Anno: 2018

Alimenti, quando può dirsi prevedibile un evento dannoso (per la presenza di cariche microbiche inferiori alla soglia limite ) ?

Ogni qual volta un evento dannoso rientri nella prevedibilità ed evitabilità secondo regole di ordinaria diligenza il responsabile del ciclo produttivo (e dunque, nella generalità dei casi, il titolare) ne risponde,  a meno che non abbia delegato la responsabilità a singoli preposti in caso di aziende di grandi dimensioni sulla base di norme interne (nella fattispecie  era stata ravvisata la presenza di cariche microbiche in tramezzini)

(Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza n. 37436/17; depositata il 27 luglio)

Nel caso di specie il Tribunale di Genova aveva inteso ravvisare la responsabilità, penale, del  ricorrente in quanto tre unità oggetto di campionamento presentavano valori superiori a 10 ufc/g, “parametri chimico fisici che comportano la possibilità di moltiplicazione microbica del predetto batterio nel tempo in cui il prodotto è in vendita” (nella specie tramezzini).

In sostanza – pur prevedendo la normativa un limite soglia di cariche microbiche di 100 ufc/g in modo da   giustificare la conclusione  che il mancato superamento di tale  soglia durante il periodo di validità commerciale del prodotto escluda che possa configurarsi un illecito – nel caso di specie essendo stata rilevata la presenza di cariche microbiche, seppure inferiori alla soglia, a distanza di un certo periodo di tempo dalla data di scadenza, aveva fatto ritenere ai verbalizzanti che vi fosse la possibilità in detto arco di tempo di un proliferare delle cariche microbiche  con conseguente pericolo di superamento della soglia limite.

I giudici di legittimità, tuttavia hanno accolto il ricorso del commerciante (annullando la sentenza di condanna ) osservando che non era stata contestata l’ipotesi dell’incertezza sul mancato superamento della soglia di 100 ufc/g fino alla data di scadenza del prodotto (posto che all’epoca delle analisi i dati di riferimento rientravano invece nelle soglie ) .

Del resto il Tribunale aveva espressamente osservato che non vi era questione in ordine al rispetto, da parte del ricorrente, del sistema di controlli convenuto con le autorità sanitarie secondo il piano di campionamento concordato. Dunque doveva ritenersi rispettato il principio generale di cautela costantemente ribadito dalla giurisprudenza di legittimità secondo il titolare di una ditta di produzione e commercio di prodotti alimentari ha l’obbligo di rispettare non solo le disposizioni di legge che presiedono alla disciplina di quel settore di produzione ma anche le generali norme che impongono la massima prudenza, attenzione e diligenza nella produzione. Da qui il principio  sintetizzato nella massima enunciata in apertura.
Testo delle sentenza

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 4 aprile – 27 luglio 2017, n. 37436 Presidente Cavallo – Relatore Cerroni

 

Ritenuto in fatto

  1. Con sentenza dell’11 marzo 2016 il Tribunale di Genova ha condannato P.L. , in qualità di legale rappresentante della s.r.l. Laboratorio Gastronomico Dua A.A. e concesse le attenuanti generiche, alla pena di Euro 1400 di ammenda per il reato di cui all’art. 5 lett. c) della legge 30 aprile 1962, n. 283, stante la messa in commercio di tramezzini contenenti germi patogeni listeria monoctytogeneses. 2. Avverso la predetta decisione è stato proposto ricorso per cassazione, tramite il difensore, con tre motivi di impugnazione. 2.1. In particolare, col primo motivo è stata dedotta violazione di legge in quanto l’art. 5 lett. c) della legge 283 cit. puniva solamente chi, e non era la fattispecie come desunto dall’istruttoria, impiegava negli alimenti sostanze con cariche microbiche superiori ai limiti di legge. In specie, al contrario, i prodotti alimentari erano certamente, all’epoca della verifica, ancora in buono stato di conservazione e non risultavano superati i limiti di tollerabilità microbica previsti dalla legge. 2.2. Col secondo motivo il ricorrente ha contestato l’esistenza dell’elemento soggettivo del reato, dal momento che la ditta del ricorrente aveva svolto tutti i controlli necessari e previsti al fine di verificare la genuinità dei prodotti, non potendosi pretendere un controllo su ogni singolo tramezzino. In considerazione di ciò, si sarebbe così delineata una vera e propria responsabilità di tipo oggettivo. 2.3. Col terzo motivo infine è stato censurato l’immotivato rigetto della richiesta di applicazione della norma di cui all’art. 131-bis cod. pen., di cui invece ricorrevano i presupposti (assenza di precedenti penali, effettuazione di tutti i controlli necessari e peraltro non obbligatori, commestibilità dei tramezzini al momento delle analisi, carica batterica inferiore ai limiti). 3. Il Procuratore generale ha concluso nel senso dell’annullamento con rinvio relativamente alla richiesta ex art. 131-bis cod. pen..

Considerato in diritto

  1. Il ricorso è fondato nei termini che seguono. 4.1. Il contestato art. 5 lett. c) della legge 283 del 1962 stabilisce che “È vietato impiegare nella preparazione di alimenti o bevande, vendere, detenere per vendere o somministrare come mercede ai propri dipendenti, o comunque distribuire per il consumo sostanze alimentari:… c) con cariche microbiche superiori ai limiti che saranno stabiliti dal regolamento di esecuzione o da ordinanze ministeriali”. In particolare, le analisi erano state condotte su tramezzini prodotti ed immessi in commercio dalla società di cui l’odierno ricorrente era legale rappresentante, ed avevano fatto registrare in data 17 aprile 2013, laddove il prodotto scadeva il 12 maggio 2013, valori rispettivamente di 50 unità formanti colonia (ufc), 60 ufc, maggio 40 ufc e minore 10 ufc.. In specie, si trattava di sostanze alimentari (tramezzini) deteriorabili a norma del d.m. 16 dicembre 1993 in considerazione della composizione; in particolare, di alimenti pronti che costituiscono terreno favorevole alla crescita di listeria monocytogenes, come previsto dal Regolamento (CE) n. 2073/2005 della Commissione del 15 novembre 2005, “Sui criteri microbiologici applicabili ai prodotti alimentari”. Dal momento che i prodotti erano stati immessi sul mercato durante il loro periodo di conservabilità, il limite di tollerabilità era fissato in 100 ufc “se il produttore è in grado di dimostrare, con soddisfazione dell’autorità competente, che il prodotto non supererà il limite di 100 ufc/g durante il periodo di conservabilità”. Al riguardo, l’esito delle analisi doveva considerarsi non soddisfacente, atteso che – anche se l’analisi stessa aveva attestato che il prodotto si collocava nell’ambito del limite di 100 ufc/g – è pacifico (o quantomeno non è stata sollevata contestazione sul punto) che non era stata fornita alcuna dimostrazione circa la possibilità di rispettare il suddetto limite nel corso di validità del prodotto. Sì che erano state adottate le misure di salvaguardia e di allerta previste dalla normazione. Vero è quindi che, per quanto possa interessare, non sussiste dubbio circa il fatto che si sarà proceduto al doveroso ritiro ovvero comunque al richiamo del prodotto. Per quanto invero concerne la responsabilità di natura penale, è stato ripetutamente affermato, in tema di rapporti tra le fattispecie di cui alle lett. c) e d) dell’art. 5 cit., che non integra il reato di cui all’art. 5, comma primo, lett. d), legge 30 aprile 1962 n. 283, la presenza di cariche microbiche superiori ai limiti consentiti in sostanza alimentari insudiciate, invase da parassiti, in stato di alterazione o comunque nocive, ma realizza fattispecie prevista dalla lett. c) della norma citata, per la cui configurabilità non è sufficiente un’analisi qualitativa del prodotto, essendo necessario l’accertamento del superamento dei citati limiti di tolleranza (Sez. 3, n. 29988 del 13/07/2011, Pollini, Rv. 251253; Sez. 3, n. 46764 del 16/11/2005, Salvatore, Rv. 232654). Invero, come è già stato ricordato dal provvedimento impugnato, per la configurabilità del reato di cui all’art. 5, lett. c) cit., non è necessario l’accertamento della nocività delle sostanze impiegate, ma è sufficiente il mancato rispetto dei limiti imposti a garanzia della qualità del prodotto (Sez. 3, n. 44659 del 16/11/2001, Parisi, Rv. 220629). Alla stregua dei principi richiamati, che la Corte non ha ragione di revocare in dubbio ma che anzi intende consolidare, non può non essere rilevato che il Tribunale di Genova ha inteso ravvisare la responsabilità, penale, dell’odierno ricorrente in quanto tre unità oggetto di campionamento presentavano valori superiori a 10, “parametri chimico fisici che comportano la possibilità di moltiplicazione microbica del predetto batterio nel tempo in cui il prodotto è in vendita”. Va da sé che il ragionamento non appare condivisibile, laddove è stato assunto come parametro di riferimento il valore inferiore a 10 ufc/g che, in realtà, non è fissato da alcuno e che, se risponde ad evidenti ragioni di precauzione e di stima sanitaria, comunque non esclude la sussistenza di cariche microbiche ed è diverso dalla pura e semplice “assenza” di carica microbica. In altre parole, se 100 ufc/g si pone come limite invalicabile nel caso in cui sia assicurato il suo mancato superamento nel periodo di validità commerciale del prodotto, l’eventuale parametro minimo non è altrimenti ricavabile dal sistema se non operando esegesi, ragionevoli sì, ma estranee alle previsioni, atteso che il regolamento comunitario fissa altri riferimenti (ad es. “Assente in 25 g”) per le altre ipotesi colà richiamate. D’altronde il ricorrente è stato ritenuto responsabile alternativamente, ed in entrambe le ipotesi per fattispecie in sé non contestate ovvero non espressamente previste, perché non sussisteva certezza sul mancato superamento della soglia di 100 ufc/g fino alla data di scadenza del prodotto (all’epoca delle analisi i dati di riferimento rientravano invece nel range), e perché era stato rintracciato un valore superiore a 10 ufc/g. 4.2. In ogni caso, poi, non vi è questione in ordine al rispetto, da parte del ricorrente, del sistema di controlli convenuto con le autorità sanitarie secondo il piano di campionamento concordato, come è stato espressamente osservato dal Tribunale. Al riguardo, è stato ripetutamente osservato che il titolare di una ditta di produzione e commercio di prodotti alimentari ha l’obbligo di rispettare non solo le disposizioni di legge che presiedono alla disciplina di quel settore di produzione ma anche le generali norme che impongono la massima prudenza, attenzione e diligenza nella produzione. Ogni qual volta un evento dannoso rientri nella prevedibilità ed evitabilità secondo regole di ordinaria diligenza il responsabile del ciclo produttivo ne risponde (a meno che non abbia delegato la responsabilità a singoli preposti in caso di aziende di grandi dimensioni sulla base di norme interne; in specie il titolare di una ditta di produzione e vendita al dettaglio di formaggi è stato chiamato a rispondere dell’intossicazione determinata dalla presenza nel formaggio di stafilococco aureo presente nell’acqua bevuta dagli animali, nonostante che egli fosse in regola con i controlli della AUSL, perché tali controlli non danno la garanzia che i prodotti venduti fossero immuni da qualsiasi contaminazione)(Sez. 3, n. 5950 del 20/05/1997, Danesi, Rv. 208208; conf. Sez. 7, n. 21660 del 23/09/2016, dep. 2017, Bambini, Rv. 269777, secondo cui è stata ritenuta esente da censure la sentenza che aveva affermato la responsabilità dell’imputato per avere commercializzato una partita di alici contaminata da parassiti pericolosi per la salute la cui presenza era riscontrabile a vista, pur avendo egli provveduto a sottoporre gli alimenti a controlli a campione). Ma in specie, tra l’altro, dal provvedimento impugnato non risulta neppure emersa alcuna circostanza dalla quale era possibile desumere, come invece risulta nei precedenti richiamati, l’evento dannoso secondo i canoni della prevedibilità, nonché della evitabilità seguendo regole di ordinaria diligenza. 5. Alla stregua dei rilievi complessivamente svolti, e con assorbimento del terzo motivo di ricorso, la sentenza va annullata senza rinvio perché il fatto non costituisce reato.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non costituisce reato

 

Le insidie che si possono celare dietro la clausola arbitrale (Cassazione, Sezioni Unite, 9 maggio 2016, n. 9341 )

In applicazione della disciplina transitoria dettata dall’art. 27 del d.lgs. n. 40 del 2006, l’art. 829 c.p.c., comma 3, come riformulato dall’art. 24 del d.lgs. n. 40/2006, si applica nei giudizi arbitrali promossi dopo l’entrata in vigore del suddetto decreto, ma la legge cui lo stesso art. 829 c.p.c., comma 3, rinvia, per stabilire se è ammessa l’impugnazione per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia, è quella vigente al momento della stipulazione della convenzione che include la clausola arbitrale (Massima).

Testo della sentenza

Cassazione, Sezioni Unite, 9 maggio 2016, n. 9341

(Rordorf presidente, Nappi estensore) – Bertucci (avv.ti G. Iannotta, F. Iannotta) – Tironi s.p.a. (avv.ti Crisci, Benedetti)

[Omissis]   Con la sentenza impugnata la Corte d’appello di Milano dichiarò inammissibile l’impugnazione proposta da Bertucci per la dichiarazione di nullità del lodo arbitrale pronunciato nella controversia insorta con la Tironi s.p.a. in relazione al preliminare di compravendita stipulato tra le parti il 27 novembre 2001. Ritennero i giudici del merito che l’impugnazione per violazione delle norme di diritto relative al merito della controversia era inammissibile, in quanto la richiesta di arbitrato, pur fondata su una clausola compromissoria inserita nel contratto preliminare del 2001, era stata proposta il 12 marzo 2007, dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 40 del 2006, il cui art. 24 ha modificato l’art. 829 c.p.c., nel senso che «l’impugnazione per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia è ammessa se espressamente disposta dalle parti o dalla legge», mentre una tale previsione delle parti non era contenuta nella clausola compromissoria. Del D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 27, prevede infatti che anche l’art. 829 c.p.c., si applichi nella nuova formulazione ai procedimenti arbitrali nei quali la domanda  di arbitrato sia stata proposta dopo l’entrata in vigore della nuova disciplina (2 marzo 2006), così escludendo l’applicabilità della sua precedente formulazione, che ammetteva la impugnazione del lodo per violazione di regole di diritto, quando le parti non avessero autorizzato decisioni secondo equità né dichiarato il lodo non impugnabile. Per la cassazione di questa sentenza ha proposto ricorso B. rv. sulla base di due motivi d’impugnazione, illustrati poi anche da memoria, cui resiste con controricorso la Tironi s.p.a., proponendo altresì ricorso incidentale condizionato. La Prima sezione civile di questa corte, cui il ricorso era stato assegnato, ne ha chiesto la rimessione alle Sezioni unite, avendo rilevato che è controverso in giurisprudenza se la nuova formulazione dell’art. 829 c.p.c., debba applicarsi anche quando la convenzione arbitrale sia stata stipulata prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 40 del 2006.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.1 – Con il primo motivo il ricorrente principale censura l’interpretazione del D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 27, proposta dalla Corte d’appello di Milano, in quanto contraria ai principi generali di irretroattività della legge e di immodificabilità della disciplina contrattuale per effetto dei successivi mutamenti della legislazione, nonché lesiva del diritto di difesa, «finendo per ricollegare al silenzio delle parti un significato opposto a quello dalla legge previsto al momento della stipula della convenzione di arbitrato».

1.2 – Con il secondo motivo il ricorrente principale propone questione di costituzionalità dell’art. 829 c.p.c., ove interpretato nel senso ritenuto dai giudici del merito.

1.3 – Con l’unico motivo del ricorso incidentale subordinato, la Tironi s.p.a. deduce l’inammissibilità dell’impugnazione di B. per carenza di interesse, avendo egli posto il lodo controverso a fondamento dei propri assunti in un altro giudizio.

