Mese: gennaio 2017

Successioni e donazioni. Le liberalità d’uso possono essere condizionate dal valore del regalo ?

Cassazione sez, II civ., 19 settembre 2016, n. 18280

La liberalità d’uso prevista dall’art. 770, secondo comma, cod. civ. (non costituente donazione in senso stretto e perciò non soggetta alla forma propria di questa), sussiste quando la elargizione si uniformi, anche sotto il profilo della proporzionalità alle condizioni economiche dell’autore dell’atto, agli usi e costumi propri di una determinata occasione, da vagliarsi anche alla stregua dei rapporti esistenti fra le parti e della loro posizione sociale.  Tali liberalità trovano fondamento negli usi invalsi a seguito dell’osservanza di un certo comportamento nel tempo, e dunque di regola in occasione di quelle festività, ricorrenze, occasioni celebrative che inducono comunemente a elargizioni, soprattutto in considerazione dei legami esistenti tra le parti.    Con queste riflessioni è stata già anticipata la risposta alla parte più rilevante del secondo motivo di ricorso, che contesta l’adeguatezza della motivazione della sentenza, affermando che per le due festività esaminate (la Festa della donna e la festività di San Valentino)  sarebbero concepibili solo regali come mazzi di mimose oppure cioccolatini o inviti a cena.             L’affermazione è smentita dal ricordato insegnamento secondo cui la portata economica delle elargizioni va commisurata alla condizione dei soggetti, che nel caso di specie disponevano, come attestato in sentenza e implicito nelle difese svolte, di ingenti patrimoni e mantenevano un elevatissimo tenore di vita.

Il caso. Nella fattispecie un  abbiente signore aveva regalato alla propria compagna dei quadri d’autore ( tra le quali opere di Klimt, Picasso, Klee e Man Ray)  e alcuni gioielli di tra i quali uno  con diamanti per  13 carati.  In seguito all’interruzione delle relazione, il donante  ha  chiesto la restituzione di tutti i beni in quanto donazioni prive della forma  richiesta dall’art. 782 c.c..(l’atto pubblico). La Corte d’appello solo in parte aveva accolto le domande dell’attore  avendo escluso la natura di liberalità d’uso  in relazione ad un quadro di Picasso e all’anello da 13 carati  avendo ritenuto che solo tali donazioni costituivano apprezzabile depauperamento del patrimonio del donante e avrebbero richiesto forma prevista dall’art. 782 c.c..cioè l’atto pubblico.La Corte di appello aveva quindi condannato la convenuta al pagamento in favore dell’attore del controvalore del bene, che nel frattempo era stato venduto.

La Corte di Cassazione ha sostanzialmente confermato la pronuncia della Corte territoriale.

Testo della sentenza

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE II CIVILE

Sentenza 22 marzo – 19 settembre 2016, n. 18280

REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA CIVILE  Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. MATERA Lina – Presidente – Dott. D’ASCOLA Pasquale – rel. Consigliere – Dott. ORILIA Lorenzo – Consigliere – Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere – Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 16013/2011 proposto da: NELL’INTERESSE DELLA SIGNORA P.M.K.J. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MONTI PARIOLI 8A-10, presso lo studio dell’avvocato ADRIANA BOSCAGLI, che la rappresenta e difende; – ricorrente – Nonchè da: G.F.G. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ATTILIO FRIGGERI 106, presso lo studio dell’avvocato MICHELE TAMPONI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato EMIDIA ZANETTI VITALI; – controricorrente e ricorrente incidentale – avverso la sentenza n. 616/2011 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 03/03/2011; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 22/03/2016 dal Consigliere Dott. PASQUALE D’ASCOLA; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DE RENZIS Luisa, che ha concluso per il rigetto del ricorso principale e per l’accoglimento del quarto motivo e per il rigetto dei restanti motivi del ricorso.
Svolgimento del processo

La causa è sorta nel 2006 e concerne la richiesta di restituzione di tredici oggetti d’arte, tra cui opere di autori famosi quali (OMISSIS), che durante la relazione sentimentale tra le parti, protratta per parecchi anni, l’odierno resistente aveva consegnato alla ricorrente. Il tribunale di Milano nel 2009 ha accolto la domanda limitatamente ad un tavolo in noce intarsiato. La Corte di appello con la sentenza 3 marzo 2011 ha confermato la natura di liberalità d’uso della dazione di quasi tutte le opere, ormai in possesso della convenuta. 1.1) Ha però escluso tale natura quanto ad un quadro di (OMISSIS) del valore stimato di seicentomila Euro, asseritamente donato a chiusura di uno screzio tra le parti, perchè la donazione, avvenuta unitamente al regalo di un brillante da tredici carati, costituiva apprezzabile depauperamento del patrimonio del donante; avrebbe quindi richiesto la forma prevista dall’art. 782 c.c.. La Corte di appello ha conseguentemente condannato la convenuta al pagamento in favore dell’attore del controvalore del bene, alienato nelle more. La donataria ha interposto ricorso per cassazione affidato a un motivo. Il resistente ha svolto ricorso incidentale, affidato a cinque motivi. Fissata per la trattazione, la causa è stata rinviata su richiesta delle parti in vista di un possibile accordo. In vista dell’odierna udienza non è stata depositata alcuna memoria.
Motivi della decisione

2) La censura esposta dalla ricorrente denuncia vizi di motivazione della sentenza impugnata, in relazione alla ratio decidendi riassunta sub p.1. Essa sostiene che il quadro di (OMISSIS) e l’anello erano stati donati con atto qualificabile come liberalità d’uso e che la Corte di appello non avrebbe motivato adeguatamente in ordine alla proporzionalità dei doni con il tenore di vita degli interessati. A tal fine evidenzia tra l’altro che l’opera di (OMISSIS) nel 2006 era stata stimata soltanto 555.380,00 Euro; che la dazione era giustificata anche dalle spese sostenute dalla convenuta per l’organizzazione di una festa in onore dell’attore, da lui ingiustificatamente annullata; che altri due quadri regalati erano del valore di 400 o 450 mila Euro; che il patrimonio dell’attore era all’epoca di diverse decine di milioni di Euro; che il valore dell’anello era stato stimato dalla Corte di appello con immotivata illazione, ipotizzando un complessivo valore dei due beni superiore al milione di Euro. Il motivo di ricorso è da rigettare. La Corte di appello ha scrupolosamente esaminato gli elementi rilevanti per la decisione: la grande consistenza del patrimonio dell’attore; l’abitudine di questi di elargire regali costosi in occasione di ricorrenze; il rilievo della valutazione dei singoli beni. Con insindacabile apprezzamento di merito ha reputato che tra questa abitudine e il regalo di inusitato valore costituito dal quadro di (OMISSIS) e dal prezioso brillante vi sia “un vero iato”. Ha argomentato in proposito sia sulla base dello “sforzo economico” che il dono complessivo richiedeva, sia sulla base delle motivazioni del regalo, che non era di routine, ma era un “presente per ottenere il perdono a fronte di un comportamento incongruo”. 2.1) A fronte di queste esaurienti argomentazioni, le critiche svolte in ricorso costituiscono in sostanza una richiesta di rivisitazione delle valutazioni che spettano al giudice di merito. Ed infatti: non viene indicata alcuna risultanza di causa atta ad attribuire all’anello, che la stessa ricorrente definisce sfavillante, un valore inferiore a quello presunto dalla Corte di appello. Eppure la ricorrente è o almeno è stata in possesso dell’oggetto, avrebbe potuto farlo stimare, avrebbe potuto indicare un valore inferiore, offrendo argomenti atti a svilire un brillante di ben tredici carati, consegnatole nel contesto di relazioni del tipo che ella stessa accredita. Inoltre è incongrua la considerazione dell’annullamento della festa quale metro per commisurare la liberalità d’uso. Se infatti se ne dovesse tenere conto in modo decisivo, la dazione potrebbe essere qualificata come donazione remuneratoria, ugualmente bisognevole di forma pubblica, come prontamente rilevato in controricorso. Ed è la stessa ricorrente ad ammettere (pag. 20) che nel caso in esame si potrebbero configurare entrambe le ipotesi di cui all’art. 770 c.c.. Se ne desume che, una volta riscontrata l’anomalia della causale e l’anomalia del valore rispetto anche ai pur preziosi precedenti regali, la decisione della Corte di appello di qualificare questa elargizione come donazione di grande valore, non riconducibile al secondo comma, costituisce qualificazione correttamente motivata, che ha tenuto conto di tutti i fattori che sono diversamente valutati da parte ricorrente. La Corte di legittimità non può sostituirsi al giudice di merito con un proprio apprezzamento, potendo solo controllare la ragionevolezza e plausibilità delle valutazioni proposte dalla sentenza di appello, che risulta incensurabile. 3) Il primo motivo del ricorso incidentale denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 770 c.c.. Secondo l’attore, la Corte di appello ha errato nel qualificare liberalità d’uso i doni fatti per la ricorrenza della “festa della donna” o “per la festa di San Valentino”. La norma di cui all’art. 770, comma 2, dovrebbe essere applicata sulla base di criteri di rigore, rifacendosi a prassi consolidate nella società, al di là di “eventuali pratiche divenute comuni tra le parti”. Secondo il ricorso la nozione di liberalità d’uso sarebbe quindi rinvenibile, esemplificativamente, nel caso dei regali di Natale, ma non in relazione ad eventuali regali di Pasqua, restando esclusi in ogni caso i regali dovuti a comportamento stravagante, che contrasta con la consuetudine che deve presiedere alla liberalità d’uso. La doglianza, che presenta profili di inammissibilità perchè non risulta svolta in questi termini in appello, atteso che questo profilo non è trattato in sentenza, è comunque infondata. La liberalità d’uso si configura qualora sia disposta in determinate occasioni, quali le nozze, i compleanni, gli anniversari, in cui per consuetudine si è instaurata l’abitualità diffusa di un certo comportamento. La sussistenza delle condizioni per il manifestarsi di questi usi è verificabile diacronicamente, potendosi registrare adattamenti nel costume che sono recepiti dalla natura elastica della norma. Ne consegue che feste e ricorrenze affermatesi nel corso del tempo possono far sorgere e consolidare usi nuovi, che legittimano l’applicazione della disposizione in esame. Ciò è quanto hanno ritenuto i giudici di Milano nel configurare quale liberalità d’uso i regali fatti in occasione di due festività di conio non antico, quali la Festa della donna e la festività di San Valentino, da tempo impostesi con indiscutibile rilevanza in Italia e nel mondo occidentale. In occasione di esse, ma altrettanto potrebbe dirsi per le c.d. festa della mamma o del papà, è invalso l’uso di regali tra gli innamorati o in onore alle donne, in quanto regali che si giustificano, come hanno rilevato tribunale e Corte di appello (cfr sentenza impugnata pag. 21 e 27), in relazione al legame esistente tra le parti. E’ apodittico affermare che si tratti di stravaganti usi non riconducibili al disposto normativo ed è errato infatti affermare che regali di Pasqua – si pensi al regalo abituale dell’uovo di cioccolato, non di rado con sorprese preziose appositamente introdottevi – non corrispondano ad una consuetudine. Che le abitudini attuali registrino, anche in occasione di festività di più recente storia, l’uso del dono di fiori, dolciumi o piccoli gioielli è realtà incontestabile, che appartiene alle comuni conoscenze e che è stata affermata sia pur implicitamente anche nel caso di specie, mediante i richiami svolti a pag. 27. Ivi si è portata l’attenzione al costume sociale e familiare, evidentemente ritenuto sussistente, e alla circostanza che “l’entità dell’attribuzione” va commisurata alla condizione socioeconomica delle parti. Magistralmente Cass. 12142/93, nell’affermare che il rilevante valore dell’oggetto donato non è ostativo alla configurazione di una liberalità d’uso, ha avuto modo di spiegare che usi e costumi propri di una determinata occasione sono da vagliarsi anche alla stregua dei rapporti esistenti fra le parti e della loro posizione sociale. Sulla scorta di precedenti analoghi, la Corte di appello ha valutato la natura di queste elargizioni e il suo apprezzamento è ineccepibile. Il motivo va quindi rigettato ribadendo che: a) una liberalità d’uso prevista dall’art. 770 c.c., comma 2, (non costituente donazione in senso stretto e perciò non soggetta alla forma propria di questa), sussiste quando la elargizione si uniformi, anche sotto il profilo della proporzionalità alle condizioni economiche dell’autore dell’atto, agli usi e costumi propri di una determinata occasione, da vagliarsi anche alla stregua dei rapporti esistenti fra le parti e della loro posizione sociale. b) Tali liberalità trovano fondamento negli usi invalsi a seguito dell’osservanza di un certo comportamento nel tempo, e dunque di regola in occasione di quelle festività, ricorrenze, occasioni celebrative che inducono comunemente a elargizioni, soprattutto in considerazione dei legami esistenti tra le parti. 3) Con queste riflessioni è stata già anticipata la risposta alla parte più rilevante del secondo motivo, che contesta l’adeguatezza della motivazione della sentenza, affermando che per le due festività esaminate sopra sarebbero concepibili solo regali come mazzi di mimose oppure cioccolatini o inviti a cena. L’affermazione è smentita dal ricordato insegnamento secondo cui la portata economica delle elargizioni va commisurata alla condizione dei soggetti, che nel caso di specie disponevano, come attestato in sentenza e implicito nelle difese svolte, di ingenti patrimoni e mantenevano un elevatissimo tenore di vita. Quanto alla circostanza che non sarebbe stata fornita adeguata prova della consegna del quadro di (OMISSIS) per la ricorrenza di san Valentino, la censura si risolve nella richiesta di un inammissibile apprezzamento di merito. Basti dire che essa lamenta che sia stato valorizzato un messaggio di posta elettronica che alludeva a un San Valentino “in ritardo”, circostanza che è stata valutata dalla Corte di appello unendola al fatto che il soggetto del dipinto (“(OMISSIS)”) era coerente con quella festa. Dunque a fronte di una così logica e ineccepibile considerazione degli elementi dati, la Corte di cassazione non può ingerirsi nel giudizio di merito. 4) Con il terzo motivo l’attore deduce che la sentenza impugnata sarebbe affetta da vizi di motivazione perchè inizialmente controparte aveva qualificato liberalità d’uso solo le opere di (OMISSIS), affermando che le altre opere erano proprie. Aggiunge che la convenuta aveva addotto una lettera dell’attore 2001, in cui egli aveva soltanto manifestato la volontà di permettere alla convenuta di trattenere le altre opere, asportate senza il suo consenso. Solo in un secondo tempo la convenuta aveva allegato l’acquisto in forza di “donazioni d’uso”. Deduce che vi sarebbe contraddittorietà tra la lettera che autorizzava a trattenere quanto preso senza il suo consenso e la liberalità e lamenta che la Corte di appello non abbia considerato questo profilo. Anche questa censura è infondata. La lettera riprodotta in ricorso risulta infatti, per quanto si evince dal ricorso stesso (pag. 35), prodotta dalla convenuta a sostegno di legittima proprietà dei beni, non certo a riconoscimento di una precarietà della concessione negando la liberalità. Le correzioni di impostazione difensiva in corso di causa sono consentite se non rivelano intrinseca contraddittorietà. Ed invero non vi è incompatibilità tra negare la restituzione di un bene producendo un documento che esprime, secondo chi se ne avvale, già il titolo a trattenerlo e affermare poi che vi era altro titolo proprietario ex art. 770 c.c.. Il ricorso postula tale incompatibilità dando per scontato che vi fosse il riconoscimento di asportazione abusiva dall’appartamento (flat), secondo la tesi affermata dalla lettera, ma tale riconoscimento non si può certo ravvisare nella produzione della lettera proveniente dal G., che giovava a dimostrare la legittima proprietà. Dunque la risultanza invocata non aveva alcuna portata decisiva per negare che, a prescindere dal consenso alla detenzione già dichiarato nel 2001 dall’attore, la convenuta potesse, completando le difese, negare la restituzione adducendo altro, più confacente, titolo di acquisto. Bene ha quindi fatto la Corte di appello a trascurare questa discrasia difensiva, pienamente spiegabile con l’intreccio singolare dei rapporti tra le parti, l’oggetto (arredi domestici) della contesa e la sua complessità. 5) Fondato è invece il quarto motivo del ricorso incidentale, con il quale, in relazione al pagamento degli interessi sulla somma dovutagli quale controvalore del quadro di (OMISSIS), l’attore lamenta che la decorrenza sia stata fissata dalla sentenza al saldo. Deduce che la decorrenza degli interessi doveva essere fissata a partire dalla notifica dell’atto di citazione, avvenuta il 4 maggio 2006. La censura trova riscontro nel disposto dell’art. 1148 c.c., in forza del quale il possessore di buona fede (profilo su cui il ricorso espressamente dichiara di non voler sollevare doglianza, cfr pag. 40) può trattenere i frutti del bene solo fino al giorno della domanda giudiziale. Dal momento della domanda, una volta che venga riconosciuto il diritto alla restituzione della cosa, i frutti spettano al rivendicante. Sul controvalore del bene, anche secondo la regola generale di cui all’art. 2033 c.c., spettano interessi dalla domanda. Sul punto si può far luogo a decisione nel merito, poichè ex art. 384 c.p.c., non sono necessari altri accertamenti di fatto. 6) Resta respinto il quinto motivo, che invoca la responsabilità processuale aggravata ex art. 96 c.p.c., della ricorrente, non certo ravvisabile nel pur infondato ricorso, che esponeva una critica a un apprezzamento di merito intrinsecamente opinabile. 7) Le spese di causa devono essere compensate con riguardo a tutti i gradi di giudizio: per i primi due riprendendo quanto già ritenuto dalla Corte di appello; quanto al giudizio di legittimità, in considerazione della soccombenza reciproca per la più rilevante parte delle rispettive censure.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso principale. Accoglie il quarto motivo del ricorso incidentale, rigettati gli altri. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito, dichiara spettanti all’attore gli interessi dalla data della domanda. Spese di tutti i gradi di giudizio compensate tra le parti. Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Seconda Civile, il 22 marzo 2016. Depositato in Cancelleria il 19 settembre 2016.

 

 

 

Tribunale di Reggio Emilia. Contratti misti, come distinguere tra vendita e appalto. Risoluzione contrattuale.

Trib.le di Reggio Emilia Sentenza n. 1276/2016 pubbl. il 22/09/2016

Il caso esaminato dal Giudice del Tribunale di Reggio Emilia riguarda una fattispecie negoziale complessa, un c.d. contratto misto nel quale si fondono i singoli elementi causali di più fattispecie contrattuali utilizzate, vale a dire la compravendita e l’appalto. La fusione di tali elementi realizza un interesse unitario sul piano pratico ed economico.

In presenza di un interesse unitario, come nel caso di specie, secondo la giurisprudenza deve essere applicata la disciplina del contratto prevalente (Cass. 17 novembre 2010 n. 23215,  Cassazione Sez. Un. Civili , 12 maggio 2008, n. 11656). Questo orientamento è stato ribadito ulteriormente da una recente pronuncia della Suprema Corte, (Cass. n. 22828/2012) che è intervenuta regolando un caso di contratto misto, in cui coesistevano due fattispecie negoziali molto differenti.

Dunque il prevalere dell’una o dell’altra fattispecie contrattuale assume rilevanza in quanto determina la disciplina civilistica  applicabile al caso (ad es. in materia di vizi).

