Categoria: Diritto delle assicurazioni

Eredità e polizze vita: qual è il rapporto? La giurisprudenza della Cassazione. (Cass. Civ., n. 29583 del 22 ottobre 2021)

 

La Corte di Cassazione è intervenuta per dirimere una complessa vicenda successoria, che aveva dato luogo ad una controversia tra gli eredi del contraente di una polizza vita. In particolare la disputa  concerneva i premi relativi ai contratti di assicurazione sulla vita a favore di un erede, che i ricorrenti pretermessi intendevano assoggettare a  collazione.
Nella fattispecie una polizza assicurativa di tipo index “mista” caso vita e morte, era stata stipulata dal defunto padre sulla vita del figlio (assicurato di polizza) e avente  il contraente quale beneficiario caso vita ( e dunque nel caso di sopravvivenza di entrambi alla scadenza del contratto), e  gli eredi dell’assicurato (figlio) quali beneficiari caso morte (nel caso di decesso dell’assicurato stesso).
Va detto che la polizza prevedeva quale ulteriore condizione che in caso di premorienza del contraente padre rispetto all’assicurato figlio, prima della scadenza del contratto, l’assicurato avrebbe preso posto del contraente deceduto.
E’ accaduto che  il padre è premorto al figlio e quest’ultimo è subentrato, in forza della summenzionata prescrizione, nella posizione di contraente di polizza continuando ad esserne anche assicurato.
La Corte ha riaffermato un principio ormai ricorrente nella giurisprudenza di legittimità, statuendo, in estrema sintesi, che al momento della morte del contraente, il figlio è tenuto al conferimento del premio per il “caso di vita”, nell’ipotesi, di fatto verificatasi, di premorienza del contraente rispetto all’assicurato. Allo stesso obbligo di conferimento è tenuto  anche per quanto concerne i premi  per il “caso di morte”, in forza dell’art. 741 del codice civile, pur essendo egli l’assicurato e non il beneficiario dei vantaggi della polizza, destinati agli eredi di lui, ossia del medesimo assicurato.
In entrambi i casi si viene a configurare una donazione indiretta.
Mette conto di osservare che l’obbligo di collazione, cioè del conferimento della donazione fatta dal defunto nei confronti di un legittimario per il calcolo della massa ereditaria, riguarda la minore somma tra l’ammontare dei premi pagati e il capitale, non potendo la collazione avere per oggetto che il vantaggio conseguito dal discendente.

Se poi l’evento, condizionante il diritto all’indennizzo, non si sia ancora verificato all’apertura della successione, il discendente è intanto tenuto al conferimento del premio, salva la necessità, in favore del discendente stesso o dei suoi eredi, di procedere a un nuovo conteggio qualora l’indennità si rilevi in seguito inferiore.

La Corte ha  quindi espresso il seguente principio di diritto: “L’obbligo di collazione previsto dall’art. 741 c.c. relativamente a ciò che il defunto ha speso a favore dei suoi discendenti, per soddisfare, tra l’altro, premi relativi a contratti sulla vita a loro favore, riguarda tanto l’ipotesi dell’assicurazione stipulata dal discendente sulla propria vita, “sub specie” di pagamento del debito altrui, quanto quella di assicurazione sulla vita del discendente (o del “de cuius”), che rientra nello schema della donazione indiretta, quale contratto a favore di terzo. Peraltro, giacché il capitale assicurato può rivelarsi, di fatto, inferiore ai premi – che costituiscono, in linea di principio, l’oggetto del conferimento ex art. 2923, comma 2, c.c. – l’obbligo di collazione va precisato nel senso che, indipendentemente dalla natura cd. tradizionale o finanziaria della polizza, il conseguente conferimento riguarda la minore somma tra l’ammontare dei premi pagati ed il capitale, non potendo la collazione avere ad oggetto che il vantaggio conseguito dal beneficiario (o dai suoi discendenti), sul quale grava l’onere della relativa prova.”

Testo integrale della sentenza

Cassazione civile sez. II – 22/10/2021, n. 29583

Intestazione

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

FATTI DI CAUSA

  1. La presente causa riguarda la successione legittima di B.A., deceduto il (OMISSIS), lasciando i figli S., Sa., G., R. e i discendenti del figlio premorto A.: B.F.A. e B.R.F.. In corso di causa è deceduta B.T., lasciando eredi I.R., I.M., I.E.R., I.U..

Per quanto interessa in questa sede, il Tribunale di Catania, adito da Ba.Sa., G. e R., con sentenza non definitiva, riconosceva, con riferimento a una polizza vita stipulata dal de cuius con la Fideuram, nella quale le attrici avevano ravvisato una donazione del genitore in favore di B.S., che non ricorrevano i presupposti della collazione invocata dalle attrici, in difetto delle condizioni richieste per poter ravvisare nella fattispecie una liberalità del genitore in favore del figlio.

Il Tribunale rigettava inoltre la domanda ulteriore della attrici, che avevano richiesto il conferimento di una gestione patrimoniale, intestata al defunto e al figlio S.. Anche in questo caso il primo giudice riteneva che non ci fossero i presupposti della collazione, non essendoci prova che l’intestazione congiunta costituisse una donazione.

Il Tribunale rigettava ancora la domanda, proposta dalle attrici, di annullamento per incapacità naturale del genitore della vendita di quote della B. s.r.l., intercorsa fra il de cuius e il figlio S.; rigettava altresì la domanda volta a fare accertare la simulazione del medesimo contratto, rilevando che non ricorrevano, nella specie, le condizioni per riconoscere alle legittimarie attrici la qualità di terzo ai fini della prova della simulazione e, in ogni caso, in difetto della deduzione di elementi presuntivi idonei nel termine concesso per le deduzioni istruttorie.

Il primo giudice, in accoglimento della domanda riconvenzionale di B.S., riconosceva che le attrici e B.T. erano tenuti al conferimento della somma di Lire 100.000.000 ricevuta in donazione del de cuius.

  1. La Corte d’appello di Catania, adita con appello principale dalle originarie attrici e in procedimento separato, poi riunito, dagli eredi di B.T., nonché con appello incidentale da B.S., ha riformato in parte la sentenza.

2.1. In relazione al contratto del 2 aprile 2001, con il quale il de cuius aveva venduto al figlio S. le quote di sua proprietà della B. s.r.l., la Corte d’appello ha innanzitutto rigettato la domanda, con la quale le attrici Ba.Sa., B.G. e B.R. avevano chiesto disporsi l’annullamento del contratto per incapacità naturale del disponente. Essa ha osservato in proposito che gli elementi addotti al fine della prova della incapacità, consistenti nelle dichiarazioni testimoniali della persona di servizio del de cuius, non erano idonei a tal fine, emergendo da tali dichiarazioni emergevano solo disturbi e malesseri tipici dell’età avanzata.

2.2. La Corte d’appello ha poi esaminato la domanda di simulazione, proposta dalle attrice con riferimento al medesimo atto. In relazione a tale domanda la corte di merito ha negato che le attrici potessero fruire delle agevolazioni probatorie accordate al legittimario che agisce per fare accertare la simulazione di atti, apparentemente onerosi, compiuti dal defunto. Essa ha osservato che le attrici non avevano agito in qualità di legittimari con l’azione di riduzione, ma avevano agito quali eredi legittimi al fine della ricostruzione del patrimonio in funzione della collazione della donazione dissimulata. In verità, ha proseguito la Corte d’appello, le stesse attrici avevano chiesto, in via subordinata, la riduzione della donazione dissimulata sotto l’apparenza della vendita; tuttavia, la domanda, in quanto non accompagnata dalla richiesta di volere conseguire la quota di riserva, non poteva ritenersi idoneo esercizio dell’azione di riduzione, avuto riguardo agli stringenti oneri di deduzione imposti a colui che proponga la relativa domanda, secondo consolidati principi della giurisprudenza di legittimità.

La Corte d’appello ha proseguito nell’analisi, ponendo in luce che le appellanti non avevano impugnato la statuizione della sentenza di primo graddella parte in cui il Tribunale aveva rimarcato che le attrici non avevano indicato, entro i termini fissati per le preclusioni istruttorie, alcune/elemento presuntivo volto a dimostrare la pretesa simulazione. In proposito la Corte d’appello, richiamando le, previsione di cui all’art. 342 c.p.c., ha rilevato che le appellanti si erano inammissibilmente limitate a riproporre la tesi sostenuta in primo grado, senza sottoporre a una effettiva revisione critica la decisione impugnata. Solo nel grado le appellanti avevano indicato gli elementi presuntivi volti a comprovare l’esistenza di donazioni indirette.

2.3. La corte d’appello, in accoglimento della ragione di censura proposta dalle originarie attrici, ha riconosciuto che B.A. era tenuto al conferimento del premio versato dal defunto relativo alla polizza stipulata da de cuius. In proposito essa ha osservato che si trattava di polizza indicizzata a premio unico, che era stata stipulata da de cuius sulla vita del figlio B.S.; che la polizza aveva quali beneficiari, per il “caso vita”, il contraente e, per il “caso morte”, gli eredi testamentari o legittimi dell’assicurato B.S.; che il meccanismo della polizza prevedeva, per l’ipotesi che l’assicurato fosse ancora in vita al decesso del contraente, il subentro dell’assicurato nella posizione del medesimo contraente, con preclusione di poter variare i beneficiari caso vita e caso morte.

Così identificato il meccanismo di polizza, la Corte d’appello ha ravvisato in essa una liberalità realizzata dal defunto in favore de6iglio, subentrato al contraente e restando pertanto beneficiario in “caso vita”. E’ vero – ha proseguito la Corte d’appello – che lo strumento prescelto del defunto corrispondeva a un interesse finanziario e non per sé stesso a un fine di liberalità; tuttavia, “tenuto conto dell’età dell’originario contraente e della tipologia dello strumento prescelto con scadenza a lungo termine, della possibilità di far subentrare nel contratto la persona scelta come contraente, rende evidente il fine di liberalità perseguito dal defunto”. In quanto alla possibilità, già ventilata dal primo giudice, che il premio pagato avrebbe potuto non coincidere con il premio, la Corte d’appello ha riconosciuto, visto che la Compagnia non aveva dato una risposta esauriente sul contenuto della polizza “per ragioni di tutela della privacy del nuovo contraente, che l’onere di provare il minore beneficio era a carico dell’assicurato, “trattandosi dell’unico soggetto che avrebbe potuto dimostrare l’effettivo valore dell’importo ricevuto (in misura maggiore o minore dell’importo versato dal de cuius)”.

La Corte di merito, in esito a tale ricostruzione, ha imposto a B.S. l’obbligo di conferire in collazione il premio versato dal de cuius, pari a Euro 800.000,00.

2.4. E’ stato invece rigettato il motivo d’appello, con il quale le attrici originarie avevano censurato la decisione di primo grado nella parte in cui il Tribunale aveva negato che costituisse donazione l’intestazione, in nome del de cuius e del figlio, dei titoli esistenti presso la Banca Fideuram. Il primo giudice aveva negato che fosse stata data la prova della provenienza della provvista da parte del solo defunto. In relazione a tale statuizione la Corte d’appello ha osservato che le appellanti si erano limitate e ribadire la provenienza esclusiva della provvista dal solo defunto, senza neanche censurare l’ulteriore considerazione del primo giudice “in ordine al fatto che la gestione in parola è oggetto di un’apertura di credito in conto corrente, concessa ai due cointestatari della gestione”.

2.5. La Corte d’appello, infine, ha riformato la sentenza di primo grado in ordine a un ulteriore aspetto.

Il primo giudice, in accoglimento della domanda riconvenzionale proposta da B.S., aveva riconosciuto che il genitore aveva donato alle figlie Lire 100.000.000, imponendo l’obbligo del conferimento a carico delle attrici e di B.T.. La Corte d’appello, accogliendo l’appello proposto sul punto dalle originarie attrici, ha esteso l’obbligo di collazione a B.S., riconoscendo che il defunto aveva elargito identico importo a favore di ciascuno dei sei figli.

  1. Per la cassazione della sentenza B.S. ha proposto ricorso affidato a quattro motivi.

Ba.Sa., B.G. e B.R. hanno resistito con controricorso, contenente ricorso incidentale affidato a quattro motivi.

B.F.A. e B.R.F. hanno resistito con controricorso.

Hanno resistito con controricorso anche I.U., I.E.R., I.R. e I.M..

In vista dell’udienza camerale del 21 gennaio 2021, B.S. ha depositato memoria. Hanno depositato memoria anche I.U., I.E.R., I.R. e I.M.. La causa, con ordinanza di pari data, è stata rimessa alla pubblica udienza.

