Mese: gennaio 2018

Successione di testamenti nel tempo e incompatibilità  delle disposizioni

(Massima)  Fuori dell’ipotesi di revoca espressa di un testamento, può ricorrere un caso di incompatibilità oggettiva o intenzionale fra il testamento precedente e quello successivo, sussistendo la prima allorchè, indipendentemente da un intento di revoca, sia materialmente impossibile dare contemporanea esecuzione alle disposizioni contenute nel testamento precedente ed a quelle contenute nel testamento successivo e configurandosi, invece, incompatibilità intenzionale quando, esclusa tale materiale inconciliabilità di disposizioni, dal contenuto del testamento successivo sia dato ragionevolmente inferire la volontà del testatore di revocare, in tutto o in parte il testamento precedente e dal raffronto del complesso delle disposizioni o di singole disposizioni contenute nei due atti, sia dato desumere un atteggiamento della volontà del de cuius incompatibile con quello che risultava dall’antecedente testamento.   (Cass. Civ., Sez. II, sent. n. 11587 dell’11 maggio 2017)

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONESEZIONE SECONDA CIVILEComposta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:Dott. MAZZACANE Vincenzo                           – Presidente   -Dott. ORICCHIO Antonio                             – Consigliere -Dott. FEDERICO Guido                          – rel. Consigliere -Dott. COSENTINO Antonello                           – Consigliere -Dott. ABETE     Luigi                               – Consigliere -ha pronunciato la seguente:ORDINANZA

(omissis)

Fatto

ESPOSIZIONE DEL FATTO

M.T. ed B.E. e D.L., quale erede di D.F., convennero innanzi al Tribunale di Torino L.A.M. esponendo:

che il 3 aprile 2005 era deceduto in (OMISSIS) L.G., istituendo con un primo testamento del 7/9/2003 la convenuta erede universale, mentre, con successivo testamento del 18/1/2005, aveva revocato il primo testamento ed aveva costituito la convenuta quale semplice legataria, sottraendole l’assegnazione dell’immobile sito in (OMISSIS).

Su detto cespite si era pertanto aperta la successione ab intestato ed instaurata la comunione ereditaria tra i chiamati ex lege.

Secondo la prospettazione degli attori tra i due testamenti sussisteva un’incompatibilità sia oggettiva che soggettiva, in quanto, da un lato l’imposizione nel testamento più recente dell’onere di vendere la casa e devolvere il 20% del ricavato alla badante del de cuius S.Z. era incompatibile con il lascito incondizionato in favore della convenuta ed inoltre, dallo stesso tenore del secondo testamento, risultava che il de cuius aveva inteso attribuire alla cugina, L.A.M., due soli beni a titolo di legato a fronte dell’istituzione di erede contenuta nel primo testamento.

La convenuta costituendosi si oppose, negando la dedotta incompatibilità tra le due disposizioni testamentarie.

Il Tribunale di Torino, con sentenza non definitiva, accolse la domanda, affermando che, limitatamente alla casa sita in (OMISSIS), si era aperta la successione ex lege ed instaurata la comunione ereditaria tra gli attori.

La Corte d’Appello di Torino con la sentenza n. 1521/2012, depositata il 26 settembre 2012, rigettò l’appello della signora L. confermando integralmente la sentenza impugnata.

La Corte d’Appello di Torino, richiamato il principio della conservazione delle disposizioni di ultima volontà così come affermato dalla consolidata giurisprudenza di legittimità, dopo aver compiuto un raffronto tra i due testamenti ha accertato la volontà del de cuius di revocare il primo testamento redigendo il secondo ed ha concluso affermando la validità del secondo testamento e l’apertura della successione legittima con riferimento all’immobile sito in (OMISSIS).

Per la cassazione di detta sentenza propone ricorso per cassazione la signora L.A., con un unico motivo, nei confronti di A. e L.G., M.T. ed B.E. e D.L..

M.T. ed B.E. si sono costituiti con controricorso, mentre A. e L.G. non hanno svolto, nel presente giudizio, attività difensiva.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

Deve preliminarmente disattendersi l’eccezione di nullità della notifica del ricorso nei confronti di G. ed Li.An., deceduti rispettivamente in data (OMISSIS) e (OMISSIS), sollevata nel controricorso dagli altri resistenti.

Secondo la prospettazione dei controricorrenti, poichè l’evento della morte di G. ed Li.An. era stata dichiarata dall’unico procuratore nel giudizio in prosecuzione, tuttora pendente innanzi al Tribunale di Torino, la notifica del ricorso per cassazione effettuata nel presente giudizio nei loro confronti presso il procuratore domiciliatario doveva ritenersi nulla, poichè il decesso si era verificato anteriormente alla stessa sentenza impugnata ed il ricorso non era stato notificato nè ai singoli eredi, nè agli eredi impersonalmente e collettivamente.

Si osserva in contrario che secondo il più recente indirizzo di questa Corte, a partire dalla nota pronuncia delle sezioni unite n. 15295/2014, la morte o perdita di capacità della parte costituita a mezzo di procuratore, dallo stesso non dichiarate in udienza o notificate alle altre parti comportano, per la regola dell’ultrattività del mandato, che il difensore continui a rappresentare la parte come se l’evento non si fosse verificato, onde è ammissibile la notificazione dell’impugnazione presso di lui, ai sensi dell’art. 330 c.p.c., comma 1, senza che rilevi la conoscenza “aliunde” di uno degli eventi previsti dall’art. 299 c.p.c. da parte del notificante (Cass. Ss.Uu. 15295/2014; 710/9016).

Risulta dunque irrilevante, in mancanza della formale dichiarazione o notifica del decesso della parte rappresentata, da parte del procuratore costituito, nell’ambito del presente procedimento, la dichiarazione resa in altro procedimento, quale quello, in prosecuzione (a seguito di ordinanza di rimessione in istruttoria, emessa dal tribunale di Torino, contestualmente alla sentenza di primo grado) tuttora pendente tra le medesime parti.