2.1 – Il primo motivo del ricorso principale pone la questione sulla quale si è manifestato nella giurisprudenza di questa corte il contrasto denunciato dalla Prima sezione civile. Come ben chiarisce l’ordinanza di rimessione, infatti, l’originario testo dell’art. 829 c.p.c., comma 2, prevedeva che, salvo deroghe convenzionali, i lodi arbitrali fossero sempre impugnabili per violazione di norme di diritto sostanziali; mentre nel suo nuovo testo, introdotto dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 24, l’art. 829 c.p.c., comma 3, prevede all’opposto che l’impugnazione dei lodi arbitrali per violazione di norme di diritto sostanziali è ammessa solo «se espressamente disposta dalle parti o dalla legge». Sicché il silenzio delle parti stipulanti, che in origine rendeva impugnabile il lodo arbitrale anche per violazione delle norme di diritto sostanziali, con la sopravvenuta nuova formulazione esclude invece l’impugnabilità del lodo per tali motivi. Secondo una parte della giurisprudenza tuttavia il D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 27, comma 4, che prevede l’applicazione delle nuove norme ai giudizi arbitrali promossi dopo il 2 marzo 2006, andrebbe interpretato in coerenza con il principio generale di irretroattività della legge e con gli artt. 3 e 24 Cost., con la conseguenza che il nuovo testo dell’art. 829 c.p.c., comma 3, non varrebbe a precludere l’impugnabilità per errores in judicando dei lodi arbitrali emessi sulla base di clausole compromissorie precedentemente stipulate (Cass., sez. 1, 19 aprile 2012, n. 6148, rv. 622519, Cass., sez. 1, 3 giugno 2014, n. 12379, rv. 631488, Cass., sez. 1, 18 giugno 2014, n. 13898, Cass., sez. 1, 19 gennaio 2015, n. 745, Cass., sez. 1, 19 gennaio 2015, n. 748, Cass., sez. 1, 28 ottobre 2015, n. 22007). A questa interpretazione si è però opposto che il D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 27, comma 4, è «chiarissimo» laddove stabilisce che l’art. 829 c.p.c., nel suo nuovo testo, si applica «ai procedimenti arbitrali nei quali la domanda di arbitrato è stata proposta successivamente alla data di entrata in vigore del predetto decreto, pur se riferita a clausola compromissoria stipulata in epoca anteriore» (Cass., sez. 6, 17 settembre 2013, n. 21205, rv. 627936, Cass., sez. 1, 20 febbraio 2012, n. 2400, rv. 621295, Cass., sez. 1, 25 settembre 2015, n. 19075, rv. 636684). Sicché il nuovo testo dell’art. 829 c.p.c., comma 3, si applica anche ai lodi arbitrali emessi sulla base di clausole compromissorie stipulate prima del 2 marzo 2006.

2.2– Benché manifestatosi con riferimento all’interpretazione del D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 27, comma 4, il contrasto giurisprudenziale denunciato dalla Prima sezione civile deve trovare la sua soluzione nell’interpretazione dell’art. 829 c.p.c., comma 3. Non sembra infatti discutibile l’inequivocabile portata della pur controversa norma transitoria, laddove prevede che le disposizioni del D.Lgs. n. 40 del 2006, artt. 21, 22, 23, 24 e 25, «si applicano ai procedimenti arbitrali, nei quali la domanda di arbitrato è stata proposta successivamente» al 2 marzo 2006, quand’anche sulla base di clausole compromissorie stipulate precedentemente, cui è esclusa l’applicabilità solo delle disposizioni del D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 20, relative a forma ed effetti delle convenzioni. A tutti i giudizi arbitrali promossi dopo il 2 marzo 2006 si applica dunque anche l’art. 829 c.p.c., comma 3, come modificato dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 24, con la previsione che «l’impugnazione per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia è ammessa se espressamente disposta dalle parti o dalla legge». Occorre tuttavia domandarsi quale sia la «legge» la cui espressa previsione può rendere ammissibile l’impugnazione del lodo arbitrale anche «per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia». E sembra ragionevole ritenere che questa legge debba avere i tre seguenti connotati. Deve innanzitutto trattarsi ovviamente di una legge diversa dallo stesso art. 829 c.p.c., comma 3, che esclude certamente l’impugnabilità del lodo arbitrale per violazione delle norme di diritto sostanziali, ma ammette che a questa esclusione  possano derogare altra norma di legge o la volontà delle parti. Deve trattarsi in secondo luogo di una legge che disciplini la convenzione di arbitrato, perché è quella convenzione a definire, anche per volontà delle parti, i limiti di impugnabilità del lodo. Deve trattarsi infine della legge vigente nel momento in cui la convenzione di arbitrato viene stipulata, perché è solo la legge vigente in quel momento che può ascrivere al silenzio delle parti un significato normativamente predeterminato. Infatti il silenzio è un comportamento di per sé neutro; è solo il contesto normativo preesistente che può attribuirgli un particolare significato. Secondo quanto l’art. 1368 c.c., comma 2, dispone per l’interpretazione dei contratti, «le clausole ambigue s’interpretano secondo ciò che si pratica generalmente nel luogo in cui il contratto è stato concluso». E il silenzio è appunto un comportamento ambiguo (Cass., sez. 1, 10 aprile 1975, n. 1326, rv. 374846, Cass., sez. 3, 3 giugno 1978, n. 2785, rv. 392208), che può assumere un significato convenzionale solo in ragione del contesto anche normativo proprio del luogo e del momento dell’azione (Cass., sez. 3, 15 maggio 1959, n. 1442, rv. 880789, Cass., sez. 2, 14 giugno 1997, n. 5363, rv. 505200). È certo possibile che una legge sopravvenuta privi di effetti una determinata convenzione contrattuale, ammessa nel momento in cui fu stipulata (Cass., sez. 3, 26 gennaio 2006, n. 1689, rv. 587843). Sicché si è ritenuto che «il divieto di arbitrato, previsto dal D.L. 11 giugno 1998, n. 180, art. 3, comma 2 (convertito con modificazioni dalla L. 3 agosto 1998, n. 267) per le controversie relative all’esecuzione di opere pubbliche comprese in programmi di ricostruzione di territori colpiti da calamità naturali, comporta l’inefficacia per il futuro delle clausole compromissorie già stipulate» (Cass., sez. 1, 27 aprile 2011, n. 9394, rv. 617862). Ma non è possibile che una norma sopravvenuta ascriva al silenzio delle parti un significato convenzionale che le vincoli per il futuro in termini diversi da quelli definiti dalla legge vigente al momento della conclusione del contratto. Né vale osservare, come pure si è fatto, che le parti, consapevoli del sopravvenuto mutamento legislativo, possono rinnovare la convenzione, perché la conclusione della nuova convenzione richiederebbe il consenso di tutti gli stipulanti, anche di quelli eventualmente interessati al mantenimento del vincolo precedente. Non è possibile dunque che al silenzio tenuto dalle parti nel momento in cui la convenzione di arbitrato fu stipulata venga attribuito un significato diverso da quello che vi ascriveva la legge vigente al momento della stipulazione. Del resto è questa la ratio della stessa disciplina transitoria dettata del D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 27, dai commi 3 e 4, che distinguono appunto tra norme disciplinanti le convenzioni e norme disciplinanti il giudizio di arbitrato. E poiché è la convenzione a definire i limiti di impugnabilità dei lodi, è alle norme che la disciplinano nel momento della stipulazione che occorre richiamarsi. Né in questa prospettiva assume rilievo il mutamento di giurisprudenza intervenuto nel 2013, con il riconoscimento della natura giurisdizionale (Cass., sez. un., 25 ottobre 2013, n. 24153, rv. 627786), anziché negoziale (Cass., sez. un., 3 agosto 2000, n. 527, rv. 539100), dell’arbitrato rituale. Infatti la natura processuale dell’attività degli arbitri non esclude che sia pur sempre la convenzione di arbitrato a determinare i limiti di impugnabilità dei lodi. Mentre la presenza di un’esplicita disciplina transitoria priva di rilevanza esclusiva il riferimento alla natura processuale degli atti per risolvere le questioni di diritto intertemporale.

2.3 – Nel caso in esame la convenziona di arbitrato, essendo stata stipulata il 27 novembre 2001, risultava dunque regolata dal previgente art. 829 c.p.c., comma 2, laddove prevedeva che «l’impugnazione per nullità è altresì ammessa se gli arbitri nel giudicare non hanno osservato le regole di diritto, salvo che le parti li avessero autorizzati a decidere secondo equità o avessero dichiarato il lodo non impugnabile». Ed è questa la legge che, in applicazione del sopravvenuto nuovo testo dell’art. 829 c.p.c., comma 3, ammette l’impugnazione del lodo per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia, in mancanza di contraria previsione delle parti. Sicché nel caso in esame, contrariamente a quanto affermato dai giudici del merito, è ammissibile l’impugnazione del lodo anche per errores in judicando. Il primo motivo del ricorso principale di Bertucci è dunque fondato e assorbente del secondo motivo. Il ricorso incidentale condizionato è invece inammissibile per genericità, perché la società ricorrente non precisa in quale contesto giudiziario e in quale sua parte il lodo arbitrale sarebbe stato oggetto di acquiescenza da parte del ricorrente principale. L’accoglimento del primo motivo del ricorso principale comporta la cassazione della sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’appello di Milano, che si atterrà al seguente principio di diritto: «In applicazione della disciplina transitoria dettata dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 27, l’art. 829 c.p.c., comma 3, come riformulato dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 24, si applica nei giudizi arbitrali promossi dopo l’entrata in vigore del suddetto decreto, ma la legge cui lo stesso art. 829 c.p.c., comma 3, rinvia, per stabilire se è ammessa l’impugnazione per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia, è quella vigente al momento della stipulazione della convenzione d’arbitrato». [Omissis]

Tulela del credito. Il Nuovo Portale delle vendite pubbliche

D’ora in avanti sarà obbligatoria la pubblicazione delle vendite immobiliari sul Portale delle Vendite Pubbliche.

Questi gli indirizzi per collegarsi al sito: https://venditepubbliche.giustizia.it/pvp/

oppure :  https://pvp.giustizia.it/pvp/

Si tratta di un sito web  predisposto dal Ministero della Giustizia per la pubblicità delle vendite dei beni delle procedure esecutive e concorsuali in genere.
 Avrà la funzione, altresì, di consentire la prenotazione delle visite e per la successiva vendita mediante asta telematica.

Il Ministero dovrà ora attivare i flussi di trasmissione dati tra il Portale delle Vendite Pubbliche e i singoli portali privati dedicati alle pubblicità delle vendite e alla gestione delle vendite telematiche dei siti iscritti nell’elenco ministeriale, così da raggiungere un altro importante risultato nella digitalizzazione della giustizia e nella trasparenza dei dati, a tutela del mercato dei crediti.

 

 

Operazione di crowdfunding mediante cambio valuta in bitcoin

Il Tribunale scaligero,  nell’affrontare per  primo  temi di grande attualità  quali quelli delle  monete virtuali e del crowdfounding, appurata la totale assenza, nella singola operazione, di informativa fornita al cliente, così come di un documento contrattuale redatto per iscritto, e quindi la violazione degli obblighi legali di forma e di informativa precontrattuale di cui agli artt. 67-duodecies ss. Codice Consumo «violazione degli obblighi di informativa precontrattuale, idonea ad alterare in modo significativo la rappresentazione delle caratteristiche dell’investimento», ha affermato la nullità del contratto (ex art. 67-septiesdecies cod. cons.) e, a cascata ex art. 2033 c.c., il conseguente obbligo per la società di cambio di restituire il capitale in Euro investito dagli attori  ( Tribunale di Verona Sent. n. 195 del 2017 ) .

ll testo integrale della sentenza

REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Tribunale di VERONA SECONDA SEZIONE CIVILE

Il Giudice Unico Dott. Andrea Mirenda

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa civile di I Grado iscritta al N. 14185/2014 R.G. promossa da:

V………. (C.F………) con il patrocinio degli aw. …….. …………………….

ATTORE 

contro:

L…. (C.F………………)

e , con elezione di domicilio in….. presso e nello studio dell’avv………..

 CONVENUTO

CONCLUSIONI

Le parti hanno concluso come da fogli allegati al verbale d’udienza, che qui si intendono richiamati

RAGIONI DI FATTO E DI DIRITO-                               

rilevato che il novellato art. 132 c.p.c. esonera il giudice dal redigere lo svolgimento del processo;

ritenuta la legittimità processuale della motivazione c.d. per relationem (cfr., da ultimo, SS.UU. 16.1.2015 n. 642; v. anche Cass. 3636/07), la cui ammissibilità – come quella delle forme di motivazione c.d. indiretta risultava del resto già codificata dall’art.16 del d.lgs 5/03, a sua volta recettivo dei previ orientamenti giurisprudenziali;

osservato che per consolidata giurisprudenza del S.C. il giudice, nel motivare “concisamente” la sentenza secondo i dettami di cui all’art. 118 disp. att. c.p.c., non è affatto tenuto ad esaminare specificamente ed analiticamente tutte le quaestiones sollevate dalle parti, ben potendosi egli limitare alla trattazione delle sole questioni – di fatto e di diritto – “rilevanti ai fini della decisione” concretamente adottata 1 ;

che, in effetti, le restanti questioni non trattate non andranno necessariamente ritenute come “omesse” (per l’effetto dell’ error in procedendo), ben potendo esse risultare

semplicemente assorbite (ovvero superate) per incompatibilità logico­giuridica con quanto concretamente ritenuto provato dal giudicante;

richiamato il contenuto della citazione con la quale    hanno dedotto l’inesistenza dl contratto con………..

 avente ad oggetto l’ordine di acquisto azionari e/o  il quale in ogni caso sarebbe da   considerarsi nullo per violazione della normativa in tema di equity crowdfunding (D.L. 179/2012, convertito con modificazioni con la L. 221/2012) e del Codice del Consumo ( D.lgs. 206/2005)” e hanno, quindi, richiesto – ex art. 2033 c.civ. – la restituzione delle somme versate alla convenuta;

richiamata, del pari, la comparsa di risposta dei convenuti che, nel contestare la fondatezza della domanda e nel chiederne il rigetto, facevano rilevare ” come unico dato certo e incontrovertibile fosse l’accredito da parte di   sugli accounts privati degli attori – come peraltro da

loro medesimi affermato e provato – di quanto loro promesso, id est quote di partecipazione in “start up” presenti sullo stesso portale Uinvest”;

richiamate le risultanze dell’istruttoria orale espletata (prova per testi e per interpello del convenuto                           ;

tanto premesso, osserva:

l’istruttoria ha consentito di chiarire i termini “di fatto” dell’odierna vicenda.

Giova senz’altro la descrizione fornitane dal …………..nel suo interrogatorio formale (al netto della riserva assoluta in favore del giudicante circa la qualificazione giuridica della fattispecie concreta in esame)in quanto sostanzialmente coerente con gli scarni elementi documentali in atti, qui rappresentati, oltre che dai bonifici eseguiti dagli attori in favore della società del ¿al prospetto

contratto di partenariato della società convenuta con         ( contratto

che, a stretto rigore, non assurgerebbe alla dignità di prova scritta trattandosi di res inter alios acta).

 Il ……………..»   così risponde:                             

  “Sul primo capitolo” Nulla so sulle competenze finanziarie e in materia di investimenti mobiliari delle attrici; io mi sono limitato ad operare non come intermediario finanziario, bensì come financial partner di……. nella materia della c.d. criptovaluta. In breve, le attrici hanno individuato la nostra società come partner di………………………………………………….incaricata di  consegnare, dietro bonifico, “moneta ……” in pari misura, con la quale le attrici, poi, avrebbero potuto acquistare quote di partecipazioni in “start up” presenti sul portale…………………………………………….

Per la migliore definizione del nostro rapporto con…………………, mi riporto al contratto già dimesso in atti.

Sul capitolo 2): conoscevo il sig…………………………………………….( n.d.e., del quale ha parlato il teste ……………………. come colui che avvicinò e introdusse le attrici all’investimento per cui è causa) e lo conosco tutt’ora, il qual è un collaboratore non nostro bensi di……………………………………Lui mi metteva al corrente di potenziali clienti intenzionati ad acquistare “valuta……………………………………o a riscuotere denaro, in cambio della restituzione di tale valuta.