Il ricorrente ha depositato ulteriore memoria in prossimità della pubblica udienza.

 

RAGIONI DELLA DECISIONE

  1. Il primo motivo del ricorso principale denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 342 e 346 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

Si premette, da parte del ricorrente, che il primo giudice, in relazione alla polizza Fideuram, aveva rigettato la domanda di collazione proposta dai coeredi sulla base di una duplice ratio: a) l’inidoneità dello strumento utilizzato al fine di realizzare una liberalità; b) il rilievo che “i soggetti indicati come beneficiari sono altri e diversi da quello che si assume essere stato il donatario (e cioè il convenuto B.S.”). Ciò posto, il ricorrente evidenzia che, nel proporre il gravame, le appellanti avevano proposto considerazioni generiche, in parte anche improprie (così quella con la quale si assumeva che l’assicurato, avendo assunto la qualità di contraente alla morte del de cuius, avesse acquisito il potere di variare i beneficiari, laddove tale facoltà era espressamente esclusa dalle previsioni di polizza). Pertanto, assenza di idonee critiche verso la rafia decidendi della decisione di primo grado 1 l’appello doveva essere dichiarato inammissibile ai sensi dell’art. 342 c.p.c..

Il motivo è infondato. Risulta dalla trascrizione dell’atto di appello operata nel ricorso, che le appellanti avevano sostenuto che l’operazione realizzata dal genitore, seppure avesse ad oggetto un investimento finanziario, fu concepita e voluta dal de cuius al fine di favorire il figlio B.S. e non gli apparenti beneficiari della polizza ovvero i figli del medesimo B.S.. Avevano poi precisato che, secondo le previsioni della polizza, l’assicurato, alla morte dello stipulante, aveva assunto la qualità di contraente, vale a dire quella qualità in considerazione della quale la Corte d’appello ha riconosciuto che la fattispecie aveva realizzato una donazione del de cuius in favore del figlio. Non è vero perciò che la Corte d’appello abbia definito la lite sulla base di circostanze non dedotte. La Corte d’appello ha soltanto dato una qualificazione giuridica di un fatto dedotto. Del resto, costituisce orientamento pacifico nella giurisprudenza della Corte quello secondo cui “ai fini della specificità dei motivi d’appello richiesta dall’art. 342 c.p.c., l’esposizione delle ragioni di fatto e di diritto, invocate a sostegno del gravame, può sostanziarsi anche nella prospettazione delle medesime ragioni addotte nel giudizio di primo grado, non essendo necessaria l’allegazione di profili fattuali e giuridici aggiuntivi, purché ciò determini una critica adeguata e specifica della decisione impugnata e consenta al giudice del gravame di percepire con certezza il contenuto delle censure, in riferimento alle statuizioni adottate dal primo giudice” (Cass. n. 23781/2020).

Il rilievo che le appellanti avessero erroneamente sostenuto che colui che era subentrato al contraente aveva acquisito la facoltà di variare i beneficiari, nulla toglie all’idoneità della critica mossa alla sentenza di primo grado. Infatti, l’essenza della critica non è in tale aspetto, ma nel non avere il tribunale colto che il genitore aveva fatto ricorso a un meccanismo negoziale comunque idoneo a beneficiare il figlio, che diveniva destinatario del capitale assicurato “per il caso di vita”.

  1. Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 346 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

Si pone in luce che le appellanti non avevano formulato alcuna censura contro la statuizione della sentenza di primo grado, laddove il primo giudice aveva negato l’obbligo di collazione, a carico di B.S., argomentando che i beneficiari della polizza erano soggetti diversi dal supposto donatario. Secondo il ricorrente, la carenza di un’apposita censura su questa statuizione, identificata quale autonoma ratio decidendi idonea a giustificare il rigetto della domanda, imponeva alla Corte d’appello di dichiarare inammissibile l’impugnazione.

Il motivo è infondato. La censura contro la supposta ratio deddendi era stata in effetti formulata, in quanto al rilievo del primo giudice, fondato sulla diversa identità dei beneficiari, le appellanti avevano obiettato che l’operazione fu attuata dal genitore non con il fine di favorire i beneficiari, ma il figlio S., a carico del quale permaneva l’obbligo di conferimento del premio (Cass. n. 3194/2019; n. 12280/2016).

  1. Il terzo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e art. 115 c.p.c..

La sentenza è oggetto di censura nella parte in cui la corte di merito ha posto a carico dell’attuale ricorrente l’onere di provare “l’effettivo valore dell’importo ricevuto (in misura maggiore o minore del premio versato dal de culla)”.

La Corte d’appello, in questo modo, ha violato il criterio di riparto dell’onere probatorio, in base al quale era onere delle attrici, le quali avevano dedotto l/esistenza della liberalità, fornire la prova dei fatti costitutivi della pretesa. Alla carenza di sufficienti e adeguate informazioni da parte della Compagnia, le attrici ben avrebbero potuto supplire con istanza di esibizione.

Il quarto motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 737 e 741 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

La Corte d’appello, nell’imporre all’attuale ricorrente, il conferimento in collazione del premio unico versato dal defunto, ha violato le norme in materia, sotto una molteplicità di profili: a) perché B.S. non era il beneficiario della polizza, ma solo il soggetto subentrato al contrante, privo peraltro del potere di variazione; b) perché egli non aveva ricevuto alcunché dal defunto, e non potendosi imporre a suo carico l’obbligo di collazione di un premio volto in ipotesi a procurare un beneficio in favore di soggetti diversi; c) perché la natura del contratto rendeva persino aleatoria ed incerta l’esistenza e la misura beneficio.

  1. Il terzo e il quarto motivo, da esaminare congiuntamente, sono infondati.
  2. Si può ritenere acquisito che l’assicurazione di cui si discute nella presente causa fu stipulata dal de cuius non sulla propria vita, ma sulla vita del figlio B.S..

Si trattava inoltre di una polizza c.d. mista sulla vita del terzo, sia “per il caso di vita” sia “per il caso di morte”.

Si intende per assicurazione sulla vita “per il caso di vita” quella in cui l’assicuratore è obbligato a pagare se a un dato momento una data persona (nel caso in esame B.S.) è ancora in vita. Nell’assicurazione sulla vita “per il caso di morte” l’assicuratore è obbligato a pagare se a un dato momento una data persona è morta.

Nel caso in esame, il de cuius (contraente), per il caso di vita, aveva riservato a sé il beneficio; per il caso di morte la polizza fu stipulata a favore di terzo: secondo la sentenza gli eredi testamentari o legittimi dell’assicurato B.S., secondo gli scritti difensivi di parte “de nipoti del sig. B.A.” (pag. 17 del ricorso), “figli di B.S.” (pag. 5 del controricorso delle ricorrenti incidentali). Agli effetti che rilevano in questa sede la divergenza non incide minimamente sul significato giuridico dell’operazione. Si prevedeva ancora che, in caso di premorienza dello stipulante, nella posizione di contraente sarebbe subentrato l’assicurato.

  1. Si deve ora chiarire che la designazione di uno o più terzi beneficiari è sempre possibile e mai necessaria nel contratto di assicurazione sulla vita, in quanto anche al di fuori dei casi in cui il contraente riservi espressamente a sé stesso la somma assicurata, una designazione generica o specifica di uno o più beneficiari può sempre mancare, senza che il contratto ne soffra. Insomma, la designazione del beneficiario (che può essere coeva o successiva alla sottoscrizione del contratto: art. 1920 c.c., comma 2), è elemento normale del contratto di assicurazione sulla vita, ma non essenziale. Potrà darsi il caso che il contraente decida, ab origine, di riservare a proprio vantaggio il capitale o la rendita assicurata; è anche perfettamente concepibile che la designazione del terzo beneficiario manchi in toto: nell’uno e nell’altro caso, evidentemente, il diritto alla somma assicurata, entrerà nel patrimonio del contraente e si trasferisce ai suoi eredi, secondo le comuni norme sulla successione ereditaria (Cass. n. 7683/2015 in motivazione). Lo stesso dicasi quando l’originaria designazione venga revocata (art. 1921 c.c.), senza essere, in seguito, sostituita da una nuova. Il punto è controverso in dottrina.
  2. Si deve dare inoltre per acquisito che la polizza stipulata dal de cuius aveva contenuto finanziario. Per polizze vita a contenuto finanziario si intendono le polizze in cui la componente vita e di investimento risulta preponderante rispetto a quella demografica-previdenziale tipica delle polizze di assicurazioni sulla vita c.d. “tradizionali” di cui all’art. 1882 c.c. Senza che sia minimamente necessario approfondire la tematica, ai fini che interessano in questa sede, è sufficiente il rilievo che, nelle polizze di tipo classico, l’assicurato mira generalmente a garantire la disponibilità di una somma a familiari ovvero a terzi al momento della propria morte ed il rischio di perdita del capitale è pari a zero, essendo predeterminato l’importo da erogare al contraente o al beneficiario alla scadenza del contratto. Invece, nelle polizze a contenuto finanziario, al posto dell’obbligo restitutorio in capo all’impresa di assicurazione, viene conferito una sorta di mandato di gestione del denaro investito e l’investitore matura il diritto al mero risultato di gestione che quindi varia in base a una serie di fattori: l’andamento del mercato, dei titoli investiti, eccetera. Il riferimento è in particolare alle polizze unit e index linked, il cui rendimento, nel primo caso, è parametrato all’andamento di fondò comuni di investimento e, nel secondo, ad indici di vario tipo, generalmente titoli azionari. L’elemento caratterizzante tale tipologie di polizze è dunque il rischio finanziario, che, nelle così dette linked “pure” grava interamente sull’assicurato, poiché la compagnia non garantisce né la restituzione del capitale, né eventuali rendimento minimi.
  3. Costituisce principio acquisito che, in tema di polizza vita, la designazione dà luogo a favore del beneficiario a un acquisto iure proprio ai vantaggi dell’assicurazione (art. 1920 c.c.), anche se sottoposto alla condizione risolutiva della mancata revoca della designazione (Cass. n. 3263/2016). Iure proprio vuol dire che il diritto trova la sua fonte nel contratto e non entra a far parte del patrimonio ereditario dello stipulante (Cass., S.U., n. 11421/2021; n. 25635/2018; n. 15407/2000). E’ opinione unanime, in dottrina e in giurisprudenza, che la designazione del beneficiario sia un negozio unilaterale, personalissimo e non recettizio, con cui il contraente individua in modo generico o specifico il destinatario della prestazione dell’assicuratore (Cass. n. 4833/1978).
  4. Ex art. 1923 c.c., comma 2, in tema di assicurazione sulla vita a favore di un terzo, le norme sulla collazione e sulla riduzione sono fatte salve in riferimento ai primi pagati dallo stipulante non alle somme percepite dal beneficiario.

La Suprema Corte ha chiarito che le polizze sulla vita, aventi contenuto finanziario, nelle quali sia designato come beneficiario un soggetto terzo non legato al contraente da vincolo di mantenimento, sono configurabili, fino a fino a prova contraria, come “donazioni indirette” a favore dei beneficiari delle polizze stesse (Cass. n. 3263/2016). Si rileva che è il pagamento del premio che costituisce pertanto il c.d. “negozio mezzo” (l’assicurazione) utilizzato per conseguire gli effetti del “negozio fine” (la donazione). Sono i premi pagati, pertanto, che comportano liberalità atipica, non il contratto di assicurazione, che non può considerarsi quale uno degli atti di liberalità contemplati dall’art. 809 c.c. (Cass. n. 7683/2015).

Il rilievo è esatto, perché, la natura finanziaria delle polizze pone problemi diversi, ad esempio se sia applicabile l’art. 1923 c.c., comma 1, secondo cui le somme dovute dall’assicuratore in base a un’assicurazione sulla vita “non possono essere sottoposte ad azione esecutiva o cautelare”. Si osserva che questo regime di favore per l’assicurato consistente nella impignorabilità e nella insequestrabilità della prestazione assicurativa – si giustificherebbe in base al fatto che le polizze vita sono strumenti volti alla previdenza e al risparmio. Ove, per contro, una polizza sia contratta a fini esclusivamente speculativi (ravvisabili, anche solo in parte, nei contratti linked), essa non potrà godere della specifica tutela riconosciuta dalla norma. Ora, e senza che sia minimamente necessario in questa sede indagare oltre su tale questione, si può tranquillamente riconoscere che il dibattito sulla natura delle polizze aventi contenuto finanziario non riguarda l’idoneità dello strumento a realizzare una donazione indiretta, “che può realizzarsi nei modi più vari, essendo caratterizzata dal fine perseguito di realizzare una liberalità e non già dal mezzo, che può essere il più vario nei limiti consentito dall’ordinamento (Cass. n. 21449/2015; n. 3134/2012; n. 5333/2004). In quanto all’aleatorietà del beneficio, si nota in dottrina che, nelle assicurazioni sulla vita in genere, l’arricchimento del beneficiario non sta nell’indennità, che è sempre eventuale e aleatoria, ma nell’acquisto del diritto ai vantaggi economici dell’operazione, cui corrisponde il depauperamento del donante. Le successive diminuzioni possono essere considerate ai fini della collazione, ma non fanno perdere all’atto il carattere di donazione. Tanto questo è vero che è applicabile alla designazione l”art. 775 c.c. e “se compiuta da un incapace naturale, è annullabile a prescindere dal pregiudizio che quest’ultimo possa averne risentito” (Cass. n. 7683/2015 cit..).