Una volta poi che si sia ritualmente instaurato il contraddittorio a seguito della notifica del ricorso, poichè nel giudizio di cassazione, com’è noto, non trova applicazione l’istituto della interruzione del processo per uno degli eventi di cui all’art. 299 c.p.c., la morte dell’intimato non produce l’interruzione del processo, neppure se, come nel caso di specie, sia intervenuta prima della notifica del ricorso effettuata preso il difensore costituito nel processo di merito, dalla cui relata non emerga il decesso del patrocinato (Cass. 1757/2015).

Ciò premesso, con l’unico motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 457, 682 e 1362 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 e l’insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 deducendo l’omessa o insufficiente motivazione in relazione all’accertamento della volontà del testatore, risultante dal secondo testamento, di revocare il precedente.

Il motivo è infondato.

Occorre premettere che, secondo il consolidato indirizzo interpretativo di questa Corte in tema di interpretazione degli atti mortis causa, l’interpretazione del testamento è caratterizzata da un’intensa ricerca della volontà del testatore e il risultato concreto dell’indagine condotta dal giudice del merito, con motivazione congrua e conforme al diritto, si sottrae al sindacato di legittimità (Cass. Civ. Sez. 2 sent. del 4-10-2013 n. 23278).

Orbene nel caso di specie, la Corte, nel richiamare il principio di conservazione espresso dall’art. 682 c.c., ha però ritenuto, con valutazione di merito, fondata su motivazione logica, coerente ed adeguata, che si sottrae dunque al sindacato di legittimità, che vi fosse una strutturale incompatibilità tra le due disposizioni testamentarie, sì che la seconda disposizione doveva ritenersi interamente sostituiva della prima.

Ed invero, come questa Corte ha già affermato, fuori dell’ipotesi di revoca espressa di un testamento, può ricorrere un caso di incompatibilità oggettiva o intenzionale fra il testamento precedente e quello successivo, sussistendo la prima allorchè, indipendentemente da un intento di revoca, sia materialmente impossibile dare contemporanea esecuzione alle disposizioni contenute nel testamento precedente ed a quelle contenute nel testamento successivo e configurandosi, invece, incompatibilità intenzionale quando, esclusa tale materiale inconciliabilità di disposizioni, dal contenuto del testamento successivo sia dato ragionevolmente inferire la volontà del testatore di revocare, in tutto o in parte il testamento precedente e dal raffronto del complesso delle disposizioni o di singole disposizioni contenute nei due atti, sia dato desumere un atteggiamento della volontà del de cuius incompatibile con quello che risultava dall’antecedente testamento. L’indagine al riguardo involge apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito e non censurabile in sede di legittimità se sorretti da congrua e corretta motivazione (Cass. 6745/1983).

Orbene, nel caso di specie, secondo quanto accertato con argomentazione logica e coerente dal giudice di merito, oltre alla incompatibilità oggettiva di diverse disposizioni del secondo testamento rispetto al primo, risulta una differenza strutturale tra le due schede testamentarie, in quanto, a fronte della istituzione di erede universale della odierna ricorrente, cui venivano attributi tutti i beni immobili (analiticamente indicati) e mobili, contenuta nel primo testamento, il secondo è invece caratterizzato dalla disaggregazione patrimoniale, con destinazione dei beni a diversi beneficiari, e specifica attribuzione soltanto di taluni beni immobili alla odierna ricorrente.

Avuto riguardo, in particolare, alla casa su cui s’incentra la materia del contendere, nella seconda scheda testamentaria il de cuius non la attribuisce più alla cugina, disponendo invece che “la stessa dovrà essere venduta, ed il 20% del ricavato attribuito alla badante S.Z.”.

Più in generale, secondo la ricostruzione della Corte territoriale, che come si è detto in quanto logicamente ed adeguatamente motivata non è censurabile nel presente giudizio, nel testamento successivo è ravvisabile non già la sostituzione di talune disposizioni ma un ripensamento ed un riassetto complessivo della destinazione dei beni e dunque una “incompatibilità intenzionale”, con la conseguente conclusione che il de cuius con il secondo testamento ha inteso revocare il primo.

In particolare, secondo quanto ritenuto dal giudice di merito, sussiste una evidente inconciliabilità, anche alla luce della complessiva formulazione della scheda testamentaria, tra l’attribuzione della casa all’unica erede del primo testamento L.A. e la disposizione secondo cui, ferma la già menzionata disaggregazione dei beni del patrimonio ereditario, e la specifica attribuzione di determinati beni a L.A., la casa avrebbe dovuto essere venduta, attribuendone il 20% del ricavato alla S..

Tale conclusione, in quanto conforme ai canoni interpretativi richiamati in materia di testamento, e fondata, oltre che sull’esame globale della scheda testamentaria e le differenti modalità di redazione dell’atto, anche su elementi estrinseci alla scheda, come la cultura, la mentalità e l’ambiente di vita del testatore, appare idonea ad esprimere, in modo adeguato e coerente, la reale intenzione del “de cuius” (Cass. 24637/2010).

Deve pertanto ritenersi che la casa, unico bene che non viene attribuito ad un beneficiario, sia stato sottoposto a successione legittima, che, pacificamente può coesistere con quella testamentaria.

Il ricorso va dunque respinto e la ricorrente va condannata alla refusione in favore degli intimati costituiti delle spese del presente giudizio.

Nulla sulle spese in relazione agli altri intimati.

ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

PQM

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente alla refusione, in favore di E. e B.M.T., nonchè De Filippi Luciano delle spese del presente giudizio, che liquida in complessivi 5.200,00 Euro, di cui 200,00 Euro per imborso spese vive, oltre a rimborso forfettario spese generali in misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 7 aprile 2014.

Depositato in Cancelleria il 11 maggio 2017

Cessione di crediti, quando può dirsi vincolante nei confronti del debitore ceduto

Cass. n. 26 maggio 2014, n. 19199

Una sentenza non più recentissima – che conferma tuttavia un orientamento consolidato in una materia che non registra successivi contributi giurisprudenziali – ci offre l’occasione per alcune considerazioni a proposito della cessione dei crediti .