Una parte della giurisprudenza (tra le altre Cass. sez. 5^, n. 9320/2006) ritiene che   l’elemento distintivo tra compravendita e appalto sia rappresentato dalla prevalenza quantitativa dell’elemento materia  sull’elemento lavoro. Nella  fattispecie  il compito è apparso agevole per il prevalere del valore economico della prestazione di dare (materiale per pavimenti) rispetto al fare ( posa del pavimento).

Merita di essere segnalata anche una relativamente recente pronuncia della Corte di Cassazione secondo la quale   sono sempre da considerarsi contratti di vendita (e non di appalto) i contratti concernenti la fornitura ed eventualmente anche la posa in opera qualora l’assuntore dei lavori sia lo stesso fabbricante o chi fa abituale commercio dei prodotti e dei materiali di che trattasi (Cassazione civile, sez. II, 17/01/2014 n.872)

Assecondati tali principi, il Giudice. entrando nel merito della controversa vicenda. ha ritenuto che l’istruttoria abbia dimostrato “che Waterproofing Srl non abbia promesso qualità diverse ed ulteriori rispetto a quelle descritte nella scheda tecnica, tenuto conto del fatto che, da un lato, vi sono elementi per ritenere che il problema della corretta pulizia fosse stato fatto presente (“V. F. ha affermato che: (cap. 2) “la richiesta del signor Sempronio era di un prodotto dotato di amovibilità antiscivolosità e che doveva sopportare carichi pesanti e così io gli avevo proposto il modello GTI attraction però anziché tinta unita, con un decoro sale e pepe perché mascherava di più lo sporco rispetto alla tinta unita…….. e, dall’altro, tenuto conto del fatto che se una superficie deve essere antisdrucciolevole, è facile immaginare che non possa facilmente essere pulita con modalità di lavaggio manuali.”

Ha quindi ritenuto di rigettare la domanda di risoluzione del contratto per non averne ravvisato i presupposti, con conseguente condanna dell’opponente Beta al pagamento, in favore della Waterproofing. Srl della somma di € xxxx   oltre a quota parte delle spese processuali.”

Testo della sentenza

REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE DI   REGGIO NELL’EMILIA

SEZIONE PRIMA CIVILE

Il Tribunale, nella persona del Giudice dott. Luisa Poppi ha pronunciato ex art. 281 sexies c.p.c. la seguente

SENTENZA

nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. 3179/2012 promossa da:

BETA quale titolare ditta GAMMA, con il patrocinio dell’Avv. Caio, elettivamente domiciliato in VIA ALDO MORO N. 24 42013 CASALGRANDE presso il difensore Avv. Caio                                                 –  ATTORE

contro

WATERPROOFING SRL (C.F. ), con il patrocinio dell’Avv. ORLANDI GIOVANNI , elettivamente domiciliato in CORSO MAZZINI N.15 42015 CORREGGIO presso il difensore Avv. ORLANDI GIOVANNI    – CONVENUTO

CONCLUSIONI

Le parti hanno concluso come da verbale d’udienza.

Concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione

Con atto di citazione notificato in data 21/03/12, Beta titolare dell’impresa individuale Gamma, proponeva opposizione avverso il decreto n. 930/2012, emesso in data 09/03/2012, con il quale il Tribunale di Reggio Emilia le ingiungeva il versamento, a favore della società Waterproofing Srl, della somma di € 8.731,36, oltre interessi di mora, spese e competenze della fase monitoria.

Sosteneva l’opponente che il decreto ingiuntivo doveva essere dichiarato illegittimo se non altro perchè era stato versato un acconto di € 2.910,45 e , nel merito, che la pavimentazione utilizzata era priva delle qualità promesse, inidonea all’uso e, comunque, non realizzata a regola d’arte. Formulava, quindi, le seguenti conclusioni: “Voglia l’Ill.mo Tribunale di Reggio Emilia, per i motivi esposti in premessa: In via principale e nel merito: DICHIARARE nullo, invalido, illegittimo e di nessun effetto l’opposto decreto ingiuntivo n. 930/2012 del 08.03.12 del Tribunale di Reggio Emilia e, conseguentemente, revocarlo, respingendo le domande tutte proposte dalla WATERPROOFING SRL SRL, in persona del legale rappresentante pro tempore, con sede in Correggio (RE), Via……………., nei confronti di  Beta, in qualità di titolare della ditta individuale Gamma, corrente in……., Via …………, perchè infondate in fatto ed in diritto.

In via riconvenzionale: ACCERTARE la mancata corrispondenza, come sopra evidenziato, delle caratteristiche del prodotto fornito e posato da controparte alle richieste avanzate di Beta di conseguenza DICHIARARE la risoluzione del contratto stipulato tra le parti, per inadempimento di parte convenuta CONDANNANDO quest’ultima alla restituzione della somma già corrisposta da Beta ad € 2.910,45 oltre ad interessi come per legge ed al risarcimento del danno, quantificato in € 2.000,00 o in quella somma, maggiore o minore, che dovesse risultare in corso di causa, determinata anche in via equitativa ex art. 1226 C.C.. In ogni caso: con vittoria di spese, competenze ed onorari del presente giudizio”.

Si costituiva tempestivamente in giudizio l’opposta ed eccepiva la decadenza dal termine per la denuncia dei vizi e/o difetti di qualità, contestava il fondamento dell’opposizione e pertanto l’esistenza dei vizi e la con corretta esecuzione secondo la regola dell’arte del pavimento sul presupposto che il consulente dell’opponente aveva scelto in modo consapevole quel tipo di pavimento. Puntualizzava, inoltre, di non avere assunto impegni per quanto concerne le modalità di pulizia del pavimento e comunque per caratteristiche diverse da quelle previste dalla scheda tecnica del prodotto, consegnata all’opponente. Chiedeva, quindi, la condanna dell’opponente al pagamento della somma di euro € 5.820,91, oltre interessi di mora, -riconoscendo il mancato calcolo dell’acconto versato- e che fossero respinte le domande riconvenzionali proposte dall’opponente.

La causa veniva istruita mediante produzione documentale, audizione di testimoni e svolgimento di CTU.

Quest’ultima ha chiarito che la posa del materiale è stata eseguita con risultati tutto sommato soddisfacenti, ad eccezione di “alcune imperfezioni lungo i bordi ove i tagli non sono sempre perfetti e ove si rende necessario installare un profilo di finitura (cosa diversa dal battiscopa e da ritenersi parte integrante della fornitura, compreso nella voce “posa del materiale”: cfr. p. 19 CTU) con una spesa che si valuta in € 500 oltre IVA. Una volta installato il profilo di bordo si ritiene comunque il risultato complessivo accettabile sia dal punto di vista funzionale che estetico.”

Il punto centrale della vicenda, pertanto, rimane la difficoltà di pulizia del pavimento, oggettivamente riscontrata dal CTU, il quale ha affermato che la pulizia “non è particolarmente agevole e i migliori risultati si ottengono solo con una lavapavimenti con rotospazzola che garantisca un’azione particolarmente energica (…). Le pulizie manuali o con una lavapavimenti di caratteristiche standard non garantiscono risultati soddisfacenti e/o tempi di pulizia compatibili con le normale attività”.

Tale caratteristica (punibilità) deve ritenersi una qualità del prodotto fornito ed installato e, dunque, la sua assenza un eventuale “vizio” o “mancanza di qualità” del bene venduto.

L’eccezione di decadenza di cui all’art. 1495 c.c. formulata da parte opposta deve essere rigettata: infatti, le prove testimoniali e la produzione documentale (doc. 3 parte opponente) hanno dimostrato la reiterata denuncia dei vizi fin da un momento immediatamente successivo rispetto alla posa del pavimento (consegnato nel tardo pomeriggio del 2.9.2011 con inaugurazione del locale il giorno successivo) a cui sono seguiti reiterati sopralluoghi.

Deve, pertanto, stabilirsi a questo punto se possa o meno essere imputata a parte opposta Waterproofing Srl la scelta di quel materiale, rivelatosi poi inadeguato alle esigenze di quel tipo di esercizio commerciale (il pavimento viene definito dal CTU più adatto ad un utilizzo industriale che commerciale).

Dall’esame delle deposizioni testimoniali deve, innanzitutto, rilevarsi l’incapacità a testimoniare di Tizio, socio della Waterproofing Srl e consigliere di amministrazione (che, tra l’altro ha sottoscritto il contratto per conto di Waterproofing Srl): dalla visura camerale, infatti, emerge che la firma e la rappresentanza legale della società di fronte ai terzi spetta al presidente del CDA nonché indistintamente a tutti i componenti del consiglio di amministrazione in via tra loro disgiunta.

D’altro canto, la deposizione di Sempronio, allora compagno e attuale marito dell’opponente -per quanto in regime di separazione dei beni- deve essere valutata con estremo rigore in termini di attendibilità, seppure non di incapacità a testimoniare.

Il teste V.F. a proposito delle caratteristiche del prodotto ha così riferito: (cap 2) “la richiesta del Sempronio era di un pavimento dotato di amovibilità, antiscivolosità e che doveva sopportare carichi pesanti …”. Effettivamente tali caratteristiche risultano illustrate nella scheda del prodotto e sostanzialmente non sono state contestate.

Lo stesso teste ha dichiarato inoltre che “io avevo portato a Correggio presso il locale che sarebbe diventato la lavanderia Gamma i campionari e le schede tecniche da far visionare a un signore che credo fosse il titolare della lavanderia e che ho visto questa mattina davanti alla porta dell’ufficio del Giudice il quale sceglieva il tipo di prodotto”. ADR “eravamo presenti io, il signor Tizio, un signore che credo fosse il titolare della lavanderia perché le scelte le faceva lui e il posatore L.M.”

Il teste L. M., a sua volta, ha dichiarato: (cap.1) “si è vero, io ero presente nei locali della lavanderia a Correggio nell’estate del 2011 prima di agosto, quando il signor Sempronio ha scelto il tipo di pavimento. Oltre a me erano presenti anche V.F. e Tizio.”

Del resto, è la stessa difesa dell’opponente che conferma che Sempronio “ha seguito passo passo la realizzazione dell’intero locale come consulente della sig. Beta e ha, pertanto, affiancato la convenuta anche nella scelta della pavimentazione”.

Ed allora, non pare che l’istruttoria abbia dimostrato che Waterproofing Srl abbia promesso qualità diverse ed ulteriori rispetto a quelle descritte nella scheda tecnica, tenuto conto del fatto che da un lato che vi sono elementi per ritenere che il problema della corretta pulizia fosse stato fatto presente (“V. F. ha affermato che: (cap. 2) “la richiesta del signor Sempronio era di un prodotto dotato di amovibilità antiscivolosità e che doveva sopportare carichi pesanti e così io gli avevo proposto il modello GTI Attraction però anziché tinta unita, con un decoro sale e pepe perché mascherava di più lo sporco rispetto alla tinta unita.”; di seguito (cap. 3): confermo che il signore della lavanderia aveva scelto il colore grigio scuro uniforme”; infine (cap. 4) : “avevo detto al signore della lavanderia che le alternative possibili per le sue esigenze di non compromettere il pavimento sottostante non erano molte”; e (cap.5) . “Avevo consegnato tramite il sig. Tizio al signore della lavanderia una mattonella dimostrativa di 63,5 x 63,5 ad incastro

Tizio mi aveva confermato di avere fatto una dimostrazione”.), e dall’altro tenuto conto del fatto che se una superficie deve essere antisdrucciolevole, è facile immaginare che non possa facilmente essere pulita con modalità di lavaggio manuali.

Pertanto, e conclusivamente, il D.I. deve essere revocato in quanto l’importo ingiunto è certamente errato: € 5.820,91 contro la somma di € 8.731,36 richiesta nel decreto. Deve, infatti, essere conteggiato l’acconto versato, mentre nessuna prova è stata raggiunta in relazione ad un diverso accordo modificativo del preventivo portato nel ricorso monitorio.

Deve viceversa essere rigettata la domanda di risoluzione del contratto di cui non vi sono i presupposti, con conseguente condanna dell’opponente al pagamento, in favore di Waterproofing Srl,della somma di € 5.820,91, oltre interessi legali dalla domanda al saldo.

A tale proposito, deve precisarsi come non possa essere accolta la domanda di riduzione del prezzo formulata in sede di precisazione delle conclusioni: il contratto in oggetto, infatti, non può -per le sue prevalenti caratteristiche- essere qualificato come contratto di appalto.

Le spese del giudizio, tenuto conto della soccombenza reciproca, devono compensarsi per la metà, con condanna dell’opponente (prevalentemente soccombente) al pagamento della restante metà delle spese in favore dell’opposta, liquidate come da dispositivo, mentre le spese di CTU devono interamente porsi a carico di parte opponente

P.Q.M.

Il Tribunale di Reggio Emilia, in persona del Giudice Unico dott.ssa Luisa Poppi, uditi i procuratori delle parti, definitivamente pronunciando sull’opposizione proposta da Beta confronti di Waterproofing Srl  avverso il D.I. n. 930/2012, emesso in data 09/03/2012, ogni altra istanza, eccezione e deduzione disattesa, così provvede:

-accoglie parzialmente l’opposizione per le causali di cui in parte motiva e, per l’effetto, revoca l’impugnato decreto ingiuntivo n. 930/2012 , emesso in data 09/03/2012;

-condanna Beta al  pagamento in favore di Waterproofing Srl  della somma di € 5.820,91 oltre interessi nella misura legale dalla domanda al saldo;

-condanna Beta  al  pagamento della metà spese di lite in favore di Waterproofing Srl, che si liquidano nella misura -già decurtata – di € 2.410,00 , oltre al pagamento delle spese di CTU; compensa tra le parti la restante metà.

Sentenza resa ex articolo 281 sexies c.p.c., pubblicata mediante lettura alle parti presenti ed allegazione al verbale.

Reggio Emilia, 22 settembre 2016

Il   Giudice dott. Luisa Poppi

 

Tutela del credito. Un SMS può rappresentare prova del credito ?

Decreto ingiuntivo n. 4330/2016 del 24/11/2016 del Tribunale di Genova

Il Giudice “Rilevato che dai documenti prodotti il credito risulta certo liquido ed esigibile considerato che sussistono le condizioni di ammissibilità previste dall’art. 633, 634, 641 c.p.c. ma non quelle di cui all’art. 642 risultando gli sms prodotti di ignota provenienza…ingiunge a …..”

Il Tribunale, nella fattispecie, ha concesso il decreto ingiuntivo in forma  non provvisoriamente  esecutiva ravvisando in un  messaggio SMS un principio di riconoscimento del debito, ma non una prova certa.

Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza ligure perché il documento informatico, e dunque anche un SMS, possa fare piena prova, occorre poter riconoscere la provenienza e nella fattispecie la provenienza dei messaggi era possibile ma non accertata.

Fornire prova certa dell’effettiva provenienza di un messaggio da una determinata persona non è cosa semplice specie nell’ambito di un procedimento d’ingiunzione caratterizzato da istruzione sommaria e da assenza di contraddittorio.

Testo del provvedimento

Il Tribunale di Genova Sezione seconda In composizione monocratica

Numero 14885/2016 del Ruolo D.I.

Letto il ricorso per la concessione di decreto ingiuntivo depositato da

rilevato che dai documenti prodotti il credito risulta certo, liquido ed esigibile; considerato che sussistono le condizioni di ammissibilità previste dall’art. 633, 634, 04ic.p.c., ma non di quelle di cui all’an. 642 risultando gli sms prodotti di ignota provenienza;

Ingiunge a

« Caio    di pagare alla parte ricorrente, entro il termine di quaranta giorni dalla notificazione del presente decreto:

la somma di Furo 875,00 oltre interessi legali dalla dómanda al saldo; le spese di questa procedura di ingiunzione, liquidate in Furo 400,00 per competenze, in Euro 21,50 per esborsi, oltre spese forfetizzate al 15%, I.v.a. e C.p.a., oltre le successive decorrende;

Avverte

l.a parie debitrice:

  • che può proporre opposizione contro il presente decreto nel termine perentorio di quaranta giorni dalla notifica;
  • che in mancanza di opposizione la parte ricorrente ha diritto di procedere ad esecuzione forzata.*                                                                                          Il Giudice
  • Cosi deciso in data 22/11/2016

Responsabilità medica. Trib.le di Reggio Emilia. Responsabilità della struttura sanitaria per omessa o inesatta esecuzione di  intervento di sterilizzazione

Tribunale di Reggio Emilia Sent.1298 del 07.10.15

La norma: Art. 1227 c.c : se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l’entità delle conseguenze che ne sono derivate. Il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza. 

Il secondo comma dell’art. 1227 c.c., pone come condizione per il risarcimento dei danni patiti, l’inevitabilità dei danni stessi da parte del creditore- danneggiato.

Impone cioè a quest’ultimo una condotta attiva diretta ad impedire le conseguenze dell’altrui comportamento dannoso, ma nei limiti dell’ordinaria diligenza che, deve intendersi nell’ambito di attività o scelte che non abbiano carattere di eccezionalità o che comportino rischi o sacrifici.

Pertanto, il dovere di usare l’ordinaria diligenza non implica l’obbligo della paziente danneggiata dalla omessa o inesatta esecuzione di un intervento di sterilizzazione di sottoporsi ad interruzione volontaria della gravidanza al fine di evitare i danni conseguenti all’inadempimento, comportando l’intervento abortivo un evidente e rilevante sacrificio alla salute e alla libertà di autodeterminazione della madre.

Occorre precisare, infatti, che in ambito medico, non trova applicazione il principio noto come concorso del fatto colposo del creditore-danneggiato, previsto dal secondo comma dell’art. 1227 c.c..  per il quale la risarcibilità per i danni occorsi al creditore è esclusa qualora questi avrebbe potuto evitarli usando l’ordinaria diligenza, intesa quale condotta non gravosa oltre modo o non eccezionale per il danneggiato-creditore.

Nel caso di specie, è pacifico che il rimedio abortivo esuli dalle attività di ordinaria diligenza afferenti al novero di cui all’art. 1227 c.c. risultando lesivo del diritto di autodeterminazione della gestante.

 Il caso di specie

 Una paziente in occasione di un parto cesareo richiedeva che in tale sede venisse eseguito anche un intervento volto a scongiurare gravidanze future e indesiderate.

Successivamente però, la stessa rimaneva nuovamente incinta e scopriva che non le era stata eseguita alcuna sterilizzazione nonostante ne avesse fatto richiesta scritta. Lamentava, quindi, che la nascita indesiderata le aveva comportato un concreto ed effettivo peggioramento della propria qualità di vita.

Il Giudice preso atto anche che la stessa si era tempestivamente attivata per scongiurare tale evento, ha ritenuto la struttura sanitaria responsabile dei danni patiti dalla gestante.

Testo della sentenza 

R E P U B B L I C A   I T A L I A N A

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE ORDINARIO DI REGGIO EMILIA

SEZIONE SECONDA CIVILE

Il Tribunale, nella persona del Giudice dott.ssa Chiara Zompi

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. 564/2012 promossa

da:

Mu. Iq. (C.F. –omissis–) e Pa. Sa. (C.F. –omissis–), con il

patrocinio dell’avv. INTAGLIATA MAURO e dell’avv. INTAGLIATA DOMENICO

(–omissis–) VIA PANSA, 55/I 42100 REGGIO NELL’EMILIA; elettivamente

domiciliati in VIA PANSA, 55/I 42100 REGGIO NELL’EMILIA presso il

difensore avv. INTAGLIATA MAURO

ATTORI

contro

AZIENDA USL DI REGGIO EMILIA, con il patrocinio dell’avv. MAZZA

FRANCO, elettivamente domiciliata in VIA EMILIA SAN PIETRO 27 42100

REGGIO EMILIA presso il difensore avv. MAZZA FRANCO

CONVENUTA

CONCLUSIONI

Il procuratore di parte attrice chiede e conclude come da fogli

allegati al verbale d’udienza di precisazione delle conclusioni.