  1. L’art. 741 c.c., dice soggetto a collazione ciò che il defunto ha speso a favore dei suoi discendenti per assegnazioni fatte a causa di matrimonio, per avviarli all’esercizio di un’attività produttiva o professionale, per soddisfare premi relativi a contratti di assicurazione sulla vita a loro favore o per pagare i loro debiti.

Quanto alle spese fatte per soddisfare premi relativi a contratti di assicurazione, a favore dei discendenti (propria o dei discendenti medesimi), è opinione concorde degli interpreti che la norma comprende sia l’ipotesi dell’assicurazione stipulata dal discendente sulla propria vita, sub specie di pagamento del debito altrui, sia l’assicurazione sulla vita del discendente (o del de cuius), che rientra nello schema della donazione indiretta, sub specie di contratto a favore di terzo. Per il discendente, infatti, ottenere l’indennizzo o assicurarlo ai propri familiari, dopo la propria morte, può infatti rappresentare un vantaggio non meno rilevante che l’intraprendere un’attività lucrativa. Si avrebbe invece donazione diretta in ipotesi di messa a disposizione del discendente delle somme necessarie per pagare i premi di assicurazione sulla vita di lui. In generale si rileva che l’art. 741 c.c., risulterebbe meramente indicativo di singole elargizioni da ritenersi comprese nell’ampia dizione dell’art. 737 c.c., facente riferimento a tutto ciò che i discendenti o il coniuge hanno ricevuto per donazione, direttamente o indirettamente, e pertanto privo di autonoma portata normativa, perché le elargizioni prevista dalla norma ricadrebbero sotto lo schema generale dell’art. 737 c.c..

  1. E’ incontroverso che la polizza stipulata dal de cuius prevedeva che, in caso di premorienza del contraente rispetto all’assicurato, il posto del contraente fosse preso dall’assicurato medesimo, il quale diveniva beneficiario della polizza per il “caso di vita”.
  2. In conclusione, la fattispecie negoziale, al momento della morte dello stipulante, vedeva B.S. tenuto al conferimento del premio per il “caso di vita”, nell’ipotesi, di fatto verificatasi, di premorienza del contraente rispetto all’assicurato. Lo vedeva inoltre tenuto al conferimento anche per il “caso di morte”, in forza dell’art. 741 c.c., pur essendo egli l’assicurato e non il beneficiario dei vantaggi della polizza, destinati agli eredi di lui, ossia del medesimo B.S.. E’ stato chiarito che, ai fini della collazione e della riunione fittizia, il pagamento dei premi di un’assicurazione per conto di un terzo, è avvicinabile all’adempimento di un obbligo altrui, al quale e’, appunto, apparentato dall’art. 741 c.c..
  3. Nelle polizze vita in genere, anche fuori dall’ambito delle polizze a contenuto finanziario, potrà avvenire che il capitale assicurato si rilevi di fatto inferiore ai premi, che costituiscono in linea di principio l’oggetto del conferimento ex art. 2923 c.c., comma 2. L’obbligo di collazione va precisato nel senso che si deve conferire la minore somma tra l’ammontare dei premi pagati e il capitale, non potendo la collazione avere per oggetto che il vantaggio conseguito dal discendente. Se poi l’evento, condizionante il diritto all’indennizzo, non si sia ancora verificato all’apertura della successione, il discendente è intanto tenuto al conferimento del premio, salva la necessità, in favore del discendente stesso o dei suoi eredi, di procedere a un nuovo conteggio qualora l’indennità si rilevi in seguito inferiore. E’ naturale che l’onere3.di provare conseguimento di un vantaggio minore rispetto al premio, sia a carico del beneficiario o degli eredi di lui subentrati nell’obbligo di conferimento. La Corte d’appello, nel rilevare che B.S. non aveva dato la prova di un arricchimento minore rispetto al premio pagato dal defunto, ha fatto esatta applicazione del generale principio di vicinanza della prova (Cass. n. 9099/2012; n. 8018/2021).
  4. Il quinto motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 737 c.p.c., in relazione all’arto. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

La sentenza è oggetto di censura laddove la corte d’appello ha imposto a carico dell’attuale ricorrente l’obbligo di collazione della somma di Lire 100.000.000. Si sostiene che il principio, applicato dalla sentenza impugnata, circa l’insorgenza automatica dell’obbligo di collazione anche in assenza di apposita domanda, implica pur sempre l’individuazione, ad opera della parte, della specifica donazione da conferire. Il ricorrente rileva che le attrici, nel proporre la domanda, non avevano dedotto alcunché, né avevano lamentato lesione di legittima. In effetti la donazione era stata dedotta dall’attuale ricorrente con la domanda riconvenzionale proposta in primo grado.

Il motivo è infondato. La donazione di denaro, come riconosce la Corte d’appello, era stata ammessa dall’attuale ricorrente in sede di interrogatorio formale. Al cospetto di una tale ammissione la Corte d’appello ha fatto corretta applicazione del principio, consolidato nella giurisprudenza della Corte, secondo cui l’obbligo della collazione sorge automaticamente a seguito dell’apertura della successione e i beni donati devono essere conferiti indipendentemente da una espressa domanda dei condividenti, mentre chi eccepisce un fatto ostativo alla collazione ha l’onere di fornirne la prova (Cass. n. 1159/1995; n. 18625/2010; n. 8507/2011).

  1. Il primo motivo del ricorso incidentale denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1147 e 553 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

La sentenza è oggetto di censura nella parte in cui la corte d’appello ha negato alle legittimarie attrici la qualità di terzi ai fini della prova della simulazione dell’atto di disposizione compiuto dal de cuius, nonostante esse avessero proposto anche domanda di riduzione. Si sostiene che i principi che hanno indotto la Corte di merito a dichiarare inammissibile la domanda operano nella successione testamentaria, non nella successione legittima.

Il motivo è infondato. In relazione agli oneri di deduzione imposti al legittimario che agisce in riduzione, la Corte d’appello ha richiamato il principio secondo “il legittimario che proponga l’azione di riduzione ha l’onere di indicare entro quali limiti sia stata lesa la sua quota di riserva, determinando con esattezza il valore della massa ereditaria nonché quello della quota di legittima violata dal testatore. A tal fine, l’attore ha l’onere di allegare e comprovare tutti gli elementi occorrenti per stabilire se, ed in quale misura, sia avvenuta la lesione della sua quota di riserva (potendo solo in tal modo il giudice procedere alla sua reintegrazione), oltre che di proporre, sia pure senza l’uso di formule sacramentali, espressa istanza di conseguire la legittima, previa determinazione della medesima mediante il calcolo della disponibile e la susseguente riduzione delle donazioni compiute in vita dal de cuium (Cass. n. 1357/2017; n. 14473/2011).

Questo orientamento è stato di recente oggetto di significative precisazioni da parte della recente giurisprudenza della Corte, per la quale “I principi di giurisprudenza sugli oneri di deduzione imposti al legittimario che agisce in riduzione non possono essere intesi nel senso che il legittimario è tenuto a precisare nella domanda la entità monetaria della lesione, ma piuttosto che la richiesta della riduzione di disposizioni testamentarie o donazioni deve essere giustificata alla stregua di una rappresentazione patrimoniale tale da rendere verosimile, anche sulla base di elementi presuntivi, la sussistenza della lesione di legittima” (Cass. n. 17926/2020; n. 18199/2020).

Si chiarisce che, nel proporre la domanda di riduzione, il legittimario, senza l’uso di formule sacramentali, deve denunciare la lesione di legittima; che, a sua volta, la denuncia della lesione implica un confronto fra quanto il legittimario consegue, come erede legittimo o testamentario, e quanto avrebbe diritto di ricevere come erede necessario; che il confronto, per forza di cose, avviene in base a una certa rappresentazione patrimoniale, che il legittimario deve indicare nei suoi estremi essenziali già nella domanda, perché la lesione di legittima deve essere enunciata in termini concreti e non come pura eventualità (Cass. n. 276/1964).

Gli oneri imposti al legittimario che propone l’azione di riduzione si atteggiano allo stesso modo tanto nella successione legittima, quanto nella successione testamentaria; mentre è vero solo che questi oneri subiscono una ulteriore semplificazione nel caso di domanda di riduzione proposta dal legittimario preterito (Cass. n. 5458/2017) e nella ipotesi di domanda di riduzione proposta dal legittimario, erede ab intestato, nel caso di integrale esaurimento del patrimonio mediante donazioni (Cass. n. 16535/2020).

La Corte d’appello, seppure si sia riferita al precedente orientamento della giurisprudenza di legittimità, ha posto l’accento, nello stesso tempo, sulla genericità della domanda di riduzione proposta dalle attuali ricorrenti incidentali. Si evidenzia che, con la stessa domanda non era stata ” addotta alcuna lesione di legittima”. Grazie a tale rilievo, la sentenza impugnata rimane in linea con la giurisprudenza di legittimità anche a volere considerare le precisazioni fatte dalle più recenti pronunce intervenute in materia, che escludono anch’esse l’ammissibilità di domande di riduzione, nelle quali la lesione sia solo genericamente enunciata.

1.1. Con il motivo in esame, le ricorrenti richiamano i principi giurisprudenziali in base ai quali, ai fini della prova della simulazione di atti di disposizione compiuti dal de cuius, il legittimario potrebbe assumere la veste di terzo anche se non sia stata proposta domanda di riduzione e pure in assenza di disposizioni testamentarie (Cass. n. 12317/2019). Il principio è certamente esatto, ma il suo richiamo non giova alla tesi delle ricorrenti incidentali. E’ esatto che la qualità di terzo è riconosciuta al legittimario in quanto tale, anche se non si ponga una questione di riduzione, ma questo non vuol dire che il legittimario, solo perché legittimario, quando impugni per simulazione un atto compiuto dal de cuius, venga a trovarsi sempre e comunque nella veste di terzo e non in quella del contraente (Cass. n. 7134/2001). Perché gli sia riconosciuta la veste di terzo occorre che l’accertamento della simulazione sia richiesto dal legittimario in tale specifica veste, per rimediare a una lesione di legittima, intesa l’espressione in senso ampio, modo da comprendere non solo la reintegrazione in senso proprio, tramite la riduzione della donazione dissimulata, ma anche il recupero all’asse ereditario del bene oggetto di alienazione simulata ovvero di donazione dissimulata nulla per difetto di forma (Cass. n. 8215/2013; n. 19468/2005).

La motivazione data dalla Corte di merito, nella parte in cui ha posto in luce la genericità della deduzione della lesione di legittima, è in linea con la giurisprudenza di legittimità da questo diverso punto di vista.

  1. Il secondo motivo denuncia violazione dell’art. 342 c.p.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio.

Le ricorrenti si dolgono perché la corte d’appello ha ritenuto che non fosse stata da loro impugnata la statuizione del primo giudice nella parte in cui questi aveva ritenuto che fossero stati indicati, nel termine accordato per le deduzioni istruttorie, gli elementi presuntivi idonei a confermare la simulazione della vendita delle quote sociali intercorsa fra il defunto e il figlio. Si sostiene che in appello furono indicati una pluralità di elementi idonei dare corpo all’ipotesi della simulazione.

Il motivo è inammissibile, perché si dirige contro ratio aggiuntiva priva di effettiva incidenza sulla decisione, che si regge interamente sulla riconosciuta mancanza delle condizioni per accordare al legittimario la qualità di terzo: quindi sulla riconosciuta inammissibilità della prova per presunzioni già in linea di principio. Si sa che la censura che investa una considerazione della sentenza impugnata che non abbia spiegato alcuna rilevanza sul dispositivo è inammissibile per difetto di interesse (Cass. n. 10420/2005; n. 8087/2007).