Insegna l’art. 1264 cc che la cessione ha effetto nei confronti del debitore ceduto quando questi l’ha accettata o quando gli è stata notificata.

Il secondo comma, prevede, tuttavia, che anche prima della notificazione, il debitore che paga al cedente non è liberato, se cessionario prova che il debitore medesimo era a conoscenza dell’avvenuta cessione.

Secondo la pronuncia in parola della Corte di Cassazione, la regola dettata al secondo comma del citato articolo, deve essere coordinata con le norme che regolano l’opponibilità della cessione ai creditori del cedente, in particolare con la previsione dell’inopponibilità a questi della cessione che sia stata notificata al debitore in data successiva alla dichiarazione di fallimento del cedente medesimo o al pignoramento del credito, ai sensi degli artt. 2914, n. 2, c.c. e 45 L.F

In proposito giova ricordare che è possibile anche procedere alla cessione non solo di crediti già sorti, ma anche di crediti futuri o sperati, a condizione che nel momento della cessione esista già il rapporto di credito da cui i crediti dovrebbero nascere.

In caso di fallimento, tuttavia, per opporre efficacemente la cessione al curatore è necessario non solo che il credito sia sorto, ma anche che sia divenuto esigibile prima della dichiarazione di fallimento ( C. Cass. 29.12.2000 n. 16235)

Pere utile altresì’ segnalare i seguenti principi giuridici affermati in materia dalla Suprema Corte:

L’art. 1264 cod. civ. non individua il soggetto tenuto a notificare la cessione del credito, sicché la notificazione, che ha solo l’effetto di rendere la cessione opponibile al debitore ceduto, può essere effettuata sia dal cedente che dal cessionario (Cassazione civile sez. VI  13 marzo 2014, n. 5869).

La notificazione della cessione del credito al debitore ceduto, prevista dall’art. 1264 cod. civ., costituisce atto a forma libera, purché idoneo a porre il debitore nella consapevolezza della mutata titolarità attiva del rapporto obbligatorio, e, pertanto, può essere effettuata sia mediante ricorso per decreto ingiuntivo, sia mediante comunicazione operata nel corso del successivo giudizio di opposizione ex art. 645 cod. proc. civ. (Cassazione civile sez. III  28 gennaio 2014 n. 1770).

Pratiche anticoncorrenziali: abuso di posizione dominante

TRIBUNALE DI BERGAMO

QUARTA SEZIONE CIVILE

Il Giudice Designato

Dott. Cesare Massetti

Sul ricorso ex art. 700 c.p.c. proposto dalla soc. Cesaretti

Agricoltura s.r.l. nei confronti della soc. Same Deutz – Fahr Italia

s.p.a.;

letti gli atti del procedimento;

sentite le parti all’udienza tenutasi il 20 dicembre 2016;

a scioglimento della riserva formulata nel corso di tale udienza;

premesso che:

– la ricorrente Cesaretti Agricoltura lamenta un abuso di

dipendenza economica ex art. 9 L. n. 192/1998 (c.d. legge subfornitura),

concretatosi nel recesso ad nutum dai contratti di concessione di

vendita in corso, oltre che nell’imposizione di una serie di clausole

vessatorie; chiede emettersi ordine di astensione dal porre in essere

qualsiasi comportamento volto a cessare le relazioni contrattuali con

la ricorrente, con l’applicazione di una penale per ogni ulteriore

violazione o ritardo; preannuncia una causa di merito di inibitoria e di

risarcimento danni;

– la resistente Same Deutz – Fahr Italia, eccepita

pregiudizialmente l’incompetenza del giudice adito, contesta nel

merito la sussistenza della dipendenza economica e dell’abuso, e

ravvisa la giusta causa del recesso negli inadempimenti del

concessionario sotto plurimi profili (andamento negativo delle

vendite, mancato allestimento di un’officina per il servizio di

assistenza postvendita, irregolarità nel pagamento degli acquisti);

– il procedimento è stato, quindi, istruito mediante assunzione di

sommarie informazioni testimoniali;

ritenuto che:

– I) l’eccezione pregiudiziale di incompetenza, sollevata dalla

resistente, è infondata.

Tale eccezione muove dagli artt. 2359 co. 1 n. 3 c.c. – 3 D.Lgs.

  1. 168/2003, come modificato dalla L. n. 27/2012, che affidano al

Tribunale delle Imprese la cognizione delle cause in tema di società

controllate, e segnatamente in tema di società che sono sotto

l’influenza dominante di un’altra società in virtù di particolari vincoli

contrattuali.

In verità la Cesaretti non ha mai insinuato di essere sotto

l’influenza dominante della Same, piuttosto ha enucleato i particolari

vincoli contrattuali che, in uno ad altre circostanze, ne evidenziano la

mera dipendenza economica.

Di un controllo esterno contrattuale non si parla nel ricorso, e la

lettura che ne fa la resistente costituisce un’evidente forzatura. Il

“dominio” non emerge neppure dagli atti, sulla cui base va decisa la

questione di competenza, ex art. 38 u.c. c.p.c..

Pare anche inutile sottolineare che l’abuso di dipendenza

economica (art. 9 legge subfornitura) e i rapporti tra società controllate (art.

2359 c.c.) ovvero l’abuso dell’attività di direzione e di coordinamento di

società (art. 2947 c.c.) costituiscono fattispecie giuridiche nettamente

diverse.

Il controllo ex art. 2359 co. 1 n. 3 c.c. postula l’esistenza di

determinati rapporti contrattuali la cui costituzione ed il cui perdurare

rappresentano la condizione di esistenza e di sopravvivenza della

capacità di impresa della società controllata (Cass. n. 12094/2001).

Tale situazione non è certamente rinvenibile nella fattispecie concreta, solo avuto riguardo all’assenza di un’esclusiva, all’indubbia autonomia

gestionale della Cesaretti e alla mancanza di poteri di concreta

ingerenza da parte della Same.

L’abuso di dipendenza economica rientra pacificamente nella

competenza del Tribunale Ordinario (Cass. n. 22584/2015).