Il procuratore di parte convenuta chiede e conclude come da memoria

ex art. 183 co. 6, n. 1, c.p.c..

 Fatto

FATTO E DIRITTO

Con atto di citazione ritualmente notificato, Iq. Mu. e Sa. Pa. convenivano in giudizio, innanzi all’intestato Tribunale, l’Azienda USL di Reggio Emilia, in persona del suo legale rappresentante pro – tempore, per sentirla condannare al risarcimento dei danni, patrimoniali e non patrimoniali, sofferti in conseguenza della nascita indesiderata del loro sesto figlio.

In particolare, gli attori esponevano che Pa. Sa., in occasione del suo quinto parto, programmato col taglio cesareo, aveva comunicato al ginecologo la scelta di procedere al contestuale intervento di sterilizzazione tubarica, a tal fine sottoscrivendo, in data 23.02.2007, l’apposito modulo di manifestazione del consenso c.d. informato.

Proseguivano gli attori esponendo che, in data 08.03.2007, la sig.ra Pa. Sa. si era quindi sottoposta, previa esecuzione di anestesia spinale, all’intervento di “taglio cesareo tradizionale” a seguito del quale era stata dimessa, in data 11.03.2007, con diagnosi di “V gravida alla 39 settimana, precesarizzata, presentazione cefalica”, con prescrizione di terapia medica e controllo dopo 6 settimane.

Fatto sta che, nel mese di dicembre 2008, l’attrice si era accorta di essere restata nuovamente incinta e, avendo deciso di portare a termine anche questa gravidanza, in data 10.08.2009 aveva partorito il suo sesto figlio. Ciò posto, deducevano gli attori che i sanitari dell’Ospedale dl Guastalla avevano del tutto omesso di provvedere, successivamente all’effettuazione del taglio cesareo, alla sterilizzazione tubarica, benché espressamente richiesta e autorizzata dalla paziente.

Lamentavano che la nascita del sesto figlio aveva messo a dura prova la situazione economica ed umana della famiglia e aveva esposto la madre un elevato stress fisico e mentale, certificato dalla comparsa di “evidente edema al dorso delle mani e dei piedi, alla regione orbitaria bilateralmente” e di “orticaria allergica ed edema diffuso sottocutaneo”.

Assumevano, quindi, gli attori che la nascita indesiderata aveva cagionato alla madre un danno biologico, nonché ad entrambi i genitori un grave pregiudizio, patrimoniale e non patrimoniale, danni quantificati in complessivi E. 490.206,50. Si costituiva in giudizio la Azienda USL convenuta, contestando la fondatezza della domanda risarcitoria ex adverso formulata e chiedendone l’integrale reiezione. In particolare, la Azienda convenuta negava che la Parveen, all’atto del “prericovero” avvenuto in data 23.02.2007, avesse formulato la richiesta di essere sottoposta a sterilizzazione tubarica. Eccepiva che, in ogni caso, dalla lettera di dimissioni emergeva chiaramente il fatto che tale intervento non era stato eseguito.

Infine, deduceva che l’attrice, scoperta la gravidanza nel dicembre 2008, ben avrebbe potuto ricorrere all’interruzione volontaria della stessa ai sensi della L. n. 194/78.

Nel corso del giudizio, espletati gli incombenti di cui all’art. 183 c.p.c., il G.I. ammetteva le prove orali richieste dalle parti. Infine, all’udienza del 21.5.2015, il G.I., in funzione di Giudice Unico, sulle conclusioni precisate dai procuratori delle parti, tratteneva la causa in decisione a norma dell’art. 190 c.p.c.

Ritiene questo Giudice che, alla luce delle acquisite risultanze processuali, la domanda risarcitoria così come formulata dagli attori sia, almeno in parte, meritevole di accoglimento.

Giova anzitutto osservare che, nella fattispecie, non si verte nell’ipotesi, più ricorrente nella realtà giudiziaria, in cui il paziente allega di aver patito un danno alla salute in conseguenza di azioni od omissioni del medico ovvero di non avere conseguito alcun miglioramento delle proprie condizioni di salute nonostante il suo intervento, ma si verte invece nell’ipotesi, assolutamente diversa, in cui una paziente, premesso di aver concordato con i medici l’esecuzione, in occasione di un parto cesareo, di un intervento volto a scongiurare gravidanze indesiderate, lamenta di essere restata nuovamente incinta a distanza di pochi mesi, in quanto, come accertato in seguito, il programmato intervento di sterilizzazione tubarica non era stato affatto eseguito dai sanitari operanti.

Ebbene, come di recente chiarito dalla Suprema Corte in relazione ad ipotesi del tutto analoga (Cass. n. 24109/2013), deve trovare anche in questo caso applicazione il consolidato principio giurisprudenziale secondo cui il creditore, ossia il paziente che agisca in giudizio deducendo l’inesatto adempimento dell’obbligazione sanitaria, è tenuto a dimostrare l’esistenza del contratto e ad allegare l’inadempimento del sanitario, incombendo sul sanitario (o sulla struttura ospedaliera) l’onere di provare che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente. Ciò posto, nel caso che occupa tra le parti non vi è alcuna contestazione in ordine alla sussistenza del rapporto professionale – negoziale dedotto in giudizio e ai fatti descritti in citazione, e, segnatamente, in ordine al ricovero dell’attrice presso l’Unità Operativa di Ostetricia dell’Ospedale di Guastalla per l’esecuzione del programmato intervento di parto cesareo e alla mancata esecuzione, a seguito del predetto parto mediante taglio cesareo, dell’ulteriore intervento di sterilizzazione tubarica. La Azienda USL convenuta si è infatti limitata ad eccepire che “nessuna richiesta in tal senso” sarebbe stata formulata dall’odierna attrice in sede di raccolta anamnestica. L’assunto difensivo risulta tuttavia smentito dall’istruttoria.

Ed invero, com’è pacifico e documentato, in data 23.2.2007, all’atto del “prericovero” per fine gravidanza, la Pa. sottoscrisse apposito modulo di consenso cd informato, con cui dichiarava di autorizzare il personale medico del reparto di ostetricia a praticare sulla sua persona l’intervento di sterilizzazione tubarica, inteso a prevenire ulteriori gravidanze (doc. 1 att.). Come è stato riferito dal teste di parte convenuta dott. Be. Cl., medico ginecologo che raccolse il consenso della paziente, “quella di essere sottoposta a sterilizzazione tubarica è una specifica richiesta della paziente che il medico raccoglie e poi inserisce in cartella clinica, come richiesta accessoria a quella di parto cesareo”. Il teste ha altresì precisato che “se ci sono due moduli di consenso, uno relativo al parto cesareo e l’altro relativo alla sterilizzazione, è perché la paziente ha specificamente richiesto la sterilizzazione”. Sulla scorta del chiaro tenore letterale del documento prodotto da parte attrice sub doc. 1 e della sopra riportata deposizione testimoniale, non può seriamente dubitarsi che la Parveen abbia manifestato in modo inequivoco ai sanitari del nosocomio di Guastalla la sua volontà di essere sottoposta a sterilizzazione tubarica.

Ne è riprova la circostanza che anche il diario infermieristico contenuto al foglio 40 della cartella clinica riporta la annotazione “programma taglio cesareo + S.T.” laddove la sigla S.T., come è stato confermato dai testi Ventura Alessandro e Barbara Dallatomasina, sta per “Sterilizzazione Tubarica” (doc. 2 conv.).

Ciò posto, dovendo ritenersi provato che l’attrice abbia espresso, in occasione della visita ginecologica del 23.2.2007, una chiara volontà di essere sottoposta a sterilizzazione tubarica, del tutto irrilevante appare la circostanza che ella non abbia ribadito tale richiesta “contemporaneamente all’esecuzione del programmato taglio cesareo” ai sanitari presenti in sala operatoria.

Neppure può condividersi la difesa di parte convenuta secondo cui gli attori avrebbero dovuto avvedersi del fatto che la sterilizzazione non era stata praticata, in quanto la stessa non era indicata nella lettera di dimissioni dell’11.3.2007 (pag. 48 doc. 2 conv.).

Sul punto basti osservare che la mera circostanza che la lettera di dimissioni riportasse come intervento praticato sulla paziente (solo) il taglio cesareo non può certo ritenersi di per sé sufficiente a mettere gli attori, peraltro stranieri, in condizione di comprendere che il richiesto intervento di sterilizzazione – per ragioni che erano e sono rimaste sconosciute – non era stato eseguito. Sotto altro profilo, eccepisce la Azienda USL che la Parveen, venuta a conoscenza nel dicembre 2008 di essere rimasta nuovamente incinta, “ben avrebbe potuto legittimamente ricorrere, in forza delle disposizioni della Legge n. 194/78, all’interruzione di gravidanza”.

Anche tale eccezione non merita accoglimento. L’esistenza, nel nostro ordinamento, di un diritto all’aborto non comporta che tale diritto debba essere esercitato, ben potendo sussistere ragioni etiche, morali o religiose che impediscono tale scelta.

D’altra parte, altro è la scelta di non procreare, altro è quella di porre termine ad una gravidanza già in corso, decisione quest’ultima che risulta carica di ripercussioni, fisiche e psicologiche, per la donna.

Ciò detto, deve rammentarsi che, secondo consolidata giurisprudenza, il secondo comma dell’art. 1227 cod. civ., nel porre come condizione per il risarcimento dei danni l’inevitabilità degli stessi da parte del creditore, impone a quest’ultimo una condotta attiva o positiva diretta ad impedire le conseguenze dell’altrui comportamento dannoso ma nei limiti dell’ordinaria diligenza, laddove si intendono comprese nell’ambito dell’ordinaria diligenza, all’uopo richiesta, soltanto quelle attività che non siano gravose o eccezionali o tali da comportare notevoli rischi o rilevanti sacrifici.

Nella fattispecie, non può certo richiedersi alla danneggiata di sottoporsi ad intervento di interruzione volontaria della gravidanza al fine di evitare i danni conseguenti alla mancata esecuzione della sterilizzazione, comportando l’intervento abortivo un evidente e rilevante sacrificio alla salute e alla libertà di autodeterminazione della madre. Sulla scorta delle predette considerazioni, ritenuti sussistenti i dedotti profili di colpa nell’operato dei sanitari del nosocomio di Guastalla, i quali hanno totalmente omesso l’esecuzione dell’intervento di sterilizzazione tubarica richiesto dalla Parveen, va pertanto affermata la responsabilità dell’Azienda USL convenuta, e, per l’effetto, quest’ultima deve essere condannata al risarcimento dei danni sofferti dagli attori. Venendo alla quantificazione dei predetti danni, deve in primo luogo essere rigettata la domanda di risarcimento del danno biologico asseritamente sofferto dalla Parveen. Sul punto occorre infatti rilevare che, com’è pacifico e come emerge dalla cartella clinica prodotta dalla convenuta sub doc. 3, la gravidanza indesiderata ebbe un decorso regolare e si concluse con un intervento di parto cesareo (e sterilizzazione tubarica, richiesta e questa volta eseguita) privo di complicanze, tant’è che nessun profilo di danno alla salute viene dedotto con riferimento al periodo di gestazione.

Piuttosto, lamenta l’attrice che, successivamente al parto, avvenuto in data 10.8.2009, ella aveva sofferto di edema al volto e alle mani e di orticaria, sintomi di uno stato di “elevato stress psicologico”. Tuttavia, è la stessa attrice a riferire che, sottopostasi a visita psichiatrica per i predetti disturbi somatici, non emersero patologie psichiatriche, “ma soltanto un elevato stress psicologico, dovuto allo stravolgimento della qualità della vita” (doc. 3 att.).

Date tali risultanze, non può darsi ingresso alla C.T.U. medico-legale su cui parte attrice ha insistito anche in sede di precisazione delle conclusioni, trattandosi di indagine del tutto esplorativa.

Sotto altro profilo, lamentano gli attori di aver sofferto un danno non patrimoniale conseguente alla lesione del diritto di “autodeterminazione della propria esistenza” da quantificarsi, in via equitativa, in E 110.000,00 in favore della madre Pa. Sa. e in E.70.000,00 in favore del padre Mu. Iq..

Sul punto si osserva che può dirsi ormai acquisito nel nostro ordinamento il riconoscimento della posizione di tutela conseguente alla lesione del diritto all’autodeterminazione della coppia nella scelta di procreare in modo “cosciente e responsabile” (art. 1 L. n. 194 del 1978) che, se frustrato, costituisce un danno ingiusto meritevole di risarcimento, trattandosi di un diritto di libertà che trova tutela nel testo costituzionale (artt. 2 e 13 Cost.).

Come più volte riconosciuto dalla giurisprudenza di merito (Trib. Milano 20.10.1997; Trib. Tolmezzo 7.6.2011, Trib. Latina 21.7.2011; Trib. Busto Arsizio 17.7.2001), se dall’inadempimento del sanitario agli obblighi di diligenza a suo carico consegue la lesione del diritto della paziente di decidere liberamente se procreare o meno, tale inadempimento genera un danno che deve essere risarcito anche nella sua componente non patrimoniale e ciò malgrado il fatto non costituisca reato, trattandosi della lesione di diritti inviolabili della persona riconosciuti dalla Costituzione ed essendosi in presenza di una grave lesione dell’interesse tutelato e di un danno certamente non futile (cfr Cass. S.U. n. 26972/2008).

Inoltre, come chiarito dalla Suprema Corte in fattispecie analoghe, deve ritenersi che entrambi i genitori, e non solo la madre, siano legittimati a richiedere il risarcimento del danno non patrimoniale, essendo anche il padre tra i soggetti protetti dal contratto col medico (cfr. Cass. n. 6735/2002, secondo cui, in tema di responsabilità del medico per omessa diagnosi di malformazioni del feto e conseguente nascita indesiderata, il risarcimento dei danni che costituiscono conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento del ginecologo spetta non solo alla madre, ma anche al padre, “atteso il complesso di diritti e doveri che, secondo l’ordinamento, si incentrano sul fatto della procreazione, non rilevando, in contrario, che sia consentito solo alla madre (e non al padre) la scelta in ordine all’interruzione della gravidanza, atteso che, sottratta alla madre la possibilità di scegliere a causa dell’inesatta prestazione del medico, agli effetti negativi del comportamento di quest’ultimo non può ritenersi estraneo il padre, che deve perciò ritenersi tra i soggetti protetti dal contratto col medico e quindi tra coloro rispetto ai quali la prestazione mancata o inesatta può qualificarsi come inadempimento, con tutte le relative conseguenze sul piano risarcitorio”). Sennonché non è l’inadempimento del sanitario che è di per sé oggetto di risarcimento, ma il danno consequenziale, secondo i principi di cui all’art. 1223 c.c..

Tali principi trovano applicazione anche nel caso di danno non patrimoniale che deve sempre essere provato, trattandosi di danno – conseguenza e non di danno – evento, giacché, come più volte chiarito dalla Suprema Corte, “il danno non patrimoniale, anche nel caso di lesione di diritti inviolabili, non può mai ritenersi in re ipsa, ma va debitamente allegato e provato da chi lo invoca, anche attraverso il ricorso a presunzioni semplici” (tra le tante, Cass. 10527/2011; Cass. 13614/2011; Cass. 7471/2012). Venendo al caso che occupa, ritiene questo giudice che l’onere di allegazione e prova posto a carico del danneggiato dalla giurisprudenza sopra richiamata sia stato adeguatamente assolto soltanto dall’attrice Pa. Sa..

Ed invero, quest’ultima ha domandato il risarcimento del danno cd da nascita indesiderata dedotto con riferimento allo stress ed al disagio conseguente allo stravolgimento delle proprie aspettative e della “qualità” della propria vita a seguito e per l’effetto della nascita del sesto figlio allegando, in particolare, di aver vissuto un periodo di elevato stress fisico e mentale cagionato dalla difficoltà di accudire tre bambini in tenera età “che riposano pochissimo la notte”.

Tale circostanza, non fatta oggetto di specifica contestazione da parte della convenuta, appare altresì comprovata dalla documentazione prodotta in atti dalla attrice, da cui risultano, nel periodo immediatamente successivo al sesto parto, ben due accessi al Pronto Soccorso per disturbi tipicamente psicosomatici (edema ed orticaria). Sulla scorta di tali elementi può ragionevolmente presumersi che la Parveen, già madre di cinque figli, abbia subito un concreto ed effettivo peggioramento della propria qualità di vita per effetto della nascita “indesiderata” del suo sesto figlio, anche ove si consideri che la stessa si era tempestivamente attivata proprio per evitare tale evento.

Si ravvisano pertanto i presupposti richiesti dalla citata giurisprudenza di legittimità per riconoscere la risarcibilità del danno non patrimoniale. Considerati tutti gli acquisiti elementi di giudizio, appare equo riconoscere a tale titolo all’attrice la somma di E. 20.000 liquidata all’attualità comprensiva, cioè, di rivalutazione ed interessi. A diverse conclusioni deve invece pervenirsi con riferimento alla analoga domanda promossa dall’attore Iqbal Muhammad.

Ed invero, quest’ultimo non ha specificamente allegato né provato quali siano stati i concreti riflessi della nascita del suo sesto figlio sulle sue abitudini e su i suoi ritmi di vita.

La difesa dell’attore si è infatti limitata ad argomentare, in modo del tutto generico, che la violazione del diritto alla procreazione si traduce in un danno evento “che si ritiene presuntivamente esistente e consiste nello stravolgimento della vita di più persone, con abitudini, passatempi, ritmi biologici, forzatamente mutati, nella perdita di chance lavorative, nella modifica della vita di relazione, insomma nel totale cambiamento della abitudini di vita”.

Sennonché tali considerazioni di carattere generale, oltre che contrastare con i principi enunciati dalla prevalente giurisprudenza di legittimità la quale, come già si è detto, esclude la configurabilità danno – evento anche nell’ipotesi di danno non patrimoniale, mal si attagliano alla fattispecie concreta ove si consideri che l’attore era già padre di cinque figli, di tal che appare inverosimile ritenere che la nascita del sesto possa aver comportato un radicale mutamento delle sue abitudini di vita. Sulla scorta delle predette considerazioni, la domanda dell’Iqbal di risarcimento del danno non patrimoniale non può trovare accoglimento, non avendo l’attore fornito alcun concreto elemento che consenta di ritenere provato il lamentato pregiudizio, neppure mediante il ricorso a presunzioni.

Resta da esaminare la domanda di risarcimento del danno patrimoniale proposta da entrambi gli attori. Superando un orientamento più risalente che limitava il danno risarcibile solo a quello dipendente dal pregiudizio alla salute fisio – psichica della donna specificamente tutelata dalla legge 194/1978 (Cass. 6464/1994), la recente giurisprudenza di legittimità ha più volte affermato la risarcibilità anche del danno patrimoniale che sia conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento del sanitario, in termini di causalità adeguata (Cass. n. 12195/1998; Cass. n. 14488/2004; Cass. n. 13/2010).

