Categoria: Diritto internazionale

LAVORO (RAPPORTO) divieto di licenziamento delle lavoratrici gestanti, direttiva del Consiglio n. 92/85/CEE

Corte giustizia Comunita’ Europee, Grande Sez. , 26 febbraio 2008, n. 506/06

Secondo la Grande Sezione della Corte, la direttiva del Consiglio n. 92/85/CEE, del 19 ottobre 1992, concernente l’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento (decima direttiva particolare ai sensi dell’art. 16, par. 1 della direttiva n. 89/391/CEE), e, in particolare, il divieto di licenziamento delle lavoratrici gestanti di cui all’art. 10, punto 1, di tale direttiva, devono essere interpretati nel senso che non riguardano una lavoratrice che si sottopone a fecondazione in vitro qualora, al momento della comunicazione del licenziamento, la fecondazione dei suoi ovuli con gli spermatozoi del partner abbia già avuto luogo, e si sia quindi già in presenza di ovuli fecondati in vitro, ma questi non siano stati ancora trasferiti nell’utero della lavoratrice.

Gli artt. 2, n. 1, e 5, n. 1, della direttiva del Consiglio n. 76/207/CEE, del 9 febbraio 1976, relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro, ostano al licenziamento di una lavoratrice che si trovi in una fase avanzata di un trattamento di fecondazione in vitro, vale a dire tra il prelievo follicolare e il trasferimento immediato degli ovuli fecondati in vitro nel suo utero, purché sia dimostrato che il licenziamento si fondi essenzialmente sul fatto che l’interessata si sia sottoposta a tale trattamento.

 
 
 
  Sentenza  della Corte di giustizia delle Comunità europee del 26 febbraio 2008 Nel procedimento C‑506/06, avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell’art. 234 CE, dall’Oberster Gerichtshof (Austria) con decisione 23 novembre 2006, pervenuta in cancelleria il 14 dicembre 2006, nella causa Sabine Mayr contro Bäckerei und Konditorei Gerhard Flöckner OHG, LA CORTE (Grande Sezione), composta dal sig. V. Skouris, presidente, dai sigg. P. Jann, C.W.A. Timmermans, A. Rosas e L. Bay Larsen, presidenti di sezione, dalla sig.ra R. Silva de Lapuerta, dai sigg. K. Schiemann, J. Makarczyk, P. Kūris, E. Juhász, A. Ó Caoimh (relatore), dalla sig.ra P. Lindh e dal sig. M.J.‑C. Bonichot, giudici, ha pronunciato la seguente Sentenza 1 La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’art. 2, lett. a), della direttiva del Consiglio 19 ottobre 1992, 92/85/CEE, concernente l’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento (decima direttiva particolare ai sensi dell’articolo 16, paragrafo 1 della direttiva 89/391/CEE) (GU L 348, pag. 1). 2 Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra la sig.ra Mayr, ricorrente nella causa principale, e il suo ex datore di lavoro, la Bäckerei und Konditorei Gerhard Flöckner OHG (in prosieguo: la «Flöckner»), convenuta nella causa principale, in seguito al licenziamento della sig.ra Mayr da parte della Flöckner. Contesto normativo Normativa comunitaria La direttiva 76/207/CEE 3 L’art. 2, n. 1, della direttiva del Consiglio 9 febbraio 1976, 76/207/CEE, relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro (GU L 39, pag. 40), dispone che «il principio della parità di trattamento implica l’assenza di qualsiasi discriminazione fondata sul [s]esso, direttamente o indirettamente, in particolare mediante riferimento allo stato matrimoniale o di famiglia». 4 Il n. 3 del medesimo art. 2 enuncia che la direttiva 76/207 «non pregiudica le disposizioni relative alla protezione della donna, in particolare per quanto riguarda la gravidanza e la maternità». 5 Ai sensi dell’art. 5, n. 1, della direttiva 76/207: «L’applicazione del principio della parità [di] trattamento per quanto riguarda le condizioni di lavoro, comprese le condizioni inerenti al licenziamento, implica che siano garantire agli uomini e alle donne le medesime condizioni, senza discriminazioni fondate sul sesso». 6 L’art. 34, n. 1, della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 5 luglio 2006, 2006/54/CE, riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego (rifusione) (GU L 204, pag. 23), ha abrogato la direttiva 76/207, come modificata dalla direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 23 settembre 2002, 2002/73/CE (GU L 269, pag. 15). 7 Tuttavia, le direttive 2002/73 e 2006/54 non si applicano ratione temporis ai fatti della causa principale. La direttiva 92/85 8 Dal nono ‘considerando’ della direttiva 92/85 emerge che la protezione della sicurezza e della salute delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento non deve svantaggiare le donne sul mercato del lavoro e non pregiudica le direttive in materia di parità di trattamento tra uomini e donne. 