Resta così ferma la competenza del Tribunale di Bergamo;

– II) in esordio la resistente contesta l’applicabilità dell’art. 9 cit.

in ambiti diversi dalla subfornitura.

L’assunto non è, tuttavia, condivisibile.

L’art. 9 L. 18 giugno 1990 n. 192 dispone che “1. È vietato

l’abuso da parte di una o più imprese dello stato di dipendenza

economica nel quale si trova, nei suoi o nei loro riguardi, una

impresa cliente o fornitrice. Si considera dipendenza economica la

situazione in cui una impresa sia in grado di determinare, nei rapporti

commerciali con un’altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti e

di obblighi. La dipendenza economica è valutata tenendo conto anche

della reale possibilità per la parte che abbia subito l’abuso di reperire

sul mercato alternative soddisfacenti. 2. L’abuso può anche consistere

nel rifiuto di vendere o nel rifiuto di comprare, nella imposizione di

condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose o discriminatorie,

nella interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in atto. 3. Il

patto attraverso il quale si realizzi l’abuso di dipendenza economica è

nullo. Il giudice ordinario competente conosce delle azioni in materia

di abuso di dipendenza economica, comprese quelle inibitorie e per il

risarcimento dei danni. 3-bis. Ferma restando l’eventuale

applicazione dell’articolo 3 della legge 10 ottobre 1990, n. 287,

l’Autorità garante della concorrenza e del mercato può, qualora

ravvisi che un abuso di dipendenza economica abbia rilevanza per la

tutela della concorrenza e del mercato, anche su segnalazione di terzi

ed a seguito dell’attivazione dei propri poteri di indagine ed

esperimento dell’istruttoria, procedere alle diffide e sanzioni previste

dall’articolo 15 della legge 10 ottobre 1990, n. 287, nei confronti

dell’impresa o delle imprese che abbiano commesso detto abuso. In

caso di violazione diffusa e reiterata della disciplina di cui al decreto

legislativo 9 ottobre 2002, n. 231, posta in essere ai danni delle

imprese, con particolare riferimento a quelle piccole e medie, l’abuso

si configura a prescindere dall’accertamento della dipendenza

economica”.

Contrariamente all’opinione della resistente, la norma de qua è

di generale applicazione, non essendo limitata ai soli rapporti di

subfornitura.

In tal senso depongono l’uso dei termini “cliente” e “fornitrice”,

non altrimenti impiegati nella legge subfornitura; la genesi della

disposizione, che in origine era destinata a essere inserita

(completandola) nella legislazione antitrust, sulla scia dei modelli

tedesco e francese, e che solo per effetto del parere contrario espresso

dal Garante della Concorrenza è stata spostata all’interno di una legge

settoriale; la ratio della norma, finalizzata a tutelare la correttezza e la

buona fede nei rapporti commerciali tra imprese e a vietare l’abuso del

diritto (principi – questi – che si applicano a tutti i contratti); e, infine,

l’aggiunta del co. 3 bis (in riferimento ai poteri di diffida e di sanzione

del Garante della Concorrenza nei casi in cui l’abuso assume una

rilevanza anche nell’ottica della tutela del mercato e della

concorrenza), che è valso a recuperarne la vocazione di carattere

generale.

Per l’interpretazione estensiva si sono espresse la miglior

dottrina, la più recente e prevalente giurisprudenza di merito (Tribunale

Bari 6 maggio 2002, Tribunale Taranto 17 settembre 2003, Tribunale Roma 5 novembre

2003, Tribunale Catania 5 gennaio 2004, Tribunale Bari 22 ottobre 2004, Tribunale

Trieste 21 settembre 2006, Tribunale Torre Annunziata 30 marzo 2007, Tribunale Catania

9 luglio 2009, Tribunale Roma 30 novembre 2009, Tribunale Torino 11 marzo 2010, Tribunale Forlì 27 ottobre 2010, Tribunale Torino 21 novembre 2013, Tribunale Massa 26 febbraio 2014 e 15 maggio 2014, Tribunale Vercelli 14 novembre 2014) e, last but non least, la stessa giurisprudenza di legittimità (Cass. S.U. n. 24906/2011, in linea di obiter dictum, e Cass. n. 16787/2014).

Prova ne sia che, nella prassi (al di là della soluzione del caso

concreto, nel senso che la tutela sia stata, poi, accordata o meno),

l’abuso di dipendenza economica è stato ritenuto configurabile in una

moltitudine di campi: dalla concessione di vendita al franchising, dalla

vendita all’appalto, dal trasporto alla logistica. Il caso più frequente è

proprio quello della distribuzione integrata di veicoli. E nel settore

degli idrocarburi l’applicazione dell’art. 9 è stata, addirittura, sancita allo stesso legislatore con il c.d. decreto Cresci Italia (art. 17 co. 3 D.L.

24 gennaio 2012 n. 1 convertito in L. 24 marzo 2012 n. 27).

Si può, quindi, serenamente concludere nel senso che l’art. 9 si

applica a tutti i rapporti di collaborazione tra imprese, nelle fasi della

produzione e/o della distribuzione.

Nel caso di specie si verte, appunto, in tema concessioni di

vendita, e quindi di “distribuzione”;

– III) Prima di scendere all’esame del merito, pare opportuno

esporre taluni brevi concetti sull’istituto di cui si discute.

La dipendenza economica (countervailing power) è la

situazione in cui un’impresa sia in grado di determinare, nei rapporti

commerciali con un’altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti e di

obblighi, a tal fine dovendo tenersi conto della reale possibilità per la

parte che abbia subito l’abuso di reperire sul mercato delle alternative

soddisfacenti.

Malgrado l’ambiguità dell’uso dell’avverbio “anche”, è

communis opinio che l’impossibilità di reperire delle alternative

soddisfacenti rivesta un ruolo centrale nella valutazione circa la

dipendenza economica, senza la quale è ultronea ogni indagine

sull’abuso.