Ciò posto, è indubbio che la nascita di un figlio comporti delle spese, necessarie per il suo mantenimento e la sua educazione fino a raggiungimento della sua indipendenza economica, le quali costituiscono conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento medico e soddisfano l’ulteriore requisito della prevedibilità del danno ai sensi dell’art. 1225 c.c.. Deve pertanto ritenersi che, come allegato dagli attori, il danno economico risarcibile sia costituito dalle spese che i due genitori dovranno sostenere per il mantenimento del figlio fino alla sua indipendenza economica, che può presuntivamente farsi coincidere con il compimento del 23 esimo anno di età (Trib. Cagliari 23 febbraio 1995; Trib. Tolmezzo 7 giugno 2011). Venendo alla quantificazione del predetto pregiudizio, la stessa non può che essere effettuata in via equitativa, data l’oggettiva difficoltà di fornire la prova del danno.

Non avendo gli attori fornito alcuna informazione circa la loro situazione reddituale o l’attività lavorativa svolta, alla liquidazione dovrà procedersi con riferimento al criterio generale ed astratto del costo minimo per il mantenimento di un figlio che può essere individuato nell’importo di E. 300,00 mensili (comprensivo d’interessi legali e rivalutazione monetaria).

Tale importo appare congruo anche ove si consideri che il sesto figlio, normalmente, può utilizzare il vestiario, le attrezzature e i libri già acquistati per i fratelli maggiori, consentendo ai genitori di giovarsi, in qualche misura, di “economie di scala”. Moltiplicando la suddetta somma di E.300,00 per 12 mesi e per 23 anni, agli attori deve essere riconosciuto, a titolo di risarcimento del danno patrimoniale, il complessivo importo di E. 82.800,00.

Quanto invece alle spese anticipate nel corso del tentativo di mediazione obbligatoria (E. 1.293,00 doc. 9 att.), le stesse non possono essere considerate come autonoma voce di danno risarcibile, dovendo invece essere liquidate tra le spese di lite (per tutte, Cass. n. 3523 del 27/10/1969). Sulle somme come sopra liquidate a titolo di danni patrimoniali e non patrimoniali sono dovuti gli ulteriori interessi di legge dalla decisione al saldo.

Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo, sulla base dei parametri di cui al DM 55/2014, avuto riguardo alla somma attribuita alla parte vincitrice piuttosto che a quella domandata.

PQM

P.Q.M.

Il Tribunale, definitivamente pronunciando, reietta o assorbita ogni altra domanda, eccezione o conclusione:

1) – dichiara la convenuta Azienda Unità Sanitaria Locale di Reggio Emilia responsabile dei danni sofferti dagli attori in conseguenza dei fatti oggetto di causa e, per l’effetto

2) – condanna la convenuta al pagamento, in favore dell’attrice Sa. Pa., a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale, della somma, liquidata all’attualità, di E 20.000,00, nonché al pagamento in favore di entrambi gli attori, a titolo di risarcimento del danno patrimoniale, dell’ulteriore somma, sempre all’attualità, di E. 82.800,00, oltre interessi di legge dalla decisione al saldo;

3) – condanna la AUSL convenuta al rimborso in favore degli attori delle spese di lite liquidate in E. 2357,00 per esborsi (di cui E.1.293,00 per spese di tentativo obbligatorio di conciliazione) e in E. 13.430,00 per compensi di avvocato, oltre rimborso spese generali, IVA e CPA come per legge.

REGGIO EMILIA, 7 ottobre 2015

 

 

Locazione ad uso diverso. E’ valida la clausola che prevede l’aumento del canone nel corso del rapporto locatizio ?

Corte di Cassazione, Sezione 3 civile, Sentenza 11 ottobre 2016, n. 20384

In tema di locazione di immobili adibiti ad uso diverso da quello abitativo, ogni pattuizione avente ad oggetto non gia’ l’aggiornamento del corrispettivo ai sensi della L. 27 luglio 1978, n. 392, articolo 32, ma veri e propri aumenti del canone, deve ritenersi nulla ex articolo 79, comma 1, della stessa legge, in quanto diretta ad attribuire al locatore un canone piu’ elevato rispetto a quello legislativamente previsto, senza che il conduttore possa, neanche nel corso del rapporto, e non soltanto in sede di conclusione del contratto, rinunciare al proprio diritto di non corrispondere aumenti non dovuti.

La clausola che preveda la determinazione del canone in misura differenziata e crescente per frazioni successive di tempo nell’arco del rapporto e’ valida a condizione che si tratti, non gia’ di un vero e proprio “aumento”, bensi’ di un “adeguamento” del canone al mutato valore locativo dell’immobile volto a ripristinare il sinallagma originario, evitando uno squilibrio a vantaggio del conduttore altrimenti determinato dal canone fisso ovvero di una limitata e iniziale “riduzione” del canone convenuto, sempre che nell’uno, come nell’altro caso, tanto emerga da elementi obiettivi e predeterminati cui sia affidata “la scaletta” del canone.

Testo della sentenza

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VIVALDI Roberta – Presidente
Dott. AMBROSIO Annamaria – rel. Consigliere
Dott. BARRECA Giuseppina Luciana – Consigliere
Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere
Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere

ha pronunciato la seguente:
SENTENZA

sul ricorso 5498/2014 proposto da:

(OMISSIS), elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentata e difesa dall’avvocato (OMISSIS) giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

COSTRUZIONI SANTA CHIARA SRL, in persona del suo amministratore e legale rappresentante Dott.ssa (OMISSIS), elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentata e difesa dall’avvocato (OMISSIS) giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1354/2013 della CORTE D’APPELLO di CATANIA, depositata il 12/07/2013;

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza in data 07.12.2010 il Tribunale di Catania, sez. di Mascalucia, in accoglimento dell’opposizione proposta dalle odierne ricorrenti, (OMISSIS) e (OMISSIS) s.r.l., avverso il decreto ingiuntivo di pagamento emesso ad istanza della s.r.l. (OMISSIS) per la somma di Euro 8.223,11 a titolo di differenze canoni insoluti, revocava il decreto ingiuntivo e condannava le opponenti al pagamento della minor somma di Euro 489,11 per oneri condominiali e quota parte dell’imposta di registro.

Con sentenza n. 1354 in data 12.07.2013, la Corte di appello di Catania – accogliendo l’appello proposto dalla s.r.l. (OMISSIS) avverso detta decisione – rigettava l’opposizione, condannando le opponenti al pagamento delle spese del doppio grado.

Avverso detta sentenza hanno proposto ricorso per cassazione (OMISSIS) e la s.r.l. (OMISSIS), svolgendo cinque motivi.

Ha resistito la s.r.l. (OMISSIS), depositando controricorso e memoria.

MOTIVI DELLA DECISIONE

  1. La controversia e’ incentrata sulla pretesa di pagamento di maggiori canoni di locazione rispetto a quello inizialmente convenuto tra le parti, secondo “una scaletta” prevista con scrittura modificativa in data 1 aprile 2009, registrata in data 18.04.2010 (“scaletta”, pacificamente diversa da quella stabilita dalle stesse parti con il contratto originario in data 30 marzo 2009).

La Corte di appello – muovendo dalla considerazione dell’autonomia delle parti, vuoi nella determinazione del canone di locazione ad uso non abitativo, vuoi nella successiva modificazione dell’accordo originario – ha ritenuto legittima la pretesa della locatrice ai maggiori importi pretesi con il decreto ingiuntivo opposto, sulla base delle seguenti argomentazioni:

– innanzitutto era indifferente la circostanza che la modifica del canone iniziale di locazione avvenisse con accordo successivo alla sua stipulazione e con atto non avente contenuto transattivo: tanto per il rilievo che la nullita’ predicata dalla giurisprudenza di legittimita’ si verifica solo se sussiste una violazione (o elusione) della L. n. 392 del 1978, articolo 32, in comb. disp. con l’articolo 79, stessa legge a prescindere dal tempo in cui intervengono e per l’ulteriore considerazione che si e’ ritenuto simmetricamente di trarne e, cioe’, che all’inverso, la validita’ del patto prescinde dal fatto che si verta in ipotesi di accordo contestuale o modificativo;

– non esiste un sistema di blocco del canone nelle locazioni non abitative, essendo vietato dall’articolo 32 cit. unicamente di perseguire lo scopo di neutralizzare gli effetti eccedenti i limiti della svalutazione monetaria; di conseguenza – in dichiarato dissenso con la giurisprudenza di legittimita’ – occorreva ritenere che, una volta stabilita l’inesistenza di tale scopo elusivo, non era consentita una lettura dell’articolo 79 cit. in termini di nullita’ di protezione, nell’indimostrato presupposto di una posizione del conduttore piu’ debole rispetto a quella del locatore; anche perche’ la lettera della legge e i principi in tema di autonomia contrattuale non consentivano deroghe in mancanza di esplicita previsione;

– l’accordo modificativo recante la data del 1 aprile 2009 con il quale era stato variato in aumento il canone stabilito (previsto gia’ a scaletta, in quanto convenuto in Euro 1.600,00 e quindi fissato in Euro 1.100,00 iniziali “al solo fine di agevolare la crisi economica attuale” nel contratto del 30 marzo 2009) era valido, cosi’ come era valido il contratto originario; e cio’ perche’ anche in questo contratto il canone era stato pattuito “a scaletta”; in particolare i contraenti, considerata la rilevante superficie del locale e al “al solo fine di agevolare la crisi economica attuale” stabilivano che il canone iniziale sarebbe stato di Euro 1.590,00; si trattava di un aumento non elusivo, perche’ del tutto indipendentemente dalle variazioni della moneta, era stato ancorato a predeterminati elementi incidenti sull’equilibrio economico del sinallagma contrattuale e legato a una giustificata riduzione del canone per un limitato periodo iniziale, senza che, di per se’, la pattuizione incorresse nel divieto di cui all’articolo 32 cit..

1.1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia violazione o falsa applicazione degli articoli 112, 342 e 434 c.p.c. (ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 3). Al riguardo parte ricorrente lamenta che la Corte di appello abbia violato il principio del tantum devolutum, quantum appellatum, avendo posto a fondamento delle sua decisione circostanze di fatto (e, cioe’, l’assenza di contestualita’ delle due scritture negoziali del 30.03.2009 e del 01.04.2009 intervenute dalle parti) diverse da quelle allegate dalla locatrice, secondo cui dette scritture erano state redatte nello stesso momento.

1.2. Con il secondo motivo di ricorso si denuncia violazione della L. n. 392 del 1978, articoli 32 e 79, per aver ritenuto legittimo il patto contenuto nella scrittura del 01.04.2009 in forza del quale le parti avevano stabilito il canone in misura diversa da quella del contratto di locazione stipulato in data 30.03.2009, in palese difformita’ con l’orientamento di legittimita’ consolidato nel senso della nullita’ dei patti modificativi della misura del canone sottoscritti nel corso del rapporto locativo. A tal riguardo le ricorrenti osservano che le clausole che prevedono aumenti progressivi “a scaletta” sono valide a tre condizioni e, cioe’, che siano fissate ab initio, che siano ancorate ad elementi oggettivi e predeterminati e che prevedano un canone finale fisso rispetto al quale i canoni minori costituiscano stadi intermedi per giungere al corrispettivo effettivo prefissato; rilevano, quindi, nello specifico che, ove la scrittura integrativa racchiudesse una modalita’ di aggiornamento del canone, sarebbe illegittima in quanto costituirebbe una modalita’ di elusione della L. n. 392 del 1978, articolo 32; che ove la stessa scrittura (pacificamente successiva alla conclusione del contratto iniziale) fosse interpretabile come una “scaletta” di aumenti progressivi che conducano gradualmente alla cifra del canone di locazione definitivo e concordato, essa sarebbe ugualmente illegittima perche’ mancano le condizioni sopra indicate, per l’assenza di elementi oggettivi e predeterminati, tali non essendo il fine generico di “agevolare il superamento della crisi economica attuale”: denunciano, infine, che – sebbene si tratti di valutazioni riservate al giudice del merito – nella specie non e’ stata operata alcuna verifica sul punto.

1.3. Con il terzo motivo di ricorso si denuncia omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che e’ stato oggetto di discussione tra le parti (ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 5) nonche’ violazione o falsa applicazione dell’articolo 112 c.p.c. (ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 3). Al riguardo parte ricorrente lamenta che la Corte territoriale non si sia pronunciata sulle proprie argomentazioni, laddove evidenziava il carattere “di stile” della clausola che faceva riferimento “al solo fine di agevolare la crisi economica attuale”, ripetuta nei due contratti e quindi tale da non potere giustificare una diversa “scaletta”.

1.4. Con il quarto motivo di ricorso si denuncia omesso esame dell’appello incidentale nullita’ della sentenza (ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 4) e violazione o falsa applicazione dell’articolo 112 c.p.c. (ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 3), per non essersi la Corte di appello pronunciata sull’appello incidentale condizionato, con cui si deduceva la violazione della L. n. 311 del 2004, articolo 1, comma 346, e la nullita’ ex articoli 1344 e 1345 c.c..

1.5. Con il quinto motivo si denuncia omesso esame dell’appello incidentale nullita’ della sentenza (ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 4) e violazione o falsa applicazione dell’articolo 112 c.p.c. (ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 3) per non essersi la Corte di appello pronunciata sul secondo motivo di appello incidentale relativo all’erronea condanna al pagamento degli oneri accessori.

  1. Il primo motivo e’ infondato.

Le ricorrenti si dolgono che il giudice di appello abbia fondato la decisione sulla considerazione dell’intervenuta modificazione dell’originario contratto di locazione del 30 marzo 2009 con la scrittura privata del 1 aprile 2009, sebbene la tesi dell’appellante postulasse la contestualita’ delle due scritture. Senonche’ tutto cio’ attiene all’interpretazione dei fatti oggetto d’esame e non ridonda nel vizio di ultrapetizione.

Invero e’ pacifico (ex plurimis: Cass., n. 11455/2004; Cass., n. 8218/2002) che il principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, fissato dall’articolo 112 cod. proc. implica il divieto per il giudice di attribuire alla parte un bene non richiesto o, comunque, di emettere una statuizione che non trovi corrispondenza nella domanda. Il suddetto principio e’, quindi, violato ogni qual volta il giudice, interferendo nel potere dispositivo delle parti, alteri alcuno degli elementi obiettivi di identificazione dell’azione, attribuendo o negando ad alcuno dei contendenti un bene diverso da quello richiesto e non compreso, nemmeno implicitamente o virtualmente, nella domanda, ovvero, nell’ambito del petitum, rilevi d’ufficio un’eccezione in senso stretto che puo’ essere sollevata soltanto dall’interessato, oppure ponga a fondamento della decisione fatti e situazioni estranei alla materia del contendere, introducendo nel processo un titolo nuovo e diverso da quello enunciato dalla parte a sostegno della domanda; mentre non osta a che – come e’ avvenuto nella decisione in esame – il giudice renda la pronuncia richiesta in base ad una ricostruzione o ad una interpretazione dei fatti autonoma rispetto a quella prospettata dalle parti.

Il motivo va, dunque, rigettato.

2.2. Il secondo motivo e’ fondato e assorbente rispetto agli altri motivi.

2.2.1. Innanzitutto va ribadito che in tema di immobili adibiti ad uso diverso da abitazione, ogni pattuizione avente ad oggetto non gia’ l’aggiornamento del corrispettivo ai sensi della L. n. 392 del 1978, articolo 32, ma veri e propri aumenti del canone, deve ritenersi nulla, ex articolo 79, comma 1, della stessa legge, in quanto diretta ad attribuire al locatore un canone piu’ elevato rispetto a quello previsto dalla norma. (cfr., in particolare, Cass., 11 aprile 2006, n. 8410; Cass., 27 luglio 2001, n. 10286).

E’ ben vero che – come evidenziato nella decisione impugnata – questa Corte, con riferimento ai contratti di locazione ad uso non abitativo, in virtu’ del principio della libera determinazione convenzionale del canone locativo, ha ritenuto legittima la clausola che preveda la determinazione del canone in misura differenziata e crescente per frazioni successive di tempo nell’arco del rapporto; ma tutto cio’ a condizione che l’aumento sia ancorato ad elementi predeterminati ed idonei ad influire sull’equilibrio del sinallagma contrattuale, ovvero appaia giustificata la riduzione del canone per un limitato periodo che la suddetta clausola non costituisca un aggirare la norma imperativa di cui alla L. n. 392, articolo 32, circa le modalita’ e aggiornamento del canone in relazione alle iniziale, salvo espediente per 27 luglio 1978, la misura di variazioni del potere d’acquisto della moneta (ex plurimis, cfr. Cass. 30 settembre 2014, n. 20553).

In sostanza tale principio – lungi dal postulare simmetricamente la legittimita’ di una pattuizione che intervenga nel corso del rapporto, come opinato dalla Corte territoriale – obbliga il giudice a verificare se la previsione di “una scaletta” del canone non sia volta ad eludere la norma di cui all’articolo 32 cit., occorrendo che si tratti – non gia’ di un aumento che non sarebbe, comunque consentito (sia esso convenuto ab origine ovvero nel corso del rapporto) – bensi’ di un “adeguamento” del canone al mutato valore locativo dell’immobile volto a ripristinare il sinallagma originario, evitando uno squilibrio a vantaggio del conduttore altrimenti determinato dal canone fisso ovvero di una limitata e iniziale “riduzione” del canone convenuto, sempre che nell’uno, come nell’altro caso, tanto emerga da elementi obiettivi e predeterminati cui sia affidata “la scaletta” del canone.

2.2.2. La decisione impugnata appare ispirata a un risalente orientamento secondo cui il divieto posto dalla L. n. 392 del 1972, articolo 79 (comminante la nullita’ delle pattuizioni dirette ad attribuire al locatore un canone maggiore rispetto a quello dovuto) e’ da intendersi come diretto ad evitare una elusione solamente di tipo preventivo dei diritti del locatario, e, attesa la desunta possibilita’ di disporre dei diritti una volta sorti e quindi suscettibili di essere fatti valere, ritiene valido il patto avente ad oggetto l’aumento del canone convenuto nel corso del rapporto (v. Cass., 19 novembre 993, n. 11402).

In contrario senso – argomentando dal complessivo tenore della norma di cui all’articolo 79 – si e’ peraltro posto in rilievo che il citato articolo 79, comma 1, sanziona di nullita’ un’ampia gamma di pattuizioni, comprensiva di quelle volte a limitare la durata legale del contratto; ad attribuire al locatore un canone maggiore rispetto al canone di legge ovvero anche altro vantaggio in contrasto con le disposizioni della legge sull’equo canone; mentre al comma 2 (secondo cui “Il conduttore, con azione proponibile fino a sei mesi dopo la riconsegna dell’immobile locato, puo’ ripetere le somme sotto qualsiasi forma corrisposte in violazione dei divieti e dei limiti previsti dalla presente legge”) e’ dettata una specifica disciplina circa i modi ed i tempi per far valere la nullita’, con riferimento alle sole pattuizioni dalle quali consegua la corresponsione di somme di denaro, tra le quali sono ovviamente comprese le pattuizioni aventi ad oggetto la determinazione del canone in difformita’ da quanto previsto dalla legge. Se ne trae quale necessario corollario, che il diritto a non erogare somme in misura eccedente il canone legalmente dovuto sorge al momento della conclusione del contratto; persiste durante tutto il corso del rapporto; puo’ essere fatto valere, in virtu’ di espressa disposizione legislativa, dopo la riconsegna dell’immobile locato, entro il termine di decadenza di sei mesi (v. Cass., 27 luglio 2001, n. 10286). Se il diritto in esame puo’ essere fatto valere dopo la riconsegna dell’immobile, non e’ sostenibile – si e’ osservato, con argomento che va qui ribadito – che di esso possa disporre il conduttore in corso di rapporto, accettando aumenti non dovuti.