Omissis…… Confermo di aver ricevuto dalle attrici i bonifici di cui al capitolo 6, in esito ai quali attribuii loro pari  valore di “moneta…………..che acquistai a mia volta da altri investitori che avevano esercitato il diritto alla riconsegna del denaro.

Sul capitolo 5: è vero, mai alcun contratto o ordine scritto ci fu tra noi e le attrici in quanto il rapporto era costituito con……………………….

Sul capitolo 11: gli account ( creati direttamente dagli attori presso ……., n.d.e.) non funzionarono, nel senso che effettivamente non fu possibile prelevare le somme. Preciso che si trattava di account legati a ………………….cercò di ovviare a questo problema creando dei “top fund” che riuscirono a restituire gran parte o la totalità del capitale investito nell’arco di 24 mesi, ovvero somme ridotte in tempo reale. Altro rimedio fu quello dell’emanazione di carte di debito che pure funzionarono per quattro mesi, fino al fallimento dell’emittente……………….

In definitiva, per quanto è emerso, gli attori corrisposero alla società convenuta (non al ……………….. che di quella società di capitali era solo il legale rappresentante), somme in valuta reale, ricevendone in cambio valuta ……………….che gli stessi impiegarono, poi, presso il portale ucraino al fine di dar corso agli investimenti di varia natura e specie ivi descritti e disciplinati, il tutto nell’ambito del chiaro partenariato che legava ………………………………………………… a quel gestore (si veda, in tal senso, la documentazione dimessa da ambo le parti in atti, sia in sede di costituzione che con le successive memorie ex art. 183, comma sesto, cpc).

Parte attrice, come detto, nel rilevare l’assoluta assenza di forme scritte e di qualsivoglia informativa precontrattuale a sostegno delle operazioni impugnate, invoca la tutela consumeristica di cui agli artt.67 e ss. del Codice del Consumo.

Parte convenuta, di contro, inquadra le operazioni in esame nell’ambito del c.d. eguity crowfunding, ciò è a dire in quelle attività volte, per quanto qui interessa, a proporre – mediante una piattaforma digitale dette “portale” ed affidata al “gestore di portale” iscritto nell’apposito registro ex art.50 quinquies TUF in conformità al Regolamento di cui alla delibera CONSOB 26.6.2013 n. 18592 (in G. Uff. n. 162 del 12.7.2013) – investimenti finalizzati all’acquisto di partecipazioni in start up innovative (operanti quali “emittenti” di strumenti finanziari).

Sempre i convenuti evidenziano come……………………………..     nella veste di gestore del relativo portale e di prestatore di attività funzionali all’utilizzo, scambio e conservazione di valute virtuali e alla conversione di esse con valute reali:

  • non avesse operato come intermediario finanziario e/o prestatore di servizi di investimento;
    • non fosse tenuta ad osservare la normativa antiriciclaggio, giusta l’autorevole conclusione raggiunta sul punto da l’UNITA’ DI INFORMAZIONE FINANZIARIA (U.I.F.);
    • di comprendere “in maniera inequivocabile” il “fine commerciale” perseguito dal fornitore ( qui………………………………….);
    • di essere informato, secondo le regole dell’Unione Europea (anche laddove il fornitore sia extra-UE), “in modo chiaro e comprensibile con qualunque mezzo adeguato alla tecnica di comunicazione a distanza”, “prima che lo stesso sia vincolato da un contratto a distanza o da un’offerta” ( ovvero, come forse nella fattispecie in esame, ” subito dopo la conclusione del contratto a distanza, se quest’ultimo è stato concluso su richiesta del consumatore utilizzando una tecnica di comunicazione a distanza che non consente di trasmettere le condizioni contrattuali né le  informazioni ai sensi del comma 1″) :
    • circa l’identità, anche di stabilimento geografico, del fornitore e del suo rappresentante;
    • l’identità del professionista (qui……..… ) e la veste in cui esso agisce nei confronti del consumatore;
    • l’iscrizione del fornitore ( ciò è a dire la società convenuta, per quanto detto sopra, ma anche il gestore di portale UINVEST per quanto riferibile a costui) in un registro commerciale o analogo pubblico registro, come pure l’assoggettamento e gli eventuali estremi dell’autorizzazione amministrativa necessaria per le attività così svolte;
    • le principali caratteristiche del servizio finanziario offertogli;
    • il meccanismo di formazione del prezzo, in senso lato;
    • il “rapporto con strumenti che implicano particolari rischi dovuti a loro specifiche caratteristiche o alle operazioni da effettuare, o il cui prezzo dipenda dalle fluttuazioni dei mercati finanziari su cui il fornitore non esercita alcuna influenza, e che i risultati ottenuti in passato non costituiscono elementi indicativi riauardo ai risultati futuri, oltre che sull’esistenza di collegamenti o connessioni con altri servizi finanziari, con la illustrazione deglieventuali effetti complessivi derivanti dalla combinazione” ( si ha qui riguardo al contratto di cambio di valuta reale con moneta virtuale – nella quale va ravvisata una prima operazione in strumenti finanziari – funzionalmente diretta, in via esclusiva, al successivo acquisto su “portale” di partecipazioni emesse da società extra UE);
    • i rimedi che gli sono attribuiti dall’ordinamento;
    • loStato membro o gli Stati membri sulla cui legislazione il fornitore si basa per instaurare rapporti con il consumatore prima della conclusione del contratto a distanza”.
    • Deve ritenersi, poi, come detto sopra, che in forza dell’art. 67 decies cod. cons., si applichino alla fattispecie anche gli ulteriori “caveat” di portata generale evincibili dagli artt. 13, 14 e 15 dell’Allegato 1 della nota Delibera Consob 26.6.13 n. 18592 (come pure dell’art.l dell’A11.3, ibid), giacché volti – in vario modo – ad accrescere il livello di consapevolezza dell’investitore sull’alto rischio ( così la disciplina) derivante da investimenti illiquidi in strumenti finanziari emessi da start up innovative.
    • di comprendere “in maniera inequivocabile” il “fine commerciale” perseguito dal fornitore ( qui………………………………….);
    • di essere informato, secondo le regole dell’Unione Europea (anche laddove il fornitore sia extra-UE), “in modo chiaro e comprensibile con qualunque mezzo adeguato alla tecnica di comunicazione a distanza”, “prima che lo stesso sia vincolato da un contratto a distanza o da un’offerta” ( ovvero, come forse nella fattispecie in esame, ” subito dopo la conclusione del contratto a distanza, se quest’ultimo è stato concluso su richiesta del consumatore utilizzando una tecnica di comunicazione a distanza che non consente di trasmettere le condizioni contrattuali né le  informazioni ai sensi del comma 1″) :
    • circa l’identità, anche di stabilimento geografico, del fornitore e del suo rappresentante;
    • l’identità del professionista (qui……..… ) e la veste in cui esso agisce nei confronti del consumatore;
    • l’iscrizione del fornitore ( ciò è a dire la società convenuta, per quanto detto sopra, ma anche il gestore di portale UINVEST per quanto riferibile a costui) in un registro commerciale o analogo pubblico registro, come pure l’assoggettamento e gli eventuali estremi dell’autorizzazione amministrativa necessaria per le attività così svolte;
    • le principali caratteristiche del servizio finanziario offertogli;
    • il meccanismo di formazione del prezzo, in senso lato;
    • il “rapporto con strumenti che implicano particolari rischi dovuti a loro specifiche caratteristiche o alle operazioni da effettuare, o il cui prezzo dipenda dalle fluttuazioni dei mercati finanziari su cui il fornitore non esercita alcuna influenza, e che i risultati ottenuti in passato non costituiscono elementi indicativi riauardo ai risultati futuri, oltre che sull’esistenza di collegamenti o connessioni con altri servizi finanziari, con la illustrazione deglieventuali effetti complessivi derivanti dalla combinazione” ( si ha qui riguardo al contratto di cambio di valuta reale con moneta virtuale – nella quale va ravvisata una prima operazione in strumenti finanziari – funzionalmente diretta, in via esclusiva, al successivo acquisto su “portale” di partecipazioni emesse da società extra UE);
    • i rimedi che gli sono attribuiti dall’ordinamento;
    • loStato membro o gli Stati membri sulla cui legislazione il fornitore si basa per instaurare rapporti con il consumatore prima della conclusione del contratto a distanza”.
    • Deve ritenersi, poi, come detto sopra, che in forza dell’art. 67 decies cod. cons., si applichino alla fattispecie anche gli ulteriori “caveat” di portata generale evincibili dagli artt. 13, 14 e 15 dell’Allegato 1 della nota Delibera Consob 26.6.13 n. 18592 (come pure dell’art.l dell’A11.3, ibid), giacché volti – in vario modo – ad accrescere il livello di consapevolezza dell’investitore sull’alto rischio ( così la disciplina) derivante da investimenti illiquidi in strumenti finanziari emessi da start up innovative.
    • di comprendere “in maniera inequivocabile” il “fine commerciale” perseguito dal fornitore ( qui………………………………….);
    • di comprendere “in maniera inequivocabile” il “fine commerciale” perseguito dal fornitore ( qui………………………………….);
    • non fosse tenuta a fornire agli odierni attori ulteriori informazioni rispetto a quelle, già specifiche e adeguate, fornite loro grazie all’accesso e all’iscrizione (ciascuno con proprio account personale] al portale gestito dalla società di diritto ucraino (iscrizione a cui conseguì l’erogazione della prestazione pattuita).
  • Va detto, tuttavia, quanto al preteso assolvimento dei doveri informativi gravanti sul “soggetto che esercita professionalmente il servizio di gestione di portali per la raccolta di capitali di rischio per le start up innovative ” (secondo la definizione datane dall’art. 2 dell’Allegato 1 della Delibera Consob n.18592/2013) , come – nella realtà del processo – l’affermazione non abbia trovato concreto riscontro, nulla essendo comprovatamente emerso (al di là di mere affermazioni labiali e della produzione non confermata di un documento indicato come “Prospetto…………”, circa le caratteristiche e i contenuti obiettivi del portale medesimo, onde verificare il rispetto degli artt. 13 e ss. dell’All.l cit e, ancor più, dell’art.23 dell’Allegato 3, lì dove impone al gestore di assicurare “che per ciascuna offerta sia preliminarmente riportata con evidenza grafica la seguente avvertenza: Le informazioni sull’offerta non sono sottoposte ad approvazione da parte della Consob. L’emittente è l’esclusivo responsabile della completezza e della veridicità dei dati delle Informazioni dallo stesso fornite, Si richiama inoltre l’attenzione dell’investitore che l’investimento in strumenti finanziari emessi da start vip innovative è illiquido e connotato da un rischio molto alto“) .Peraltro, al di là del riparto del relativo onere probatorio, non mette conto in questa sede approfondire la questione e neppure rileva qui verificare se……………, quale gestore di portale, fosse davvero sottratta – ex art. 50 quìnquies TUF – alle disposizioni della parte II, titolo II, capo II, e dell’art. 22 del TUF medesimo, in difetto – ancora una volta – di prova alcuna che una società di diritto ucraino fosse effettivamente iscritta, all’epoca dei fatti, nell’apposito registro tenuto dalla Consob ai sensi del comma secondo dell’art. 50 quinquies cit, anche ai fini di cui al d.lgs. 4.3.2014 n.44 (attuazione della direttiva 2011/61/UE, sui geestori di fondi di investimento alternativi, in G.U. 25.3,2014 n. 70}, salvo ai fini, tipicamente consumeristici, che si verranno dì seguito a trattare.Il nucleo “liquido” della vicenda, difatti, si incentra tutto sul rapporto (necessariamente contrattuale) che si perfezionò tra gli odierni attori e la società convenuta, in forza del quale – al di fuori della benché minima “puntuazione” informativa e di qualsivoglia tracciatura formale (come ha riconosciuto il legale rappresentante della società in sede di interrogatorio formale) – ebbe luogo il cambio dì valuta reale con “bitcoin” (definito da attenta dottrina come uno “strumento finanziario utilizzato per compere una serie dì particolari forme di transazioni online” costituito da ” una moneta che può essere coniata da qualunque utente ed è sfruttabile per compiere transazioni, possibili grazie ad un software open source e ad una rete peer to peer”).In altra parole,………………………….quale utente–bitcoin di ……………e quale sostanziale promotore finanziario di costei ( giusta l’insistita autodefinizione quale “financial partner” della menzionata società di diritto ucraino: v. docc. in atti), ha ceduto agli attori, a fini di profitto d’impresa, la relativa moneta virtuale (non importa se già propria o se procurata ad hoc, in forza di intermediazione) in cambio di valuta reale.Di tal genere di operazioni si è occupata di recente – in termini autorevoli e convincenti – l’Agenzia delle Entrate con la Risoluzione n. 72/E, prendendo le mosse dalla nota sentenza 22.10.2015 della Corte di Giustizia dell’Unione Europea ( Causa C-264/14) . Per quanto qui interessa, tanto la CGCE quanto l’Agenzia delle Entrate italiana definiscono le operazioni in questione ( ciòè a dire “cambio di valuta tradizionale contro unità della valuta virtuale bitcoin e viceversa, effettuate a fronte del pagamento di una somma corrispondente al margine costituito dalla differenza tra il prezzo di acquisto delle valute e quello di vendita praticato dall’operatore ai propri clienti”) come prestazioni di servizio a titolo oneroso ( sub specie di “intermediazioni nell’acquisto e vendita di bitcoin“) , che – in quanto “…relative a divise, banconote e monete con valore liberatorio” – sono riconducibili all’art.135, paragrafo I, lettera e), della direttiva 2006/112/CE, onde poi trarne l’inclusione nelle prestazioni esenti ex art. 10, corrma primo, n.3), dpr n.633/1972 (non assoggettabilità ad IVA e, per converso, assoggettabilità ad IRES ed IRAP dei margini di profitto generati).Ebbene, alla luce di quanto sopra, trova conferma l’evidente natura contrattuale delle operazioni in esame, qualificabili – sul versante di  ………………………………..  come attività professionale di servizi a titolo oneroso, svolta in favore di consumatori 2.In effetti, le risultanze istruttorie consentono di affermare che……………………..assunse il ruolo di “fornitore” del servizio finanziario descritto all’art. 67 ter, lett.a), b) , c) e g) : essa, invero, operò quale soggetto privato che – mediante “contratto a distanza” ex art. 50 cod. consumo e servendosi di “operatore o fornitore di tecnica di comunicazione a distanza” ( qui il gestore del portale………………..) ebbe a collocare i “bitcoin” di che trattasi, senza mai incontrare personalmente gli odierni attori ( come ha lealmente dichiarato il legale rappresentante di costei), svolgendo siffattamente quel “servizio finanziario ai consumatori” ex art. 67 bis L. cit., con accordo per fatti concludenti comprovato, ex parte actoris. dai bonifici bancari esequiti da costoro sul c/c della società,______

    Note a piè di pagina

     

    1. laddove non si ritenga addirittura – in guisa della clausola di salvezza dell’art. 67 bis del Codice del Consumo (“omissis…, fatte salve, ove non espressamente derogate, le disposizioni in materia bancaria, finanziaria, assicurativa, dei sistemi di pagamento e di previdenza individuale, nonché le competenze delle autorità di settore”)               –  la sussistenza della fattispecie dell’ “offerta al pubblico di prodotti finanziari” descritta dall’art.l, lett. t) e u) , del d.lvo 24.2.1998 n.58, ovvero ancora di quella dei “servizi e attività di investimento” in “valori mobiliari” ex art.l bis, comma primo, lett. c) ed), nonché comma quinto, lett. a), del d.lvo n.58 cit., avendosi riguardo a negoziazione per conto proprio di “qualsiasi altro titolo normalmente negoziato che permette di acquistare o di vendere i valori mobiliari indicati alle precedenti lettere” (n.d.e. azioni e altri titoli equivalenti di società, di partnership etc.) ovvero di “qualsiasi altro titolo che comporta un regolamento in contanti determinato con riferimento ai valori mobiliari indicati alle precedenti lettere, a valute, a tassi di interesse, a rendimenti, a merci, a indici o a misure” ( il 2pensiero corre alla prospettata facoltà di conversione successiva dei bitcoin in valuta reale). Si avrebbe, così, la nullità delle relative transazioni tra le odierne parti in quanto poste in essere senza il rispetto della forma scritta “ad substantiam” contemplata dall’art.23 TUF, senza che possa giovare l’esonero di cui al successivo art. 50 quinquies, in difetto di prova della sussistenza dei presupposti legittimanti ivi descritti. Si preferisce, tuttavia, nel rispetto dei principi sottesi all’art.101 c.p.c., restare saldamente legati al tema consumeristico in quanto maggiormente aderente a quello principalmente dibattuto in causa.
    • ———–

    bonifici ai quali fece seguito l’accredito, in favore dei primi, di unità di criptomoneta …………..(la c.d. Virtual value : “V.V.” ), in pari misura, sul portale ucraino (e dunque, ancora un volta, con le modalità degli artt. 50 e 67 ter, 1. cit.). La premessa ricostruttiva che precede consente, ora, di affrontare con maggiore precisione il tema della mancata informazione, agitato in via risarcitoria dagli attori, per verificarne la riconducibilità al perimetro tracciato dagli artt. 67 quater, quinquies, sexies, septies, undecies della L. cit., come integrato in via regolamentare (ex art. 67 decies) dal Titolo III dell’Allegato 1 della delibera Consob n. 18592 del 26.6.2013 (Regole di condotta: artt.13-21).