  1. Il terzo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 428 c.c. in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

E’ oggetto di censura il rigetto della domanda di annullamento, per incapacità naturale del defunto, della vendita di quote sociale intercorsa fra il genitore e B.S.. Si sostiene che, in base agli elementi istruttori, la domanda andava invece accolta, essendo stata raggiunta sia la prova dell’incapacità, sia la prova della mala fede dell’altro contraente.

Il motivo è inammissibile: si censura la valutazione delle prove da parte della Corte d’appello, intendendosi accreditare in questa sede una lettura degli elementi istruttori diversa rispetto a quella compiuta dal giudice di merito (Cass., S.U., n. 34476/2019), che ha dato congrua e adeguata valutazione del proprio convincimento. La Corte d’appello, infatti, ha esaminato la deposizione testimoniale ritenendo che da questa emergessero solo i disturbi e i malesseri tipici dell’età avanzata. Si legge nella sentenza impugnata che “il B. dimenticava dove posava gli oggetti e aveva difficoltà a scrivere e di faceva aiutare, ma dettava gli importi degli assegni e li sottoscriveva, evidenziando, quindi la piena consapevolezza delle proprie scelte e disposizioni”.

Tale apprezzamento, esente da vizi logici o giuridici, è incensurabile in questa sede (Cass. n. 17977/2011; n. 515/2004).

  1. Il quarto motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

La sentenza è oggetto di censura laddove i giudici d’appello hanno negato la natura liberale della intestazione congiunta dei titoli, in nome del de cuius e del figlio B.S., presso la Banca Fideuram. Si richiamano in proposito i principi di giurisprudenza sulla insorgenza automatica dell’obbligo di collazione all’apertura della successione. Tali principi sono intesi dalle ricorrenti incidentali nel senso che spettava al donatario provare l’esistenza di un fatto ostativo alla collazione, mentre la Corte d’appello ha invece posto a carico delle attuali ricorrenti incidentali l’onere di dare la prova di un effetto (la collazione, appunto) che, in base alla giurisprudenza, consegue automaticamente dall’apertura dalla successione.

Il motivo è infondato. Esso è ispirato a una improponibile interpretazione del principio secondo cui “In presenza di donazioni fatte in vita dal de cuius, la collazione ereditaria – in entrambe le forme previste dalla legge, per conferimento del bene in natura ovvero per imputazione – è uno strumento giuridico volto alla formazione della massa ereditaria da dividere al fine di assicurare l’equilibrio e la parità di trattamento tra i vari condividenti, così da non alterare il rapporto di valore tra le varie quote, da determinarsi, in relazione alla misura del diritto di ciascun condividente, sulla base della sommatoria del relictum e del donatum al momento dell’apertura della successione, e quindi garantire a ciascuno degli eredi la possibilità di conseguire una quantità di beni proporzionata alla propria quota. Ne consegue che l’obbligo della collazione sorge automaticamente a seguito dell’apertura della successione (salva l’espressa dispensa da parte del de cuius nei limiti in cui sia valida) e che i beni donati devono essere conferiti indipendentemente da una espressa domanda dei condividenti, essendo sufficiente a tal fine la domanda di divisione e la menzione in essa dell’esistenza di determinati beni, facenti parte dell’asse ereditario da ricostruire, quali oggetto di pregressa donazione. Incombe in tal caso sulla parte che eccepisca un fatto ostativo alla collazione l’onere di fornirne la prova nei confronti di tutti gli altri condividenti” (Cass. n. 15131/2005).

Infatti, tale principio vuol dire che la collazione opera in presenza di donazioni, senza necessità di domanda, incombendo a colui che neghi l’operatività dell’istituto di fornire la prova del fatto impeditivo. Ma, appunto, il principio opera a condizione che risulti l’esistenza di donazioni. Queste, qualora non risultino in modo palese, debbono essere provare da chi le deduce. Insomma, si presume l’obbligo del conferimento della donazione che risulti oggettivamente o sia stata provata, non si presume invece l’esistenza della donazione solo perché ne sia stato chiesto il conferimento. Le ricorrenti intendono invece il principio come se dicesse che chi chieda la collazione può limitarsi a dedurre la esistenza di donazioni, spettando agli altri fornire la prova del contrario: il che, in verità, è conclusione che nessuno ha mai pensato di sostenere.

  1. In conclusione, sono rigettati sia il ricorso principale, sia il ricorso incidentale.

Avuto riguardo alla particolarità della vicenda si ravvisa la sussistenza di giusti motivi per compensare, fra tutte le parti, le spese di lite.

Ci sono le condizioni per dare atto D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13, comma 1-quater, della “sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale e delle ricorrenti incidentali, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto”.

 

P.Q.M.

rigetta il ricorso principale e il ricorso incidentale; dichiara compensate fra tutte le parti le spese del presente giudizio; ai sensi delD.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale e delle ricorrenti incidentali, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 10 giugno 2021.

Depositato in Cancelleria il 22 ottobre 2021

E’ dovuto l’indennizzo in caso di assicurazione privata per malattia e “garanzia per l’invalidità permanente” in caso di malattie mortali ?

 

Cassazione civile sez. III – 17/03/2015, n. 5197

Con un arresto non recentissimo la Suprema Corte di Cassazione ha affermato il seguente principio: “L’invalidità permanente costituisce uno stato menomativo, stabile e non remissibile, che si consolida soltanto all’esito di un periodo di malattia e non può quindi sussistere prima della sua cessazione; ne consegue che, se un contratto di assicurazione prevede il pagamento di un indennizzo nel caso di invalidità permanente conseguente a malattia, nessun indennizzo è dovuto se la malattia, senza guarigione clinica, abbia avuto esito letale

IL CASO. Parte attrice chiedeva in giudizio il pagamento di un indennizzo, affermando che il proprio congiunto aveva stipulato una polizza assicurativa a copertura del rischio di invalidità permanente causata da malattia, nonché che aveva poi contratto un tumore allo stomaco, malattia che lo condusse a morte.
La Suprema Corte, rifacendosi a principi medico legali, ribadisce che l’esistenza di una malattia in atto e l’esistenza di uno stato di invalidità permanente non sono tra loro compatibili: sinché durerà la malattia, permarrà uno stato di invalidità temporanea, ma non v’è ancora invalidità permanente; se la malattia guarisce con postumi permanenti si avrà uno stato di invalidità permanente, ma non vi sarà più invalidità temporanea; se la malattia dovesse condurre a morte dell’ammalato, essa avrà causato solo un periodo di invalidità temporanea. Secondo i principi medicolegali, a qualsiasi lesione dell’integrità psicofisica consegue sempre un periodo di invalidità temporanea, alla quale può conseguire talora un’invalidità permanente. La nozione medicolegale di invalidità permanente presuppone che la malattia sia cessata, e che l’organismo abbia riacquistato il suo equilibrio, magari alterato, ma stabile.
Ciò non avviene quando, come nel caso in questione, l’evoluzione della malattia porta alla morte.

 

Il testo della sentenza 

Cassazione civile sez. III – 17/03/2015, n. 5197

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RUSSO     Libertino Alberto                 –  Presidente   –

Dott. SPIRITO   Angelo                            –  Consigliere  –

Dott. STALLA    Giacomo Maria                     –  Consigliere  –

Dott. CARLUCCIO Giuseppa                          –  Consigliere  –

Dott. ROSSETTI  Marco                        –  rel. Consigliere  –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 20873/2011 proposto da:

F.C.   (OMISSIS),                    F.G.

(OMISSIS),                F.A.  (OMISSIS),  tutti

nella loro qualità di eredi dei defunti            F.R. E      S.

M.L.,  elettivamente domiciliati in ROMA

– ricorrenti –

contro

H ASSICURAZIOII

(OMISSIS),  in  persona del procuratore  speciale  Dott.      T.

R.,  elettivamente domiciliata in ROMA

– controricorrente –

avverso  la  sentenza  n. 90/2011 della CORTE  D’APPELLO  di  MILANO,

depositata il 17/01/2011, R.G.N. 2301/2006;

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

  1. Nel 2003 i sigg.ri S.M.L., F.C., F.A. e F.G. convennero dinanzi al Tribunale di Milano la società “H ASSICURAZIONI, esponendo che:

(-) nel 1995 il proprio congiunto F.R. aveva stipulato una polizza assicurativa a copertura:

(a) del rischio di invalidità permanente causata da malattia;

(b) del rischio di degenza ospedaliera causata da malattia;

(-) nel 2001 F.R. contrasse un tumore allo stomaco;

venne perciò ricoverato ed operato; la malattia tuttavia lo condusse a morte nel 2002;

(-) l’assicuratore aveva rifiutato il pagamento sia dell’indennizzo dovuto per l’ipotesi di invalidità permanente, sia di quello dovuto per l’ipotesi di malattia.

  1. Con sentenza 28.2.2006 il Tribunale di Milano accolse la domanda.

La sentenza venne impugnata dalla H ASSICURAZIONI.

Con sentenza 17.1.2011 la Corte d’appello Milano confermò la condanna dell’assicuratore al pagamento dell’indennizzo dovuto per il rischio di degenza ospedaliera; rigettò invece la domanda di condanna al pagamento dell’indennizzo dovuto per il rischio di invalidità permanente.

Ritenne la Corte d’appello che rispetto alla copertura per invalidità permanente il rischio assicurato nella specie non si fosse mai avverato, perchè la malattia contratta dall’assicurato ebbe esito letale: di conseguenza, non essendo mai avvenuta la guarigione clinica, mai potevano essersi consolidati postumi permanenti di sorta.

  1. La sentenza d’appello è stata impugnata per cassazione (in base a tre motivi di ricorso) da F.C., F.A. e F.G., i quali hanno dichiarato di agire anche quali eredi di S.M.L., deceduta nelle more del giudizio.

Ha resistito con controricorso la H ASSICURAZIONI.

MOTIVI DELLA DECISIONE

  1. Il primo motivo di ricorso.

1.1. Col primo motivo di ricorso i ricorrenti lamentano che la sentenza impugnata sia affetta dal vizio di violazione di legge, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3.. Assumono violati gli artt. 1325 e 1882 c.c..

Espongono, al riguardo, che il contratto di assicurazione stipulato da F.R. copriva il rischio di “invalidità permanente”, definito nelle condizioni generali come la “perdita o diminuzione, definitiva irrimediabile, della capacità dell’esercizio della propria professione (…) e di ogni altro lavoro (…), conseguente a malattia”.

Nel caso di specie l’assicurato, a causa del tumore, perse la capacità di lavoro: e dunque si era avverato il rischio assicurato.

La Corte d’appello invece, aveva – errando – ritenuto che nella specie nessuna “invalidità permanente” fosse insorta, perchè quest’ultima è concepibile solo quando, guarita la malattia, questa abbia lasciato postumi permanenti all’ammalato.

1.2. Il motivo è inammissibile.

Ad onta della sua intitolazione formale, infatti, il motivo pone esclusivamente una questione di interpretazione del contratto: ovvero quale dovesse essere il senso da attribuire all’espressione “invalidità permanente” in esso contenuta.

Le norme che i ricorrenti assumono violate (gli artt. 1325 e 1882 c.c.) sono del tutto irrilevanti nel presente giudizio, nel quale mai si è fatta questione nè di quali fossero gli elementi essenziali del contratto (art. 1325 c.c.), nè del fatto che quello stipulato tra le parti fosse un contratto di assicurazione (art. 1882 c.c.).

Nè ovviamente è consentito a questa Corte supplire a carenze motivazionali dei ricorsi, andando a ricercare d’ufficio quali fossero le norme che il ricorrente intendeva assumere come violate.

  1. Il secondo motivo di ricorso.

2.1. Col secondo motivo di ricorso i ricorrenti lamentano, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, che la sentenza impugnata abbia violato le regole legali di ermeneutica di cui agli artt. 1362, 1363 e 1366 c.c..

2.1.1. Il criterio di interpretazione letterale sarebbe stato violato a causa del senso attribuito dalla Corte d’appello all’espressione “invalidità permanente”. Espongono i ricorrenti che secondo l’interpretazione del giudice di merito una invalidità permanente può concepirsi solo quando la malattia sia esaurita ed il paziente sia guarito con postumi: ma tale interpretazione sarebbe in contrasto con la chiara lettera del contratto, che definiva l’invalidità come la perdita definitiva della capacità di lavoro, perdita che nel caso di specie si è verificata già nel corso della malattia patita dall’assicurato, a nulla rilevando che la malattia stessa fosse inguaribile ed abbia condotto a morte l’assicurato, e quindi che non sia mai avvenuta una guarigione clinica.