La validita’ di una rinunzia espressa o tacita del medesimo ad avvalersi del diritto a non subire aumenti non dovuti, eventualmente intervenuta in corso di rapporto, appare, infatti, inconciliabile, con la facolta’ attribuita al conduttore di ripetere “le somme sotto qualsiasi forma corrisposte in violazione dei divieti e dei limiti previsti dalla presente legge” entro sei mesi dalla riconsegna dell’immobile. E’ pertanto la riconsegna dell’immobile (con conseguente cessazione del rapporto di fatto tra il conduttore e la cosa locata) ad individuare, per espressa scelta del legislatore, il momento dal quale il diritto alla ripetizione di quanto indebitamente pagato puo’ essere fatto valere dal conduttore “liberamente”, e cioe’ senza la “remora” che il locatore possa agire in ritorsione nei suoi confronti (v. Cass. n. 10286/2001 cit.).

2.2.3. Se, dunque, puo’ convenirsi con la Corte territoriale laddove ha ritenuto indifferente il momento della stipulazione della clausola comportante un aumento del canone, cio’ va affermato in un’ottica diametralmente opposta a quella seguita dal giudice di appello; nel senso, cioe’, che e’ da escludere che il conduttore possa, neanche nel corso del rapporto, e non soltanto in sede di conclusione del contratto, rinunziare al proprio diritto di non corrispondere aumenti non dovuti.

Soprattutto gli argomenti su cui fa leva la Corte territoriale essenzialmente riconducibili alla valorizzazione dell’autonomia contrattuale nella determinazione del canone e, quindi, anche della sua modificazione nel corso del rapporto – finiscono per collidere con l’interpretazione assunta dalla consolidata giurisprudenza di questa Corte del comb. disp. della L. n. 392 del 1978, articoli 32 e 79; in particolare detti argomenti – proprio perche’ affidati al rilievo dell’esistenza, tanto nel contratto originario, quanto nella scrittura modificativa (peraltro vicinissimi di data) di una (diversa) “scaletta” del canone, giustificata, nell’una come nell’altra scrittura, dal dichiarato “solo fine di agevolare la crisi economica attuale” – obliterano un dato fondamentale e, cioe’, che, per escludere l’intento elusivo del divieto di veri e propri aumenti del canone, occorre che vi siano elementi obiettivi e predeterminati da cui emerga che la previsione di un canone crescente nell’arco del rapporto sia finalizzato a mantenere integra l’originario sinallagma ovvero che diano contezza di una iniziale riduzione del canone.

  1. In definitiva il primo motivo va rigettato; va invece accolto il secondo motivo, risultando assorbiti gli altri motivi; cio’ comporta la cassazione della sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e il rinvio alla Corte di appello di Catania in diversa composizione, che dovra’ dare applicazione dei seguenti principi:

in tema di locazione di immobili adibiti ad uso diverso da quello abitativo, ogni pattuizione avente ad oggetto non gia’ o’ l’aggiornamento del corrispettivo ai sensi della L. 27 luglio 1978, n. 392, articolo 32, ma veri e propri aumenti del canone, deve ritenersi nulla ex articolo 79, comma 1, della stessa legge, in quanto diretta ad attribuire al locatore un canone piu’ elevato rispetto a quello legislativamente previsto, senza che il conduttore possa, neanche nel corso del rapporto, e non soltanto in sede di conclusione del contratto, rinunciare al proprio diritto di non corrispondere aumenti non dovuti;

la clausola che preveda la determinazione del canone in Misura differenziata e crescente per frazioni successive di tempo nell’arco del rapporto e’ valida a condizione che si tratti, non gia’ di un vero e proprio “aumento”, bensi’ di un “adeguamento” del canone al mutato valore locativo dell’immobile volto a ripristinare il sinallagma originario, evitando uno squilibrio a vantaggio del conduttore altrimenti determinato dal canone fisso ovvero di una limitata e iniziale “riduzione” del canone convenuto, sempre che nell’uno, come nell’altro caso, tanto emerga da elementi obiettivi e predeterminati cui sia affidata “la scaletta” del canone.

Il giudice del rinvio provvedera’ anche alla regolazione delle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il primo motivo di ricorso; accoglie il secondo, assorbiti gli altri; cassa la sentenza impugnata in relazione e rinvia anche per le spese del giudizio di cassazione alla Corte di appello di Catania in diversa composizione.

Locazioni commerciali. E’ valida la clausola che preveda l’iniziale predeterminazione del canone in misura differente e crescente?

Corte di Cassazione, Sezione 3 civile, Sentenza 10 novembre 2016, n. 22909

Alla stregua del principio generale della libera determinazione convenzionale del canone locativo per gli immobili destinati ad uso non abitativo, deve ritenersi legittima la clausola in cui venga pattuita l’iniziale predeterminazione del canone in misura differenziata e crescente per frazioni successive di tempo nell’arco del rapporto; e cio’, sia mediante la previsione del pagamento di rate quantitativamente differenziate e predeterminate per ciascuna frazione di tempo; sia mediante il frazionamento dell’intera durata del contratto in periodi temporali piu’ brevi a ciascuno dei quali corrisponda un canone passibile di maggiorazione; sia correlando l’entita’ del canone all’incidenza di elementi o di fatti (diversi dalla svalutazione monetaria) predeterminati e influenti, secondo la comune visione dei paciscenti, sull’equilibrio economico del sinallagma.

La legittimita’ di tale clausola dev’essere peraltro esclusa la’ dove risulti – dal testo del contratto o da elementi extratestuali della cui allegazione deve ritenersi onerata la parte che invoca la nullita’ della clausola – che le parti abbiano in realta’ perseguito surrettiziamente lo scopo di neutralizzare soltanto gli effetti della svalutazione monetaria, eludendo i limiti quantitativi posti dalla L. n. 392 del 1978, articolo 32, (nella formulazione originaria ed in quella novellata dalla L. n. 118 del 1985, articolo 1, comma 9 sexies), cosi’ incorrendo nella sanzione di nullita’ prevista dal successivo articolo 79, comma 1, della stessa legge”.

Nella specie, la Corte d’appello di Bologna ha espressamente sottolineato come il complesso degli elementi di prova acquisiti nel corso del giudizio avesse evidenziato il ricorso dei presupposti per il riconoscimento di una manifesta tolleranza del locatore rispetto ai molteplici ritardi in cui la società conduttrice era già ripetutamente incorsa nel corso del rapporto nel pagamento dei canoni di locazione: tolleranza di fatto ritenuta, dai giudici d’appello, idonea a giustificare la rinuncia del locatore ad avvalersi della clausola risolutiva espressa originariamente convenuta tra le parti, al punto da ingenerare l’obiettivo corrispondente convincimento della società debitrice, con la conseguente necessità di procedere alla valutazione nel merito dell’importanza dell’inadempimento della società debitrice (ai sensi dell’art. 1455 c.c.): importanza nella specie recisamente esclusa dalla corte territoriale, sulla base delle argomentazioni di merito diffusamente esposte nella motivazione della sentenza impugnata.

Testo della sentenza 

Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 22 settembre – 10 novembre 2016, n. 22909 Presidente Vivaldi – Relatore Dell’Utri

Svolgimento del processo

  1. F.F. ha convenuto la Eternedile s.p.a. dinanzi al Tribunale di Bologna per sentir convalidare lo sfratto per morosità in relazione a un contratto di locazione ad uso diverso di abitazione intercorso tra le parti. Costituitasi, la società intimata, dopo aver sanato integralmente la morosità contestatale, ha invocato in via riconvenzionale la condanna del locatore alla restituzione, in proprio favore, delle somme versate in eccesso a titolo di canoni, tenuto conto della nullità della previsione contrattuale riferita a un ammontare crescente nel tempo del canone, in violazione dell’art. 75 della legge n. 392/78 e, in ogni caso, in relazione alle modalità di rinnovazione automatica del rapporto. 2. Il Tribunale di Bologna ha rigettato la domanda di risoluzione contrattuale per inadempimento della società conduttrice e, in accoglimento della domanda riconvenzionale di quest’ultima, ha condannato il locatore alla restituzione delle somme percepite in eccesso a titolo di canoni. 3. Su impugnazione di entrambe le parti, con sentenza in data 4/4/2014, in riforma della sentenza di primo grado, la Corte d’appello di Bologna, ritenuta la validità della clausola di determinazione del canone di locazione, ha disatteso la domanda riconvenzionale proposta dalla società conduttrice, contestualmente rigettando la domanda di risoluzione proposta dal locatore, in considerazione dell’avvenuta rinuncia del locatore ad avvalersi della clausola risolutiva espressa e del carattere non grave del ritardo nel pagamento dei canoni della parte della conduttrice. 4. Avverso la sentenza d’appello, ha proposto ricorso per cassazione la Eternedile s.p.a. sulla base di sei motivi di impugnazione, illustrati da successiva memoria. 5. F.F. ha depositato controricorso invocando la dichiarazione d’inammissibilità ovvero il rigetto del ricorso principale, contestualmente proponendo ricorso incidentale sulla base di un unico motivo di impugnazione. 6. Ha depositato controricorso a ricorso incidentale la Eternedile s.p.a. concludendo per la dichiarazione di inammissibilità, ovvero per il rigetto del ricorso incidentale.