Infatti, il primo e il principale sintomo della dipendenza è

rappresentato dall’esecuzione da parte dell’imprenditore debole di una

serie di investimenti specifici (relational specific investments),

nell’ottica di far fronte agli impegni contrattuali assunti con

l’imprenditore forte. L’imprenditore debole si trova così esposto al

ricatto (hold up) dell’imprenditore forte, giacchè la minaccia di

interruzione del rapporto lo costringe a proseguirlo accettando

condizioni inique, di fronte all’eventualità (laddove sul mercato non

siano reperibili dei validi “sostituti”) di non riuscire ad ammortizzare

gli investimenti che ha fatto nel tempo, o di dover affrontare dei costi

elevati per la loro riconversione (switching costs).

Tipici i casi della distribuzione integrata di veicoli e del franchising, dove – rispettivamente – il concessionario e il franchisee,

avvinti da un contratto che li lega in esclusiva all’altra parte e che

impone loro dei minimi di target, effettuano cospicui investimenti

nell’attività (per allestire i locali, per assumere del personale, per

acquisire il know how, per sostenere campagne promozionali, etc.), ciò

anche e soprattutto nell’interesse del partner forte, nella speranza di

un lungo periodo di collaborazione: investimenti che, in caso di

recesso ad nutum, vengono ad essere vanificati e difficilmente

possono essere riconvertiti.

A dir il vero per l’accertamento della dipendenza economica

soccorrono altri criteri ausiliari (le dimensioni dell’impresa, il

fatturato, la specializzazione, l’utilizzo di licenze di brevetto marchio

o insegna, l’appartenenza a gruppi, la durata del rapporto, l’esistenza

di un’esclusiva), ma quello dell’alternativa di mercato rimane senza

dubbio il più importante, tanto da potersi definire il “cuore” della

disposizione in scrutinio.

Un tale scenario non è, invece, configurabile se l’imprenditore

non è “imprigionato” (locked in), ma è in grado di reperire

agevolmente dei “sostituti”, riuscendo così comunque ad ottimizzare

gli investimenti effettuati nel tempo, malgrado la rottura unilaterale

del rapporto;

– IV) Calando tali principi nel caso di specie, è possibile

osservare quanto segue: a) non sussiste una situazione di dipendenza

economica della Cesaretti nei confronti della Same, e quindi la

condotta della Same non è apprezzabile alla luce dell’art. 9 L. n.

192/1998; b) non sussistono gli inadempimenti imputati alla

Cesaretti, e in ogni caso questi paiono di scarsa importanza nell’ottica

della valutazione circa la giusta causa del recesso operato dalla Same;

  1. c) tale recesso è comunque censurabile secondo la teorica della buona

fede e dell’abuso del diritto in generale, con le conseguenze di cui si

dirà infra.

– a) L’insussistenza di una situazione di dipendenza economica

della Cesaretti nei confronti della Same è dovuta per lo meno a due

fattori essenziali, afferenti rispettivamente 1) gli investimenti specifici

e 2) le alternative di mercato.

Quanto al primo elemento, l’unico investimento di un certo

spessore parrebbe essere l’allestimento della nuova sede di Bastia

Umbria. Senonchè tale investimento riguarda un immobile concesso

in locazione, ragione per cui è arduo sostenerne la non

“riconvertibilità” (infatti, è sufficiente disdettare il contratto per

“rientrare” dall’investimento), e tra l’altro difetta di specificità, posto

che la Cesaretti non commercializza soltanto trattori (di provenienza

Same Deutz – Fahr Italia), ma anche e soprattutto escavatori (di

provenienza S.C.A.I.), tant’è vero che il fatturato globale della

Cesaretti, secondo dati tratti dalla sua stessa contabilità (doc. 19

ricorrente), deriva per il 24,2 % dai prodotti Same e per il 41,6 % dai

prodotti S.C.A.I..

La nuova esposizione, dunque, non è certamente riservata ai

trattori, ma comprende tutti i prodotti venduti dalla Cesaretti, tra cui in

particolare gli escavatori. Il collegamento tra i due contratti di

locazione (G.I.F./Cesaretti e G.I.F./S.C.A.I.) è, addirittura, “testuale”,

come si evince dalle premesse del primo (doc. 21 ricorrente), ciò che

lascia supporre un collegamento materiale tra le due porzioni di

immobile adiacenti, tali da costituire nel complesso un unicum.

Gli strumenti di diagnosi e le attività di marketing non sono

certamente rilevanti ai fini di cui si discute, se non altro in ragione

della minima entità dei corrispondenti capitoli di spesa.

A dir il vero l’unico investimento specifico, sollecitato a più

riprese dalla stessa Same, consisteva nella dotazione di un’officina

interna per l’assistenza post vendita, ma l’istruttoria (su cui v. infra) ha

acclarato che non è mai stato realizzato.

Di talchè non si può nemmeno sostenere che la Cesaretti abbia

assunto del personale ad hoc, per le esigenze proprie della Same,

essendo di contro emerso che il referente di Same in Cesaretti per le

garanzie etc. (tale Sarnei) è stato licenziato, e rimpiazzato con altro

dipendente (tale Furiani “padre”), il quale, tuttavia, si è limitato per lo

più a gestire le incombenze relative alla consegna delle macchine

nuove (informatori Gubbiotti, Tufano e Bruno).

Quanto al secondo elemento, anche a voler restringere l’analisi

ai competitors che si pongono agli stessi livelli di mercato di Same o a

livelli equivalenti, era comunque doveroso un “approccio” per lo

meno con John Deer, del che, invece, è mancata la prova. La Cesaretti

assume che John Deer non fosse interessata a intrattenere rapporti (p. 5 note conclusive), e in limine litis ha prodotto degli estratti (docc. 44 e 45

ricorrente) da cui risulta che John Deer ha assegnato il territorio di

Perugia al concessionario Sgalla, già rivenditore autorizzato per le

Marche.