    Escluso il diritto di recesso giusta la previsione dell’art.67 duodecies, comma quinto, la disciplina prevede, in estrema sintesi, che il consumatore abbia diritto:

  • di comprendere “in maniera inequivocabile” il “fine commerciale” perseguito dal fornitore ( qui………………………………….);
  • di essere informato, secondo le regole dell’Unione Europea (anche laddove il fornitore sia extra-UE), “in modo chiaro e comprensibile con qualunque mezzo adeguato alla tecnica di comunicazione a distanza”, “prima che lo stesso sia vincolato da un contratto a distanza o da un’offerta” ( ovvero, come forse nella fattispecie in esame, ” subito dopo la conclusione del contratto a distanza, se quest’ultimo è stato concluso su richiesta del consumatore utilizzando una tecnica di comunicazione a distanza che non consente di trasmettere le condizioni contrattuali né le  informazioni ai sensi del comma 1″) :
  • circa l’identità, anche di stabilimento geografico, del fornitore e del suo rappresentante;
  • l’identità del professionista (qui……..… ) e la veste in cui esso agisce nei confronti del consumatore;
  • l’iscrizione del fornitore ( ciò è a dire la società convenuta, per quanto detto sopra, ma anche il gestore di portale UINVEST per quanto riferibile a costui) in un registro commerciale o analogo pubblico registro, come pure l’assoggettamento e gli eventuali estremi dell’autorizzazione amministrativa necessaria per le attività così svolte;
  • le principali caratteristiche del servizio finanziario offertogli;
  • il meccanismo di formazione del prezzo, in senso lato;
  • il “rapporto con strumenti che implicano particolari rischi dovuti a loro specifiche caratteristiche o alle operazioni da effettuare, o il cui prezzo dipenda dalle fluttuazioni dei mercati finanziari su cui il fornitore non esercita alcuna influenza, e che i risultati ottenuti in passato non costituiscono elementi indicativi riauardo ai risultati futuri, oltre che sull’esistenza di collegamenti o connessioni con altri servizi finanziari, con la illustrazione deglieventuali effetti complessivi derivanti dalla combinazione” ( si ha qui riguardo al contratto di cambio di valuta reale con moneta virtuale – nella quale va ravvisata una prima operazione in strumenti finanziari – funzionalmente diretta, in via esclusiva, al successivo acquisto su “portale” di partecipazioni emesse da società extra UE);
  • i rimedi che gli sono attribuiti dall’ordinamento;
  • lo Stato membro o gli Stati membri sulla cui legislazione il fornitore si basa per instaurare rapporti con il consumatore prima della conclusione del contratto a distanza”.

Deve ritenersi, poi, come detto sopra, che in forza dell’art. 67 decies cod. cons., si applichino alla fattispecie anche gli ulteriori “caveat” di portata generale evincibili dagli artt. 13, 14 e 15 dell’Allegato 1 della nota Delibera Consob 26.6.13 n. 18592 (come pure dell’art.l dell’A11.3, ibid), giacché volti – in vario modo – ad accrescere il livello di consapevolezza dell’investitore sull’alto rischio ( così la disciplina) derivante da investimenti illiquidi in strumenti finanziari emessi da start up innovative.

Non si dubita, ovviamente, che gli obblighi regolamentari in questione abbiano per destinatario “naturale” il c.d. gestore dì portale (nel caso, ……) e, tuttavia, una volta accertata la simmetrica sussistenza di specifici doveri informativi gravanti anche sul fornitore dello strumento finanziario (qui la cripto-moneta finalizzata, per l’appunto, agli investimenti in partecipazioni offerte sul portale    pare ragionevole definirne il contenuto, i contorni concreti (specie, come nel caso, laddove non assolti ovvero assolti lacunosamente dal gestore) mediante la loro trasposizione in capo al “fornitore”, in esito ad un’operazione ricostruttiva volta a evitare, in via esegetica, lacune nell’ordinamento di settore.

Tracciato in tal modo il perimetro soggettivo ed oggettivo degli obblighi informativi in parola, la legge – con l’art. 67 septiesdecies – ne assicura altresì l’effettività, facendo discendere dalla violazione degli “obblighi di informativa precontrattuale” idonea ad alterare “in modo significativo la rappresentazione delle caratteristiche” dell’investimento:

  1. la nullità del contratto, con diritto potestativo di azione riservato al consumatore, secondo lo schema consueto delle c.d. nullità relative;

2. l’ “obbligo alla restituzione di quanto ricevuto” a carico del fornitore.

Ciò detto, non è chi non veda come, nella fattispecie, il problema della alterazione significativa della rappresentazione delle operazioni di investimento sub iudice si ponga in termini assoluti, essendo mancato qualsivoglia contatto, sia diretto che indiretto tra le parti, per l’effetto di privare in radice gli attori di qualsivoglia flusso informativo in loro favore, nel rispetto dei principi guida tracciati dal legislatore.

Inevitabile, quindi, la nullità dei contratti stipulati per facta  concludenti con gli odierni attori e, a cascata ex art. 2033 c.civ., la condanna della banca convenuta alla “restituzione di quanto ricevuto”.

Non vi è prova di danno emergente ulteriore né di danno da lucro cessante.

Sulle somme percette, come pacificamente indicate per ciascun attore ( v. docc. 1, 2 e 3 attorei), competono gli interessi legali dalla domanda al saldo, non essendo stata offerta prova del dolo dell‘accipiens tale da superare la presunzione generica di buona fede ex art. 1147 c. A questo riguardo, per quanto emerso, l’operato di……………………….parrebbe improntato non tanto a dolo quanto a grave carenza di professionalità nell’accostarsi ad attività rischiose con assoluta superficialità e noncuranza del dovere di protezione degli investitori).

Le spese seguono la soccombenza della società convenuta e si liquidano in € 8946,55, oltre CA e IVA ( se dovuta), come da notula dell’avv. ……… in data 27.9.2016, in favore degli attori, in solido tra loro.

P.Q.M.

definitivamente pronunciando, ogni diversa istanza ed eccezione disattesa e respinta, dichiara nulli i contratti di “cambio in bitco in………………….         inter partes e, per l’effetto, condanna…………………………………………………………………….     ….. sedente a restituire :

  • a………………………….. la somma capitale di € 7.020,33;
  • a………………………………la somma capitale di € 7.289,00;
  • a …………………………….la somma capitale di € 9395, 00;

oltre agli interessi legali dalla domanda al saldo per ciascuno di essi;

condanna, infine, la società convenuta alla rifusione delle spese di lite, come sopra liquidate.

Così deciso, in Verona, il 24 gennaio 2017

Il Giudice

Dott. Andrea Mirenda

Coopsette – Liquidazione Coatta Amministrativa – Crediti prededucibili – Tribunale di Reggio Emilia – Decreto 14/01/18

Liquidazione coatta amministrativa, opposizione allo stato passivo, crediti derivanti da accordi di ristrutturazione dei debiti , consecuzione delle procedure, sopravvenuto fallimento, prededucibilità, accordi di ristrutturazione dei debiti, crediti derivanti dalla proroga di pretese di natura commerciale, natura di finanziamenti .

T R I B U N A L E D I R E G G I O E M I L I A

Sezione prima civile

riunito in camera di consiglio nelle persone dei magistrati

Francesco Parisoli Presidente

Virgilio Notari giudice rel.

Niccolò StanzaniMaserati giudice

ha emesso il seguente

DECRETO

nella causa di opposizione allo stato passivo iscritta al n. 7873/2016 del R.G.A.C., rimessa al Collegio per la decisione all’udienza del 25/2/2018, vertente

TRA

ALFA S.R.L. (c.f. ***), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata a Modena, in Via Giardini n. 456, presso lo studio dell’avv. Nicola Cantarelli, dal quale è rappresentata e difesa giusta procura a margine del ricorso introduttivo

E

LIQUIDAZIONE COATTA AMMINISTRATIVA COOPSETTE SOC. COOP. (c.f. ***), in persona del commissario liquidatore pro tempore, elettivamente domiciliata a Reggio Emilia, in Via Cadoppi n. 14, presso lo studio degli avv. Federica Bassissi, rappresentata e difesa dagli avv.ti Sido Bonfatti e Fulvia Confetti giusta procura allegata alla memoria difensiva del 15/5/2017.

CONCLUSIONI

All’udienza del 25/2/2018 le parti hanno precisato le conclusioni esposte in motivazione.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con ricorso ex art. 209, c. 2 L.F. depositato il 28/12/2016 la Alfa s.r.l. ha opposto il decreto di esecutività dello stato passivo comunicato il 28/11/2016 dal commissario liquidatore della L.C.A. Coopsette soc. coop.. A sostegno della domanda la società ha riferito di essersi insinuata al passivo della procedura in prededuzione per € 769.039,79 più Iva a titolo di corrispettivo maturato in virtù di contratti di fornitura di materiale edile e posa in opera eseguiti tra il 2014 e il 2015. Ha dedotto, inoltre, che nel provvedimento impugnato il commissario liquidatore ha accolto l’istanza per l’intero importo richiesto, sebbene in chirografo. Secondo la prospettazione di parte opponente si tratta di statuizioni illegittime alla luce delle travagliate vicende che hanno caratterizzato gli ultimi anni di attività della cooperativa. In proposito la Alfa s.r.l. ha osservato che i crediti controversi sono maturati nel biennio compreso tra la proposizione, ad opera di Coopsette, di una richiesta di concordato preventivo rimasta senza esito (febbraio 2013), la sottoscrizione di molteplici accordi di ristrutturazione del debito ex art. 182 bis L.F. con il ceto creditorio e il deposito di una seconda istanza concordataria (3/6/2015), poi seguita dall’apertura, nell’ottobre del 2015, della liquidazione coatta amministrativa. Sul rilievo della necessità di retrodatare lo stato d’insolvenza al primo concordato preventivo in attuazione del principio di consecuzione tra le procedure concorsuali e dell’affidamento maturato circa la riscossione del credito per effetto delle rassicurazioni ricevute dai vertici della cooperativa la Alfa s.r.l. ha insistito per l’insinuazione in prededuzione dell’intero importo rivendicato ai sensi dell’art. 111 L.F., con vittoria di spese, competenze e onorari.

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Costituita con comparsa del 15/5/2017, la L.C.A. in via preliminare ha eccepito l’inammissibilità dell’opposizione (o, comunque, l’infondatezza nel merito delle sottostanti pretese) per effetto della mancata contestazione, da parte della Alfa s.r.l., dell’ammissione in chirografo comunicata alla società dal commissario liquidatore ex art. 207 L.F.. Ha negato, in ogni caso, la sussistenza di quel nesso di consecuzione tra procedure invocato dall’opponente quale fondamento logico e giuridico della prededuzione, tenuto anche conto del carattere non concorsuale dei molteplici accordi di ristrutturazione del debito stipulati da Coopsette con i propri creditori nell’arco temporale compreso tra il primo e il secondo concordato preventivo. Ad avviso della L.C.A. devono considerarsi irrilevanti anche le presunte rassicurazioni circa la natura prededucibile del credito a cui si allude nell’atto introduttivo. Sulla scorta di tali censure la procedura ha concluso per il rigetto dell’opposizione e la condanna della controparte al pagamento delle spese di lite.

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Ricostruiti in tal modo i termini del contenzioso, il Collegio reputa che l’opposizione al passivo non sia fondata.

È escluso, innanzi tutto, che il beneficio della prededuzione possa essere accordato facendo applicazione del principio di consecuzione tra procedure concorsuali richiamato a più riprese dalla giurisprudenza di legittimità in tema di rapporti tra concordato preventivo e fallimento, fino alla consacrazione normativa nell’ambito dell’art. 49, c. 2, d.lgs. n. 270/1999 per l’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato d’insolvenza e dell’art. 69 bis, c. 2, L.F. per il fallimento (Cass. 6/10/2010, n. 18437; Cass. 28/5/2012, n. 8439; Cass. 13/4/2016, n. 7324; Cass. 14/12/2016, n. 25728). Si è accennato agli eventi che hanno caratterizzato il biennio anteriore all’avvio della L.C.A. di Coopsette, aperta con decreto del 30/10/2015 dopo il deposito di una prima istanza di concordato preventivo in bianco (febbraio 2013), la sottoscrizione di numerosi accordi di ristrutturazione del debito omologati dal Tribunale di Reggio Emilia e il tentativo, rimasto senza esito per espressa rinuncia, di dare corso a una seconda proposta concordataria (maggio 2015). Ciò posto, nonostante una recente presa di posizione in senso contrario della Corte di Cassazione (Cass. 25/1/2018, n. 1896), il Collegio intende ribadire l’orientamento interpretativo propenso a escludere gli accordi di ristrutturazione del debito dall’ambito delle procedure concorsuali propriamente intese (Trib. Bologna, 17/11/2011; App. Firenze, 07/04/2016; Trib. Forlì, 05/05/2016; Trib. Milano, 10/11/2016; Trib. Modena, 19/11/2014). Rispetto al fallimento, al concordato preventivo e all’amministrazione straordinaria la fattispecie delineata dall’art. 182 bis L.F. non prevede un provvedimento giudiziale di apertura caratterizzato da un vaglio di ammissibilità ad opera del Tribunale e dalla nomina necessaria di un organo di vigilanza o di controllo per le fasi iniziali ed esecutive; non produce effetti universali sul patrimonio del debitore (che dunque potrebbe non essere coinvolto per intero) o verso i creditori, liberi di aderire o meno alla proposta senza subire le decisione delle maggioranze qualificate previste dalla legge; non impone il rispetto del principio della par condicio creditorum o delle cause legittime di prelazione; non contempla una disciplina peculiare in materia di interessi. Non sembra, d’altro canto, che le recenti modifiche approvate nella disciplina dell’istituto – in primis il divieto di iniziare o proseguire, per sessanta giorni dalla pubblicazione della domanda, azioni cautelari o esecutive sul patrimonio del debitore, l’introduzione della prededuzione con l’art. 182 quater L.F. e gli effetti prenotativi derivanti dal deposito di ricorsi per concordato con riserva – possano considerarsi sufficienti ad attrarre l’accordo di ristrutturazione nell’area pubblicistica. È significativo, del resto. che almeno agli effetti della revocatoria l’art. 69 bis L.F. abbia codificato il principio di consecuzione nei rapporti tra concordato preventivo e fallimento senza menzionare gli accordi di ristrutturazione del debito. Resta impregiudicata, in definitiva, la tradizionale natura privatistica delle intese ex art. 182 bis L.F.