2.1.2. La Corte d’appello avrebbe trascurato, poi, di valutare la condotta delle parti successiva alla conclusione del contratto: ed infatti nella fase stragiudiziale la H ASSICURAZIONI aveva rifiutato il pagamento dell’indennizzo assumendo che il diritto all’indennizzo non fosse trasferibile agli eredi, mentre nulla aveva eccepito circa la sussistenza nella specie d’un danno da invalidità temporanea.

2.1.3. La Corte d’appello avrebbe violato altresì il criterio di interpretazione complessiva del contratto (art. 1363 c.c.), là dove ha desunto la nozione di “invalidità permanente” posta a fondamento della decisione dalla clausola contrattuale che impediva l’accertamento della suddetta invalidità prima del decorso d’un anno dalla denuncia della malattia: clausola che, secondo i ricorrenti, disciplinava il quantum dell’indennizzo e non l’indennizzabilità dell’infortunio.

2.1.4. Infine, i ricorrenti lamentano che la decisione del Tribunale abbia violato il criterio di interpretazione del contratto secondo buona fede (art. 1366 c.c.), perchè escluderebbe l’indennizzabilità di tutte le malattie ad esito infausto, alterando l’equilibrio contrattuale e “l’equo contemperamento degli interessi delle parti”.

2.2. Il motivo è manifestamente infondato in tutti e quattro i profili in cui si articola.

Non vi è stata, in primo luogo, alcuna violazione del criterio di interpretazione letterale.

La Corte d’appello era chiamata infatti ad interpretare un contratto di assicurazione contro le malattie.

L’assicuratore, in forza di tale contratto, si era obbligato al pagamento in favore dell’assicurato d’un indennizzo nel caso in cui la malattia avesse causato una “invalidità permanente”.

Quest’ultima era contrattualmente definita come la “perdita o diminuzione, definitiva e irrimediabile, della capacità dell’esercizio della propria professione (…) e di ogni altro lavoro (…), conseguente a malattia”.

Secondo la Corte d’appello, la suddetta “perdita o diminuzione” non potrebbe che concepirsi una volta esaurita la fase acuta della malattia.

Secondo i ricorrenti, invece, una “invalidità permanente” potrebbe concepirsi anche a malattia in corso, quando questa sia destinata ad avere un esito infausto.

2.3. L’interpretazione letterale propugnata dai ricorrenti è erronea.

Un contratto è un testo giuridico.

Le espressioni in esso contenute, se potenzialmente ambivalenti, vanno interpretate secondo il senso che è loro proprio nel contesto giuridico, non certo secondo il buon senso od il linguaggio comune.

Il lemma “invalidità” è un lemma tecnico. Esso è frutto di una elaborazione ormai quasi secolare in ambito medico legale.

Essa designa uno stato menomativo che può essere transeunte (invalidità temporanea) o permanente (invalidità permanente).

L’espressione “invalidità temporanea” designa lo stato menomativo causato da una malattia, durante il decorso di questa.

L’espressione “invalidità permanente” designa lo stato menomativo che residua dopo la cessazione d’una malattia.

L’esistenza d’una malattia in atto e l’esistenza di uno stato di invalidità permanente non sono tra loro compatibili: sinchè durerà la malattia, permarrà uno stato di invalidità temporanea, ma non v’è ancora invalidità permanente; se la malattia guarisce con postumi permanenti si avrà uno stato di invalidità permanente, ma non vi sarà più invalidità temporanea; se la malattia dovesse condurre a morte l’ammalato, essa avrà causato solo un periodo di invalidità temporanea.

2.4. I principi appena esposti sono stati mutuati dal legislatore in numerosissime norme. Per tutte, basterà ricordare:

(a) il D.Lgs. 7 settembre 2005, n. 209, art. 137, comma 1, (codice delle assicurazioni), il quale distinguendo il danno patrimoniale da inabilità temporanea rispetto a quello da invalidità permanente, implicitamente conferma che quest’ultima presuppone l’avvenuta guarigione, con postumi, della vittima;

(b) il D.Lgs. n. 209 del 2005, art. 138, comma 2, cit., il quale distingue anch’esso il danno non patrimoniale temporaneo da quello permanente (definito “invalidità permanente”), in tal modo dimostrando che l’invalidità permanente non può cominciare a computarsi sinchè duri l’invalidità temporanea;

(c) le infinite norme assicurative e previdenziali che, stabilendo la misura della invalidità permanente oltre la quale è dovuto il trattamento indennitario (due terzi, quattro quinti, eco), lasciano anch’esse intendere che in tanto è concepibile e misurabile una “invalidità permanente”, in quanto la malattia che l’ha causata sia cessata ed i postumi si siano stabilizzati: sarebbe infatti concepibile misurare i “due terzi” d’una validità instabile ed in divenire (cfr., ex permultis, l’art. 302, comma 2, cod. ass., in tema di danni indennizzabili dal fondo di garanzia vittime della caccia;

la L. 20 ottobre 1990, n. 302, art. 1, comma 1, in tema di provvidenze alle vittime del terrorismo).

2.5. I principi appena esposti, infine, sono già stati affermati da questa Corte, sia pure in fattispecie concrete diverse.

Infatti, chiamata a stabilire se spettasse o meno il risarcimento del danno biologico da invalidità permanente in un caso in cui le lesioni patite dalla vittima avevano causato la morte di questa a distanza di tempo dall’infortunio, questa Corte ha già stabilito che “se la morte della vittima è stata causata dalle lesioni, l’unico danno biologico risarcibile è quello correlato dall’inabilità temporanea, in quanto per definizione non è in questo caso concepibile un danno biologico da invalidità permanente. Infatti, secondo i principi medico-legali, a qualsiasi lesione dell’integrità psicofisica consegue sempre un periodo di invalidità temporanea, alla quale può conseguire talora un’invalidità permanente. Per l’esattezza l’invalidità permanente si considera insorta allorchè, dopo che la malattia ha compiuto il suo decorso, l’individuo non sia riuscito a riacquistare la sua completa validità.

Il consolidarsi di postumi permanenti può quindi mancare in due casi: o quando, cessata la malattia, questa risulti guarita senza reliquati; ovvero quando la malattia si risolva con esito letale. La nozione medicolegale di invalidità permanente presuppone, dunque, che la malattia sia cessata, e che l’organismo abbia riacquistato il suo equilibrio, magari alterato, ma stabile.

Si intende, pertanto, come nell’ipotesi di morte causata dalla lesione, non sia configurabile alcuna invalidità permanente in senso medicolegale: la malattia, infatti, non si risolve con esiti permanenti, ma determina la morte dell’individuo” (sono parole di Sez. 3, Sentenza n. 7632 del 16/05/2003, Rv. 563159, p.3.3 dei “Motivi della decisione”).

A tale decisione possono, infine, affiancarsi tutte le altre – numerosissime – le quali hanno negato che l’invalidità permanente e quella temporanea possano sovrapporsi (ad es., ai fini del decorso della prescrizione o della quantificazione del risarcimento): in tutte queste decisioni si è costantemente affermato che sino a quando perdura l’invalidità temporanea, non sorge quella permanente;

e quando viene ad esistenza quest’ultima, è necessariamente cessata la prima (così, ex aliis, Sez. 3, Sentenza n. 3806 del 25/02/2004, Rv. 570534, secondo cui “in tema di danno biologico, la cui liquidazione deve tenere conto della lesione dell’integrità psicofisica del soggetto sotto il duplice aspetto dell’invalidità temporanea e di quella permanente, quest’ultima è suscettibile di valutazione soltanto dal momento in cui, dopo il decorso e la cessazione della malattia, l’individuo non abbia riacquistato la sua completa validità con relativa stabilizzazione dei postumi. Ne consegue che il danno biologico di natura permanente deve essere determinato soltanto dalla cessazione di quello temporaneo, giacchè altrimenti la contemporanea liquidazione di entrambe le componenti comporterebbe la duplicazione dello stesso danno”).

L’interpretazione del contratto adottata dalla Corte d’appello, in conclusione, lungi dall’essere arbitraria rispetto al testo della polizza, è la sola coerente con quello, alla luce del seguente principio di diritto:

L’espressione “invalidità permanente” designa uno stato menomativo divenuto stabile ed irremissibile, consolidatosi all’esito di un periodo di malattia: pertanto, prima della cessazione di questa, non può esistere alcuna “invalidità permanente”. Ne consegue che, ove in un contratto di assicurazione contro i rischi di malattia, sia previsto il pagamento di un indennizzo nel caso di invalidità permanente conseguente a malattia, alcun indennizzo è dovuto nel caso in cui la malattia patita dall’assicurato, senza mai pervenire a guarigione clinica, abbia esito letale.

2.6. Nemmeno sussiste la violazione, da parte della Corte d’appello, del criterio di interpretazione fondato sulla condotta tenuta dalle parti dopo la stipula del contratto.

La circostanza che la H ASSICURAZIONI, nella fase delle trattative stragiudiziali, non abbia ritenuto di sollevare l’eccezione di non indennizzabilità del danno da invalidità permanente, è infatti irrilevante ai fini dell’interpretazione del contratto:

– sia perchè tale scelta costituisce frutto di una facoltà del debitore, ovviamente non preclusiva della facoltà di sollevare la suddetta eccezione in giudizio;

– sia perchè la “condotta delle parti” cui fa riferimento l’art. 1362 c.c., è quella esecutiva del contratto, non certo quella consistita nel replicare alla pretesa di adempimento formulata ex adverso;

– sia, soprattutto, perchè la condotta delle parti quale criterio interpretativo del contratto può venire in rilievo quando il testo non sia sufficientemente chiaro, e come si è visto nel caso di specie il testo contrattuale era chiarissimo.

2.7. Inammissibile, per difetto di concreta rilevanza, è poi l’allegazione secondo cui la Corte avrebbe violato il criterio dell’interpretazione complessiva (art. 1363 c.c.), là dove ha ritenuto di suffragare la propria decisione facendo leva sulla clausola contrattuale che impediva l’accertamento dell’invalidità permanente prima d’un anno dalla denuncia della malattia.

Nella struttura della sentenza impugnata, infatti, tale argomento viene utilizzato dalla Corte d’appello ad abundantiam, e dunque quale che ne fosse la correttezza, l’espunzione di esso dalla motivazione della sentenza, impugnata non renderebbe quest’ultima immotivata.

2.8. Insussistente, infine, è la violazione del criterio di interpretazione secondo buona fede: sia perchè anche tale criterio è suppletivo, e non viene in rilievo quando la lettera del contratto sia inequivoca; sia perchè è proprio l’interpretazione propugnata dai ricorrente a sovvertire l’equilibrio contrattuale, pretendendo il pagamento dell’indennizzo dovuto per l’invalidità permanente in un caso in cui la malattia dell’assicurato aveva causato la morte dell’assicurato, non la sua invalidità: così trasformando una polizza malattia in una polizza vita.

  1. Il terzo motivo di ricorso.

3.1. Col terzo motivo di ricorso i ricorrenti lamentano che la sentenza impugnata sia affetta da un vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5.

Espongono, al riguardo, che la Corte d’appello avrebbe adottato una motivazione lacunosa, non indicando la fonte della nozione di “invalidità permanente” da essa adottata.

3.2. Il motivo è tanto inammissibile quanto infondato.

E’ inammissibile perchè il vizio di motivazione è concepibile solo con riferimento all’accertamento di fatti, e nel presente giudizio non si controverte sull’accertamento del contenuto oggettivo del contratto (il quale soltanto costituirebbe un accertamento di fatto), ma sul senso da attribuire ad una clausola contrattuale il cui terso non è in discussione e sul rispetto, da parte del giudicante, dei criteri ermeneutici di cui all’art. 1362 c.c. e ss.: il che costituisce una questione di diritto, rispetto alla quale non è concepibile il vizio di motivazione, ma solo la violazione di legge.

Il motivo è tuttavia anche infondato, giacchè per quanto detto la nozione di “invalidità permanente” fatta propria dalla Corte d’appello è quella condivisa dalla unanime dottrina medico legale, dal legislatore e da questa Corte.

  1. Le spese.

Le spese del giudizio di legittimità vanno poste a carico dei ricorrenti, ai sensi dell’art. 385 c.p.c., comma 1.

 

P.Q.M.

la Corte di cassazione:

-) rigetta il ricorso;

-) condanna F.C., F.A. e F. G., in solido, alla rifusione in favore di H ASSICURAZIONI delle spese del presente grado di giudizio, che si liquidano nella somma di Euro 7.200, di cui 200 per spese vive, oltre I.V.A. ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 19 novembre 2014.