9 Secondo il quindicesimo ‘considerando’ della medesima direttiva, il rischio di essere licenziate per motivi connessi al loro stato può avere effetti dannosi sullo stato fisico e psichico delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento e conviene prevedere un divieto di licenziamento. 10 Ai sensi dell’art. 2, lett. a), della direttiva 92/85, si intende per lavoratrice gestante «ogni lavoratrice gestante che informi del suo stato il proprio datore di lavoro, conformemente alle legislazioni e/o prassi nazionali». 11 L’art. 10 della direttiva 92/85 è formulato come segue: «Per garantire alle lavoratrici [gestanti, puerpere o in periodo di allattamento] ai sensi dell’articolo 2 l’esercizio dei diritti di protezione della sicurezza e della salute riconosciuti nel presente articolo: 1) gli Stati membri adottano le misure necessarie per vietare il licenziamento delle lavoratrici di cui all’articolo 2 nel periodo compreso tra l’inizio della gravidanza e il termine del congedo di maternità di cui all’articolo 8, paragrafo 1, tranne nei casi eccezionali non connessi al loro stato ammessi dalle legislazioni e/o prassi nazionali e, se del caso, a condizione che l’autorità competente abbia dato il suo accordo; 2) qualora una lavoratrice ai sensi dell’articolo 2 sia licenziata durante il periodo specificato nel punto 1), il datore di lavoro deve fornire per iscritto giustificati motivi per il licenziamento; 3) gli Stati membri adottano le misure necessarie per proteggere le lavoratrici di cui all’articolo 2 contro le conseguenze di un licenziamento che a norma del punto 1) è illegittimo». 12 Ai sensi dell’art. 12 della direttiva 92/85: «Gli Stati membri introducono nel loro ordinamento giuridico interno le misure necessarie per consentire a qualsiasi lavoratrice che si ritenga lesa dalla mancata osservanza degli obblighi derivanti dalla presente direttiva di difendere i propri diritti per via legale e/o, conformemente alle legislazioni e/o prassi nazionali, mediante ricorso ad altre istanze competenti». Normativa nazionale 13 L’art. 10 della legge sulla tutela della maternità (Mutterschutzgesetz; in prosieguo: l’«MSchG») è formulato come segue: «1. Le dipendenti non possono essere legittimamente licenziate durante il periodo di gravidanza, né nei quattro mesi successivi al parto, purché abbiano informato il datore di lavoro della loro gravidanza o del parto. 2. Il licenziamento è altresì illegittimo quando il datore di lavoro è informato della gravidanza o del parto entro cinque giorni lavorativi a decorrere dalla comunicazione del licenziamento o dalla sua notifica in caso di licenziamento avvenuto per iscritto. La comunicazione scritta della gravidanza o del parto si considera avvenuta in tempo utile se spedita per posta nel detto termine di cinque giorni. Nel comunicare la sua gravidanza o il parto nel termine di cinque giorni, la lavoratrice deve contestualmente fornire certificato medico attestante la gravidanza o la presunta gravidanza o produrre il certificato di nascita del bambino.(…)». 14 In forza dell’art. 17, n. 1, della legge sulla fecondazione artificiale (Fortpflanzungsmedizingesetz; in prosieguo: l’«FMedG»), le cellule in via di sviluppo, vale a dire – ai sensi dell’art. 1, n. 3, dell’FMedG, – gli ovuli fecondati e le cellule che ne derivano, possono essere conservate per un periodo massimo di dieci anni. 15 Ai sensi dell’art. 8 dell’FMedG, una fecondazione artificiale può essere eseguita solo con il consenso di entrambi i partner, tuttavia la donna può revocare il proprio consenso fino al momento del trasferimento delle cellule in via di sviluppo nel suo corpo. Causa principale e questione pregiudiziale 16 La sig.ra Mayr lavorava per la Flöckner come cameriera dal 3 gennaio 2005. 17 L’8 marzo 2005, nell’ambito di un tentativo di fecondazione in vitro e a seguito di un trattamento ormonale di circa un mese e mezzo, era praticato alla sig.ra Mayr un prelievo follicolare. Il suo medico curante le prescriveva un congedo per malattia dall’8 al 13 marzo 2005. 18 Il 10 marzo 2005, nel corso di una telefonata, la Flöckner comunicava alla sig.ra Mayr che era licenziata con effetto a decorrere dal 26 marzo 2005. 