Il fatto che il punto vendita di Perugia sia in “prossima

apertura” (doc. 45 ricorrente) avvalora semmai l’assunto di Same, la quale

ha evidenziato il turn over di concessionari di macchine agricole

nell’Italia Centrale nel periodo d’interesse. Per dimostrare l’assenza

di valide alternative di mercato, la Cesaretti avrebbe, allora, dovuto

provare che, in un tale contesto, aveva per lo meno tentato di

allacciare una relazione commerciale con John Deer. Viceversa, essa

si è limitata a produrre delle carte, senza tuttavia chiarire cosa è stato

fatto nel periodo (dal recesso ad oggi) in cui John Deer ha maturato la

decisione di ampliare la zona del concessionario Sgalla (dalle Marche

all’Umbria). Solo dimostrando di aver avviato una trattativa con John

Deer, e che detta trattativa non aveva avuto buon fine (non per fatto

proprio), la Cesaretti avrebbe assolto appieno l’onere delle prova circa

la mancanza di alternative soddisfacenti di mercato.

Il Tribunale osserva, in primo luogo, che la lettera di recesso

non ne fa alcuna menzione, e in secondo luogo, che detti

inadempimenti, quand’anche realmente sussistenti, non sarebbe stati

comunque tali da fondare una giusta causa di recesso.

Infatti, quanto all’andamento negativo delle vendite, la tesi della

resistente omette di considerare il dato relativo alla crisi del mercato,

che ha colpito anche il settore delle macchine agricole. Oltretutto il

fatturato della Cesaretti per il 2015 era in crescita del 3,5 %, ciò

secondo la stessa tabella fornita dalla Same (pp. 9 – 10 comparsa). In ogni

caso, la minor performance rispetto ai concessionari limitrofi era

contenuta entro percentuali limitate (5/7 % secondo l’informatore

Tufano).

Quanto al mancato allestimento di un’officina per il servizio di

assistenza post vendita, e a prescindere dalla contestatissima “scheda

valutazione officina”, prodotta soltanto con le note conclusive (doc. 40

ricorrente), è stata fornita la prova della “tolleranza” pluriennale al

ricorso di un’officina esterna (in particolare, tale Orama) per gli

interventi di un certo rilievo. In tal senso è assai eloquente la

deposizione resa dall’informatore Bruno.

La Same non può addurre a giusta causa del recesso una prassi

che essa stessa ha accettato per lunghissimo tempo.

Il numero dei reclami, poi, di per sé non significa nulla, se non

se ne approfondiscono le cause, ben potendo essere che le doglianze

dei clienti si riferissero a problematiche della macchina piuttosto che

all’assistenza fornita dal concessionario.

Infine, quanto all’irregolarità nel pagamento degli acquisti, si è

trattato di semplici richieste di dilazione, previste contrattualmente e

autorizzate dal factor. Quel che è certo è che non si sono mai verificati

degli insoluti, e che non si sono registrati particolari scompensi in

capo alla cedente, per via dello splafonamento dell’affidamento o

altro.

In definitiva, il recesso della Same, per lo meno a livello di

fumus, non pare sorretto da una giusta causa, ma è e rimane un

semplice recesso ad nutum, operato al fine di incrementare le vendite

in Umbria, come riconosciuto dalla stessa Same nelle note conclusive

(pp. 32 – 34).

– c) Se è vero che la Cesaretti non si trova in una posizione di

dipendenza economica (in senso tecnico – giuridico) nei confronti

della Same, per le ragioni illustrate supra, è indubitabile che la Same

si trovi in una posizione di forza o di supremazia nei confronti della

Cesaretti. Lo dimostra il contenuto delle clausole evidenziate in

ricorso (pp. 9 – 11), qui a prescinderne dal carattere vessatorio o meno e

da un controllo circa il fatto che esse integrino o meno delle

condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose o discriminatorie.

In presenza di un partner forte, la condotta di Same (id est: il

recesso), se non alla luce dell’art. 9 L. n. 192/1998, diviene allora

rilevante alla luce della teorica della buona fede e dell’abuso del

diritto in generale. A far tempo dal leading case di Cass. n.

20106/2009 (il caso dei concessionari Renault), la giurisprudenza di

legittimità afferma la possibilità di un sindacato giudiziario dell’atto di

autonomia privata, nell’ottica di pervenire a un bilanciamento o

equilibrio dei contrapposti interessi. Con peculiare riferimento

all’ipotesi del recesso, si evidenzia la necessità di una

“procedimentalizzazione” dell’atto, che si sostanzia nella previsione di

trattative, nel riconoscimento di indennità, etc.. Non è in discussione

la libertà del concedente di svincolarsi dal contratto, per ridisegnare la

propria rete di vendita, optando per un altro concessionario, ma si

tratta anche di garantire la controparte, consentendole a sua volta di

riorganizzarsi, entro un congruo periodo di tempo.

Da questo punto di vista il recesso intimato entro il termine di

soli tre mesi, pur in conformità alle previsioni contrattuali (senza,

peraltro, che l’interruzione fosse mai stata preannunciata. Infatti, negli

incontri di Verona, Perugina e Treviglio non se ne era mai accennato),

e a fronte di un rapporto di lunga durata, presenta sicuramente dei

profili di “abusività”. Equo e pertinente alla fattispecie concreta pare

piuttosto il termine di un anno a far tempo dalla comunicazione del

recesso.

Merita, dunque, accoglimento la richiesta subordinata della

ricorrente, tesa a ripristinare il rapporto per un corrispondente periodo.

Nell’instaurando giudizio di merito si valuteranno gli eventuali

aspetti risarcitori.

– V) Il fumus boni iuris, limitatamente alla non congruità del

periodo di preavviso, è acclarato dalle considerazioni che sono state

illustrate nei precedenti paragrafi.

Il periculum in mora è in re ipsa nel venire meno della

collaborazione con un marchio celebre, con tutte le conseguenze che

ne derivano (calo del fatturato, difficoltà nel reperire validi sostituti

entro un breve periodo, necessità di riorganizzare la sede e il

personale, presenza di un concorrente già operativo nella zona, etc.).

E’ comunemente ritenuto ammissibile un provvedimento ex art.