Motivi della decisione

  1. Con il primo motivo del ricorso principale, la Eternedile s.p.a. censura la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione degli artt. 32 e 79 della legge n. 392/78, dell’art. 8 prel. e degli artt. 1374 e 2729 c.c.. Al riguardo, la ricorrente sottolinea come la corte territoriale abbia erroneamente ritenuto di escludere l’invalidità della clausola di determinazione del canone sulla base di argomentazioni tautologiche e del tutto congetturali, non avendo le parti provveduto ad alcun riferimento a elementi predeterminati cui vincolare il progressivo aumento del relativo ammontare nel tempo. 8. Con il secondo motivo, la società ricorrente si duole della violazione di legge (in relazione agli arti. 132, 112, 113, 115, 116 e 161 c.p.c. e 111 Cost.) in cui sarebbe incorsa la corte territoriale, per avere quest’ultima affermato la riconducibilità dell’accordo contrattuale raggiunto tra le parti alla previsione di elementi predeterminati al fine di determinare l’entità del canone di locazione, senza tuttavia aver individuato in concreto l’identità di detti elementi. 9. Con il terzo motivo, la società ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione degli artt. 28, 29, 32 e 79 della legge n. 392/78, nonché degli artt. 1367, 1372, 1597 e 2729 c.c.. Sul punto, la società ricorrente evidenzia come la corte territoriale abbia erroneamente escluso, nei casi di rinnovo automatico del rapporto, la persistenza delle medesime condizioni contrattuali originariamente stipulate dalle parti, escludendo arbitrariamente la prevista minore entità dei canoni di locazione stabilita per il primo triennio, sulla base di considerazioni interpretative totalmente illogiche, trascurando la decisiva circostanza in forza della quale le parti ebbero a determinare un importo globale del canone di locazione per l’intera durata sessennale del rapporto, sia pur diversamente ripartito nel tempo, come peraltro espressamente riconosciuto anche dalla controparte. 10. Con il quarto motivo, la società ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 113, 115 e 434 c.p.c. in relazione all’art. 36o n. 4 c.p.c.. Sul punto, la società ricorrente evidenzia come la corte territoriale abbia illegittimamente introdotto nella motivazione indicata a sostegno del rigetto della domanda riconvenzionale della conduttrice un’argomentazione mai invocata da controparte, con particolare riguardo alla cosiddetta “pratica invalsa” nell’ambito dei rapporti locativi circa le modalità di determinazione del canone. il. Con il quinto motivo, la ricorrente si duole della violazione di legge (in relazione agli artt. 132, 112, 113, 115, 116 e 161 c.p.c., nonché dell’art. in Cost., in relazione all’art. 36o n. 4 c.p.c.) in cui sarebbe incorsa la corte territoriale, per avere quest’ultima richiamato a fondamento della propria decisione una pretesa “pratica invalsa” e un imprecisato “orientamento consolidato” nell’ambito dei rapporti locativi, in modo del tutto apodittico e arbitrario, siccome del tutto avulso dai termini concreti della controversia in esame. 12. Con il sesto e ultimo motivo, la società ricorrente censura la sentenza impugnata per omesso esame di un fatto decisivo controverso tra le parti, avendo la corte territoriale trascurato di esaminare il fatto storico relativo alla sussistenza o meno, nel caso di specie, di elementi predeterminati idonei a influire sul sinallagma contrattuale e a giustificare la fissazione di canoni differenziati in aumento nel tempo, senza incorrere in alcuna violazione degli artt. 32 e 79 della legge n. 392/78. 13. Con l’unico motivo di ricorso incidentale, F.F. censura la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione degli artt. 1322, 1362, 1363 e 1456 c.c., per avere la corte territoriale omesso di pronunciare la risoluzione del contratto di locazione intercorso tra le parti, nonostante all’atto dell’intimazione di sfratto per morosità la società conduttrice fosse effettivamente in ritardo nel pagamento di tre mensilità di canone, in tal senso trascurando il tenore della clausola risolutiva espressa pattuita tra le parti e conferendo, viceversa, un decisivo rilievo alla tolleranza del locatore, di per sé inidonea a integrare una tacita rinuncia dello stesso ad avvalersi di detta clausola. 14. Il terzo motivo del ricorso principale è inammissibile. Con riguardo al motivo in esame – espressamente dedotto dalla società ricorrente nella forma della denunzia di violazione di legge -, ritiene il collegio opportuno ribadire – in conformità al costante insegnamento della giurisprudenza di legittimità – come, in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consista nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge, implicando necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione. Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (cfr., ex plurimis, Sez. L, Sentenza n. 7394 del 26/03/2010, Rv. 612745; Sez. 5, Sentenza n. 26110 del 30/12/2015, Rv. 638171). Nel caso di specie, al di là del formale richiamo, contenuto nell’epigrafe del motivo d’impugnazione in esame, al vizio di violazione e falsa applicazione di legge, l’ubi consistamdelle censure sollevate dall’odierna società ricorrente deve piuttosto individuarsi nella contestata correttezza dell’interpretazione fornita dal giudice d’appello in ordine alla volontà delle parti di prevedere – non già un unico e onnicomprensivo canone globale sessennale da ripartire diversamente negli anni – bensì un canone iniziale ridotto (al fine di favorire l’avvio in loco dell’impresa della conduttrice) destinato ad attestarsi nella misura definitiva successivamente al primo triennio di rapporto e a permanere nella medesima misura definitiva sin dall’inizio della rinnovazione automatica del rapporto alla prima scadenza e a quelle successive. Si tratta, come appare manifesto, di argomentazioni critiche con evidenza dirette a censurare, non già un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge (come accade per il classico caso della violazione di legge), bensì una (tipica) erronea ricognizione della fattispecie concreta, di necessità mediata dalla contestata valutazione delle risultanze documentali di causa; e pertanto di una tipica censura diretta a denunciare il vizio di motivazione in cui sarebbe incorso il provvedimento impugnato nel travisare l’obiettivo (secondo la società ricorrente) contenuto rappresentativo proprio di fonti probatorie dedotte (nella specie, del testo contrattuale concordato tra le parti) al fine di ricostruire l’esatta volontà contrattuale delle parti. Ciò posto, in ossequio al consolidato insegnamento della giurisprudenza di legittimità, il motivo d’impugnazione così formulato deve ritenersi inammissibile. Osserva infatti il collegio come – dovendo il vizio di violazione o falsa applicazione di norme di diritto risolversi in un giudizio sulla fattispecie astratta contemplata dalla norma di diritto applicabile al caso concreto, e dovendo la relativa denunzia avvenire mediante la specifica indicazione dei punti della sentenza impugnata che si assumono essere in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza e/o dalla dottrina prevalente – deve considerarsi inammissibile il ricorso per cassazione con il quale si censura come violazione di norma di diritto, e non come vizio di motivazione, un errore in cui si assume che sia incorso il giudice di merito nella ricostruzione di un fatto giuridicamente rilevante, sul quale la sentenza doveva pronunciarsi (Sez. 3, Sentenza n. 10385 del 18/10/2005, Rv 581564; Sez. 5, Sentenza n. 9185 del 21/04/2011, Rv. 616892). 15. Il primo, il secondo, il quarto, il quinto e il sesto motivo del ricorso principale – congiuntamente esaminabili in ragione dell’intima connessione delle questioni dedotte – devono ritenersi integralmente privi di fondamento, siccome tutti argomentati sul presupposto di un’errata interpretazione delle norme applicabili al caso di specie, secondo quanto di seguito precisato. Con riguardo al tema della legittimità del patto di predeterminazione differenziata del canone di locazione di immobili urbani ad uso diverso di abitazione, ritiene il collegio opportuno procedere a una rapida ricapitolazione della questione, al fine di comporre in termini univoci, anche sul piano terminologico, gli orientamenti interpretativi della Corte di cassazione, succedutisi nel tempo in forme o termini che appaiono non sempre informati a criteri di reciproca e rigorosa coerenza. 15.1. Secondo un’argomentazione sovente richiamata a proposito del patto di determinazione differenziata nel tempo del canone di una locazione commerciale, la nullità di tale patto discenderebbe dal combinato disposto degli artt. 32 e 79 della legge n. 392/78, dovendo ritenersi che, ove le parti non abbiano vincolato detta determinazione differenziata al ricorso di elementi oggettivi e predeterminati, idonei a influire sull’equilibrio economico degli interessi contrattualmente disposti, tale patto non possa che esprimere una sostanziale volontà elusiva del divieto stabilito dall’art. 32 cit., ai sensi del quale l’aggiornamento periodico del canone di una locazione commerciale non può avere luogo in termini quantitativamente superiori al 75% dell’indice dei prezzi al consumo calcolato dall’Istat per le famiglie di operai e impiegati per ciascuna annualità di rapporto. Tale impostazione sembrerebbe trovare riscontro nel vigore di principi fatti propri da diversi arresti della giurisprudenza di legittimità, testualmente tramandatisi attraverso la formula secondo la quale: “In relazione al principio della libera determinazione convenzionale del canone locativo in materia di locazione di immobili destinati ad uso non abitativo, la clausola convenzionale, che prevede future maggiorazioni del canone diverse dall’aggiornamento ex art. 32 della legge n. 392 del 1978, per qualificarsi legittima, deve chiaramente riferirsi ad elementi predeterminati, desumibili dal contratto e tali da essere idonei ad influire sull’equilibrio economico del rapporto, in modo autonomo dalle variazioni annue del potere di acquisto della moneta” (Sez. 3, Sentenza n. 19475 del 06/10/2005, Rv. 584778). Una medesima enunciazione del principio di diritto caratterizza pronunce di analogo tenore (Sez. 3, Sentenza n. 1070 del 01/02/2000, Rv. 533312; Sez. 3, Sentenza n. 9227 del 12/07/2000, Rv. 538386; Sez. 3, Sentenza n. 11320 del 21/07/2003, Rv. 565302), e appare talora equivalente (o in larga misura assimilabile) ad altre formulazioni desumibili dalle sentenze rese da Sez. 3, Sentenza n. 2770 del 08/03/1993, Rv. 481314; Sez. 3, Sentenza n. 4474 del 15/04/1993, Rv. 481851; Sez. 3, Sentenza n. 9878 del 22/11/1994, Rv. 488760; Sez. 3, Sentenza n. 5632 del 24/06/1997, Rv. 505418; Sez. 3, Sentenza n. 6695 del 03/08/1987, Rv. 454914; Sez. 3, Sentenza n. 5349 del 05/03/2009, Rv. 606954; Sez. 3, Sentenza n. 19475 del 06/10/2005, Rv. 584778; Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 10834 del 17/05/2011, Rv. 618213; Sez. 3, Sentenza n. 17061 del 28/07/2014, Rv. 632144. 15.2. In termini che appaiono alludere a una diversa impostazione, altre pronunce argomentano la legittimità del patto di determinazione differenziata nel tempo del canone di una locazione commerciale richiamandosi al principio secondo il quale “Il riferimento, contenuto nell’originaria formulazione dell’art. 32 della legge 27 luglio 1978 n. 392, alla possibilità che il canone locativo degli immobili destinati per uso non abitativo sia concordato secondo misure contrattualmente stabilite e, quindi, differenziate nel loro importo, è espressione del principio generale della libera determinazione convenzionale del canone locativo degli immobili destinati ad uso non abitativo, al quale la stessa norma deroga eccezionalmente solo per le clausole di aggiornamento per variazioni del potere di acquisto della moneta, o clausole Istat, con una disposizione che non può essere estesa, per analogia, alle altre clausole contrattuali volte ad incrementare, secondo la comune intenzione delle parti, il valore reale del corrispettivo per diverse e successive frazioni del medesimo rapporto e che debbono, pertanto, ritenersi valide a meno che non sia in concreto accertata la loro funzione elusiva del citato limite posto dall’art. 32 (Sez. 3, Sentenza n. 8883 del 19/08/1991, Rv. 473538). A tale formulazione appaiono riconducibili, tra le altre, le massime ricavabili da Sez. 3, Sentenza n. 1683 del 26/02/1999, Rv. 523684; Sez. 3, Sentenza n. 6246 del 25/05/1992, Rv. 477371. 15.3. La sostanza della divergenza tra gli orientamenti ricordati (che si riflette, in termini pratici, sul piano della disciplina degli oneri probatori e delle conseguenze processuali del relativo mancato assolvimento) sembra emergere in relazione al ruolo rivestito dal richiamo, operato dalle parti, al ricorso di elementi obiettivi e predeterminati, diversi e autonomi dalla svalutazione monetaria, idonei a influire sull’equilibrio economico del piano contrattuale; da un lato assumendo, detto richiamo (ove naturalmente corrispondente a un effettivo dato di realtà), la veste di una condizione preliminare al cui soddisfacimento parrebbe subordinato il libero dispiegamento della libertà contrattuale delle parti; dall’altro limitandosi, il significato di detti elementi, a costituire semplici indici strumentali (di per sé non esclusivi) per la determinazione obiettiva, al momento della conclusione del contratto, dell’entità esatta degli oneri economici corrispettivi connessi al godimento dell’immobile locato. 15.4. Così posti i termini della questione, nel ricostruire l’evoluzione dinamica della giurisprudenza di legittimità sul punto, individuandone le presumibili occasioni d’origine, converrà osservare come, questa Corte, già in epoca di poco successiva all’approvazione della legge sulle locazioni di immobili urbani (legge n. 392/78), con la sentenza Sez. 3, Sentenza n. 6695 del 03/08/1987 ebbe a puntualizzare, sul piano interpretativo, la necessità di non disperdere il significato dei diversi termini (selezionati, dal legislatore del tempo, con preciso rigore) destinati a contrassegnare le differenti ragioni potenzialmente suscettibili di influire, nel corso del rapporto, sull’entità monetaria del canone di locazione. Da questo punto di vista – segnalava già al tempo la riflessione del giudice di legittimità -, deve ritenersi radicalmente inammissibile una confusione tra i concetti di “aumento” del canone (di locazione dello stesso immobile secondo contratti succedentesi nel tempo, anche per via di rinnovazione); di “determinazione differenziata” del canone (correlativamente a periodi compresi nella durata del medesimo rapporto contrattuale) e di “aggiornamento” del canone (in dipendenza della perdita del potere di acquisto della moneta verificatasi durante la pendenza del medesimo rapporto contrattuale). Sotto il profilo storico – invitava a rilevare la Corte di legittimità – giova ricordare che la larga diffusione assunta, nella pratica del commercio delle locazioni in tempi di crescente inflazione, dalle clausole di adeguamento dei canoni (così dette clausole Istat), costrinse il legislatore a occuparsene a salvaguardia del regime di blocco dei canoni stessi, allora vigente (cfr. art. 1 del d.l. 24/7/1973 n. 426). Ma già con riferimento alla legislazione vincolistica, la giurisprudenza di questa Corte non mancò di segnalare la non confondibilità – concettuale e di regolamento normativo – tra clausole di adeguamento Istat e patti di aumento del canone: in quanto “l’aumentò implica un accrescimento non solo dell’espressione monetaria ma anche del valore reale del corrispettivo, dovuto dal conduttore, mentre l’adeguamento” importa soltanto una variazione della quantità monetaria, fermo rimanendo il suo valore effettivo (cfr. tra le altre Cass. n. 6574 e n. 4958 del 1979 e, segnatamente, Cass. n. 2758 del 1976). Successivamente, introdotta con la legge n. 392 del 1978 la predeterminazione legale del livello massimo del canone di locazione per gli immobili adibiti ad uso abitativo, secondo parametri oggettivi, rimase viva l’esigenza di salvaguardare l’equilibrio economico effettivo tra prestazione e controprestazione a fronte nella sopravvenienza, in pendenza del rapporto a durata vincolata, di elementi influenti su detto equilibrio, e si ebbe cura di distinguere “l’aggiornamento” (art. 24) da l’”adeguamento” del canone (art. 25) a seconda che il mutamento avesse inciso sul potere di acquisto della moneta, e cioè sul valore reale della prestazione del conduttore, oppure su parametri e coefficienti correttivi ex art. 13 e 15, e cioè sul valore reale della prestazione del locatore. In materia di locazione di immobili adibiti ad uso diverso da quello di abitazione, meno pressante si profila l’esigenza di disciplinare “l’aggiornamento” del canone – vale a dire la validità o meno delle c.d. clausole Istat – una volta rimessa all’incontro della libera volontà delle parti, secondo le leggi di mercato, la determinazione convenzionale del canone. Ma sia per amore di simmetria, sia in considerazione dei problemi connaturati alla notevole durata del rapporto locatizio, venne introdotto l’art. 32 – poi sostituito dall’art. 1, co. nove sexies, della legge n. 118 del 1985, di portata assai più liberale. Quale che fosse il grado della sua pratica realizzabilità, la finalità perseguita dalla citata norma, nell’originaria e nella novellata formulazione, sembra potersi individuare in quella di dissuadere i contraenti da una spesso arbitraria previsione a lungo termine circa la flessione del potere di acquisto della moneta nell’arco dell’intera durata del rapporto, neutralizzandone in partenza gli effetti futuri attraverso una lievitazione del livello del corrispettivo preteso per concedere il godimento dell’immobile (ma così anticipando all’attualità l’incidenza negativa sul costo medio della vita di un evento temuto quale l’inflazione nel futuro); dissuasione suggerita concedendo alle parti di convenire (contestualmente alla stipulazione del contratto o successivamente) la variazione del canone secondo una percentuale ancorata all’indice Istat dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati. Si resta comunque e sempre nel campo del vero e proprio “aggiornamento” del canone che, con costante precisione terminologica, il legislatore utilizza per individuare il fenomeno del mantenimento (almeno tendenziale) del valore reale della prestazione del conduttore – incidente sull’equilibrio del sinallagma nonostante la variabilità della sua espressione monetaria in dipendenza della flessione nel tempo del potere di acquisto della lira. Questa revisione riequilibratrice, e i limiti della sua operatività, nulla hanno a vedere con il diverso campo dell’incondizionata facoltà per le parti, secondo la loro libera valutazione espressa al momento della stipulazione del contratto di locazione di immobile adibito ad uso non abitativo, di assicurare al locatore un corrispettivo maggiore, in termini di valore reale e non nominalistica, rispetto a quello goduto in occasione di un precedente rapporto contrattuale (e cioè un aumento del canone in senso proprio); oppure di assicurare al locatore un corrispettivo crescente – sempre in termini di valore reale – durante l’arco di svolgimento dello stesso rapporto, sia prevedendo il pagamento di rate quantitativamente differenziate, sia prevedendo il frazionamento dell’intera durata del contratto in periodi temporali più brevi a ciascuno dei quali corrisponda un canone passibile di maggiorazione, in difetto dell’incidenza di elementi o di fatti (diversi dalla svalutazione monetaria) predeterminati e influenti, secondo la comune visione dei paciscenti, sull’equilibrio economico del sinallagma (ipotesi dicanone differenziato). È invero di agevole intuizione che il valore locativo dello stesso immobile urbano adibito ad uso commerciale possa – data la non breve e non riducibile durata legale minima del rapporto locatizio – subire variazione in dipendenza dello sviluppo urbano, della dotazione di maggiori servizi nella zona, della concentrazione di immobili destinabili ad uso concorrenziale, o di altri infiniti fattori estrinseci. Di essi non può essere interdetto ai contraenti di tenere il debito conto ai fini dell’accordo sul corrispettivo, nel senso di rendere compartecipe il locatore dell’incremento nel tempo della redditività da posizione dell’immobile locato, attraverso meccanismi o formule di accrescimento del valore reale del canone ancorati a parametri certi e determinati (non escluso quello rappresentato dal volume degli affari del commerciante conduttore). Controindicazioni a quanto ora affermato non possono essere desunte dall’art. 32; e ciò, non tanto perché nel testo originario di quella norma la previsione che il canone fosse dovuto secondo “misure” (al plurale) contrattualmente stabilite lasciasse sottintendere che le misure stesse fossero anche differenziate nel loro importo; quanto e soprattutto perché il principio generale e immanente della libera determinazione convenzionale del canone locatizio (per immobili destinati ad uso non abitativo) soffre, attraverso quella disposizione, di una deroga eccezionale limitatamente alla valenza delle clausole di aggiornamento per eventuali variazioni del potere di acquisto della moneta, o clausole Istat, la quale mai potrebbe essere estesa, per via di interpretazione analogica, al di fuori del predetto settore e con riferimento ad altre clausole contrattuali volte a incrementare – giusta la comune intenzione delle parti – il valore reale del corrispettivo per diverse e successive frazioni di durata del medesimo rapporto. Precisato ciò, non può peraltro essere elusa la considerazione che, ragionando in termini di realismo economico, un accrescimento del valore effettivo del corrispettivo mai potrebbe essere conseguito dal locatore se non previa depurazione dal suo importo monetario di una quota corrispondente alla compensazione del decremento, nel tempo, del potere di acquisto della moneta. Si pone pertanto, in sede di interpretazione del contratto, il problema di stabilire se mediante la formula adottata a determinazioni di canoni differenziati e crescenti per frazioni di tempo, le parti abbiano in realtà perseguito lo scopo di neutralizzare soltanto gli effetti negativi della svalutazione monetaria (con eventuale surrettizia elusione, sanzionabile ai sensi dell’art. 79, dei limiti quantitativi posti dall’art. 32 in esame) oppure abbiano di comune accordo inteso riconoscere al locatore, in misura dinamica, una maggiore fruttuosità in termini reali del ceduto godimento dell’immobile. Ma trattasi di problema di accertamento della volontà delle parti contraenti e dello scopo comune verso cui esse dirigono, affidato al potere discrezionale del giudice del merito e non sindacabile in sede di legittimità se non sotto il profilo dell’inadeguatezza della motivazione o della violazione delle regole di ermeneutica. 15.5. Questo essendo il piano della lineare argomentazione della Corte di cassazione (Sez. 3, Sentenza n. 6695 del 03/08/1987, cit.), la sentenza de qua trovò una corrispettiva segnalazione nella massimazione, da parte dell’Ufficio competente, del seguente principio di diritto (Rv. 454914): “Alla stregua del principio generale della libera determinazione convenzionale del canone locativo per gli immobili destinati ad uso non abitativo, deve ritenersi legittima la clausola in cui venga pattuita la determinazione del canone in misura differenziata e crescente per frazioni successive di tempo nell’arco del rapporto, ancorandola ad elementi predeterminati ed idonei ad influire sull’equilibrio economico del sinallagma contrattuale, del tutto indipendenti dalle variazioni annue del potere di acquisto della lira (nella specie, con riguardo alla locazione di un immobile ad uso di sala cinematografica, al costo unitario del biglietto d’ingresso ed al numero dei biglietti venduti annualmente), salvo che risulti – a seguito di un accertamento di fatto devoluto esclusivamente al giudice del merito ed insindacabile in sede di legittimità ove congruamente motivato – che le parti abbiano in realtà perseguito surrettiziamente lo scopo di neutralizzare soltanto gli effetti della svalutazione monetaria, eludendo i limiti quantitativi posti dall’art. 32 della legge n. 392 del 1978 (nella formulazione originaria ed in quella novel-lata dall’art. 1, comma nono – sexies, della legge n. 118 del 1985) ed incorrendo così nella sanzione di nullità prevista dal successivo art. 79, primo comma, della stessa legge”. 15.6. Converrà segnalare come il riferimento, risultante dalla massima appena trascritta, al c.d. ancoramento della pattuizione del canone ad “elementi predeterminati ed idonei ad influire sull’equilibrio economico del sinallagma contrattuale, del tutto indipendenti dalle variazioni annue del potere di acquisto della lira” sembrerebbe indurre (come, in effetti, ha talora indotto) una lettura del principio sancito dalla Corte nel senso che, in tanto la libertà di determinazione convenzionale del canone locativo per gli immobili destinati ad uso non abitativo potrà esprimersi nella previsione di un canone in misura differenziata e crescente per frazioni successive di tempo nell’arco del rapporto, in quanto le parti abbiano cura di ancorare la misura del canone “ad elementi predeterminati ed idonei ad influire sull’equilibrio economico del sinallagma contrattuale, del tutto indipendenti dalle variazioni annue del potere di acquisto della moneta” (salvo poi che non risulti che le parti “abbiano in realtà perseguito surrettiziamente lo scopo di neutralizzare soltanto gli effetti della svalutazione monetaria, eludendo i limiti quantitativi posti dall’art. 32 della legge n. 392 del 1978). In breve, assecondando questa (errata) lettura della massima, si arriverebbe alla conclusione secondo cui le parti di un contratto di locazione a uso diverso da abitazione, là dove vogliano liberamente determinare l’entità del canone in misure differenziate e crescenti per frazioni di tempo, avrebbero l’onere (anche in termini probatori) di allegare necessariamente l’avvenuto ancoramento degli aumenti del canone ai richiamati “elementi predeterminati ed idonei ad influire sull’equilibrio economico del sinallagma contrattuale, del tutto indipendenti dalle variazioni annue del potere di acquisto della moneta”. Tale preliminare condizionamento dell’autonomia contrattuale, tuttavia, non appare desumibile da nessuno dei passaggi argomentativi della sentenza richiamata, avendo la Corte viceversa affermato la piena e incondizionata libertà delle parti di assicurare al locatore un corrispettivo crescente – sempre in termini di valore reale – durante l’arco di svolgimento dello stesso rapporto, sia prevedendo il pagamento di rate quantitativamente differenziate, sia prevedendo il frazionamento dell’intera durata del contratto in periodi temporali più brevi a ciascuno dei quali corrisponda un canone passibile di maggiorazione; sia prevedendo l’ancoraggio del canone a elementi o di fatti (diversi dalla svalutazione monetaria) predeterminati e influenti, secondo la comune visione dei contraenti, sull’equilibrio economico del sinallagma (ipotesi di canone differenziato). In breve, secondo la Corte, là dove non emergano elementi o fatti (diversi dalla svalutazione monetaria) predeterminati e influenti, secondo la comune visione dei paciscenti, sull’equilibrio economico del sinallagma, tali da consentire l’ancoramento automatico ad essi della misura dell’aumento del canone al fine di mantenere costante l’equilibrio economico del sinallagma voluto dai contraenti (come peraltro accaduto nella fattispecie concretamente affrontata dalla Corte, là dove le parti avevano vincolato, la misura del canone di locazione di una sala cinematografica, al costo unitario del biglietto d’ingresso e al numero dei biglietti venduti annualmente), le parti conservano in ogni caso la libertà di assicurare al locatore un corrispettivo crescente – sempre in termini di valore reale – durante l’arco di svolgimento dello stesso rapporto, sia prevedendo il pagamento di rate quantitativamente differenziate, sia prevedendo il frazionamento dell’intera durata del contratto in periodi temporali più brevi a ciascuno dei quali corrisponda un canone passibile di maggiorazione; e ciò, salvo che le stesse parti non abbiano in realtà perseguito surrettiziamente lo scopo di neutralizzare soltanto gli effetti della svalutazione monetaria, eludendo i limiti quantitativi posti dall’art. 32 della legge n. 392 del 1978. Dunque, diversamente da quanto potrebbe equivocarsi dalla lettura della massima riportata (Rv. 454914), la Corte – lungi dall’imporre ai contraenti l’onere preliminare (anche in termini probatori) di allegare necessariamente l’avvenuto ancoramento degli aumenti del canone ai richiamati “elementi predeterminati e idonei” ad influire sull’equilibrio economico del sinallagma contrattuale, del tutto indipendenti dalle variazioni annue del potere di acquisto della moneta – ha piuttosto riaffermato il contrario principio della piena e incondizionata libertà delle parti di assicurare al locatore un corrispettivo crescente sempre in termini di valore reale – durante l’arco di svolgimento dello stesso rapporto (ciò che costituisce la regola); e ciò, salvo che le stesse parti non abbiano in realtà perseguito surrettiziamente lo scopo di neutralizzare soltanto gli effetti della svalutazione monetaria (ciò che costituisce l’eccezione): in tal caso, costituisce onere del conduttore (che invoca l’eventuale nullità del patto per violazione del combinato disposto degli artt. 32 e 75 della legge n. 392/78) allegare gli elementi, eventualmente desumibili dal testo del contratto o da elementi extratestuali, idonei a rivelare l’effettivo intento delle parti di eludere il divieto di cui agli artt. 32 e 75 citt.. In difetto di una simile allegazione – o della prova dell’intento elusivo delle parti – il patto di determinazione differenziata del canone per frazioni di tempo successive deve ritenersi comunque valido. 15.7. È appena il caso di rilevare come nessuna incidenza spiega, ai fini della risoluzione della questione in esame, l’analisi delle pronunce in forza delle quali “In tema di locazione di immobili adibiti ad uso diverso da abitazione, ogni pattuizione avente ad oggetto, non già l’aggiornamento del corrispettivo ai sensi dell’art. 32 della legge n. 392 del 1978, ma veri e propri aumenti del canone, deve ritenersi nulla ex art. 79, primo comma, della stessa legge, in quanto diretta ad attribuire al locatore un canone più elevato rispetto a quello previsto dalla norma, senza che il conduttore possa, neanche nel corso del rapporto, e non soltanto in sede di conclusione del contratto, rinunziare al proprio diritto di non corrispondere aumenti non dovuti. Il diritto del conduttore a non erogare somme eccedenti il canone legalmente dovuto (corrispondente a quello pattuito, maggiorato degli aumenti c.d. Istat, se previsti) sorge nel momento della conclusione del contratto, persiste durante l’intero corso del rapporto e può essere fatto valere, in virtù di espressa disposizione di legge, dopo la riconsegna dell’immobile, entro il termine di decadenza di sei mesi (Sez. 3, Sentenza n. 2932 del 07/02/2008, Rv. 601329, cit., cui corrispondono Sez. 3, Sentenza n. 24433 del 19/11/2009, Rv. 610334; Sez. 3, Sentenza n. 13826 del 09/06/2010, Rv. 613271, ma anche Sez. 3, Sentenza n. 2902 del 09/02/2007, Rv. 595536; Sez. 3, Sentenza n. 2961 del 07/02/2013, Rv. 625373; Sez. 3, Sentenza n. 8410 del 11/04/2006, Rv. 591347). In relazione a tali pronunce, converrà infatti tener conto della circostanza per cui i principi di diritto formulati risultano tratti da decisioni emesse in relazione a fattispecie concrete in cui si è trattato di “aumenti di canoni in senso proprio” (ossia di aumenti di canoni di locazione dello stesso immobile, in corso di rapporto, secondo contratti succedentesi nel tempo, anche per via di rinnovazione), e non già di iniziali “predeterminazioni differenziate” del canone (correlativamente a periodi compresi nella durata del medesimo rapporto contrattuale). In particolare, Sez. 3, Sentenza n. 2932 del 07/02/2008, Rv. 601329 – largamente richiamata in altri arresti successivi – evoca espressamente in motivazione il punto concernente l’avvenuto superamento della questione relativa alla liceità del patto di maggiorazione del canone convenuto – non già inizialmente, una volta per tutte (secondo l’ipotesi della predeterminazione differenziata per frazioni tempo), bensì – nel corso del rapporto (secondo l’ipotesi dell’aumento in senso proprio): aumento in senso proprio ritenuto legittimo da Sez. 3, Sentenza n. 11402 del 19/11/1993 (Rv. 484377) e in seguito illegittimo da Sez. 3, Sentenza n. 10286 del 27/07/2001 (Rv. 548558) che (consapevole del contrasto) incidentalmente sostiene la Irrinunciabilità’ del “diritto di non corrispondere aumenti non dovuti” nel corso del rapporto, come si desumerebbe dal principio della reclamabilità di quanto indebitamente corrisposto solo successivamente alla riconsegna dell’immobile. Ciò posto, trattandosi di fattispecie estranee a quella qui in esame (relativa, occorre ripetere, alla sola ipotesi della “predeterminazione differenziata” del canone per frazioni di tempo nell’arco del medesimo rapporto), le stesse appaiono tali da non incidere in alcun modo sul discorso che si conduce. 15.8. Questo collegio – nel ritenere che il riferimento (talora contenuto in talune decisioni della Corte di cassazione) al significato “condizionante” (in senso, per così dire, “sospensivo” del pieno esercizio della libertà contrattuale) dei c.d. “elementi predeterminati e idonei ad influire sull’equilibrio economico del sinallagma contrattuale, del tutto indipendenti dalle variazioni annue del potere di acquisto della moneta” sia da ascrivere a un’incongrua e impropria trasmissione della corretta e lineare ratio interpretativa originariamente fatta propria da Sez. 3, Sentenza n. 6695 del 03/08/1987 (come in precedenza descritta) all’insegnamento di tale ultimo arresto intende tornare a riferirsi, sì come lettura più corretta e coerente del testo legislativo oggetto d’esame; intendendo altresì allo stesso insegnamento assicurare continuità, attraverso l’affermazione dei seguenti principi di diritto: “Alla stregua del principio generale della libera determinazione convenzionale del canone locativo per gli immobili destinati ad uso non abitativo, deve ritenersi legittima la clausola in cui venga pattuita l’iniziale predeterminazione del canone in misura differenziata e crescente per frazioni successive di tempo nell’arco del rapporto; e ciò, sia mediante la previsione del pagamento di rate quantitativamente differenziate e predeterminate per ciascuna frazione di tempo; sia mediante il frazionamento dell’intera durata del contratto in periodi temporali più brevi a ciascuno dei quali corrisponda un canone passibile di maggiorazione; sia correlando l’entità del canone all’incidenza di elementi o di fatti (diversi dalla svalutazione monetaria) predeterminati e influenti, secondo la comune visione dei paciscenti, sull’equilibrio economico del sinallagma. La legittimità di tale clausola dev’essere peraltro esclusa là dove risulti – dal testo del contratto o da elementi extratestuali della cui allegazione deve ritenersi onerata la parte che invoca la nullità della clausola – che le parti abbiano in realtà perseguito surrettiziamente lo scopo di neutralizzare soltanto gli effetti della svalutazione monetaria, eludendo i limiti quantitativi posti dall’art. 32 della legge n. 392 del 1978 (nella formulazione originaria ed in quella novellata dall’art. 1, comma nono – sexies, della legge n. 118 del 1985), così incorrendo nella sanzione di nullità prevista dal successivo art. 79, primo comma, della stessa legge“. 15.9. Nel caso di specie, avendo la corte territoriale testualmente escluso il ricorso di alcuna volontà delle parti destinata a eludere i limiti normativamente imposti dall’art. 32 della legge n. 392/78 (in ogni caso né allegata, né comprovata dall’odierna società ricorrente), dev’essere altresì escluso il ricorso di alcuna violazione o falsa applicazione di norme di diritto da parte della stessa (tanto sul punto relativo alla validità del patto di “predeterminazione differenziata” del canone per frazioni di tempo nell’arco del medesimo rapporto, quanto in relazione alla corretta distribuzione degli oneri di allegazione probatoria tra le parti in conflitto circa eventuali finalità elusive delle stesse), così come il ricorso di alcun rilevante omesso esame di fatti decisivi controversi, con il conseguente rilievo della radicale infondatezza di ciascuno dei motivi d’impugnazione oggetto dell’odierna analisi. 16. L’unico motivo del ricorso incidentale è inammissibile. Osserva il collegio come, attraverso l’argomentazione critica articolata dal ricorrente incidentale, quest’ultimo si sia inammissibilmente spinto a prospettare la rinnovazione, in questa sede di legittimità, del riesame nel merito della vicenda oggetto di lite, precluso a questo giudice di legittimità. Deve qui, infatti, ribadirsi il principio secondo cui il ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità, non già il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (cfr., ex plurimis, Sez. 5, Sentenza n. 27197 del 16/12/2011, Rv. 620709). Nella specie, la Corte d’appello di Bologna ha espressamente sottolineato come il complesso degli elementi di prova acquisiti nel corso del giudizio avesse evidenziato il ricorso dei presupposti per il riconoscimento di una manifesta tolleranza del locatore rispetto ai molteplici ritardi in cui la società conduttrice era già ripetutamente incorsa nel corso del rapporto nel pagamento dei canoni di locazione: tolleranza di fatto ritenuta, dai giudici d’appello, idonea a giustificare la rinuncia del locatore ad avvalersi della clausola risolutiva espressa originariamente convenuta tra le parti, al punto da ingenerare l’obiettivo corrispondente convincimento della società debitrice, con la conseguente necessità di procedere alla valutazione nel merito dell’importanza dell’inadempimento della società debitrice (ai sensi dell’art. 1455 c.c.): importanza nella specie recisamente esclusa dalla corte territoriale, sulla base delle argomentazioni di merito diffusamente esposte nella motivazione della sentenza impugnata. Si tratta di considerazioni che il giudice d’appello ha elaborato nel pieno rispetto dei canoni di correttezza giuridica dell’interpretazione e di coerenza logico-formale dell’argomentazione, immuni da vizi d’indole logica o giuridica e, come tali, del tutto idonee a sottrarsi alle censure in questa sede illustrate dalla ricorrente; censure, peraltro, inammissibilmente inclini a dissentire rispetto all’interpretazione nel merito del rapporto intercorso tra le parti e non già all’eventuale erronea ricognizione del significato delle norme di legge – e dunque delle fattispecie astratte – asseritamente violate. 17. Le argomentazioni che precedono impongono la pronuncia del rigetto del ricorso principale e la dichiarazione d’inammissibilità del ricorso incidentale. La reciproca soccombenza delle parti giustifica l’integrale compensazione tra le stesse delle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso principale e dichiara inammissibile il ricorso incidentale. Dichiara integralmente compensate tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità. Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente principale e del ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale e per il ricorso incidentale, a norma dell’art. i-bis, dello stesso articolo 13.