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L’estraneità degli accordi di ristrutturazione del debito alla categoria delle procedure concorsuali fa sì che non vi possa essere alcun rapporto di occasionalità ex art. 111 L.F. tra le prestazioni rese dall’opponente e le intese stipulate tra la cooperativa e il ceto creditorio nel 2013. Per questo motivo l’applicazione del principio di continuità tra procedure richiamato da Alfa s.r.l. deve essere vagliata con esclusivo riferimento alle due istanze di concordato preventivo con riserva depositate da Coopsette (la prima come detto, esaurita senza il deposito della proposta e del piano, la seconda rinunciata il 27/10/2015, in concomitanza con l’avvio della L.C.A.). In questa prospettiva, se non sembrano sussistere dubbi circa l’operatività della regola della consecuzione tra la seconda fase concordataria e l’apertura della L.C.A. (30/10/2015), vista l’assenza di effettivo iato temporale, altrettanto non può dirsi per i ricorsi del febbraio del 2013 e del maggio del 2015. La Corte di Cassazione ha affermato, in effetti, che con il principio di consecuzione «viene individuato un fenomeno caratterizzato dal verificarsi a carico di un imprenditore di una serie di procedure concorsuali, seguenti una all’altra senza soluzione di continuità, a causa dell’incapacità delle prime di conseguire i rispettivi scopi istituzionali. La sequenza delle procedure concorsuali viene intesa, nell’ambito della consecuzione e della conversione di una procedura in altra, non come una semplice successione di procedimenti, ma come la realizzazione di un’unica procedura concorsuale, nell’ambito della quale le procedure progressivamente succedutesi costituiscono delle fasi, prive di autonomia e di separata rilevanza; le varie fasi, quindi, assumono rilievo come conversione, o trasformazione, di un procedimento in un altro (o in altri) senza uscire dall’alveo di quella intesa, nella sua complessa unità, come procedura concorsuale di carattere unitario» (già Cass. 18/7/1990, n. 7339/1990). Detto altrimenti, perché sussista la continuità richiesta per la considerazione unitaria degli istituti rispetto ai quali la questione concretamente si è posta (si pensi, a titolo di esempio, al periodo sospetto nell’azione revocatoria, al computo degli interessi, oltre che alla prededuzione) è indispensabile che la seconda procedura concorsuale sia espressione della stessa crisi economica che connotava la prima. Possono essere individuati quali indici sintomatici della continuità la ridotta distanza temporale tra i procedimenti, la coincidenza in termini quantitativi o qualitativi delle masse passive o la cessazione dell’attività d’impresa nel periodo di riferimento. Non è preclusa la valorizzazione di elementi differenti. Resta il fatto che una simile valutazione non può prescindere dalla considerazione in concreto della singola fattispecie, costituendo la prededuzione non una caratteristica immanente del credito come il privilegio, ma una qualità destinata produrre effetti solo in relazione al concorso quello sia sorto. Per questo motivo sarebbe spettato ad Alfa s.r.l. dare la dimostrazione della sussistenza di uno o più indici sintomatici dell’identità della crisi di Coopsette nel biennio 2013/2015, configurabili in termini di fatti costitutivi del preteso diritto a insinuarsi al passivo con il beneficio della prededuzione. Nelle proprie difese l’opponente si è limitata a predicare il requisito della continuità delle procedure concorsuali sulla base della scansione di queste.

Avvalorano la conclusione opposta il tempo relativamente lungo intercorrente tra le due istanze concordatarie e la prosecuzione dell’attività di impresa di Coopsette, caratterizzata dall’assunzione di oneri assai rilevanti sotto il profilo economico-finanziario in dipendenza di nuovi contratti, tra cui quelli stipulati con la Alfas.r.l.

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In questo quadro appaiono ininfluenti le modifiche normative in virtù delle quali la prededuzione, stante l’abrogazione dell’art. 11, c. 3 quater d.l. n. 145/2013 da parte dell’art. 22 d.l. n. 91/2014, è ammessa in ipotesi di concordato in bianco non seguito dal deposito della proposta e del piano. Viste le precedenti considerazioni in tema di continuità, la regola desumibile dal mutato assetto normativo sarebbe destinata a operare solo in relazione a crediti maturati in funzione del secondo concordato preventivo. Dalla documentazione allegata al ricorso in opposizione emerge che le prestazioni dell’opponente sono state rese tra il l’ottobre del 2014 e l’aprile/maggio del 2015, allorché non era pendente alcuna procedura concorsuale. L’assenza di elementi probatori nel senso della funzionalità dei lavori rispetto al concordato preventivo del 2015 implica, dunque, che le deduzioni della Alfa s.r.l. debbano ritenersi prive di fondamento anche da questo punto di vista, non essendo a tali scopi sufficiente il richiamo – presente nelle difese della società – all’utilità che il ceto creditorio avrebbe tratto dall’esecuzione delle forniture e dei correlati lavori di posa in opera.

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Contrariamente a quanto opinato nelle difese di parte opponente, a conclusioni differenti non è possibile pervenire valorizzando il presunto affidamento maturato dalla società sulla natura prededucibile dei crediti derivanti dal contratto di appalto. La prededuzione rappresenta un presupposto dell’insinuazione al passivo riscontrabile con criteri oggettivi sulla base del più volte menzionato vincolo funzionale o, in alternativa, del nesso di occasionalità sempre richiesto dalla legge (art. 182 quater ss L.F.). A riprova di ciò è significativo che nell’ambito delle fonti regolatrici della materia nessuna disposizione si riferisca allo stato psicologico del creditore. Per questo motivo è irrilevante stabilire se la Alfa s.r.l. avesse davvero accettato di eseguire i contratti del 2014 e del 2015 in vista del pagamento in prededuzione delle correlate poste creditorie. Anche tale questione è assorbita dalle considerazioni già svolte in tema di continuità.

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In forza delle statuizioni che precedono non vi è luogo per statuire in ordine alle richieste istruttorie formulate nell’atto di opposizione, inerenti a profili della vertenza pacifici (l’esecuzione delle prestazioni dedotte nei contratti del 2014 e del 2015) o privi di rilevanza (l’asserito affidamento circa la prededucibilità dei crediti correlati).

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L’esito del giudizio rende superfluo l’esame delle ulteriori eccezioni di parte opposta, anche preliminari

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Secondo soccombenza, la Alfa s.r.l. è tenuta al pagamento degli oneri di giudizio, stimabili in base ai valori medi del D.M. n. 55/2014, in € 14.914,00 (€ 4388,00 per la fase di studio, € 2.895,00 per la fase introduttiva, € 7631,00 per le fasi di trattazione e di decisione, unificate in virtù dell’assenza di attività istruttoria), oltre a spese generali, accessori fiscali e contributi previdenziali in misura di legge. Ai sensi dell’art. 13, c. 1 quater del DPR n. 115/2002 sussistono, inoltre, le condizioni per la condanna della Alfa s.r.l. al versamento di un importo pari al contributo unificato dovuto per l’atto introduttivo (€ 518,00).

P.Q.M.

Il Tribunale di Reggio Emilia, definitivamente pronunciando nella causa iscritta al n. 7873/2016 del R.G.A.C., disattesa ogni diversa domanda, eccezione o deduzione, così provvede:

– rigetta l’opposizione proposta da Alfa s.r.l. per le ragioni indicate in motivazione;

– condanna Alfa s.r.l. al pagamento in favore della L.C.A. Coopsette soc. coop. degli oneri processuali, stimabili in € 14.914,00, oltre a spese generali, accessori fiscali e contributi previdenziali dovuti per legge.

Ai sensi dell’art. 13, c. 1 quater del DPR n. 115/2002 si dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della Alfa s.r.l., di un importo corrispondente al contributo unificato già versato all’atto dell’iscrizione del procedimento (€ 518,00).

Reggio Emilia, 14/2/2018

Il Presidente

Francesco Parisoli

Il Giudice Estensore

Virgilio Notari

 

 

Cointestazione del conto corrente bancario: rapporti interni tra cointestatari.

Un recente arresto  offre lo spunto per ricordare alcuni principi peraltro consolidati nel pensiero giurisprudenziale a proposito del rapporto di conto corrente cointestato (Cassazione Civile, Sez. II, 04 gennaio 2018, n. 77).

In primo luogo la Corte di legittimità ribadisce che nel conto corrente cointestato il rapporto interno fra i vari correntisti cointestatari, vale a dire l’effettiva titolarità della quota spettante a ciascuno di essi sul credito o sul debito risultante dal conto, va regolamentato dall’art. 1298, comma secondo c.c., ai sensi del quale le parti di ciascuno dei debitori e creditori solidali si presumono uguali, a meno che la parte interessata non dimostri che la quota spettante alcuno dei contitolari è maggiore di quella presunta. Pertanto ove la presunzione di parità delle parti non sia superata, ciascun intestatario, nei rapporti interni, non può disporre in proprio favore senza il consenso tacito dell’altro della somma depositata in misura eccedente la quota di sua spettanza, e questo sia in relazione al saldo finale del conto sia in pendenza del rapporto.

Questi in sintesi i principi affermati dalla sentenza.

Sempre per quanto riguarda i rapporti interni tra i cointestatari, peraltro, pare utile ricordare che in caso di morte o di sopravvenuta incapacità di agire di uno dei cointestatari, in caso di conto firme congiunte, non si pongono problemi particolari in quanto gli atti di disposizione continueranno a dover essere compiuti da tutti i cointestatari e da tutti gli eredi .

Nella diversa ipotesi di conto a firme disgiunte – secondo quanto previsto dall’art. 14 delle N.U.B. (Norme Uniforme Bancarie) sui conti correnti di corrispondenza – la morte di uno dei cointestatari del conto non priva gli altri contitolari del diritto di continuare a disporre separatamente del saldo, a meno che uno degli interessati non proponga opposizione.

Testo della sentenza 

Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 16 novembre 2017 – 4 gennaio 2018, n. 77 Presidente Mazzacane – Relatore Scarpa

Fatti di causa

L’avvocato K.K.D.L.G.T. ha proposto ricorso articolato in sei motivi avverso la sentenza della Corte d’Appello di Roma n. 2654/2013, depositata il 10 maggio 2013, la quale ha rigettato l’impugnazione principale dello stesso K.K.D.L.G.T. ed ha parzialmente accolto l’appello incidentale di K.K.D.L.G.N. contro la pronuncia di primo grado n. 6439/2005 resa dal Tribunale di Roma, condannando N. a pagare al fratello T. la somma di Euro 77.972,01, oltre interessi legali dal 18 marzo 1995 al saldo. K.K.D.L.G.N. resiste con controricorso. K.K.D.L.G.T. , con citazione dell’8 giugno 1999, convenne il fratello N. davanti al Tribunale di Roma, chiedendo che quest’ultimo fosse dichiarato debitore della cifra di Lire 557.245.071, pari alla metà della somma depositata sul conto corrente Cornelio, aperto in cointestazione da K.K.D.L.G.N. e dalla madre C.E. il 26 maggio 1994 presso la banca Merril Lynch S.A., somma abusivamente prelevata dal convenuto. Assunse l’attore che l’iniziale provvista di oltre 900.000.000 di lire versata sul conto cointestato alla sua apertura fosse di esclusiva proprietà della signora C. , la quale aveva comunque poi appreso nell’aprile del 1997 che era stata disposta la chiusura del medesimo conto con autorizzazione recante la propria firma contraffatta, oltre che la firma di N. , e che era stato trasferito il saldo esistente su altro conto corrente denominato (…). L’attore aggiunse che la Banca aveva anche trattenuto in pegno alcuni titoli gestiti sul conto cointestato per la mancata restituzione di un mutuo rilasciato al fratello N. ; di tal che affermò che il debito gravante su N. fosse pari a titoli e contanti disponibili al momento della chiusura, oltre a quelli incamerati dall’istituto per il mutuo rimasto inadempiuto. Il Tribunale accolse la domanda di K.K.D.L.G.T. e condannò il fratello N. a pagare la somma di Euro 155.944,02 (pari alla metà del saldo esistente in base all’estratto al 31 marzo 1995), oltre accessori, ritenendo apocrifa la sottoscrizione di Erminia C. , nonché superata la presunzione di comproprietà delle somme versate sul conto(…). La Corte d’Appello di Roma ha poi respinto l’impugnazione principale di K.K.D.L.G.T. , affermando che “non può essere condivisa la tesi dell’appellante che sostiene che il fratello dovrebbe restituire anche i soldi presi a mutuo, sia perché non è chiaro chi effettivamente fosse la parte mutuataria (considerato sia il tenore della denuncia-querela che il testamento), sia perché in ogni caso non risulta che alla data di chiusura del conto la banca fosse obbligata per ulteriori somme”. La sentenza impugnata ha invece parzialmente accolto l’appello incidentale di K.K.D.L.G.N. , sostenendo che non potesse dirsi superata la presunzione di proprietà comune delle somme cointestate sul conto depositato, non avendo la signora C. provato “la fonte delle ingenti somme depositate sul conto”, e negando rilevanza alle circostanze, al contrario, valorizzate dal Tribunale, quali la vendita di immobili da parte di N. , o la notevole esposizione debitoria di N. verso la madre (Lire 385.000.000), come da assegno emesso da questo in favore della C. , assegno del quale, però, la Corte d’Appello ha detto non esser chiara la causale, aggiungendo che era comunque intenzione della madre rimettere tale debito, stando al testamento del 3 ottobre 1996, poi revocato. Le parti hanno presentato memorie ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Ragioni della decisione