Depositato in Cancelleria il 17 marzo 2015

 

STUDIO © Copyright Giuffrè Francis Lefebvre S.p.A. 2023 14/06/2023

 

 

Polizze vita a favore degli eredi legittimi. Come individuare i beneficiari

La Corte di Cassazione,  in tema di assicurazione sulla vita in favore di un terzo, è stata ripetutamente  investita della questione concernente l’individuazione dei beneficiari. Tuttavia, si sono manifestate divergenze di opinioni al punto da generare un vero e proprio contrasto.  Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, pertanto, sono state chiamate a comporre il  conflitto ( con l’ordinanza n. 33195 del 16 dicembre 2019).

Un primo orientamento, più risalente ma   prevalente, tendeva a considerare  che il diritto del beneficiario alla prestazione trova fondamento nel contratto, ed è autonomo, e quindi non derivato da quello del contraente. Anche recentemente una Sezione della Corte  è tornata a riaffermare questa opinione.

Secondo l’opposto orientamento, ove la polizza prevedesse la corresponsione dell’indennizzo agli eredi testamentari o legittimi, alla morte dello stipulante, bisognava intendere che le parti (del contratto assicurativo) avessero: a) voluto individuare i beneficiari dei diritti nascenti dal negozio; b) determinare l’attribuzione dell’indennizzo in misura proporzionale alla quota in cui ciascuno è succeduto. Sempre secondo tale orientamento, in assenza di specificazioni, lo scopo perseguito dallo stipulante va interpretato come se avesse inteso assegnare il beneficio nella stessa misura regolata dalla successione, conformemente alla natura del contratto.

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione chiamate a comporre il contrasto sorto tra le varie Sezioni, con la recentissima sentenza n. 11421 del 30 Aprile 2021 che è possibile leggere in versione integrale al seguente link:

https://www.cortedicassazione.it/cassazione-resources/resources/cms/documents/11421_05_2021_no-index.pdf

hanno affermato i seguenti principi di diritto:

“ La designazione generica degli <<eredi>> come beneficiari di un contratto di assicurazione sulla vita, in una delle forme previste dal secondo comma dell’art. 1920 c.c., comporta l’acquisto di un diritto proprio ai vantaggi dell’assicurazione da parte di coloro che, al momento della morte del contraente, rivestano tale qualità in forza del titolo della astratta delazione indicata all’assicuratore per individuare i creditori della prestazione.

– La designazione generica degli <eredi> come beneficiari di un contratto di assicurazione sulla vita, in difetto di una inequivoca volontà del contraente in senso diverso, non comporta la ripartizione dell’indennizzo tra gli aventi diritto secondo le proporzioni della successione ereditaria, spettando a ciascuno dei creditori, in forza della eadem causa obligandi, una quota uguale dell’indennizzo assicurativo.

– Allorché uno dei beneficiari di un contratto di assicurazione sulla vita premuore al contraente, la prestazione, se il beneficio non sia stato revocato o il contraente non abbia disposto diversamente, deve essere eseguita a favore degli eredi del premorto in proporzione della quota che sarebbe spettata a quest’ultimo”.

Polizze vita:  i beneficiari  vanno individuati secondo il contratto o secondo le regole della successione ?

” Che l’intenzione comune alle parti debba essere considerata quella di far riferimento sia al modo che alla misura della successione che si verifichera’ e che risulti contemplata risulta conclusione giustificata per il fatto stesso che bene lo stipulante potrebbe, nell’individuare come beneficiari gli eredi testamentari o legittimi, specificare che essi non lo saranno in modo corrispondente alla quota di eredita’ devoluta, ma in misura egualitaria o diversa. Ne segue che nel silenzio dello stipulante la comune intenzione delle parti va ricostruita nel senso indicato.”  Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza n. 19210/15, depositata il 30 settembre )

Le polizze vita ed in particolare i criteri di ripartizione dell’indennizzo, sono oggetto di frequenti dispute tra assicuratori e  beneficiari dopo l’apertura della successione dello stipulante.

Sovente nella polizza l’individuazione dei beneficiari, per il caso morte, viene effettuata, utilizzando la formula “eredi legittimi o testamentari”.

La disputa, sovente, sorge in quanto l’assicuratore, sulla scorta di un orientamento giurisprudenziale ( e dottrinario) dimostratosi, sino a pochi anni addietro, unidirezionale, intende operare il riparto mediante assegnazione di quote uguali (in difetto di diversa esplicita  disposizione)  tra tutti i beneficiari a prescindere dalla misura in cui si verifica la successione, testamentaria o legittima che sia.

In sostanza sino alla pronuncia che si annota l’orientamento era quello di considerare del tutto indifferente il criterio di liquidazione dell’indennizzo assicurativo rispetto alle sorti della successione, sulla base del presupposto che la  identificazione dei beneficiari come  “eredi” non valga ad assoggettare il rapporto alle regole della successione ereditaria. Questo perché, secondo l’orientamento tradizionale, il diritto del beneficiario alla prestazione dell’assicuratore deve trovare fondamento nel contratto ed è autonomo, cioè non derivato da quello del contraente.

Con la sentenza che si annota la Corte capovolge l’orientamento in precedenza affermato da altre pronunce della stessa Corte, anche se risalenti. La tesi, indubbiamente suggestiva, muove da considerazioni di  natura esegetica e logica.

Secondo i giudici della III Sezione civile, se lo stipulante e la societa’ assicuratrice prevedono per il caso di morte dello stipulante come beneficiari gli eredi legittimi o gli eredi testamentari, la comune intenzione delle parti non puo’ che essere se non quella di voler alludere alla misura in cui la successione secondo l’uno a l’altro titolo si verifichera’.

Nel caso di specie, dunque, la pronuncia giunge ad affermare che – ove subentrino nel due eredi in forza di rappresentazione – l’attribuzione della liquidazione di una polizza assicurativa, deve effettuarsi “per stirpi” e non in quote uguali in favore dei beneficiari.

Testo della sentenza

Cassazione III Civile 19210 del 2015 Presidente: VIVALDI ROBERTA Relatore: FRASCA RAFFAELE Data pubblicazione: 29/09/2015
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO.

  • 1. Con sentenza del 5 aprile 2012 la Corte d’Appello di Venezia ha rigettato l’appello proposto da Tizio Tizio contro la sentenza del , Tribunale di Bassano del Grappa del 28 novembre 2011, che aveva rigettato la domanda da lei proposta contro la Alfa per ottenere il riconoscimento della maggior somma a suo dire dovuta rispetto a quella che le era stata liquidata dalla convenuta, nella misura di un terzo, quale quota dell’indennizzo previsto da una polizza di assicurazione sulla vita stipulata dal marito Caio Caio, a seguito del decesso del medesimo.

La ricorrente, a fondamento della domanda aveva dedotto che la compagnia assicuratrice, sulla base di una clausola contrattale che prevedeva come beneficiari gli eredi testamentari o legittimi dello stipulante de cuius, aveva proceduto alla liquidazione dell’indennizzo erroneamente, cioe’ dividendolo in parti eguali fra i tre eredi legittimi del medesimo, id est fra la ricorrente ed i suoi due nipoti, figli della sorella del de cuius, a lui premorta, anziche’ liquidare ad essa deducente la meta’ della somma, soluzione che si sarebbe giustificata perche’, in base alla polizza, gli eredi legittimi si sarebbero dovuti identificare in essa ricorrente e nella sorella del de cuius, sebbene al medesimo premorta.

  • 2. 11 Tribunale adito aveva rigettato la domanda, escludendo che l’attribuzione a favore degli eredi legittimi prevista della clausola della polizza dovesse intendersi “per stirpi”, si che potesse aver rilievo la circostanza che i nipoti del de cuius erano subentrati alla madre per diritto di rappresentazione e, quindi, ritenendo che la ripartizione fosse stata correttamente effettuata dall’assicuratrice per quote eguali.
  • 3. La Corte territoriale ha confermato dette motivazioni.
  • 4. Contro la sentenza ha proposto ricorso per cassazione la Tizio affidandolo a quattro motivi.

La societa’ assicuratrice ha resistito con controricorso.

  • 5. La ricorrente ha depositato memoria.

MOTIVI DELLA DECISIONE

  • 1. Con il primo motivo di ricorso si deduce “violazione dell’art. 360 n. 4 c.p.c. i relazione all’art. 112 c..c. per omesso esame di specifica domanda dell’appellante, costituente il punto essenziale della causa”.

Vi si sostiene che la Corte territoriale non avrebbe esaminato una domandi della ricorrente, che si indica come relativa all’individuazione del significato del riferimento della polizza agli eredi legittimi.

Significato che avrebbe costituito il prius rispetto al posterius delle modalita’ di ripartizione.

  • 1.1. Il motivo, in disparte che nemmeno individua la c.d. domanda in tal senso, con manifesta violazione dell’art. 366 n. 6 c.p.c., e’ del tutto assertorio riducendosi a otto righe nelle quali non si spiega sulla base di quali elementi si dovrebbe evincere la pretesa omissione di pronuncia.

Ne segue la sua inammissibilita’.

  • 2. Con un secondo motivo si prospetta “violazione dell’art. 360 n. 5 c.p.c. per mancanza di motivazione su punto essenziale della controversia”.

Vi si censura la sentenza impugnata perche’, pur concedendo che abbia esaminato quello che si e’ definito prius nel motivo precedente, non avrebbe spiegato perche’ i nipoti del de cuius, eredi legittimi della sua sorella, sarebbero stati eredi legittimi dello stesso de cuius. La Corte territoriale si sarebbe limitata ad enunciare la premessa, cioe’ che i nipoti, certamente eredi legittimi della sorella, erano eredi legittimi della de cuius, ma non avrebbe spiegato il perche’ di tale considerazione.

Con un terzo motivo si denuncia “violazione dell’art. 360 n. 3 c.p.c. in relazione agli artt. 565, 582, 467 e 1920 c.c. per violazione di legge” e si sostiene, se mal non si comprendono le non del tutto chiare deduzioni, che, pur identificati i nipoti come eredi legittimi del de cuius, si sarebbe dovuto dare rilievo al fatto che essi lo erano per diritto di rappresentazione, desumendone l’implicazione che, poiche’ i nipoti erano subentrati a tale titolo alla sorella del de cuius, ai fini della ripartizione dell’indennizzo si sarebbe dovuto tener conto, siccht la ripartizione dell’indennizzo sarebbe dovuta avvenire in parti eguali cosi’ come sarebbe accaduto se l’ascendente dei beneficiari del diritto di rappresentazione avesse concorso con la qui ricorrente.

Con un quarto motivo si fa valere “violazione dell’art. 360 n. 3 c.p.c. in relazione agli artt. 1920, 1365 e 1366 c.c., per violazione di legge: nemo plus iuris in alium transferere potest quam ipse habet” e vi si prospetta, in buona sostanza, che in base agli invocati criteri ermeneutici il riferimento agli eredi legittimi sarebbe da intendere sempre nel senso sostenuto nel motivo precedente. Si sottolinea che, a seguire il criterio della ripartizione proporzionale fra l’erede diretto e chi subentra come tale per diritto di rappresentazione, se al rappresentato subentra un solo soggetto l’indennizzo risulterebbe ripartito in due quote, mentre se al rappresentato subentrano piu’ soggetti del tutto irragionevolmente esso dovrebbe ripartirsi in tante quote eguali fra l’erede diretto ed i soggetti subentrati per rappresentazione.

Cosi’, si esemplifica, se alla sorella del de cuius fossero subentrati per rappresentazione dieci figli, al coniuge del de cuius sarebbe spettato 1/11 dell’ indennizzo.