 

Omesso versamento di ritenute previdenziali.La Cassazione conferma che la nuova soglia di punibilità non abroga il reato.

(Cassazione Penale, sez. III, n. 649/17; depositata il 9 gennaio)

“Deve ritenersi che il legislatore non abbia affatto inteso abrogare il reato di cui all’art. 2, comma 1 bis, legge n. 638 del 1983 ma, lasciandone immutata la condotta omissiva, abbia inteso introdurre la necessità del superamento di un importo di per sé significativo, anche in ragione della mutata realtà socio – economica, caratterizzata da maggiori difficoltà di liquidità e del contemperamento con le esigenze connesse al sistema previdenziale – pensionistico, dell’indice di necessaria offensività della condotta.”

 La sentenza riguarda il reato di omesso versamento di ritenute previdenziali  che il Legislatore, con il D. Lgs. n. 8 del 2016, ha riformato introducendo una soglia di punibilità..

Allo stato, l’omesso versamento di ritenute previdenziali integra il reato ove l’importo non versato sia superiore a Euro 10.000 annui. La riforma, dunque, non solo ha introdotto una soglia di punibilità, ma ha ricollegato tale superamento al periodo temporale dell’anno.

La diversa struttura del reato determina un diverso momento consumativo che incide sul calcolo del termine di prescrizione: mentre nel precedente assetto normativo il reato si consumava in corrispondenza di ogni omesso versamento mensile, nell’attuale struttura la consumazione appare coincidere, alternativamente, o con il superamento, a partire dal mese di gennaio, dell’importo di Euro 10.000, ove allo stesso non faccia più seguito alcuna ulteriore omissione, o con l’ulteriore o le ulteriori omissioni successive sempre riferite al medesimo anno ovvero, definitivamente e comunque, laddove anche il versamento del mese di dicembre sia omesso, con la data del 16 gennaio dell’anno successivo.

Ciononostante, con la sentenza in epigrafe la Suprema Corte di Cassazione ha chiarito che le modifiche  introdotte con il D. Lgs. n. 8 del 2016 non hanno determinato l’introduzione di una fattispecie di reato totalmente nuova e diversa rispetto a quella di cui al precedente assetto normativo.

La Corte giunge a tale conclusione osservando che la nuova formulazione mantiene inalterato il nucleo caratterizzante il reato, ovvero la condotta omissiva del mancato versamento di ritenute previdenziali.

Inoltre, i Giudici di legittimità osservano che a tale esito deve giungersi in ragione del mantenimento della stessa sanzione già originariamente prevista.

Dott. Matteo Gambarati (Studio Legale Orlandi)

 

Testo della sentenza

Cassazione penale sez. III 20/10/2016 n. 649

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

  SEZIONE TERZA PENALE

  Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:              Dott. DI NICOLA Vito           –  Presidente   –                    Dott. ROCCHI   Giacomo    –  rel. Consigliere  –                    Dott. LIBERATI Giovanni        –  Consigliere  –                    Dott. GAI       Emanuela        –  Consigliere  –                    Dott. SCARCELLA Alessio         –  Consigliere  –                    ha pronunciato la seguente:                                                                      SENTENZA

sul ricorso proposto da:

             M.F. nato il (OMISSIS); avverso la sentenza del 26/02/2016 della CORTE APPELLO di PALERMO; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita in PUBBLICA UDIENZA del 20/10/2016, la relazione svolta dal Consigliere GIACOMO ROCCHI; Udito il Procuratore Genera e in persona del PASQUALE FIMIANI, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.

Fatto RITENUTO IN FATTO

  1. Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte di appello di Palermo, in riforma di quella del Tribunale di Trapani emessa nei confronti di M.F. ed appellata dal Procuratore della Repubblica di Trapani, dichiarava non doversi procedere nei confronti dell’imputato per l’omesso versamento delle ritenute previdenziali operate nei mesi di gennaio e febbraio 2007 perchè reato estinto per prescrizione; assolveva l’imputato dallo stesso reato per l’omesso versamento relativo agli anni 2006 e 2008 perchè il fatto non è più previsto dalla legge come reato, disponendo la trasmissione degli atti all’I.N.P.S.; dichiarava l’imputato colpevole del reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali operate nel periodo da marzo a dicembre 2007 e lo condannava alla pena di mesi due di reclusione ed Euro 200,00 di multa.

La Corte osservava che il totale delle ritenute mensilmente non versate nel 2007 superava la somma di 10.000 Euro, cosicchè la condotta non poteva ritenersi depenalizzata; negava il decorso della prescrizione per il periodo marzo – dicembre 2007, ricordando che il reato si consuma il giorno 16 del mese successivo a quello della ritenuta, che il termine di prescrizione è sospeso durante i tre mesi successivi alla diffida e che, sia nel corso del giudizio di primo grado che in quello di appello, il termine era stato ulteriormente sospeso.

La Corte ricordava che la diffida INPS era stata notificata in carcere all’imputato unitamente all’avviso di conclusione delle indagini preliminari.

Venivano negate all’imputato le attenuanti generiche; la pena base veniva fissata, per il mese di giugno 2007, in mesi uno e giorni sei di reclusione ed Euro 120,00 di multa, con aumento di giorni sei di reclusione ed Euro 20 di multa per ciascuno dei reati relativi agli altri mesi in contestazione.

  1. Ricorre per cassazione il difensore di M.F., deducendo violazione dell’art. 157 c.p., e del D.L. n. 463 del 1983, art. 2, comma 1 bis.

La Corte territoriale avrebbe dovuto dichiarare prescritti anche gli omessi versamenti relativi ai mesi di marzo, aprile e maggio 2007 e, quindi, assolvere l’imputato per quelli dei mesi successivi, tenuto conto che il totale delle ritenute evase dal giugno al dicembre 2007 non superava la somma di 10.000 Euro.

Il ricorrente contesta che la prescrizione rimanga sospesa durante i tre mesi successivi alla diffida ed osserva che, con riferimento all’omesso versamento relativo al mese di marzo 2007, il decreto di citazione era stato emesso dopo il decorso del termine ordinario di prescrizione.

In un secondo motivo, il ricorrente deduce violazione di legge e vizio di motivazione.

La diffida da parte dell’I.N.P.S. non era stata notificata regolarmente all’imputato che, pertanto, non ne era venuto a conoscenza; la Corte aveva ritenuto superato il dato in conseguenza della notifica dell’avviso di cui all’art. 415 bis c.p.p.: ma non si trattava di atto equipollente.

Di conseguenza non era preclusa la facoltà di ricorrere alla causa di non punibilità prevista dall’art. 2, comma 1 bis cit..

In un terzo motivo il ricorrente deduce violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla mancata concessione delle attenuanti generiche e alla quantificazione della pena.

Diritto CONSIDERATO IN DIRITTO

  1. Il ricorso è infondato.

In primo luogo deve affermarsi che, a seguito della riforma della norma incriminatrice operata dal D.Lgs. n. 8 del 2016, la soglia di punibilità di riferimento è stabilita in Euro 10.000 Euro annui; ciò comporta che, anche se i reati relativi ad alcuni mesi sono estinti per prescrizione, per valutare la punibilità della condotta, occorre ugualmente avere riguardo alla somma delle ritenute non versate nel corso dell’intero anno (Sez. 3, n. 14729 del 09/02/2016 – dep. 11/04/2016, Ratti, Rv. 26663301).

In realtà, la riforma operata ha inciso in maniera rilevante sulla struttura del reato e, quindi, anche sulla data della consumazione e della conseguente decorrenza della prescrizione.

Stabilendo che l’omesso versamento delle ritenute previdenziali integra reato ove l’importo sia superiore a quello di 10.000 Euro annui, il legislatore non si è limitato semplicemente ad introdurre un limite di “non punibilità” delle condotte lasciando inalterato, per il resto, l’assetto della precedente figura normativa (che, come noto, nessun limite prevedeva), ma ha configurato tale superamento, strettamente collegato al periodo temporale dell’anno, quale vero e proprio elemento caratterizzante il disvalore di offensività che viene a segnare, tra l’altro, il momento consumativo dello stesso; in altri termini, il reato deve ritenersi già perfezionato, in prima battuta, nel momento e nel mese in cui l’importo non versato, calcolato a decorrere dalla mensilità di gennaio dell’anno considerato, superi l’importo di 10.000 Euro senza che, peraltro, attesa, come si è detto, la necessaria connessione con il periodo temporale dell’anno, le ulteriori omissioni che seguano nei mesi successivi dello stesso anno sino al mese finale di dicembre possano “aprire” un nuovo periodo e, dunque, dare luogo, in caso di secondo superamento, ad un ulteriore reato. Tali omissioni, infatti, contribuiscono ad accentuare la lesione inferta al bene giuridico per effetto del già verificatosi superamento dell’importo di legge sicchè, da un lato, non possono semplicemente atteggiarsi quale post factum penalmente irrilevante e, dall’altro, approfondendo il disvalore già emerso, non possono segnare, in corrispondenza di ogni ulteriore mensilità non versata, un ulteriore autonomo momento di disvalore (che sarebbe infatti assorbito da quello già in essere).

Ricorre, in realtà dunque, a ben vedere, alla stessa stregua di altre figure criminose (come, ad esempio, le fattispecie di corruzione o di usura: cfr. rispettivamente, per la prima, Sez. 6, n. 49226 del 25/09/2014, Chisso, Rv.261352; per la seconda, da ultimo, Sez. 2, n. 40380 del 11/06/2015, P.G., Tiesi in proc. Cardamone, Rv.264887), una fattispecie caratterizzata dalla progressione criminosa nel cui ambito, una volta superato il limite di legge, le ulteriori omissioni nel corso del medesimo anno si atteggiano a momenti esecutivi di un reato unitario a consumazione prolungata la cui definitiva cessazione viene a coincidere con la scadenza prevista dalla legge per il versamento dell’ultima mensilità, ovvero, come noto, con il termine del 16 del mese di gennaio dell’anno successivo.

Quanto sopra comporta dunque che, rispetto alla precedente figura di reato, il momento consumativo sia evidentemente diverso: mentre nel precedente assetto normativo il reato si consumava in corrispondenza di ogni omesso versamento mensile (cfr., da ultimo, Sez. 3, n. 26732 del 05/03/2015, P.G. in proc. Bongiorno, Rv. 264031), nell’attuale e nuovo la consumazione appare coincidere, secondo una triplice diversa alternativa, o con il superamento, a partire dal mese di gennaio, dell’importo di Euro 10.000 ove allo stesso non faccia più seguito alcuna ulteriore omissione, o con l’ulteriore o le ulteriori omissioni successive sempre riferite al medesimo anno ovvero, definitivamente e comunque, laddove anche il versamento del mese di dicembre sia omesso, con la data del 16 gennaio dell’anno successivo.