700 c.p.c. che abbia ad oggetto la condanna a un facere infungibile

(nella specie: la ripresa delle relazioni commerciali per il più lungo

periodo di tempo stabilito).

Ex art. 614 bis c.p.c. deve essere fissata, non parendo

manifestamente iniqua, la penale di € 5.000,00= per ogni violazione o

ritardo.

Il giudizio di merito andrà instaurato nel termine di mesi tre

dalla comunicazione del presente provvedimento.

Il regolamento delle spese di lite per questa fase va rinviato al

definitivo.

PQM

– in parziale accoglimento della domanda, ordina alla resistente

di astenersi dal porre in essere qualsiasi comportamento volto a

cessare le relazioni contrattuali con la ricorrente fino alla data del 26

aprile 2017;

– fissa una penale di 5.000,00= per ogni violazione o ritardo

nell’esecuzione del presente provvedimento;

– fissa termine di mesi tre per l’instaurazione del giudizio di

merito;

– spese al definitivo.

Si comunichi.

Bergamo, lì 4 gennaio 2017.

 

Alimentare . Vendita  di alimenti a temperatura ambiente nonostante  contrarie prescrizioni indicate sulla confezione.

 

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 23 novembre 2016 – 26 aprile 2017, n. 19596
Presidente Amoresano – Relatore Liberati

Ritenuto in fatto

  1. Con sentenza del 17 novembre 2014 il Tribunale di Pordenone ha condannato L. M. alla pena di Euro 3.000,00 di ammenda, in relazione al reato di cui agli artt. 5, lett. b), e 6, comma 3, L. n. 283 del 1962 (per avere, quale responsabile del punto vendita PAM di Spilimbergo, detenuto per la vendita su di uno scaffale di tale punto vendita, con temperatura tra 19 e 20 gradi, venti confezioni sottovuoto di formaggio a pasta dura TRENTINGRANA D.O.P., tra le quali ve ne era una con estese formazioni di muffa).
    2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso l’imputato, mediante il suo difensore di fiducia, che lo ha affidato a un unico articolato motivo, attraverso il quale ha denunciato l’insufficienza e l’illogicità della motivazione, con particolare riferimento alla valutazione delle risultanze istruttorie, essendo stata indebitamente e illogicamente affermata la responsabilità dell’imputato per avere detenuto per la vendita 20 confezioni di formaggio a temperatura non adeguata (tra cui una con tracce di muffa), in quanto, secondo quanto emerso dall’istruttoria, non vi era correlazione tra la temperatura di conservazione e la muffa riscontrata su un unico pezzo (dovuta a un difetto di sigillatura della confezione sottovuoto da parte del produttore); il formaggio in questione poteva essere conservato a temperatura ambiente senza particolari conseguenze (come chiarito dal responsabile della gestione e commercializzazione del Consorzio Trentingrana, produttore del formaggio detenuto per vendita presso detto esercizio commerciale); non era, inoltre, stato provato da quanto tempo il prodotto fosse stato esposto a temperatura ambiente; il pezzo di formaggio con le tracce di muffa era preconfezionato all’origine e non era visibile dall’esterno, se non per una piccola porzione, con la conseguente applicabilità della esimente di cui all’art. 19 L. 283 del 1962.