  • 3. L’esame del secondo, del terzo e del quarto motivo puo’ procedere congiuntamente, atteso che essi si risolvono nella sostanziale prospettazione di un vizio di c.d. sussunzione della fattispecie concreta, costituita dal subentro allo stipulante la polizza di un erede diretto, la moglie ricorrente, e di due eredi per diritto di rappresentazione della sorella premorta, sotto l’esatta disciplina giuridica applicabile. Anche l’omessa . motivazione denunciata dal secondo motivo, sebbene dedotta ai sensi del n. 5 dell’art. 360 c.p.c. nel testo anteriore all’ultima sua versione ed applicabile ratione temporis, non denuncia, infatti, un vizio della sentenza impugnata riguardo alla ricostruzione della quaestio facti, com’e’ conforme alla logica della norma, bensi’ un vizio relativo alla motivazione in iure.
  • 3.1. L’esame congiunto dei motivi giustifica, ad avviso del Collegio, il loro accoglimento per quanto di ragione, sebbene con il superamento dell’orientamento consolidato sul quale la sentenza impugnata ha basato la decisione della controversia nel senso di considerare legittimo il comportamento della societa’ assicuratrice nel ripartire in quote eguali l’indennizzo senza considerare la diversa ripartizione dell’eredita dello stipulante, deceduto ab intestato.
  • 3.2. La resistente ha sostenuto che i motivi sarebbero inammissibili, perche’ supporrebbero un mero riesame del fatto, ma il rilievo, che formalmente potrebbe essere adeguato al solo secondo motivo, e’ privo di fondamento giusta le considerazioni svolte in chiusura del paragrafo 2.
  • 3.3. La resistente ha, poi, sostenuto che il ricorso sarebbe inammissibile ai sensi dell’art. 360-bis n. 1 c.p.c. in quanto non offrirebbe elementi per superare in ordine alla quaestio iuris decisiva sulla base della quale e’ stato deciso il giudizio di merito elementi per indurre questa Corte a superare la giurisprudenza applicata dai giudici di merito e segnatamente dalla sentenza qui impugnata.
  • 3.3.1. Senonche’, va considerato che l’art. 360-bis n. 1, in presenza una decisione di merito che abbia deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte di cassazione, non impedisce alla Corte, valutati i motivi, di rilevare che sono offerti elementi per mutare l’orientamento emergente da detta giurisprudenza e cio’ anche a prescindere dalla direzione che ad essi abbia inteso assegnare in tale senso il ricorrente con la prospettazione del motivo.

La Corte di cassazione puo’, cioe’, nella logica dell’art. 360-bis n. 1 c.p.c. apprezzare gli elementi prospettati dal motivo come idonei a giustificare il , superamento della propria giurisprudenza anche per ragioni diverse da quelle prospettate dal ricorrente, purche’ il superamento sia giustificato dallo scopo del motivo proposto.

Ora, lo scopo dei tre motivi in esame e’ di sostenere che erroneamente la Corte territoriale abbia considerato che, quanto la polizza assicurativa prevede la stipulazione da parte del contraente a favore dei suoi eredi legittimi o testamentari in caso di morte, l’indennizzo debba essere ripartito non facendo riferimento al modo della devoluzione legittima o testamentaria e, quindi, proporzionalmente alla quota per cui ogni erede concorre, bensi’ ripartendolo in quote eguali, come se la relativa obbligazione fosse parziaria per quote eguali.

L’elemento che nella specie offrono i motivi per indurre il superamento di tale orientamento e’ rappresentato e, dunque, articolato, in essi dalla prospettazione che la ripartizione proporzionale sarebbe stata mal fatta dalla societa’ assicuratrice perche’ la posizione dei nipoti di eredi per diritto di rappresentazione avrebbe richiesto la loro considerazione, per essere subentrati a tale titolo, come titolari di una quota proporzionale unica, quella della loro madre ed erede rappresentata. Sicche’, in questo particolare caso, il principio della ripartizione per quote eguali di cui alla giurisprudenza consolidata della Corte lo si vorrebbe applicato nel senso non gia’ del riferimento alla situazione che individua gli eredi a seguito dell’applicazione dei principi del diritto di rappresentazione, bensi’ nel senso che occorrerebbe fare riferimento alla situazione di individuazione degli eredi emergente, per cosi’ dire in via virtuale, prima della detta applicazione.

Il Collegio rileva, quindi, che formalmente e’ stato prospettato nei motivi un elemento che, secondo la prospettazione della ricorrente, determinerebbe non tanto un superamento dell’orientamento consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, bensi’ un suo superamento parziale, cioe’ con riguardo alla peculiarita’ del caso di specie. Si tratterebbe di superamento parziale perche’ • ? appunto con riferimento ad esso occorrerebbe fare applicazione, di contro a quanto postula l’orientamento consolidato, delle particolari regole che disciplinano la successione ah intestato nel caso di ricorrenza della figura della rappresentazione, mentre detto orientamento postula che la disciplina della successione rilevi, ai fini della individuazione del beneficiario della polizza stipulata dal de cuius, esclusivamente quanto alla individuazione di chi sia erede. Secondo la ricorrente nel caso di specie ci si dovrebbe spingere ad un livello di rilevanza ulteriore, perche’ non si dovrebbe considerare il diritto delle successioni solo a quel fine, il che paleserebbe che l’individuazione degli eredi imponga di fare riferimento all’erede subentrato per rappresentazione, bensi’ dovrebbe darsi rilievo alle regole del diritto ereditario che presiedono al diritto di rappresentazione, in modo tale da giustificare la considerazione come erede dell’erede diretto, nella specie la ricorrente, e di colei che erede sarebbe stata se non fosse premorta al de ell i, se non p. n g, co Sulla base di tali considerazioni nessuna ragione di inammissibilita’ ai sensi dell’art. 360-bis n. 1 si configura.

  • 4. Venendo all’esame congiunto dei tre motivi in discorso, si rileva che essi sono fondati per quanto di ragione sulla base di considerazioni che il Collegio intende svolgere a superamento totale dell’orientamento di cui si sollecita il superamento parziale.

Va avvertito che questa Corte puo’ operare tale superamento senza sostituire ai motivi prospettati un motivo individuato d’ufficio perche’ detto superamento avviene nell’esercizio del potere di individuare l’esatto diritto applicabile ai fini della soluzione della questione cui i motivi per come proposti sono funzionali. Lo scopo della ricorrente e’ di censurare in iure, nel modo che si e’ detto, la ripartizione dell’indennizzo per quote proporzionali identiche fra essa deducente ed i due eredi subentrati per diritto di rappresentazione anziche’ sulla base di una quota della meta’ imputabile ad essa e di altra quota della meta’ imputata congiuntamente a detti eredi, in quanto subentrati in quella che idealmente sarebbe stata la quota riferibile, secondo la giurisprudenza consolidata di questa Corte, alla loro madre, se avesse potuto ereditare in mancanza di premorienza.

Poiche’ l’esame dei motivi suppone necessariamente la considerazione dell’esattezza in iure in via generale dell’orientamento consolidato favorevole alla divisione per quote eguali fra tutti gli eredi, questa Corte, nell’esercizio dei sui poteri di individuazione dell’esatto diritto applicabile, puo’ e deve interrogarsi su detta esattezza. E cio’, perche’, se fosse negata, i motivi potrebbero essere per cio’ solo accolti.

Le svolte argomentazioni si giustificano sulla base del seguente principio di diritto: «In ragione della funzione del giudizio di legittimita’ di garantire l’osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, nonche’ per omologia con quanto prevede la norma di cui al secondo comma dell’art. 384 cod. proc. civ. (la’ dove consente la salvezza dell’assetto di interessi, per come regolato dalla sentenza di merito, allorquando la soluzione della questione di diritto data dalla sentenza impugnata sia errata e, tuttavia, esista una diversa ragione giuridica, che, senza richiedere accertamenti di fatto, sia idonea a giustificare la soluzione della controversia sancita dal dispositivo della sentenza in relazione alla questione sollevata dal motivo di ricorso), deve ritenersi che, nell’esercizio del potere di qualificazione in diritto dei fatti, la Corte di cassazione puo’ ritenere fondata la questione, sollevata dal ricorso, per una ragione giuridica diversa da quella specificamente indicata dalla parte e individuata d’ufficio, con il solo limite che tale individuazione deve avvenire sulla base dei fatti per come accertati nelle fasi di merito ed esposti nel ricorso per cassazione e nella stessa sentenza impugnata, senza cioe’ che sia necessario l’esperimento di ulteriori indagini di fatto, fermo restando, peraltro, che l’esercizio del potere di qualificazione non deve inoltre confliggere con il principio del monopolio della parte nell’esercizio della domanda e delle eccezioni in senso stretto, con la conseguenza che resta escluso che la Corte possa rilevare l’efficacia giuridica di un fatto se cio’ comporta la modifica della domanda per come definita nelle fasi di merito o l’integrazione di una eccezione in senso stretto.» (Cass. n. 19132 del 2005; in senso conforme: Cass. n. 20328 del 2006; n. 24183 del 2006; 6935 del 2007; n.4994 del 2008; (ord.) n. 10841 del 2011; da ultimo Cass. n. 3437 del 2014).

  • 5. Tanto premesso, si rileva che la polizza stipulata dal defunto Caio Caio era stata pattuita con la previsione per il “caso morte” della individuazione come beneficiari degli “eredi testamentari dell’assicurato” o, in mancanza testamento, dei “di lui eredi legittimi“.
  • 5.1. Il Collegio e’ consapevole che l’interpretazione di una simile clausola e’ nel senso ritenuto sia dal primo giudice che dalla Corte territoriale.

Quest’ultima, senza richiamarla ha ritenuto legittimo che la societa’ assicuratrice avesse pagato l’indennizzo ripartendolo in tre quote eguali alla qui ricorrente ed ai nipoti del de cuius, sulla base della giurisprudenza consolidata di questa Corte, che e’ ferma su principi di diritto, che risultano espressi;

  1. a) dall’affermazione di Cass. n. 4484 del 1994, nel senso che: ”Nel contratto di assicurazione per il caso di morte, il beneficiario designato e’ titolare di un diritto proprio, derivante dal contratto, alla prestazione assicurativa.

Qualora il contratto preveda che l’indennizzo debba essere corrisposto agli “eredi legittimi o testamentari“, tale designazione concreta una mera indicazione del criterio per la individuazione dei beneficiari, i quali sono coloro che rivestono, al momento della morte del contraente, la qualita’ di chiamati all’eredita’, senza che rilevi la (successiva) rinunzia o accettazione dell’eredita’ da parte degli stessi” (Cass. n. 4484 del 1994);

  1. b) dall’affermazione, piu’ articolata, di Cass. n. 9388 del 1994 nel senso che «Nel contratto di assicurazione contro gli infortuni a favore del terzo, cui si applica la disciplina dell’assicurazione sulla vita, la disposizione contenuta nell’art. 1920, comma 3, cod. civ. (secondo cui, per effetto della designazione, il terzo acquista un diritto proprio ai vantaggi dell’assicurazione) deve essere interpretato nel senso che il diritto del beneficiario alla prestazione dell’assicuratore trova fondamento nel contratto ed e’ autonomo, cioe’ non derivato da quello del contraente. Pertanto, quando in un contratto di assicurazione contro gli infortuni, compreso l’evento morte, sia stato previsto, fin dall’origine, che l’indennita’ venga liquidata ai beneficiari designati o, in difetto, agli eredi, tale clausola va intesa nel senso che il meccanismo sussidiario di designazione del beneficiario e’ idoneo a far acquistare agli eredi i diritti nascenti dal contratto stipulato a loro favore (art. 1920, comma secondo e terzo, cod. civ.). Mentre l’individuazione dei beneficiari-eredi va effettuata attraverso l’accertamento della qualita’ di erede secondo i modi tipici di delazione dell’eredita’ (testamentaria o legittima: artt. 475, comma primo, e 565 cod. civ.) e le quote tra gli eredi, in mancanza di uno specifico criterio di ripartizione, devono presumersi uguali, essendo contrattuale la fonte regolatrice del rapporto e non applicandosi, quindi, la disciplina codicistica in materia di successione con le relative quote. (Nella specie, trattavasi di successione legittima del coniuge con i genitori ed i fratelli del “de cuius”).”;
  2. c) dall’affermazione conseguente che «Poiche’ nel contratto di assicurazione per il caso di morte il beneficiario designato acquista, ai sensi dell’art. 1921 cod. civ., un diritto proprio derivante dal contratto alla prestazione assicurativa (salvi gli effetti dell’eventuale revoca della designazione ex arart. 1921 cod. civ.), l’eventuale designazione dei terzi beneficiari con la categoria degli eredi legittimi o testamentari non vale ad assoggettare il rapporto alle regole della successione ereditaria ,atteso che tale designazione concreta una mera indicazione del criterio per la individuazione dei beneficiari, i quali sono coloro che rivestono, al momento della morte del contraente, la qualita’ di chiamati all’eredita’, senza che rilevi la (successiva) rinunzia o accettazione dell’eredita’ da parte degli stessi.» (Cass. n. 6531 del 2006).

Il Collegio e’ consapevole che la dottrina del diritto delle assicurazioni concorda con i riportati principi e con quello che ne costituirebbe il fondamento, siccome lumeggiato particolarmente dalla seconda decisione.

  • 5.2. Il Collegio reputa, tuttavia, che tale fondamento non resista affatto ad una considerazione delle polizze che prevedono clausole come quella di cui alla polizza di cui e’ processo sulla base della corretta applicazione dei criteri ermeneutici della materia contrattuale.