19 Con lettera in pari data, la sig.ra Mayr comunicava alla Flöckner che, nell’ambito di un trattamento di fecondazione artificiale, il trasferimento nel suo utero degli ovuli fecondati era programmato per il 13 marzo 2005. 20 Secondo la decisione di rinvio, è pacifico che alla data della comunicazione del licenziamento della sig.ra Mayr, vale a dire il 10 marzo 2005, gli ovuli ad essa prelevati erano già stati fecondati con gli spermatozoi del suo partner e che quindi, a questa stessa data, sussistevano già ovuli fecondati in vitro. 21 Il 13 marzo 2005, vale a dire tre giorni dopo che la sig.ra Mayr era stata informata del suo licenziamento, due ovuli fecondati venivano trasferiti nell’utero di quest’ultima. 22 La sig.ra Mayr reclamava dalla Flöckner il pagamento dello stipendio e della quota corrispondente della sua retribuzione annuale affermando che il licenziamento comunicato il 10 marzo 2005 era giuridicamente inefficace in quanto, a partire dall’8 marzo 2005, data in cui era avvenuta la fecondazione in vitro dei suoi ovuli, trovava applicazione nei suoi confronti la tutela contro il licenziamento prevista dall’art. 10, n. 1, dell’MSchG. 23 La Flöckner respingeva tale richiesta in quanto al momento della comunicazione del licenziamento non sussisteva gravidanza. 24 Il Landesgericht Salzburg, investito della controversia in primo grado, accoglieva la domanda della sig.ra Mayr ritenendo che, conformemente alla giurisprudenza dell’Oberster Gerichtshof, la tutela contro il licenziamento prevista dall’art. 10 dell’MSchG decorresse dalla fecondazione dell’ovulo. Sarebbe quest’ultima, secondo tale giurisprudenza, a rappresentare il momento iniziale della gravidanza. Il Landesgericht Salzburg ha dunque ritenuto che si dovesse applicare lo stesso criterio nel caso della fecondazione in vitro e che, in caso di insuccesso del trasferimento dell’ovulo, la tutela contro il licenziamento cesserebbe comunque. 25 Tuttavia l’Oberlandesgericht Linz, giudice di appello in materia di diritto del lavoro e diritto sociale, annullava la sentenza del Landesgericht Salzburg e respingeva la domanda della sig.ra Mayr, con l’argomento che, qualunque sia il momento della gestazione a partire dal quale si producono effettivamente le variazioni ormonali, una gravidanza isolata dal corpo della donna sarebbe impensabile e che, di conseguenza, nell’ipotesi di una fecondazione in vitro, la gravidanza inizierebbe soltanto dal momento del trasferimento dell’ovulo fecondato nel corpo della donna. Soltanto a partire da tale momento opererebbe pertanto la tutela della gestante contro la risoluzione del contratto di lavoro. 26 Tale sentenza pronunciata in appello ha formato oggetto di ricorso per «Revision» (ricorso per cassazione) dinanzi all’Oberster Gerichtshof. Secondo la giurisprudenza di quest’ultimo, la tutela garantita dall’art. 10 dell’MSchG interviene solo se, al momento del licenziamento, la gravidanza ha avuto effettivamente inizio. L’inderogabile finalità della tutela della maternità consisterebbe nel preservare la salute della madre e del bambino nell’interesse di questi ultimi e, nel caso della tutela contro il licenziamento, disciplinare o non disciplinare, nell’assicurare i mezzi di sussistenza della madre. L’esigenza di tutela per tutta la durata della modifica dello stato della donna sussisterebbe indipendentemente dal fatto che sia già avvenuto o meno l’impianto dell’ovulo fecondato nella mucosa uterina (altresì detto «annidamento») e il fatto che la prova della gravidanza sia o meno agevole da fornire è al riguardo privo di rilevanza. L’annidamento dell’ovulo fecondato nella mucosa uterina sarebbe, secondo l’opinione scientifica dominante, soltanto una fase, a partire dal concepimento, dello stato di gravidanza in atto e non potrebbe essere scelto arbitrariamente, nel contesto della tutela contro il licenziamento, come momento di inizio della gravidanza. 27 Tuttavia, tale giurisprudenza dell’Oberster Gerichtshof relativa all’art. 10 dell’MSchG sarebbe fondata esclusivamente su casi di concepimento in utero, vale a dire di concepimento naturale. Tale giudice dichiara che si tratta della prima volta in cui è chiamato a pronunciarsi sulla questione di quale sia il momento a partire dal quale la gestante benefici della tutela contro il licenziamento prevista dall’art. 10 dell’MSchG nel caso di una fecondazione in vitro. 