Considerato in diritto

  1. Il ricorso è inammissibile, essendo volto a sindacare gli accertamenti di fatto compiuti dal Tribunale, di cui è stato dato conto con motivazione adeguata e priva di vizi logici.
    2. Le censure sollevate dal ricorrente non tengono conto che il controllo demandato alla Corte di legittimità va esercitato sulla coordinazione delle proposizioni e dei passaggi attraverso i quali si sviluppa il tessuto argomentativo del provvedimento impugnato, senza alcuna possibilità di rivalutare in una diversa ottica, gli argomenti di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento o di verificare se i risultati dell’interpretazione delle prove siano effettivamente corrispondenti alle acquisizioni probatorie risultanti dagli atti del processo.
    Anche a seguito della modifica dell’art. 606, lett. e), cod. proc. pen. con la L. 46/06, il sindacato della Corte di Cassazione rimane di legittimità: la possibilità di desumere la mancanza, contraddittorietà o la manifesta illogicità della motivazione anche da “altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame”, non attribuisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare criticamente le risultanze istruttorie, ma solo quello di valutare la correttezza dell’iter argomentativo seguito dal giudice di merito e di procedere all’annullamento quando la prova non considerata o travisata incida, scardinandola, sulla motivazione censurata (Sez. 6, n. 752 del 18.12.2006; Sez. 2, n. 23419 del 2007, Vignaroli; Sez. 6 n. 25255 del 14.2.2012).
    3. Nella vicenda in esame il Tribunale è pervenuto alla affermazione di responsabilità dell’imputato a seguito del rinvenimento, presso il punto vendita di cui il ricorrente era responsabile, di 19 confezioni di formaggio a pasta dura “Trentingrana d.o.p.”, esposte per la vendita su uno scaffale a temperatura ambiente, nonostante la confezione di tali prodotti riportasse l’indicazione della necessità di conservazione in frigorifero a temperatura compresa tra 0 e + 8, e il manuale di autocontrollo della società PAM Panorama, titolare della rivendita, prescrivesse la conservazione dei formaggi a pasta dura in banchi refrigerati. Il Tribunale ha, inoltre, sottolineato che il formaggio contenuto in una di tali confezioni presentava tracce di muffa, concludendo, in modo logico, per la sussistenza del reato contestato, essendo evidente il cattivo stato di conservazione di tutte suddette confezioni alimentari.
    Il ricorrente, invece, come risulta dallo stesso ricorso, pur prospettando l’illogicità di tale motivazione, propone, in realtà, una rivisitazione del materiale probatorio, affermando che dall’istruttoria era emersa l’assenza di correlazione tra la temperatura di conservazione e la muffa presente sul prodotto di una delle confezioni, che il formaggio poteva essere conservato a temperatura ambiente, che non era comunque stato accertato il tempo di esposizione a tale temperatura, che il pezzo di formaggio su cui erano presenti le tracce di muffa era preconfezionato e non visibile dall’esterno, se non per una piccola porzione, che la presenza di muffa non era riconducibile alla temperatura di conservazione: tali rilievi sono tutti volti a censurare e sovvertire la ricostruzione del fatto compiuta dal primo giudice, che, sulla base della inidoneità delle modalità di conservazioni di tutte le 19 confezioni di formaggio esposte per la vendita a temperatura ambiente (dunque indipendentemente dalla presenza di muffe sul formaggio contenuto in una delle confezioni), ha ritenuto che tali prodotti fossero in cattivo stato di conservazione. Tale motivazione risulta conforme alle regole della logica e alle massime di esperienza, oltre che alle specifiche prescrizioni del produttore e del titolare dell’esercizio commerciale, e dunque le censure del ricorrente, piuttosto che individuare vizi della motivazione, sono dirette a conseguire una diversa valutazione delle risultanze di fatto correttamente considerate dal Tribunale, con la conseguente inammissibilità di tali doglianze.
    Poiché la responsabilità del ricorrente è stata affermata a causa della conservazione dei prodotti alimentari a temperatura non idonea, cioè a temperatura ambiente e non a quella compresa tra 0 e + 8, risultano chiaramente insussistenti i presupposti di applicabilità della esimente di cui all’art. 19 L. n. 283 del 1962.
    Tale disposizione, infatti, nel prevedere che “Le sanzioni previste dalla presente legge non si applicano al commerciante che vende, pone in vendita o comunque distribuisce per il consumo prodotti in confezioni originali, qualora la non corrispondenza alle prescrizioni della legge stessa riguardi i requisiti intrinseci o la composizione dei prodotti o le condizioni interne dei recipienti e sempre che il commerciante non sia a conoscenza della violazione o la confezione originale non presenti segni di alterazione”, attiene ai requisiti intrinseci o di composizione dei prodotti o alle condizioni interne dei recipienti, e non alle modalità di conservazione degli alimenti, che ricadono sotto la responsabilità del detentore, a cagione delle quali, e in particolare della inidoneità della conservazione a temperatura ambiente, è stata affermata la responsabilità dell’imputato, con la conseguente manifesta infondatezza della allegazione della configurabilità di tale esimente speciale, di cui nella specie non ricorrono i presupposti di fatto.
    4. In conclusione il ricorso in esame deve essere dichiarato inammissibile, non essendo consentita nel giudizio di legittimità, in presenza di motivazione adeguata e immune da vizi, la rivalutazione delle risultanze di fatto, ed essendo chiaramente non configurabile l’esimente speciale invocata dall’imputato.
    Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue, ex art. 616 cod. proc. pen., non potendosi escludere che essa sia ascrivibile a colpa del ricorrente (Corte Cost. sentenza 7-13 giugno 2000, n. 186), l’onere delle spese del procedimento, nonché del versamento di una somma in favore della Cassa delle Ammende, che si determina equitativamente, in ragione dei motivi dedotti, nella misura di Euro 2.000,00

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

 

 

 

Processo alla parola

Parole come bullismo, bombe d’acqua, utilizzate per rappresentare sinteticamente comportamenti. fenomeni ed  e eventi come entrano nel linguaggio e con quali effetti. Già Platone si preoccupava di difendere le parole ……..in una interessante  videoconversazione la Prof. Francesca Ervas docente di filosofia del linguaggio all’Università di Cagliari,  affronta il tema delle parole quale veicolo per rappresentare la realtà. Il titolo per l’esattezza è il seguente: Le parole definiscono o creano la realtà (anche giuridica)?………(segui il link)

Lavoro. Videosorveglianza dei dipendenti illegittima ma rilevante ai fini del licenziamento

Corte Europea  dei Diritti dell’Uomo, sez. III nel caso Lopez Ribalda ed altri c. Spagna (ric. 1874/13) del 9 gennaio 2018

La Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) è un organismo diverso dalla  Corte di giustizia dell’Unione europea (CGUE) .

Corte di Giustizia Europea, Corte dei Diritti dell’Uomo e Corte Costituzionale dello Stato membro devono essere considerati l’organo giurisdizionale di vertice per tre sistemi giuridici indipendenti: sistema UE, sistema CEDU, sistema costituzionale nazionale.
La Corte europea dei diritti dell’uomo (qui il sito ufficiale) è una Corte internazionale istituita nel 1959. Si pronuncia sui ricorsi individuali o statali su presunte violazioni dei diritti civili e politici stabiliti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Protegge in particolare il diritto alla vita, il diritto a un equo processo, il diritto al rispetto della vita privata e famigliare, la libertà di espressione, la libertà di pensiero e di religione, il diritto al rispetto della proprietà.

Con la pronuncia in oggetto, la CEDU ha affermato che il datore di lavoro, seppure sospetti furti in azienda, ha il dovere di rispettare le norme sulla tutela dei dati personali e/o per lo meno di avvertire e fornire ai dipendenti le informazioni generiche sulla videosorveglianza per non violarne la privacy (art. 8 Cedu).    Tuttavia ha ritenuto che le registrazioni ottenute da telecamere nascoste sono prove valide in un procedimento per impugnazione del licenziamento disciplinare (e nella transazione tra le parti), purché non costituiscano l’unica prova su cui si basa la convalida ed i ricorrenti abbiano potuto contestarle. Ha ritenuto quindi che non sia stato violato l’art. 6 Cedu.

Nella fattispecie, il datore di lavoro  che gestiva  una catena di supermercati spagnoli, dopo aver  rilevato  ammanchi e sospettando furti, installò delle telecamere di sorveglianza, alcune visibili ed altre occultate. I dipendenti furono avvertiti anticipatamente dell’installazione delle sole telecamere visibili, ma visionando immagini registrate da quelle celate, il datore di lavoro si accorse che alcuni dipendenti – oggi ricorrenti – non solo avevano commesso furti, ma avevano anche aiutato clienti e colleghi nella commissione di altri illeciti.

Leggi la sentenza collegandoti al sito ufficiale della Corte europea dei diritti dell’uomo.