La struttura del “nuovo” reato come tratteggiata sopra, impone inoltre di tenere conto, al fine dell’individuazione o meno del superamento del limite di legge di 10.000 Euro, di tutte le omissioni verificatesi nel medesimo anno e, dunque, nella specie, anche di quelle eventualmente estinte per prescrizione: del resto, la mera declaratoria di estinzione del reato per ragioni connesse al decorso del tempo non può significare elisione della materiale sussistenza del fatto di omesso versamento.

La diversa strutturazione del reato comporta dunque che, con riferimento ai fatti pregressi, laddove l’omissione annuale non abbia superato l’importo di 10.000 Euro, debba applicarsi, in quanto norma sicuramente più favorevole, la nuova previsione normativa alla stregua dell’art. 2 c.p., comma 4, mentre, laddove l’importo sia stato superato, previgente norma e nuova norma debbano essere poste a confronto tra loro onde verificare quale delle due sia concretamente più favorevole con riferimento, in particolare, al momento consumativo determinante al fine di individuare la decorrenza del termine di prescrizione (tenuto conto peraltro, in entrambe le fattispecie, del periodo di sospensione di mesi tre di cui al D.L. n. 463 del 1983, art. 2, comma 1 quater, non inciso infatti dalle modifiche di cui sopra).

Nè le modifiche poste in essere dal D.Lgs. n. 8 del 2016, sono state di tale segno da avere comportato l’introduzione di una fattispecie di reato totalmente nuova e diversa rispetto a quella di cui al precedente assetto ed incompatibile rispetto a quest’ultima, con conseguente implicita abrogazione della stessa ex art. 15 preleggi, sì che dovrebbe, nella specie, farsi applicazione non già dell’art. 2 c.p., comma 4, bensì dell’art. 2 c.p., comma 2. In senso chiaramente ostativo rispetto a tale conclusione deve infatti essere evidenziato il mantenimento, in entrambe le figure, del medesimo nucleo caratterizzante il reato, ovvero la condotta omissiva del mancato versamento, rimasta chiaramente inalterata, senza che il mutamento del momento consumativo, inevitabilmente discendente, per quanto già spiegato, dalla diversa strutturazione quantitativo – temporale, possa condurre ad esiti diversi.

Nè può sottovalutarsi, nel senso concorrente alla conclusione qui esposta, il mantenimento della medesima sanzione già originariamente prevista.

In definitiva, per concludere sul punto, deve ritenersi che il legislatore non abbia affatto inteso abrogare il reato di cui alla L. n. 638 del 1983, art. 2, comma 1 bis, ma, lasciandone immutata la condotta omissiva, abbia inteso introdurre la necessità del superamento di un importo di per sè significativo, anche in ragione della mutata realtà socio – economica, caratterizzata da maggiori difficoltà di liquidità e del contemperamento con le esigenze connesse al sistema previdenziale – pensionistico, dell’indice di necessaria offensività della condotta.

  1. Nel caso in esame, l’importo delle ritenute non versate nell’anno 2007 è in ogni caso superiore a 10.000 Euro, dovendosi prescindere dalla declaratoria di prescrizione effettuata per i primi mesi dell’anno.

Sempre rimanendo al tema della prescrizione, il ricorrente sostiene che il termine di prescrizione non è sospeso nei tre mesi successivi alla diffida da parte dell’I.N.P.S.: ma tale sospensione è espressamente prevista dal D.L. n. 463 del 1983, art. 2, comma 1 quater, fin dalla riforma operata nel 1994; il testo è rimasto identico anche a seguito della ulteriore riforma operata dal D.Lgs. n. 8 del 2016.

Di conseguenza, il termine di prescrizione non era decorso nemmeno per il mese di marzo 2007 e con riferimento a tutte le mensilità per le quali la Corte territoriale ha confermato la condanna.

E’ errata anche la deduzione in ordine alla tardività della notifica del decreto di citazione a giudizio rispetto al decorso del termine di prescrizione ordinario di sei anni quanto all’omesso versamento relativo al mese di marzo 2007: in effetti, alla luce della diversa struttura del reato all’epoca vigente, il reato si era consumato il 16/4/2007, cosicchè il deposito del decreto di citazione a giudizio, avvenuto il 4/4/2013, era tempestivo (per di più dovendosi tenere conto anche dei tre mesi di sospensione successivi alla diffida di cui si è già trattato).

  1. Anche il secondo motivo di ricorso è infondato: infatti, la diffida dell’I.N.P.S. era stata notificata unitamente all’avviso di conclusione delle indagini preliminari a cura del P.M..

Non si tratta affatto, come sembra ritenere il ricorrente, di valutare se l’avviso ex art. 415 bis c.p.p., fosse atto equipollente alla diffida, perchè, appunto, il P.M., avvedutosi che la raccomandata dell’Istituto previdenziale non era andata a buon fine, aveva provveduto a notificarla fisicamente all’imputato detenuto.

Anche il terzo motivo di ricorso è infondato: la motivazione della sentenza è ampia e logica nel giustificare il diniego delle attenuanti generiche e la quantificazione della pena.

PQM P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 20 ottobre 2016.

Depositato in Cancelleria il 9 gennaio 2017

 

 

Societario. Può essere risolto il contratto di cessione di partecipazioni sociali in caso di carenze o vizi del patrimonio ?

Sentenza n. 19814/2015   R.G.  Trib.le di Roma

La sentenza che si annota consente di fare il punto su un aspetto di indubbio  interesse,  che riguarda la cessione di partecipazioni societarie ed in particolare il caso non infrequente dell’emersione di sopravvenienze passive successivamente alla definizione dell’accordo.

Premette, il Tribunale capitolino, che costituiscono patti accessori al contratto di cessione le clausole inserite dalle parti in un contratto di compravendita di partecipazioni sociali con le quali si garantisce una certa consistenza del patrimonio sociale della società, ovvero ci si assume la responsabilità circa le sopravvenienze e sopravvivenze passive.  In quanto tali riguardano esclusivamente le parti di quel negozio, e  l’originario acquirente è legittimato a far valere i diritti che ne discendono  anche ove  abbia successivamente alienato quelle quote a un soggetto terzo.

Riportandosi poi ad un orientamento ormai consolidato nella giurisprudenza, sia di legittimità che di merito, afferma che la consistenza patrimoniale della società nell’ambito della cessione di quote od azioni di quest’ultima rileva solo in presenza di una specifica garanzia assunta dal cedente.

In effetti la cessione delle azioni o delle quote di una società di capitali o di persone ha come oggetto immediato la partecipazione sociale, intesa come l’insieme dei diritti patrimoniali e amministrativi che qualificano lo status di socio, e come oggetto mediato la quota parte del patrimonio che, pertanto, rileva solo in presenza di una specifica garanzia assunta in tal senso dal cedente; in caso contrario, le eventuali carenze o vizi del patrimonio, riguardando il valore economico della società e la sfera delle valutazioni motivazionali, non possono giustificare la risoluzione del contratto di cessione.

Non è necessario che la garanzia, con la quale il cedente si assume la piena responsabilità circa le carenze e i vizi della consistenza patrimoniale della società,  sia qualificata come tale, ma è sufficiente che si evinca inequivocabilmente dal contratto.

Tra le clausole che possono essere previste e introdotte nel contratto di cessione di partecipazioni societarie, quelle di garanzia tendono a garantire l’acquirente da passività potenziali o da attività inesistenti o minori, riferibili alla situazione aziendale e imprenditoriale esistente al momento della cessione , mentre gli eventuali oneri e sopravvenienze future rientrano nell’ambito del normale rischio di impresa e non possono che gravare sul cessionario.

Nel contratto di cessione di partecipazioni societarie possono essere assunti due tipi di garanzie, l’una, relativa alla quota sociale oggetto del trasferimento (c.d. nomen verum), con la quale il cedente è tenuto a garantire che la partecipazione ceduta è di sua proprietà e che ne può liberamente disporre; l’altra, connessa alla situazione patrimoniale della società, con la quale il cedente assicura la consistenza e la capacità reddituale dell’impresa (c.d. nomen bonum).

 

Fideiussione, in taluni casi è possibile concedere nuovo credito al terzo senza l’autorizzazione del garante

Cassazione civile, sez. I, 02/03/2016,  n. 4112

Nella fattispecie la ricorrente, fideiussore del marito,  proponendo opposizione a decreto ingiuntivo, ha invocato l’art. 1956 cod. civ. per sottrarsi alle pretese della banca creditrice, ma la Corte d’Appello ha stabilito che la richiesta di autorizzazione ivi prevista doveva ritenersi nella specie irrilevante, tenuto conto che la moglie, stante il vincolo coniugale e di convivenza, era da considerare al corrente dell’aggravamento delle condizioni economiche del marito al punto da avere sostanzialmente assentito all’ulteriore credito.

La Corte di Cassazione ha confermato la correttezza di detta pronuncia. Diversamente da quanto eccepito nel ricorso, l’assenso del fideiussore, nel caso previsto dall’art. 1956 cod. civ., non impone la forma scritta, non potendosene affermare la configurazione in termini di accordo a latere del contratto bancario cui la fideiussione accede.

L’ipotesi contemplata dalla norma, che cioè il creditore, senza autorizzazione del fideiussore, abbia “fatto credito” al terzo pur sapendo che le condizioni patrimoniali di costui sono frattanto significativamente peggiorate, non è necessariamente equiparabile alla instaurazione di nuovi rapporti obbligatori tra il creditore e il terzo cui debba poi estendersi la garanzia per debiti futuri in precedenza prestata dal fideiussore.

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FORTE       Fabrizio                        –  Presidente   –

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria                     –  Consigliere  –

Dott. ACIERNO     Maria                           –  Consigliere  –

Dott. TERRUSI     Francesco                  –  rel. Consigliere  –

Dott. NAZZICONE   Loredana                        –  Consigliere  –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 4646-2011 proposto da:

D.R.G.  (C.F.  (OMISSIS)),   elettivamente

domiciliata in  ROMA, VIALE GORIZIA 14, presso  l’avvocato  SABATINI

FRANCO, rappresentata  e difesa dall’avvocato MARCHIONNE  LANFRANCO,

giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

U.C.M.B. – UNICREDIT MANAGEMENT CREDIT BANK, nuova denominazione  di

U.G.C. BANCA S.P.A., e per essa UNICREDIT CREDIT MANAGEMENT BANK,

Fatto

 SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

D.R.G. proponeva, in qualità di fideiussore e assieme al marito P.F., debitore principale, opposizione a un decreto ingiuntivo emesso dal presidente del tribunale di Pescara, su ricorso del Credito italiano s.p.a. (oggi Unicredit s.p.a.), per uno scoperto di conto corrente.

Eccepiva, per quanto in effetti ancora rileva, la propria liberazione dal vincolo, avendo la banca effettuato credito al garantito, senza autorizzazione di essa garante, per somme superiore all’affidamento, nonostante il mutamento delle condizioni patrimoniali del debitore.

L’opposizione veniva rigettata dall’adito tribunale, salvo il riconoscimento del diritto degli opponenti alla detrazione di una piccola somma.

L’appello della D.R. è stato a sua volta respinto dalla corte d’appello de L’Aquila, la quale, con sentenza in data 26-11-2010, ha ritenuto inammissibile per novità la deduzione relativa all’illegittimità della pretesa di pagamento di una somma superiore al limite massimo garantito e infondata la doglianza con la quale era stata invocata la liberazione del fideiussore per obbligazioni future ai sensi dell’art. 1956 cod. civ..

A tal proposito la corte ha in modo assorbente considerato che la mancata richiesta di autorizzazione da parte della banca non poteva configurare una violazione contrattuale liberatoria, in quanto la conoscenza delle condizioni economiche doveva ritenersi “comune” a creditore (rectius, debitore) e a garante, ovvero presunta in ragione del vincolo coniugale e dello stato di convivenza. Questi fatti – invero pacifici in causa costituivano, a dire della corte d’appello, elementi presuntivi di rilevante gravità, non superati da altri di segno contrario, in ordine “alla conoscenza da parte del fideiussore dell’aggravamento delle condizioni economiche del debitore e del suo sostanziale consenso all’ulteriore credito”.

Contro la sentenza citata la D.R. ha proposto ricorso per cassazione sulla base di due motivi.

Unicredit s.p.a. ha resistito con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

  1. – Col primo mezzo la ricorrente deduce la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ.per avere la corte d’appello erroneamente affermato la novità e di conseguenza l’inammissibilità di un profilo di censura, circa la pretesa di somme superiori al limite della garanzia, in verità mai prospettato.

Col secondo mezzo la ricorrente deduce la violazione dell’art. 1956 cod. civ., della L. n. 385 del 1993, art. 117 e dell’art. 2697 cod. civ. per avere la corte d’appello errato quanto al profilo afferente l’estinzione della fideiussione.

La tesi esposta nel secondo motivo è che, diversamente da quanto sostenuto in sentenza, la speciale autorizzazione di cui all’art. 1956 cod. civ. imponeva la forma scritta, tenendo conto del sistema garantista e documentale attualmente in vigore per i contratti bancari e del fatto che detta autorizzazione riveste la qualifica di vero e proprio contratto in appendice alla fideiussione.

La ricorrente censura inoltre la decisione di merito nella parte in cui ha ritenuto che la conoscenza del garante circa l’aggravamento delle condizioni economiche del debitore avesse di per sè integrato l’autorizzazione citata, mentre la norma richiede che debba essere provata appunto la concessione dell’autorizzazione e non la conoscenza dello stato di aggravamento delle condizioni economiche dell’obbligato principale. In sostanza, ove anche fosse stata provata, nella fideiubente, la conoscenza dell’aggravamento, ella avrebbe potuto pur sempre negare l’autorizzazione per le future obbligazioni, e dunque in tal senso avrebbe dovuto essere comunque sollecitata a esprimersi dal creditore secondo il disposto di legge.

Sul piano logico-giuridico, poi, non poteva secondo la ricorrente giustificarsi la duplice affermazione della corte d’appello circa la presunzione di conoscenza della moglie in ordine alle condizioni economiche del marito e al conseguente consenso tacito alla concessione di ulteriore credito: dal primo punto di vista, si sarebbe stati dinanzi a una presunzione tutt’altro che grave precisa e concordante; dal secondo, a una illazione non poggiante su alcuna presunzione, stante che questa avrebbe dovuto riguardare un fatto positivo (l’autorizzazione) di cui nessuna dimostrazione era stata data.

  1. – Il ricorso è infondato in relazione al secondo motivo, il cui esame si palesa assorbente di ogni questione.
  2. – La ricorrente, fideiussore del marito, ha invocato l’art. 1956 cod. civ.per sottrarsi alle pretese della banca creditrice, ma la corte d’appello ha stabilito che la richiesta di autorizzazione ivi prevista doveva ritenersi nella specie irrilevante, tenuto conto che la moglie, stante il vincolo coniugale e di convivenza, era da considerare al corrente dell’aggravamento delle condizioni economiche del marito al punto da avere sostanzialmente assentito all’ulteriore credito.

Diversamente da quanto eccepito nel ricorso, l’assenso del fideiussore, nel caso previsto dall’art. 1956 cod. civ., non impone la forma scritta, non potendosene affermare la configurazione in termini di accordo a latere del contratto bancario cui la fideiussione accede. L’ipotesi contemplata dalla norma, che cioè il creditore, senza autorizzazione del fideiussore, abbia “fatto credito” al terzo pur sapendo che le condizioni patrimoniali di costui sono frattanto significativamente peggiorate, non è necessariamente equiparabile alla instaurazione di nuovi rapporti obbligatori tra il creditore e il terzo cui debba poi estendersi la garanzia per debiti futuri in precedenza prestata dal fideiussore.

Essa comprende anche la semplice modalità di gestione di un rapporto obbligatorio già instaurato col terzo, coperto dalla garanzia fideiussoria, e dunque non implica affatto un nuovo contratto nè tra la banca e il debitore, nè tra la banca e il terzo fideiussore.

La norma costituisce molto più semplicemente un’applicazione del principio di buona fede nell’esecuzione dei contratti (v. per tutte Sez. 1, n. 394-06) e perciò onera il creditore di un comportamento coerente col rispetto di tale principio nella gestione del rapporto debitorio, tale da non ledere ingiustificatamente l’interesse del fideiussore.

  1. – Questa corte ha peraltro da tempo chiarito che vi possono essere casi in cui la richiesta di speciale autorizzazione di cui all’art. 1956 cod. civ.non è necessaria perchè l’autorizzazione può essere ritenuta implicitamente o tacitamente concessa dal fideiussore. Il che è esattamente coerente col fatto che per l’autorizzazione, appunto, non è richiesta la forma scritta ad substantiam.

In guisa di simile principio è stato così affermato che i presupposti applicativi dell’art. 1956 cod. civ. non ricorrono quando, per esempio, in una stessa persona coesistono le qualità di fideiussore e di legale rappresentante della società debitrice, visto che la richiesta di credito, in tali casi, proviene sostanzialmente dalla persona fisica che somma la posizione di garante (v. Sez. 3, n. 7587-01, Sez. 1 n. 3761-06), donde la conoscenza della difficoltà economica del debitore devesi ritenere quanto meno comune.

Al di là di questa formula, sulla quale insiste la corte d’appello e che, invece, la ricorrente contesta in rapporto al distinto caso in cui il fideiussore sia il coniuge dell’obbligato, vi è che la ratio dell’insegnamento sta in ciò: che non è necessaria la richiesta di autorizzazione laddove possa ritenersi che vi sia già perfetta conoscenza, in capo al fideiussore, della situazione patrimoniale del debitore garantito.

Questo perchè tale perfetta conoscenza può essere considerata valida base di una presunzione di connessa autorizzazione tacita alla concessione del credito, desunta dalla possibilità di attivarsi mediante l’anticipata revoca della fideiussione per non aggravare i rischi assunti.

  1. – La corte d’appello non ha infranto i principi evocati, avendo appunto affermato, con apprezzamento di fatto non censurato sotto il profilo del vizio di motivazione, e dunque insindacabile in questa sede, che il consenso (id est, l’autorizzazione) del fideiussore, essendo questi coniuge convivente del debitore, al corrente della di lui aggravata condizione economica, dovevasi considerare in effetti sostanzialmente acquisito.

Se è vero che, in ipotesi di concessione del credito nonostante il deterioramento delle condizioni patrimoniali del debitore, la mancata richiesta di autorizzazione non può configurare una violazione contrattuale liberatoria se la conoscenza delle difficoltà economiche in cui versa il debitore principale può essere presunta comune al fideiussore, non è implausibile sostenere che tale sia anche, in relazione alle circostanze concrete, la condizione caratterizzante il coniuge dell’obbligato, ove sia desunta – come nella specie – dal legame tra debitore e fideiussore sorretto da vincoli stabili di comunione di vita e di interessi, tali da indurre a ritenere probabile – in mancanza di risultanze di segno contrario – sia la conoscenza sia il consenso del secondo.

Non si è in presenza, infatti, di una presunzione di secondo grado, notoriamente vietata, in quanto il fatto noto è costituito dalla stabile comunione di vita e di interessi tra fideiussore e debitore principale, cui segue la conoscenza del mutamento delle condizioni patrimoniali quale sintomo dell’autorizzazione tacita alla concessione del credito.

  1. – Tanto determina il rigetto del ricorso, assorbita rimanendo la questione prospettata nel primo motivo.

Le spese processuali seguono la soccombenza.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese processuali, che liquida in Euro 3.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori e rimborso forfetario di spese generali nella percentuale di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della prima sezione civile, il 20 gennaio 2016.

Depositato in Cancelleria il 2 marzo 2016