L’assunto che clausole simili si debbano interpretare nel senso che impongano, ai fini della individuazione del beneficiario, soltanto l’individuazione secondo le regole della successione verificatasi e contemplata dalla clausola, di chi sia erede dello stipulante per il caso di morte, ma non, in mancanza di espresso riferimento anche alla posizione di erede quanto alla ripartizione dell’eredita’ (e, dunque, alla ripartizione secondo le regole della successione legittima o secondo le regole della successione testamentaria), e’ innanzitutto privo di giustificazione sul piano dell’ esegesi letterale, atteso che, secondo il senso letterale dell’espressione “erede”, tanto se l’eredita’ sia stata devoluta ab intestato quanto se sia stata devoluta per testamento, l’evocazione con detta espressione della figura dell’erede non puo’ che implicare un riferimento non solo al modo in cui chi tale qualita’ e’ stata acquisita e, quindi, alla fonte della successione, ma anche alla dimensione di tale acquisizione e, dunque, al valore della posizione ereditaria secondo quella fonte.

Si vuol dire, cioe’ che il dire che qualcuno e’ erede di un soggetto significa, secondo l’espressione letterale, evocare tanto chi lo e’ quanto anche in che misura lo e’: il carattere polisenso dell’espressione letterale esclude che la presenza in una polizza assicurativa di un riferimento agli eredi sic et simpliciter come beneficiari per il caso di morte dello stipulante possa intendersi di per se’ significativa solo dell’individuazione della qualita’ e non anche della misura della posizione ereditaria.

Ma la pretesa di intendere secondo i criteri dell’ esegesi letterale nel modo voluto dall’orientamento da cui si dissente clausole come quelle di cui e’ processo, le quali contengono un espresso riferimento alla natura della devoluzione, cioe’ alla devoluzione legittima o testamentaria, appare ancora meno fondata alla stregua sempre dei criteri che debbono presiedere all’esegesi letterale: invero, l’uso in clausole siffatte dell’espresso riferimento al modo della devoluzione, per il fatto stesso che essa avviene secondo il titolo di successione ma, proprio per cio’, necessariamente secondo i criteri di riparto dell’eredita’ indicati dalla legge e dal testamento, non si comprende come possa essere limitativo della volonta’ di riferirsi non solo al titolo ma anche alla misura della successione.

  • 5.3. Ove, poi, si passi all’uso doveroso, secondo il paradigma dell’arart. 1362 c.c., del criterio dell’interpretazione secondo la comune intenzione delle parti, e’ sufficiente interrogarsi su che cosa comunemente si intenda per erede ah intestato e per erede testamentario e, dunque, riflettere sul fatto che quanto lo stipulante e la societa’ assicuratrice prevedono per il caso di morte dello stipulante come beneficiari gli eredi legittimi in mancanza di eredi testamentari, la comune intenzione delle parti non puo’ che essere se non quella di voler alludere alla misura in cui la successione secondo l’uno a l’altro titolo si verifichera’.

Infatti: aa) dal punto di vista dello stipulante, premesso che egli puo’ aver gia’ fatto testamento e, dunque, ripartito fra gli eredi designati la sua eredita’, oppure, non avendolo fatto ed avendo in animo di farlo, e’ palese che l’intenzione di attribuire il beneficio a chi sara’ erede per il caso di sua morte, tanto nel primo caso quanto nel secondo non puo’ che riferirsi alla misura della chiamata disposta o da disporsi oppure, nel primo caso, a quella emergente da un futuro nuovo testamento o dall’eventuale revoca di quello esistente o con sostituzione con altro o senza farne un altro e quindi dalla misura della chiamata secondo la successione legittima: solo la presenza di elementi testuali contrari e diretti a contraddire che l’attribuzione del beneficio sia egualitaria per tutti coloro che saranno eredi puo’ escludere che l’intenzione dello stipulante sia nei detti sensi; bb) sempre dal punto di vista dello stipulante, qualora egli non avesse fatto testamento, la previsione della attribuzione agli eredi testamentari o legittimi senza la previsione dell’egualitarismo si presta solo ad esprimere l’intenzione di un’attribuzione proporzionata alla misura in cui ciascuno dei sui futuri eredi sara’ tale: appare forzatura ridimensionakice priva di giustificazione l’altra ricostruzione; cc) anche l’intenzione dal punto di vista della societa’ assicuratrice non puo’ non prestarsi ad essere ricostruita nei sensi indicati.

Che l’intenzione comune alle parti debba essere considerata quella di far riferimento sia al modo che alla misura della successione che si verifichera’ e che risulti contemplata risulta conclusione giustificata per il fatto stesso che bene lo stipulante potrebbe, nell’individuare come beneficiari gli eredi testamentari o legittimi, specificare che essi non lo saranno in modo corrispondente alla quota di eredita’ devoluta, ma in misura egualitaria o diversa. Ne segue che nel silenzio dello stipulante la comune intenzione delle parti va ricostruita nel senso indicato.

Anche il criterio della c.d. interpretazione teleologica giustifica, dunque, la ricostruzione del significato delle clausole in discorso nel senso che lo scopo perseguito dalle parti e segnatamente dallo stipulante e’, conforme alla natura dell’assicurazione sulla morte, quello di attribuire il beneficio nello stesso modo in cui risultera’ regolata la sua successione.

Se si interroga il buon senso dell’uomo comune e si propone di intendere le dette clausole come le intende l’orientamento da cui si dissente, la risposta non potra’ che essere nel senso dell’assoluta incomprensibilita’, di fronte alla stipulazione della spettanza agli eredi legittimi o testamentari, di un significato che non sia quello del rifermento alla devoluzione ereditaria sia quanto all’individuazione degli eredi sia quanto alla misura della loro successione.

E tanto evidenzia che anche dal punto di vista dell’intenzione della societa’ assicuratrice circa il contenuto della clausola non possono sussistere dubbi sulla duplicita’ di tale individuazione.

  • 5.4. L’assunto della giurisprudenza da cui si dissente che il diritto nascente dal contratto deriva da esso come pattuizione a favore di terzo e non puo’ essere identificato con un rinvio alle regole della devoluzione testamentaria o legittima, in disparte la sua incomprensibilita’ la’ dove volesse evocare una diretta efficacia di detta devoluzione circa l’individuazione dei beneficiari, non trova alcuna giustificazione al contrario proprio sul piano della ricostruzione della volonta’ contrattuale espressa nella stipulazione.

Come s’e’ veduto e’ sul piano della stessa volonta’ contrattuale che il pur generico riferimento agli eredi testamentari o legittimi nell’intenzione di chi stipula vuole individuare non solo il beneficiario nella sua qualita’ di erede in senso generico, bensi’ anche nel valore che la posizione assume, o per testamento o per legge, all’interno della successione. Pensare che la genericita’ del riferimento agli eredi sottenda che l’indennizzo dovra’ essere attribuito a favore loro per parti eguali e’ una forzatura, che fa violenza al criterio di esegesi letterale, a quello teleologico ed in definitiva al buon senso dell’uomo comune.

D’altro canto, la stessa sottolineatura che la criticata giurisprudenza fa al fatto che il diritto nasce dal contratto e non dalla successione non si comprende come e perche’ debba giuocare solo ai fini dell’individuazione degli eredi e non della misura della loro attribuzione.

Che il secondo comma dell’art. 1920 c.c. attribuisca al terzo erede un diritto proprio e’ principio che riguarda il rapporto contrattuale fra l’assicuratore e il terzo, ma che non si comprende come possa giustificare la totale pretermissione della stessa volonta’ contrattuale ricostruita letteralmente e telelogicamente come qui prospettato. E’ proprio secondo il tenore del contratto e, quindi, in forza dl contratto che il destinatario e’ individuato sia con riferimento alla devoluzione ereditaria che alla sua misura.

Si puo’ opinare che la tesi criticata abbia fondamento tanto nella dottrina delle assicurazioni che l’ha prospettata quanto nella giurisprudenza che l’ha abbracciata in un intento di semplificazione della posizione dell’assicuratore, nel senso di assegnare ad esso una posizione di comodo qual e’ quella che, all’esito della sola dimostrazione della qualita’ di erede da parte di ciascuno dei successori si risolve nel pagare l’indennizzo ripartendolo in quote eguali, una volta appunto palesatisi gli eredi, anziche’ tener conto della quota di ognuno, il che potrebbe portare ad una maggiore lungaggine della fase di liberazione dell’assicuratore dall’obbligo assicurativo.

Ma, se tale esigenza costituisce la surrettizia giustificazione della tesi criticata, in disparte l’assoluta carenza di fondamento sopra evidenziata secondo le regole dell’ermeneutica contrattuale, si tratterebbe di giustificazione che sarebbe priva di alcun fondamento pratico, atteso che la stessa dimostrazione da parte degli eredi della loro qualita’, specie se vi siano contrasti fra loro, puo’ comportare che la situazione non trovi immediatezza di definizione da parte dell’assicuratore.

Si deve aggiungere che l’interpretazione criticata, la’ dove intende le clausole come quelle di cui e’ processo nel senso che si debbano interpretare come dirette ad attribuire agli eredi una quota dell’indennizzo proporzionale alla quota ereditaria, costituisce piana applicazione del criterio indicato dalla legge nell’art. 1314 c.c., posto che esso impone proprio di dividere l’obbligazione di indennizzo per la parte che corrisponde alla posizione di ciascun erede, e cio’ perche’ questa e’ quella che la norma definisce come la “sua parte”.

  • 6. Il secondo, terzo e quarto motivo sono dunque accolti nei sensi di cui in motivazione sulla base del principio di diritto secondo cui:«Nel contratto di assicurazione contro gli infortuni a favore del terzo, cui si applica la disciplina dell’assicurazione sulla vita, la disposizione contenuta nell’arart. 1920, terzo comma, cod. dv. (secondo cui, per effetto della designazione, il terzo acquista un diritto proprio ai vantaggi dell’assicurazione) deve essere interpretato nel senso che il diritto del beneficiario alla prestazione dell’assicuratore trova fondamento nel contratto ed e’ autonomo, cioe’ non derivato da quello del contraente. Quando in un contratto di assicurazione sulla vita sia stato previsto per il caso di morte dello stipulante che l’indennizzo debba corrispondersi agli eredi tanto con formula generica, quanto e a maggior ragione con formulazione evocativa degli eredi testamentari o in mancanza degli eredi legittimi, tale clausola, sul piano della corretta applicazione delle norme di esegesi del contratto e, quindi, conforme a detta disposizione, dev’essere intesa sia nel senso che le parti abbiano voluto tramite dette espressioni individuare per relationem con riferimento al modo della successione effettivamente verificatosi negli eredi chi acquista i diritti nascenti dal contratto stipulato a loro favore (arart. 1920, comma secondo e terzo, cod. civ.), sia nel senso di correlare l’attribuzione dell’indennizzo ai piu’ soggetti cosi’ individuati come eredi in misura proporzionale alla quota in cui ciascuno e’ succeduto secondo la modalita’ di successione effettivamente verificatasi, dovendosi invece escludere che, per la mancata precisazione nella clausola contrattuale di uno specifico criterio di ripartizione che a quelle modalita’ di individuazione delle quote faccia riferimento, che le quote debbano essere dall’assicuratore liquidate in misura eguale.».

Nella specie alla ricorrente, in quanto moglie dello stipulante deceduto ab intestato, si sarebbero dovuti riconoscere, nel concorso dei due nipoti ex sorore per diritto di rappresentazione, addirittura i due terzi dell’indennizzo, concorrendo essa appunto con i nipoti (art. 582 c.c.).

Il giudice di invio, che si designa in altra sezione della Corte lagunare, comunque in diversa composizione, peraltro, nell’applicare il detto principio f ? ? di diritto terra’ conto che la ricorrente non ha rivendicato la differenza fra il terzo liquidatogli conforme all’indirizzo qui disatteso ed i due terzi che le , sarebbero spettati, bensi’ la differenza fino alla concorrenza della meta’ del’indermizzo e, pertanto della limitazione del petitum in tal senso dovra’ necessariamente tenere conto.

Al giudice di rinvio e’ rimesso il regolamento delle spese del giudizio di cassazione.

  1. Q. M.

La Corte dichiara inammissibile il primo motivo di ricorso. Accoglie per quanto di ragione gli altri e cassa la sentenza impugnata. Rinvia ad altra sezione della Corte d’Appello di Venezia, comunque in diversa composizione anche per le spese del giudizio di cassazione.

Così deciso nella Camera di consiglio della Terza Sezione Civile il 28.09.15