Il primo motivo di ricorso di K.K.D.L.G.T. deduce la violazione degli artt. 112 e 115 c.p.c. (e 111, comma 2, Cost.,) indicando le deduzioni istruttorie avanzate dal ricorrente per superare la presunzione di comproprietà delle somme esistenti sul conto corrente cointestato (trascritte nella parte espositiva del ricorso) e rimaste senza risposta nella sentenza impugnata. Il secondo motivo di ricorso di K.K.D.L.G.T. denuncia l’omesso esame di fatti controversi e decisivi, facendo riferimento sempre ai fatti che avrebbero consentito di superare la presunzione di comproprietà. Il terzo motivo di ricorso di K.K.D.L.G.T. allega ancora un omesso esame di fatti anche in relazione all’art. 115 c.p.c., quanto all’affermazione della Corte d’Appello di Roma secondo cui “non è chiaro chi effettivamente fosse la parte mutuataria (considerato sia il tenore della denuncia-querela che il testamento)”, e “in ogni caso non risulta che alla data di chiusura del conto la banca fosse obbligata per ulteriori somme”. Il quarto motivo di ricorso denuncia l’omesso esame di fatti anche in relazione agli artt. 2727 e ss. c.c. ed all’art. 115 c.p.c., quanto alle “vendite” di proprietà immobiliari compiute da N. , che avrebbero potuto alimentare la provvista sul conto cointestato. Il quinto motivo di ricorso allega la violazione degli artt. 2727 2729 c.c., circa l’uso delle presunzioni fatto dalla Corte d’Appello. Il sesto motivo di ricorso censura l’omesso esame quanto alla documentazione allegata alla lettera della Merryl Linch del 22 aprile 1997, che negava qualsiasi versamento di somme sul conto (…) dopo quello iniziale. Il settimo motivo di ricorso deduce la violazione degli artt. 112 e 115 c.p.c., in quanto lo stesso convenuto K.K.D.L.G.N. si era difeso già nel costituirsi in primo grado senza allegare di aver in qualche modo alimentato la somma depositata sul conto cointestato. I sette motivi di ricorso vanno esaminati congiuntamente per la loro connessione e si rivelano fondati nei limiti di seguito precisati. Va premesso come l’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., riformulato dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, applicabile nella specie ratione temporis, abbia introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, comma 1, n. 6, e 369, comma 2, n. 4, c.p.c., il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie. Non di meno, pur dopo tale riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., rimane denunciabile in cassazione l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass. Sez. U, 07/04/2014, n. 8053). La sentenza della Corte d’Appello di Roma risulta allora strutturata su una motivazione apparente, o comunque obiettivamente incomprensibile, in quanto essa ha respinto l’impugnazione principale di K.K.D.L.G.T. e parzialmente accolto l’appello incidentale di K.K.D.L.G.N. , senza rendere percepibile il fondamento della decisione, precludendo all’attuale ricorrente la possibilità di assolvere l’onere probatorio su di esso gravante e ricorrendo ad argomentazioni inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento. Riformando sul punto la decisione del Tribunale, la Corte d’Appello ha ritenuto non superata la presunzione di proprietà comune delle somme cointestate sul conto depositato, non avendo la signora C. provato “la fonte delle ingenti somme depositate sul conto”; la Corte di Roma ha poi negato rilevanza alle circostanze dell’avvenuta vendita di immobili da parte di K.K.D.L.G.N. , della notevole esposizione debitoria del medesimo N. verso la madre (documentata da assegno di Lire 385.000.000), e della soggezione di N. a numerose procedure esecutive, anche da parte della stessa C. . Di conseguenza, la Corte d’Appello ha diviso tra i due correntisti cointestatari il saldo attivo esistente sul conto al 31 marzo 1995. Quanto alla vicenda che la Banca avesse incamerato alcuni titoli gestiti sul conto cointestato in conseguenza della mancata restituzione di un mutuo rilasciato a N. e garantito con gli stessi titoli, la Corte d’Appello ha sostenuto che “non è chiaro chi effettivamente fosse la parte mutuataria” e che “in ogni caso non risulta che alla data di chiusura del conto la banca fosse obbligata per ulteriori somme”. La causa va sottoposta a nuovo esame, dovendo la Corte d’Appello uniformarsi ai principi più volte ribaditi da questa Corte, secondo cui nel conto corrente bancario intestato a più persone, i rapporti interni tra correntisti, anche aventi facoltà di compiere operazioni disgiuntamente, sono regolati non dall’art. 1854 c.c., riguardante i rapporti con la banca, bensì dal secondo comma dell’art. 1298 c.c., in virtù del quale debito e credito solidale si dividono in quote uguali solo se non risulti diversamente; ne consegue che, ove il saldo attivo risulti discendere dal versamento di somme di pertinenza di uno solo dei correntisti, si deve escludere che l’altro possa, nel rapporto interno, avanzare diritti sul saldo medesimo. Peraltro, pur ove si dica insuperata la presunzione di parità delle parti, ciascun cointestatario, anche se avente facoltà di compiere operazioni disgiuntamente, nei rapporti interni non può disporre in proprio favore, senza il consenso espresso o tacito dell’altro, della somma depositata in misura eccedente la quota parte di sua spettanza, e ciò in relazione sia al saldo finale del conto, sia all’intero svolgimento del rapporto (cfr. Cass. Sez. 2, 02/12/2013, n. 26991; Cass. Sez. 2, 19/02/2009, n. 4066; Cass. Sez. 1, 01/02/2000, n. 1087; Cass., Sez. 1, 09/07/1989, n. 3241). Al fine, allora, di ritenere non superata la presunzione di comproprietà in relazione al conto corrente (…), cointestato a K.K.D.L.G.N. ed alla madre C.E. , occorrerà spiegare perché, a fronte delle deduzioni istruttorie di K.K.D.L.G.T. , risulti non provato che i versamenti fossero stati compiuti con denaro appartenente soltanto alla C. . D’altro canto, deve essere accertato e spiegato se sussista, o meno, pur a fronte della presunzione derivante dalla cointestazione del conto, la dedotta (da K.K.D.L.G.T. ) assoluta estraneità di C.E. all’operazione di costituzione in pegno di titoli, gestiti sul conto, in favore della banca mutuante Merryl Linch a garanzia del rimborso di un finanziamento erogato a K.K.D.L.G.N. , in quanto tale prospettazione renderebbe non riferibile solidalmente la movimentazione, e la relativa esposizione debitoria, al saldo del conto corrente. In conclusione, in accoglimento del ricorso, la sentenza impugnata deve essere cassata, con conseguente rinvio, anche per le spese del presente giudizio, ad altra sezione della Corte di Appello di Roma per una nuova delibazione, sulla base dei principi di diritto sopra enunciati e dei rilievi svolti.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa ad altra sezione della Corte d’appello di Roma anche per la pronuncia sulle spese del giudizio di cassazione.

 

 

Successione di testamenti nel tempo e incompatibilità  delle disposizioni

(Massima)  Fuori dell’ipotesi di revoca espressa di un testamento, può ricorrere un caso di incompatibilità oggettiva o intenzionale fra il testamento precedente e quello successivo, sussistendo la prima allorchè, indipendentemente da un intento di revoca, sia materialmente impossibile dare contemporanea esecuzione alle disposizioni contenute nel testamento precedente ed a quelle contenute nel testamento successivo e configurandosi, invece, incompatibilità intenzionale quando, esclusa tale materiale inconciliabilità di disposizioni, dal contenuto del testamento successivo sia dato ragionevolmente inferire la volontà del testatore di revocare, in tutto o in parte il testamento precedente e dal raffronto del complesso delle disposizioni o di singole disposizioni contenute nei due atti, sia dato desumere un atteggiamento della volontà del de cuius incompatibile con quello che risultava dall’antecedente testamento.   (Cass. Civ., Sez. II, sent. n. 11587 dell’11 maggio 2017)

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONESEZIONE SECONDA CIVILEComposta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:Dott. MAZZACANE Vincenzo                           – Presidente   -Dott. ORICCHIO Antonio                             – Consigliere -Dott. FEDERICO Guido                          – rel. Consigliere -Dott. COSENTINO Antonello                           – Consigliere -Dott. ABETE     Luigi                               – Consigliere -ha pronunciato la seguente:ORDINANZA

(omissis)

Fatto

ESPOSIZIONE DEL FATTO

M.T. ed B.E. e D.L., quale erede di D.F., convennero innanzi al Tribunale di Torino L.A.M. esponendo:

che il 3 aprile 2005 era deceduto in (OMISSIS) L.G., istituendo con un primo testamento del 7/9/2003 la convenuta erede universale, mentre, con successivo testamento del 18/1/2005, aveva revocato il primo testamento ed aveva costituito la convenuta quale semplice legataria, sottraendole l’assegnazione dell’immobile sito in (OMISSIS).

Su detto cespite si era pertanto aperta la successione ab intestato ed instaurata la comunione ereditaria tra i chiamati ex lege.

Secondo la prospettazione degli attori tra i due testamenti sussisteva un’incompatibilità sia oggettiva che soggettiva, in quanto, da un lato l’imposizione nel testamento più recente dell’onere di vendere la casa e devolvere il 20% del ricavato alla badante del de cuius S.Z. era incompatibile con il lascito incondizionato in favore della convenuta ed inoltre, dallo stesso tenore del secondo testamento, risultava che il de cuius aveva inteso attribuire alla cugina, L.A.M., due soli beni a titolo di legato a fronte dell’istituzione di erede contenuta nel primo testamento.

La convenuta costituendosi si oppose, negando la dedotta incompatibilità tra le due disposizioni testamentarie.

Il Tribunale di Torino, con sentenza non definitiva, accolse la domanda, affermando che, limitatamente alla casa sita in (OMISSIS), si era aperta la successione ex lege ed instaurata la comunione ereditaria tra gli attori.

La Corte d’Appello di Torino con la sentenza n. 1521/2012, depositata il 26 settembre 2012, rigettò l’appello della signora L. confermando integralmente la sentenza impugnata.

La Corte d’Appello di Torino, richiamato il principio della conservazione delle disposizioni di ultima volontà così come affermato dalla consolidata giurisprudenza di legittimità, dopo aver compiuto un raffronto tra i due testamenti ha accertato la volontà del de cuius di revocare il primo testamento redigendo il secondo ed ha concluso affermando la validità del secondo testamento e l’apertura della successione legittima con riferimento all’immobile sito in (OMISSIS).

Per la cassazione di detta sentenza propone ricorso per cassazione la signora L.A., con un unico motivo, nei confronti di A. e L.G., M.T. ed B.E. e D.L..

M.T. ed B.E. si sono costituiti con controricorso, mentre A. e L.G. non hanno svolto, nel presente giudizio, attività difensiva.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

Deve preliminarmente disattendersi l’eccezione di nullità della notifica del ricorso nei confronti di G. ed Li.An., deceduti rispettivamente in data (OMISSIS) e (OMISSIS), sollevata nel controricorso dagli altri resistenti.

Secondo la prospettazione dei controricorrenti, poichè l’evento della morte di G. ed Li.An. era stata dichiarata dall’unico procuratore nel giudizio in prosecuzione, tuttora pendente innanzi al Tribunale di Torino, la notifica del ricorso per cassazione effettuata nel presente giudizio nei loro confronti presso il procuratore domiciliatario doveva ritenersi nulla, poichè il decesso si era verificato anteriormente alla stessa sentenza impugnata ed il ricorso non era stato notificato nè ai singoli eredi, nè agli eredi impersonalmente e collettivamente.

Si osserva in contrario che secondo il più recente indirizzo di questa Corte, a partire dalla nota pronuncia delle sezioni unite n. 15295/2014, la morte o perdita di capacità della parte costituita a mezzo di procuratore, dallo stesso non dichiarate in udienza o notificate alle altre parti comportano, per la regola dell’ultrattività del mandato, che il difensore continui a rappresentare la parte come se l’evento non si fosse verificato, onde è ammissibile la notificazione dell’impugnazione presso di lui, ai sensi dell’art. 330 c.p.c., comma 1, senza che rilevi la conoscenza “aliunde” di uno degli eventi previsti dall’art. 299 c.p.c. da parte del notificante (Cass. Ss.Uu. 15295/2014; 710/9016).

Risulta dunque irrilevante, in mancanza della formale dichiarazione o notifica del decesso della parte rappresentata, da parte del procuratore costituito, nell’ambito del presente procedimento, la dichiarazione resa in altro procedimento, quale quello, in prosecuzione (a seguito di ordinanza di rimessione in istruttoria, emessa dal tribunale di Torino, contestualmente alla sentenza di primo grado) tuttora pendente tra le medesime parti.

Una volta poi che si sia ritualmente instaurato il contraddittorio a seguito della notifica del ricorso, poichè nel giudizio di cassazione, com’è noto, non trova applicazione l’istituto della interruzione del processo per uno degli eventi di cui all’art. 299 c.p.c., la morte dell’intimato non produce l’interruzione del processo, neppure se, come nel caso di specie, sia intervenuta prima della notifica del ricorso effettuata preso il difensore costituito nel processo di merito, dalla cui relata non emerga il decesso del patrocinato (Cass. 1757/2015).

Ciò premesso, con l’unico motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 457, 682 e 1362 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 e l’insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 deducendo l’omessa o insufficiente motivazione in relazione all’accertamento della volontà del testatore, risultante dal secondo testamento, di revocare il precedente.

Il motivo è infondato.

Occorre premettere che, secondo il consolidato indirizzo interpretativo di questa Corte in tema di interpretazione degli atti mortis causa, l’interpretazione del testamento è caratterizzata da un’intensa ricerca della volontà del testatore e il risultato concreto dell’indagine condotta dal giudice del merito, con motivazione congrua e conforme al diritto, si sottrae al sindacato di legittimità (Cass. Civ. Sez. 2 sent. del 4-10-2013 n. 23278).

Orbene nel caso di specie, la Corte, nel richiamare il principio di conservazione espresso dall’art. 682 c.c., ha però ritenuto, con valutazione di merito, fondata su motivazione logica, coerente ed adeguata, che si sottrae dunque al sindacato di legittimità, che vi fosse una strutturale incompatibilità tra le due disposizioni testamentarie, sì che la seconda disposizione doveva ritenersi interamente sostituiva della prima.

Ed invero, come questa Corte ha già affermato, fuori dell’ipotesi di revoca espressa di un testamento, può ricorrere un caso di incompatibilità oggettiva o intenzionale fra il testamento precedente e quello successivo, sussistendo la prima allorchè, indipendentemente da un intento di revoca, sia materialmente impossibile dare contemporanea esecuzione alle disposizioni contenute nel testamento precedente ed a quelle contenute nel testamento successivo e configurandosi, invece, incompatibilità intenzionale quando, esclusa tale materiale inconciliabilità di disposizioni, dal contenuto del testamento successivo sia dato ragionevolmente inferire la volontà del testatore di revocare, in tutto o in parte il testamento precedente e dal raffronto del complesso delle disposizioni o di singole disposizioni contenute nei due atti, sia dato desumere un atteggiamento della volontà del de cuius incompatibile con quello che risultava dall’antecedente testamento. L’indagine al riguardo involge apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito e non censurabile in sede di legittimità se sorretti da congrua e corretta motivazione (Cass. 6745/1983).

Orbene, nel caso di specie, secondo quanto accertato con argomentazione logica e coerente dal giudice di merito, oltre alla incompatibilità oggettiva di diverse disposizioni del secondo testamento rispetto al primo, risulta una differenza strutturale tra le due schede testamentarie, in quanto, a fronte della istituzione di erede universale della odierna ricorrente, cui venivano attributi tutti i beni immobili (analiticamente indicati) e mobili, contenuta nel primo testamento, il secondo è invece caratterizzato dalla disaggregazione patrimoniale, con destinazione dei beni a diversi beneficiari, e specifica attribuzione soltanto di taluni beni immobili alla odierna ricorrente.

Avuto riguardo, in particolare, alla casa su cui s’incentra la materia del contendere, nella seconda scheda testamentaria il de cuius non la attribuisce più alla cugina, disponendo invece che “la stessa dovrà essere venduta, ed il 20% del ricavato attribuito alla badante S.Z.”.

Più in generale, secondo la ricostruzione della Corte territoriale, che come si è detto in quanto logicamente ed adeguatamente motivata non è censurabile nel presente giudizio, nel testamento successivo è ravvisabile non già la sostituzione di talune disposizioni ma un ripensamento ed un riassetto complessivo della destinazione dei beni e dunque una “incompatibilità intenzionale”, con la conseguente conclusione che il de cuius con il secondo testamento ha inteso revocare il primo.

In particolare, secondo quanto ritenuto dal giudice di merito, sussiste una evidente inconciliabilità, anche alla luce della complessiva formulazione della scheda testamentaria, tra l’attribuzione della casa all’unica erede del primo testamento L.A. e la disposizione secondo cui, ferma la già menzionata disaggregazione dei beni del patrimonio ereditario, e la specifica attribuzione di determinati beni a L.A., la casa avrebbe dovuto essere venduta, attribuendone il 20% del ricavato alla S..

Tale conclusione, in quanto conforme ai canoni interpretativi richiamati in materia di testamento, e fondata, oltre che sull’esame globale della scheda testamentaria e le differenti modalità di redazione dell’atto, anche su elementi estrinseci alla scheda, come la cultura, la mentalità e l’ambiente di vita del testatore, appare idonea ad esprimere, in modo adeguato e coerente, la reale intenzione del “de cuius” (Cass. 24637/2010).

Deve pertanto ritenersi che la casa, unico bene che non viene attribuito ad un beneficiario, sia stato sottoposto a successione legittima, che, pacificamente può coesistere con quella testamentaria.

Il ricorso va dunque respinto e la ricorrente va condannata alla refusione in favore degli intimati costituiti delle spese del presente giudizio.

Nulla sulle spese in relazione agli altri intimati.

ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

PQM

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente alla refusione, in favore di E. e B.M.T., nonchè De Filippi Luciano delle spese del presente giudizio, che liquida in complessivi 5.200,00 Euro, di cui 200,00 Euro per imborso spese vive, oltre a rimborso forfettario spese generali in misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 7 aprile 2014.

Depositato in Cancelleria il 11 maggio 2017

Cessione di crediti, quando può dirsi vincolante nei confronti del debitore ceduto

Cass. n. 26 maggio 2014, n. 19199

Una sentenza non più recentissima – che conferma tuttavia un orientamento consolidato in una materia che non registra successivi contributi giurisprudenziali – ci offre l’occasione per alcune considerazioni a proposito della cessione dei crediti .

Insegna l’art. 1264 cc che la cessione ha effetto nei confronti del debitore ceduto quando questi l’ha accettata o quando gli è stata notificata.

Il secondo comma, prevede, tuttavia, che anche prima della notificazione, il debitore che paga al cedente non è liberato, se cessionario prova che il debitore medesimo era a conoscenza dell’avvenuta cessione.

