di recinzione su strada prima di procedere al loro inizio. Era emerso che i manufatti, costruiti in cemento armato, non erano destinati ad assolvere alcuna funzione statica e che, per tale motivo, gli imputati avevano ritenuto di non dovere presentare preventivamente la denuncia prevista dall’art. 65 del d.p.r. n. 380/2001. Il Tribunale di Asti aveva assolto gli imputati ritenendo l’errore scusabile.

Il primo giudice ha ritenuto , che gli stessi sarebbero incorsi in errore scusabile per avere deciso di non presentare la denuncia allo Sportello unico sulla base della Circolare del Ministero dei lavori pubblici 14/02/1974, n. 11951, non essendo gli stessi tenuti a conoscere il contrario indirizzo della giurisprudenza di legittimità, che affermerebbe, in siffatte ipotesi, la rilevanza penale dell’omissione della denuncia e, per converso, l’irrilevanza delle eventuali previsioni difformi da parte delle circolari amministrative.

La corte di Cassazione, in riforma dell’impugnata sentenza è giunta alla conclusione che deve escludersi qualunque rilevanza, sotto il profilo scusante, a quanto stabilito dalla Circolare del Ministero dei lavori pubblici 14/02/1974, n. 11951 (che, secondo la Corte, riguardava tutt’altro oggetto rispetto alla problematica qui, in rilievo: ovvero l’obbligatorietà della preventiva denuncia di opere in cemento armato inidonee ad assolvere una funzione statica e non, come invece sarebbe stato necessario, l’obbligatorietà della comunicazione connessa alla sismicità dell’area interessata dall’intervento edificatorio.).

Gli ermellini hanno tenuto a ribadire che, se per un verso non può in assoluto escludersi che la presenza di determinate circolari amministrative possa contribuire a delineare un quadro regolativo confuso e scarsamente idoneo a orientare il comportamento dei consociati, occorre pur sempre affermarsi che nelle fattispecie contravvenzionali la buona fede può acquistare rilevanza giuridica solo a condizione che essa si traduca nella mancanza di consapevolezza dell’illiceità del fatto e che derivi da un elemento positivo estraneo all’agente, consistente in una circostanza che induca alla convinzione della liceità del comportamento tenuto, la prova della sussistenza del quale deve essere fornita dall’imputato, unitamente alla dimostrazione di avere compiuto tutto quanto poteva per osservare la norma violata.

Testo integrale della sentenza

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 7 febbraio – 18 maggio 2017, n. 24585
Ritenuto in fatto

  1. Con sentenza in data 4/07/2016 il Tribunale di Asti aveva assolto, con la formula “perché il fatto non costituisce reato”, M.N. , S.G. e Ma.Sa. in relazione ai reati di cui agli artt. 71 (capo a) e 93 e 95 (capo b) del d.p.r. n. 380 del 2001, per avere: la prima in qualità di committente, il secondo di esecutore ed il terzo di direttore dei lavori, eseguito opere in conglomerato cementizio armato – consistenti in un muro di confine, in piloni di sostegno del cancello, in un muretto di recinzione su strada – in violazione dell’art. 64, commi 2, 3 e 4, nonché per avere omesso di presentare allo Sportello unico per l’edilizia la denuncia delle predette opere strutturali prima del loro inizio; fatti accertati in (omissis) .

1.1. Secondo il primo giudice, infatti, pur essendo stata pacificamente dimostrata la realizzazione delle opere sopra menzionate, dall’istruttoria dibattimentale era, altresì, emerso che i manufatti, costruiti in cemento armato, non erano destinati ad assolvere alcuna funzione statica e che, per tale motivo, gli imputati avevano ritenuto di non dovere presentare preventivamente la denuncia prevista dall’art. 65 del d.p.r. n. 380/2001 per le opere in conglomerato cementizio armato, che l’art. 53, comma 1 considera come tali, appunto, solo quando assolvano ad una funzione statica. Sulla base della riportata interpretazione della normativa di riferimento, avallata dalla Circolare del Ministero dei lavori pubblici 14/02/1974, n. 11951, gli imputati si erano, dunque, consapevolmente determinati a non presentare la denuncia in questione, incorrendo in un errore scusabile, siccome indotto da una normativa suscettibile di differenti opzioni esegetiche e non potendo attribuirsi rilievo dirimente al contrario indirizzo della giurisprudenza di legittimità, che gli imputati non sarebbero stati tenuti a conoscere. 2. Avverso la predetta sentenza ha presentato ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Asti, deducendo, con un unico motivo di impugnazione proposto ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b) cod. proc. pen., l’inosservanza o erronea applicazione della legge penale in relazione alla sola contravvenzione di cui agli artt. 93 e 95 del d.p.r. n. 380 del 2001 contestata al capo b). Ciò sul presupposto che tale figura di reato sia applicabile a tutte le opere realizzate in zona sismica, indipendentemente dalla funzione statica dalle stesse svolte; e non essendo stato, per altro verso, dimostrato che gli imputati versassero, nella specie, in una situazione di errore scusabile, anche tenuto conto del consolidato indirizzo interpretativo della giurisprudenza di legittimità in materia di obblighi di informazione sulla normativa settoriale.