Secondo la pronuncia in parola della Corte di Cassazione, la regola dettata al secondo comma del citato articolo, deve essere coordinata con le norme che regolano l’opponibilità della cessione ai creditori del cedente, in particolare con la previsione dell’inopponibilità a questi della cessione che sia stata notificata al debitore in data successiva alla dichiarazione di fallimento del cedente medesimo o al pignoramento del credito, ai sensi degli artt. 2914, n. 2, c.c. e 45 L.F

In proposito giova ricordare che è possibile anche procedere alla cessione non solo di crediti già sorti, ma anche di crediti futuri o sperati, a condizione che nel momento della cessione esista già il rapporto di credito da cui i crediti dovrebbero nascere.

In caso di fallimento, tuttavia, per opporre efficacemente la cessione al curatore è necessario non solo che il credito sia sorto, ma anche che sia divenuto esigibile prima della dichiarazione di fallimento ( C. Cass. 29.12.2000 n. 16235)

Pere utile altresì’ segnalare i seguenti principi giuridici affermati in materia dalla Suprema Corte:

L’art. 1264 cod. civ. non individua il soggetto tenuto a notificare la cessione del credito, sicché la notificazione, che ha solo l’effetto di rendere la cessione opponibile al debitore ceduto, può essere effettuata sia dal cedente che dal cessionario (Cassazione civile sez. VI  13 marzo 2014, n. 5869).

La notificazione della cessione del credito al debitore ceduto, prevista dall’art. 1264 cod. civ., costituisce atto a forma libera, purché idoneo a porre il debitore nella consapevolezza della mutata titolarità attiva del rapporto obbligatorio, e, pertanto, può essere effettuata sia mediante ricorso per decreto ingiuntivo, sia mediante comunicazione operata nel corso del successivo giudizio di opposizione ex art. 645 cod. proc. civ. (Cassazione civile sez. III  28 gennaio 2014 n. 1770).

Pratiche anticoncorrenziali: abuso di posizione dominante

TRIBUNALE DI BERGAMO

QUARTA SEZIONE CIVILE

Il Giudice Designato

Dott. Cesare Massetti

Sul ricorso ex art. 700 c.p.c. proposto dalla soc. Cesaretti

Agricoltura s.r.l. nei confronti della soc. Same Deutz – Fahr Italia

s.p.a.;

letti gli atti del procedimento;

sentite le parti all’udienza tenutasi il 20 dicembre 2016;

a scioglimento della riserva formulata nel corso di tale udienza;

premesso che:

– la ricorrente Cesaretti Agricoltura lamenta un abuso di

dipendenza economica ex art. 9 L. n. 192/1998 (c.d. legge subfornitura),

concretatosi nel recesso ad nutum dai contratti di concessione di

vendita in corso, oltre che nell’imposizione di una serie di clausole

vessatorie; chiede emettersi ordine di astensione dal porre in essere

qualsiasi comportamento volto a cessare le relazioni contrattuali con

la ricorrente, con l’applicazione di una penale per ogni ulteriore

violazione o ritardo; preannuncia una causa di merito di inibitoria e di

risarcimento danni;

– la resistente Same Deutz – Fahr Italia, eccepita

pregiudizialmente l’incompetenza del giudice adito, contesta nel

merito la sussistenza della dipendenza economica e dell’abuso, e

ravvisa la giusta causa del recesso negli inadempimenti del

concessionario sotto plurimi profili (andamento negativo delle

vendite, mancato allestimento di un’officina per il servizio di

assistenza postvendita, irregolarità nel pagamento degli acquisti);

– il procedimento è stato, quindi, istruito mediante assunzione di

sommarie informazioni testimoniali;

ritenuto che:

– I) l’eccezione pregiudiziale di incompetenza, sollevata dalla

resistente, è infondata.

Tale eccezione muove dagli artt. 2359 co. 1 n. 3 c.c. – 3 D.Lgs.

  1. 168/2003, come modificato dalla L. n. 27/2012, che affidano al

Tribunale delle Imprese la cognizione delle cause in tema di società

controllate, e segnatamente in tema di società che sono sotto

l’influenza dominante di un’altra società in virtù di particolari vincoli

contrattuali.

In verità la Cesaretti non ha mai insinuato di essere sotto

l’influenza dominante della Same, piuttosto ha enucleato i particolari

vincoli contrattuali che, in uno ad altre circostanze, ne evidenziano la

mera dipendenza economica.

Di un controllo esterno contrattuale non si parla nel ricorso, e la

lettura che ne fa la resistente costituisce un’evidente forzatura. Il

“dominio” non emerge neppure dagli atti, sulla cui base va decisa la

questione di competenza, ex art. 38 u.c. c.p.c..

Pare anche inutile sottolineare che l’abuso di dipendenza

economica (art. 9 legge subfornitura) e i rapporti tra società controllate (art.

2359 c.c.) ovvero l’abuso dell’attività di direzione e di coordinamento di

società (art. 2947 c.c.) costituiscono fattispecie giuridiche nettamente

diverse.

Il controllo ex art. 2359 co. 1 n. 3 c.c. postula l’esistenza di

determinati rapporti contrattuali la cui costituzione ed il cui perdurare

rappresentano la condizione di esistenza e di sopravvivenza della

capacità di impresa della società controllata (Cass. n. 12094/2001).

Tale situazione non è certamente rinvenibile nella fattispecie concreta, solo avuto riguardo all’assenza di un’esclusiva, all’indubbia autonomia

gestionale della Cesaretti e alla mancanza di poteri di concreta

ingerenza da parte della Same.

L’abuso di dipendenza economica rientra pacificamente nella

competenza del Tribunale Ordinario (Cass. n. 22584/2015).

Resta così ferma la competenza del Tribunale di Bergamo;

– II) in esordio la resistente contesta l’applicabilità dell’art. 9 cit.

in ambiti diversi dalla subfornitura.

L’assunto non è, tuttavia, condivisibile.

L’art. 9 L. 18 giugno 1990 n. 192 dispone che “1. È vietato

l’abuso da parte di una o più imprese dello stato di dipendenza

economica nel quale si trova, nei suoi o nei loro riguardi, una

impresa cliente o fornitrice. Si considera dipendenza economica la

situazione in cui una impresa sia in grado di determinare, nei rapporti

commerciali con un’altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti e

di obblighi. La dipendenza economica è valutata tenendo conto anche

della reale possibilità per la parte che abbia subito l’abuso di reperire

sul mercato alternative soddisfacenti. 2. L’abuso può anche consistere

nel rifiuto di vendere o nel rifiuto di comprare, nella imposizione di

condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose o discriminatorie,

nella interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in atto. 3. Il

patto attraverso il quale si realizzi l’abuso di dipendenza economica è

nullo. Il giudice ordinario competente conosce delle azioni in materia

di abuso di dipendenza economica, comprese quelle inibitorie e per il

risarcimento dei danni. 3-bis. Ferma restando l’eventuale

applicazione dell’articolo 3 della legge 10 ottobre 1990, n. 287,

l’Autorità garante della concorrenza e del mercato può, qualora

ravvisi che un abuso di dipendenza economica abbia rilevanza per la

tutela della concorrenza e del mercato, anche su segnalazione di terzi

ed a seguito dell’attivazione dei propri poteri di indagine ed

esperimento dell’istruttoria, procedere alle diffide e sanzioni previste

dall’articolo 15 della legge 10 ottobre 1990, n. 287, nei confronti

dell’impresa o delle imprese che abbiano commesso detto abuso. In

caso di violazione diffusa e reiterata della disciplina di cui al decreto

legislativo 9 ottobre 2002, n. 231, posta in essere ai danni delle

imprese, con particolare riferimento a quelle piccole e medie, l’abuso

si configura a prescindere dall’accertamento della dipendenza

economica”.

Contrariamente all’opinione della resistente, la norma de qua è

di generale applicazione, non essendo limitata ai soli rapporti di

subfornitura.

In tal senso depongono l’uso dei termini “cliente” e “fornitrice”,

non altrimenti impiegati nella legge subfornitura; la genesi della

disposizione, che in origine era destinata a essere inserita

(completandola) nella legislazione antitrust, sulla scia dei modelli

tedesco e francese, e che solo per effetto del parere contrario espresso

dal Garante della Concorrenza è stata spostata all’interno di una legge

settoriale; la ratio della norma, finalizzata a tutelare la correttezza e la

buona fede nei rapporti commerciali tra imprese e a vietare l’abuso del

diritto (principi – questi – che si applicano a tutti i contratti); e, infine,

l’aggiunta del co. 3 bis (in riferimento ai poteri di diffida e di sanzione

del Garante della Concorrenza nei casi in cui l’abuso assume una

rilevanza anche nell’ottica della tutela del mercato e della

concorrenza), che è valso a recuperarne la vocazione di carattere

generale.

Per l’interpretazione estensiva si sono espresse la miglior

dottrina, la più recente e prevalente giurisprudenza di merito (Tribunale

Bari 6 maggio 2002, Tribunale Taranto 17 settembre 2003, Tribunale Roma 5 novembre

2003, Tribunale Catania 5 gennaio 2004, Tribunale Bari 22 ottobre 2004, Tribunale

Trieste 21 settembre 2006, Tribunale Torre Annunziata 30 marzo 2007, Tribunale Catania

9 luglio 2009, Tribunale Roma 30 novembre 2009, Tribunale Torino 11 marzo 2010, Tribunale Forlì 27 ottobre 2010, Tribunale Torino 21 novembre 2013, Tribunale Massa 26 febbraio 2014 e 15 maggio 2014, Tribunale Vercelli 14 novembre 2014) e, last but non least, la stessa giurisprudenza di legittimità (Cass. S.U. n. 24906/2011, in linea di obiter dictum, e Cass. n. 16787/2014).

Prova ne sia che, nella prassi (al di là della soluzione del caso

concreto, nel senso che la tutela sia stata, poi, accordata o meno),

l’abuso di dipendenza economica è stato ritenuto configurabile in una

moltitudine di campi: dalla concessione di vendita al franchising, dalla

vendita all’appalto, dal trasporto alla logistica. Il caso più frequente è

proprio quello della distribuzione integrata di veicoli. E nel settore

degli idrocarburi l’applicazione dell’art. 9 è stata, addirittura, sancita allo stesso legislatore con il c.d. decreto Cresci Italia (art. 17 co. 3 D.L.

24 gennaio 2012 n. 1 convertito in L. 24 marzo 2012 n. 27).

Si può, quindi, serenamente concludere nel senso che l’art. 9 si

applica a tutti i rapporti di collaborazione tra imprese, nelle fasi della

produzione e/o della distribuzione.

Nel caso di specie si verte, appunto, in tema concessioni di

vendita, e quindi di “distribuzione”;

– III) Prima di scendere all’esame del merito, pare opportuno

esporre taluni brevi concetti sull’istituto di cui si discute.

La dipendenza economica (countervailing power) è la

situazione in cui un’impresa sia in grado di determinare, nei rapporti

commerciali con un’altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti e di

obblighi, a tal fine dovendo tenersi conto della reale possibilità per la

parte che abbia subito l’abuso di reperire sul mercato delle alternative

soddisfacenti.

Malgrado l’ambiguità dell’uso dell’avverbio “anche”, è

communis opinio che l’impossibilità di reperire delle alternative

soddisfacenti rivesta un ruolo centrale nella valutazione circa la

dipendenza economica, senza la quale è ultronea ogni indagine

sull’abuso.

Infatti, il primo e il principale sintomo della dipendenza è

rappresentato dall’esecuzione da parte dell’imprenditore debole di una

serie di investimenti specifici (relational specific investments),

nell’ottica di far fronte agli impegni contrattuali assunti con

l’imprenditore forte. L’imprenditore debole si trova così esposto al

ricatto (hold up) dell’imprenditore forte, giacchè la minaccia di

interruzione del rapporto lo costringe a proseguirlo accettando

condizioni inique, di fronte all’eventualità (laddove sul mercato non

siano reperibili dei validi “sostituti”) di non riuscire ad ammortizzare

gli investimenti che ha fatto nel tempo, o di dover affrontare dei costi

elevati per la loro riconversione (switching costs).

Tipici i casi della distribuzione integrata di veicoli e del franchising, dove – rispettivamente – il concessionario e il franchisee,

avvinti da un contratto che li lega in esclusiva all’altra parte e che

impone loro dei minimi di target, effettuano cospicui investimenti

nell’attività (per allestire i locali, per assumere del personale, per

acquisire il know how, per sostenere campagne promozionali, etc.), ciò

anche e soprattutto nell’interesse del partner forte, nella speranza di

un lungo periodo di collaborazione: investimenti che, in caso di

recesso ad nutum, vengono ad essere vanificati e difficilmente

possono essere riconvertiti.

A dir il vero per l’accertamento della dipendenza economica

soccorrono altri criteri ausiliari (le dimensioni dell’impresa, il

fatturato, la specializzazione, l’utilizzo di licenze di brevetto marchio

o insegna, l’appartenenza a gruppi, la durata del rapporto, l’esistenza

di un’esclusiva), ma quello dell’alternativa di mercato rimane senza

dubbio il più importante, tanto da potersi definire il “cuore” della

disposizione in scrutinio.

Un tale scenario non è, invece, configurabile se l’imprenditore

non è “imprigionato” (locked in), ma è in grado di reperire

agevolmente dei “sostituti”, riuscendo così comunque ad ottimizzare

gli investimenti effettuati nel tempo, malgrado la rottura unilaterale

del rapporto;

– IV) Calando tali principi nel caso di specie, è possibile

osservare quanto segue: a) non sussiste una situazione di dipendenza

economica della Cesaretti nei confronti della Same, e quindi la

condotta della Same non è apprezzabile alla luce dell’art. 9 L. n.

192/1998; b) non sussistono gli inadempimenti imputati alla

Cesaretti, e in ogni caso questi paiono di scarsa importanza nell’ottica

della valutazione circa la giusta causa del recesso operato dalla Same;

  1. c) tale recesso è comunque censurabile secondo la teorica della buona

fede e dell’abuso del diritto in generale, con le conseguenze di cui si

dirà infra.

– a) L’insussistenza di una situazione di dipendenza economica

della Cesaretti nei confronti della Same è dovuta per lo meno a due

fattori essenziali, afferenti rispettivamente 1) gli investimenti specifici

e 2) le alternative di mercato.

Quanto al primo elemento, l’unico investimento di un certo

spessore parrebbe essere l’allestimento della nuova sede di Bastia

Umbria. Senonchè tale investimento riguarda un immobile concesso

in locazione, ragione per cui è arduo sostenerne la non

“riconvertibilità” (infatti, è sufficiente disdettare il contratto per

“rientrare” dall’investimento), e tra l’altro difetta di specificità, posto

che la Cesaretti non commercializza soltanto trattori (di provenienza

Same Deutz – Fahr Italia), ma anche e soprattutto escavatori (di

provenienza S.C.A.I.), tant’è vero che il fatturato globale della

Cesaretti, secondo dati tratti dalla sua stessa contabilità (doc. 19

ricorrente), deriva per il 24,2 % dai prodotti Same e per il 41,6 % dai

prodotti S.C.A.I..

La nuova esposizione, dunque, non è certamente riservata ai

trattori, ma comprende tutti i prodotti venduti dalla Cesaretti, tra cui in

particolare gli escavatori. Il collegamento tra i due contratti di

locazione (G.I.F./Cesaretti e G.I.F./S.C.A.I.) è, addirittura, “testuale”,

come si evince dalle premesse del primo (doc. 21 ricorrente), ciò che

lascia supporre un collegamento materiale tra le due porzioni di

immobile adiacenti, tali da costituire nel complesso un unicum.

Gli strumenti di diagnosi e le attività di marketing non sono

certamente rilevanti ai fini di cui si discute, se non altro in ragione

della minima entità dei corrispondenti capitoli di spesa.

A dir il vero l’unico investimento specifico, sollecitato a più

riprese dalla stessa Same, consisteva nella dotazione di un’officina

interna per l’assistenza post vendita, ma l’istruttoria (su cui v. infra) ha

acclarato che non è mai stato realizzato.

Di talchè non si può nemmeno sostenere che la Cesaretti abbia

assunto del personale ad hoc, per le esigenze proprie della Same,

essendo di contro emerso che il referente di Same in Cesaretti per le

garanzie etc. (tale Sarnei) è stato licenziato, e rimpiazzato con altro

dipendente (tale Furiani “padre”), il quale, tuttavia, si è limitato per lo

più a gestire le incombenze relative alla consegna delle macchine

nuove (informatori Gubbiotti, Tufano e Bruno).

Quanto al secondo elemento, anche a voler restringere l’analisi

ai competitors che si pongono agli stessi livelli di mercato di Same o a

livelli equivalenti, era comunque doveroso un “approccio” per lo

meno con John Deer, del che, invece, è mancata la prova. La Cesaretti

assume che John Deer non fosse interessata a intrattenere rapporti (p. 5 note conclusive), e in limine litis ha prodotto degli estratti (docc. 44 e 45

ricorrente) da cui risulta che John Deer ha assegnato il territorio di

Perugia al concessionario Sgalla, già rivenditore autorizzato per le

Marche.

Il fatto che il punto vendita di Perugia sia in “prossima

apertura” (doc. 45 ricorrente) avvalora semmai l’assunto di Same, la quale

ha evidenziato il turn over di concessionari di macchine agricole

nell’Italia Centrale nel periodo d’interesse. Per dimostrare l’assenza

di valide alternative di mercato, la Cesaretti avrebbe, allora, dovuto

provare che, in un tale contesto, aveva per lo meno tentato di

allacciare una relazione commerciale con John Deer. Viceversa, essa

si è limitata a produrre delle carte, senza tuttavia chiarire cosa è stato

fatto nel periodo (dal recesso ad oggi) in cui John Deer ha maturato la

decisione di ampliare la zona del concessionario Sgalla (dalle Marche

all’Umbria). Solo dimostrando di aver avviato una trattativa con John

Deer, e che detta trattativa non aveva avuto buon fine (non per fatto

proprio), la Cesaretti avrebbe assolto appieno l’onere delle prova circa

la mancanza di alternative soddisfacenti di mercato.

Il Tribunale osserva, in primo luogo, che la lettera di recesso

non ne fa alcuna menzione, e in secondo luogo, che detti

inadempimenti, quand’anche realmente sussistenti, non sarebbe stati

comunque tali da fondare una giusta causa di recesso.

Infatti, quanto all’andamento negativo delle vendite, la tesi della

resistente omette di considerare il dato relativo alla crisi del mercato,

che ha colpito anche il settore delle macchine agricole. Oltretutto il

fatturato della Cesaretti per il 2015 era in crescita del 3,5 %, ciò

secondo la stessa tabella fornita dalla Same (pp. 9 – 10 comparsa). In ogni

caso, la minor performance rispetto ai concessionari limitrofi era

contenuta entro percentuali limitate (5/7 % secondo l’informatore

Tufano).

Quanto al mancato allestimento di un’officina per il servizio di

assistenza post vendita, e a prescindere dalla contestatissima “scheda

valutazione officina”, prodotta soltanto con le note conclusive (doc. 40

ricorrente), è stata fornita la prova della “tolleranza” pluriennale al

ricorso di un’officina esterna (in particolare, tale Orama) per gli

interventi di un certo rilievo. In tal senso è assai eloquente la

deposizione resa dall’informatore Bruno.

La Same non può addurre a giusta causa del recesso una prassi

che essa stessa ha accettato per lunghissimo tempo.

Il numero dei reclami, poi, di per sé non significa nulla, se non

se ne approfondiscono le cause, ben potendo essere che le doglianze

dei clienti si riferissero a problematiche della macchina piuttosto che

all’assistenza fornita dal concessionario.

Infine, quanto all’irregolarità nel pagamento degli acquisti, si è

trattato di semplici richieste di dilazione, previste contrattualmente e

autorizzate dal factor. Quel che è certo è che non si sono mai verificati

degli insoluti, e che non si sono registrati particolari scompensi in

capo alla cedente, per via dello splafonamento dell’affidamento o

altro.

In definitiva, il recesso della Same, per lo meno a livello di

fumus, non pare sorretto da una giusta causa, ma è e rimane un

semplice recesso ad nutum, operato al fine di incrementare le vendite

in Umbria, come riconosciuto dalla stessa Same nelle note conclusive

(pp. 32 – 34).

– c) Se è vero che la Cesaretti non si trova in una posizione di

dipendenza economica (in senso tecnico – giuridico) nei confronti

della Same, per le ragioni illustrate supra, è indubitabile che la Same

si trovi in una posizione di forza o di supremazia nei confronti della

Cesaretti. Lo dimostra il contenuto delle clausole evidenziate in

ricorso (pp. 9 – 11), qui a prescinderne dal carattere vessatorio o meno e

da un controllo circa il fatto che esse integrino o meno delle

condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose o discriminatorie.

In presenza di un partner forte, la condotta di Same (id est: il

recesso), se non alla luce dell’art. 9 L. n. 192/1998, diviene allora

rilevante alla luce della teorica della buona fede e dell’abuso del

diritto in generale. A far tempo dal leading case di Cass. n.

20106/2009 (il caso dei concessionari Renault), la giurisprudenza di

legittimità afferma la possibilità di un sindacato giudiziario dell’atto di

autonomia privata, nell’ottica di pervenire a un bilanciamento o

equilibrio dei contrapposti interessi. Con peculiare riferimento

all’ipotesi del recesso, si evidenzia la necessità di una

“procedimentalizzazione” dell’atto, che si sostanzia nella previsione di

trattative, nel riconoscimento di indennità, etc.. Non è in discussione

la libertà del concedente di svincolarsi dal contratto, per ridisegnare la

propria rete di vendita, optando per un altro concessionario, ma si

tratta anche di garantire la controparte, consentendole a sua volta di

riorganizzarsi, entro un congruo periodo di tempo.

Da questo punto di vista il recesso intimato entro il termine di

soli tre mesi, pur in conformità alle previsioni contrattuali (senza,

peraltro, che l’interruzione fosse mai stata preannunciata. Infatti, negli

incontri di Verona, Perugina e Treviglio non se ne era mai accennato),

e a fronte di un rapporto di lunga durata, presenta sicuramente dei

profili di “abusività”. Equo e pertinente alla fattispecie concreta pare

piuttosto il termine di un anno a far tempo dalla comunicazione del

recesso.

Merita, dunque, accoglimento la richiesta subordinata della

ricorrente, tesa a ripristinare il rapporto per un corrispondente periodo.

Nell’instaurando giudizio di merito si valuteranno gli eventuali

aspetti risarcitori.

– V) Il fumus boni iuris, limitatamente alla non congruità del

periodo di preavviso, è acclarato dalle considerazioni che sono state

illustrate nei precedenti paragrafi.

Il periculum in mora è in re ipsa nel venire meno della

collaborazione con un marchio celebre, con tutte le conseguenze che

ne derivano (calo del fatturato, difficoltà nel reperire validi sostituti

entro un breve periodo, necessità di riorganizzare la sede e il

personale, presenza di un concorrente già operativo nella zona, etc.).

E’ comunemente ritenuto ammissibile un provvedimento ex art.

700 c.p.c. che abbia ad oggetto la condanna a un facere infungibile

(nella specie: la ripresa delle relazioni commerciali per il più lungo

periodo di tempo stabilito).

Ex art. 614 bis c.p.c. deve essere fissata, non parendo

manifestamente iniqua, la penale di € 5.000,00= per ogni violazione o

ritardo.

Il giudizio di merito andrà instaurato nel termine di mesi tre

dalla comunicazione del presente provvedimento.

Il regolamento delle spese di lite per questa fase va rinviato al

definitivo.

PQM

– in parziale accoglimento della domanda, ordina alla resistente

di astenersi dal porre in essere qualsiasi comportamento volto a

cessare le relazioni contrattuali con la ricorrente fino alla data del 26

aprile 2017;

– fissa una penale di 5.000,00= per ogni violazione o ritardo

nell’esecuzione del presente provvedimento;

– fissa termine di mesi tre per l’instaurazione del giudizio di

merito;

– spese al definitivo.

Si comunichi.

Bergamo, lì 4 gennaio 2017.

 

Alimentare . Vendita  di alimenti a temperatura ambiente nonostante  contrarie prescrizioni indicate sulla confezione.

 

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 23 novembre 2016 – 26 aprile 2017, n. 19596
Presidente Amoresano – Relatore Liberati

Ritenuto in fatto

  1. Con sentenza del 17 novembre 2014 il Tribunale di Pordenone ha condannato L. M. alla pena di Euro 3.000,00 di ammenda, in relazione al reato di cui agli artt. 5, lett. b), e 6, comma 3, L. n. 283 del 1962 (per avere, quale responsabile del punto vendita PAM di Spilimbergo, detenuto per la vendita su di uno scaffale di tale punto vendita, con temperatura tra 19 e 20 gradi, venti confezioni sottovuoto di formaggio a pasta dura TRENTINGRANA D.O.P., tra le quali ve ne era una con estese formazioni di muffa).
    2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso l’imputato, mediante il suo difensore di fiducia, che lo ha affidato a un unico articolato motivo, attraverso il quale ha denunciato l’insufficienza e l’illogicità della motivazione, con particolare riferimento alla valutazione delle risultanze istruttorie, essendo stata indebitamente e illogicamente affermata la responsabilità dell’imputato per avere detenuto per la vendita 20 confezioni di formaggio a temperatura non adeguata (tra cui una con tracce di muffa), in quanto, secondo quanto emerso dall’istruttoria, non vi era correlazione tra la temperatura di conservazione e la muffa riscontrata su un unico pezzo (dovuta a un difetto di sigillatura della confezione sottovuoto da parte del produttore); il formaggio in questione poteva essere conservato a temperatura ambiente senza particolari conseguenze (come chiarito dal responsabile della gestione e commercializzazione del Consorzio Trentingrana, produttore del formaggio detenuto per vendita presso detto esercizio commerciale); non era, inoltre, stato provato da quanto tempo il prodotto fosse stato esposto a temperatura ambiente; il pezzo di formaggio con le tracce di muffa era preconfezionato all’origine e non era visibile dall’esterno, se non per una piccola porzione, con la conseguente applicabilità della esimente di cui all’art. 19 L. 283 del 1962.

Considerato in diritto

  1. Il ricorso è inammissibile, essendo volto a sindacare gli accertamenti di fatto compiuti dal Tribunale, di cui è stato dato conto con motivazione adeguata e priva di vizi logici.
    2. Le censure sollevate dal ricorrente non tengono conto che il controllo demandato alla Corte di legittimità va esercitato sulla coordinazione delle proposizioni e dei passaggi attraverso i quali si sviluppa il tessuto argomentativo del provvedimento impugnato, senza alcuna possibilità di rivalutare in una diversa ottica, gli argomenti di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento o di verificare se i risultati dell’interpretazione delle prove siano effettivamente corrispondenti alle acquisizioni probatorie risultanti dagli atti del processo.
    Anche a seguito della modifica dell’art. 606, lett. e), cod. proc. pen. con la L. 46/06, il sindacato della Corte di Cassazione rimane di legittimità: la possibilità di desumere la mancanza, contraddittorietà o la manifesta illogicità della motivazione anche da “altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame”, non attribuisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare criticamente le risultanze istruttorie, ma solo quello di valutare la correttezza dell’iter argomentativo seguito dal giudice di merito e di procedere all’annullamento quando la prova non considerata o travisata incida, scardinandola, sulla motivazione censurata (Sez. 6, n. 752 del 18.12.2006; Sez. 2, n. 23419 del 2007, Vignaroli; Sez. 6 n. 25255 del 14.2.2012).
    3. Nella vicenda in esame il Tribunale è pervenuto alla affermazione di responsabilità dell’imputato a seguito del rinvenimento, presso il punto vendita di cui il ricorrente era responsabile, di 19 confezioni di formaggio a pasta dura “Trentingrana d.o.p.”, esposte per la vendita su uno scaffale a temperatura ambiente, nonostante la confezione di tali prodotti riportasse l’indicazione della necessità di conservazione in frigorifero a temperatura compresa tra 0 e + 8, e il manuale di autocontrollo della società PAM Panorama, titolare della rivendita, prescrivesse la conservazione dei formaggi a pasta dura in banchi refrigerati. Il Tribunale ha, inoltre, sottolineato che il formaggio contenuto in una di tali confezioni presentava tracce di muffa, concludendo, in modo logico, per la sussistenza del reato contestato, essendo evidente il cattivo stato di conservazione di tutte suddette confezioni alimentari.
    Il ricorrente, invece, come risulta dallo stesso ricorso, pur prospettando l’illogicità di tale motivazione, propone, in realtà, una rivisitazione del materiale probatorio, affermando che dall’istruttoria era emersa l’assenza di correlazione tra la temperatura di conservazione e la muffa presente sul prodotto di una delle confezioni, che il formaggio poteva essere conservato a temperatura ambiente, che non era comunque stato accertato il tempo di esposizione a tale temperatura, che il pezzo di formaggio su cui erano presenti le tracce di muffa era preconfezionato e non visibile dall’esterno, se non per una piccola porzione, che la presenza di muffa non era riconducibile alla temperatura di conservazione: tali rilievi sono tutti volti a censurare e sovvertire la ricostruzione del fatto compiuta dal primo giudice, che, sulla base della inidoneità delle modalità di conservazioni di tutte le 19 confezioni di formaggio esposte per la vendita a temperatura ambiente (dunque indipendentemente dalla presenza di muffe sul formaggio contenuto in una delle confezioni), ha ritenuto che tali prodotti fossero in cattivo stato di conservazione. Tale motivazione risulta conforme alle regole della logica e alle massime di esperienza, oltre che alle specifiche prescrizioni del produttore e del titolare dell’esercizio commerciale, e dunque le censure del ricorrente, piuttosto che individuare vizi della motivazione, sono dirette a conseguire una diversa valutazione delle risultanze di fatto correttamente considerate dal Tribunale, con la conseguente inammissibilità di tali doglianze.
    Poiché la responsabilità del ricorrente è stata affermata a causa della conservazione dei prodotti alimentari a temperatura non idonea, cioè a temperatura ambiente e non a quella compresa tra 0 e + 8, risultano chiaramente insussistenti i presupposti di applicabilità della esimente di cui all’art. 19 L. n. 283 del 1962.
    Tale disposizione, infatti, nel prevedere che “Le sanzioni previste dalla presente legge non si applicano al commerciante che vende, pone in vendita o comunque distribuisce per il consumo prodotti in confezioni originali, qualora la non corrispondenza alle prescrizioni della legge stessa riguardi i requisiti intrinseci o la composizione dei prodotti o le condizioni interne dei recipienti e sempre che il commerciante non sia a conoscenza della violazione o la confezione originale non presenti segni di alterazione”, attiene ai requisiti intrinseci o di composizione dei prodotti o alle condizioni interne dei recipienti, e non alle modalità di conservazione degli alimenti, che ricadono sotto la responsabilità del detentore, a cagione delle quali, e in particolare della inidoneità della conservazione a temperatura ambiente, è stata affermata la responsabilità dell’imputato, con la conseguente manifesta infondatezza della allegazione della configurabilità di tale esimente speciale, di cui nella specie non ricorrono i presupposti di fatto.
    4. In conclusione il ricorso in esame deve essere dichiarato inammissibile, non essendo consentita nel giudizio di legittimità, in presenza di motivazione adeguata e immune da vizi, la rivalutazione delle risultanze di fatto, ed essendo chiaramente non configurabile l’esimente speciale invocata dall’imputato.
    Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue, ex art. 616 cod. proc. pen., non potendosi escludere che essa sia ascrivibile a colpa del ricorrente (Corte Cost. sentenza 7-13 giugno 2000, n. 186), l’onere delle spese del procedimento, nonché del versamento di una somma in favore della Cassa delle Ammende, che si determina equitativamente, in ragione dei motivi dedotti, nella misura di Euro 2.000,00

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.