Considerato in diritto

  1. Il ricorso è fondato. 2. Con la fattispecie descritta al capo b) della rubrica è stato contestato agli imputati di avere omesso di presentare allo Sportello unico per l’edilizia la denuncia delle opere strutturali indicate al capo a) – consistenti di un muro di confine, dei piloni di sostegno di un cancello, di un muretto di recinzione su strada – prima di procedere al loro inizio. Come correttamente posto in luce dal ricorrente, la contravvenzione de qua sanziona, al comma 1, l’omesso preavviso scritto allo sportello unico delle “costruzioni, riparazioni e sopraelevazioni” alla cui presentazione è tenuto chiunque intenda procedervi “nelle zone sismiche di cui all’articolo 83”. Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di questa Corte il reato in contestazione resta integrato indipendentemente sia dalle caratteristiche dell’opera edilizia, che può consistere in qualsiasi intervento edilizio – con la sola eccezione di quelli di semplice manutenzione ordinaria – effettuato in zona sismica, comportante o meno l’esecuzione di opere in conglomerato cementizio armato (Sez. 3, n. 48005 del 17/09/2014, dep. 20/11/2014, Gulizzi e altro, Rv. 261155), sia dal grado di sismicità dell’area, essendo il reato de quo configurabile anche in caso di esecuzione di lavori in zona inclusa tra quelle a basso indice sismico (v. Sez. 3, n. 22312 del 15/02/2011, dep. 6/06/2011, Morini, Rv. 250369). Ne consegue che, già sotto il profilo dell’elemento oggettivo, la sentenza impugnata si mostra gravemente carente, essendosi la stessa soffermata unicamente sulle caratteristiche dell’opera in rapporto alla sua funzione statica ed ai conseguente obbligo di denuncia, senza in alcun modo affrontare il concorrente profilo della sismicità dell’area interessata dall’intervento, la quale avrebbe, dunque, imposto di ottemperare agli obblighi comunicativi. 3. Sotto altro aspetto, si è opinato, da parte della difesa degli imputati, e il primo giudice ha condiviso tale prospettazione, che gli stessi sarebbero incorsi in errore scusabile per avere deciso di non presentare la denuncia allo Sportello unico sulla base della Circolare del Ministero dei lavori pubblici 14/02/1974, n. 11951, non essendo gli stessi tenuti a conoscere il contrario indirizzo della giurisprudenza di legittimità, che affermerebbe, in siffatte ipotesi, la rilevanza penale dell’omissione della denuncia e, per converso, l’irrilevanza delle eventuali previsioni difformi da parte delle circolari amministrative. 3.1. Sul punto, osserva il Collegio che la consolidata produzione giurisdizionale di questa Corte è ormai pervenuta ad affermare, sulla scia della fondamentale sentenza n. 368/88 della Corte costituzionale, che nelle fattispecie contravvenzionali la buona fede può acquistare rilevanza giuridica solo a condizione che essa si traduca nella mancanza di consapevolezza dell’illiceità del fatto e che derivi da un elemento positivo estraneo all’agente, consistente in una circostanza che induca alla convinzione della liceità del comportamento tenuto, la prova della sussistenza del quale deve essere fornita dall’imputato, unitamente alla dimostrazione di avere compiuto tutto quanto poteva per osservare la norma violata (Sez. 3, n. 35314 del 20/05/2016, dep. 23/08/2016, P.M. in proc. Oggero, Rv. 268000; Sez. 4, n. 9165 del 5/02/2015, dep. 2/03/2015, Felli, Rv. 262443; Sez. 3, n. 42021 del 18/07/2014, dep. 9/10/2014, Paris, Rv. 260657; Sez. 3, n. 49910 del 4/11/2009, dep. 30/12/2009, Cangialosi e altri, Rv. 245863; Sez. 3, n. 46671 del 5/10/2004, dep. 1/12/2004, Sferlazzo, Rv. 230889; Sez. 3, n. 12710 del 29/11/1994, dep. 21/12/1994, D’Alessandro, Rv. 200950). Ciò sul presupposto che gli inderogabili doveri di solidarietà sociale stabiliti dall’art. 2 Cost. impongono al destinatario di una determinata normativa di adempiere a stringenti oneri informativi, i quali richiedono che, prima di porre in essere l’attività disciplinata da specifiche disposizioni, egli si adoperi per sciogliere i dubbi che eventualmente concernano il lecito svolgimento di essa o le particolari modalità previste per la sua esecuzione. Ora, se per un verso non può in assoluto escludersi che la presenza di determinate circolari amministrative possa contribuire a delineare un quadro regolativo confuso e scarsamente idoneo a orientare il comportamento dei consociati (rientrando, l’ipotesi delle circolari, tra gli esempi offerti dalla citata sentenza n. 364/88 per configurare una situazione di scarsa perspicuità dell’assetto normativo, tale eventualmente determinare un errore scusabile), deve nondimeno rilevarsi che, nel caso di specie, le circolari invocate riguardavano, come già osservato (v. supra § 2), tutt’altro oggetto rispetto alla problematica che viene, qui, in rilievo: ovvero l’obbligatorietà della preventiva denuncia di opere in cemento armato inidonee ad assolvere una funzione statica e non, come invece sarebbe stato necessario, l’obbligatorietà della comunicazione connessa alla sismicità dell’area interessata dall’intervento edificatorio. Consegue a quanto appena rilevato che, in ogni caso, anche sotto questo dirimente profilo, deve escludersi qualunque rilevanza, sotto il profilo scusante, a quanto stabilito dalla cennata circolare e, corrispondentemente, al convincimento maturato dagli imputati alla stregua delle sue disposizioni. 4. Alla luce delle considerazioni che precedono, il ricorso deve essere accolto, sicché la sentenza impugnata deve essere annullata limitatamente al reato di cui al capo b), con rinvio ai Tribunale di Asti.

P.Q.M.

annulla la sentenza impugnata limitatamente al reato di cui al capo b) e rinvia al Tribunale di Asti.