28 Ritenendo che la controversia di cui è investito richieda l’interpretazione di disposizioni comunitarie, l’Oberster Gerichtshof ha deciso di sospendere il giudizio e di sottoporre alla Corte la seguente questione pregiudiziale: «Se rappresenti una “lavoratrice gestante” ai sensi dell’art. 2, lett. a), prima frase, della direttiva [92/85] la lavoratrice che si sottopone ad una fecondazione in vitro, qualora al momento della comunicazione del licenziamento i suoi ovuli siano stati già fecondati con gli spermatozoi del partner, e si sia quindi già in presenza di embrioni in vitro, ma questi non siano stati ancora trasferiti nel corpo della donna». Sulla questione pregiudiziale 29 Con tale questione il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se la direttiva 92/85 e, in particolare, il divieto di licenziamento delle lavoratrici gestanti disposto dall’art. 10, n. 1, di tale direttiva debbano essere interpretati nel senso che riguardano una lavoratrice che si sottopone a fecondazione in vitro qualora, al momento della comunicazione del licenziamento, la fecondazione dei suoi ovuli con gli spermatozoi del partner abbia già avuto luogo, e si sia quindi già in presenza di ovuli fecondati in vitro, ma questi non siano stati ancora trasferiti nell’utero della lavoratrice. 30 Occorre osservare, in via preliminare, che la fecondazione in vitro consiste nella fecondazione di un ovulo al di fuori del corpo della donna. Secondo la Commissione delle Comunità europee, tale operazione comprende diverse fasi quali, in particolare, la stimolazione ormonale delle ovaie finalizzata alla maturazione di più ovuli contemporaneamente, il prelievo follicolare, il prelievo degli ovuli, la fecondazione di uno o più ovuli con spermatozoi precedentemente preparati, il trasferimento dell’ovulo o degli ovuli fecondati nell’utero il terzo o il quinto giorno seguente il prelievo degli stessi, tranne nel caso in cui gli ovuli fecondati siano conservati mediante congelazione, e l’impianto. 31 Riguardo alla direttiva 92/85, occorre ricordare che il suo scopo consiste nel promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento. 32 In tale ambito, la Corte ha parimenti rilevato che lo scopo perseguito dalle norme del diritto comunitario sul principio di parità tra i sessi nel settore dei diritti delle donne gestanti o puerpere è quello di tutelare le lavoratrici prima e dopo il parto (v. sentenze 8 settembre 2005, causa C‑191/03, McKenna, Racc. pag. I‑7631, punto 42, e 11 ottobre 2007, causa C‑460/06, Paquay, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 28). 33 Già prima dell’entrata in vigore della direttiva 92/85 la Corte ha stabilito che, in forza del principio di non discriminazione e, in particolare, degli artt. 2, n. 1, e 5, n. 1, della direttiva 76/207, una tutela contro il licenziamento dev’essere riconosciuta alla donna non solo durante il congedo di maternità, ma anche durante l’intero periodo della gravidanza. Secondo la Corte, un licenziamento durante tali periodi può riguardare solo le donne e costituisce quindi una discriminazione diretta basata sul sesso (v., in tal senso, sentenze 8 novembre 1990, causa C‑179/88, Handels‑ og Kontorfunktionærernes Forbund, Racc. pag. I‑3979, punto 13; 30 giugno 1998, causa C‑394/96, Brown, Racc. pag. I‑4185, punti 16, 24 e 25; McKenna, cit., punto 47, nonché Paquay, cit., punto 29). 34 Proprio in considerazione dei rischi che un eventuale licenziamento fa gravare sullo stato fisico e psichico delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento, ivi compreso il rischio particolarmente grave di spingere la lavoratrice gestante ad interrompere volontariamente la gravidanza, il legislatore comunitario ha previsto, ai sensi dell’art. 10 della direttiva 92/85, una protezione specifica per la donna sancendo il divieto di licenziamento nel periodo compreso tra l’inizio della gravidanza e il termine del congedo di maternità (v. sentenze 14 luglio 1994, causa C‑32/93, Webb, Racc. pag. I‑3567, punto 21; Brown, cit., punto 18; 4 ottobre 2001, causa C‑109/00, Tele Danmark, Racc. pag. I‑6993, punto 26; McKenna, cit., punto 48, e Paquay, cit., punto 30). 35 Occorre altresì rilevare che, nel corso di detto periodo, l’art. 10 della direttiva 92/85 non ha previsto alcuna eccezione o deroga al divieto di licenziamento delle lavoratrici gestanti, tranne nei casi eccezionali non connessi al loro stato e a condizione che il datore di lavoro fornisca per iscritto giustificati motivi per tale licenziamento (citate sentenze Webb, punto 22; Brown, punto 18; Tele Danmark, punto 27, e Paquay, punto 31). 36 È alla luce degli scopi perseguiti dalla direttiva 92/85, e più in particolare dal suo art. 10, che occorre stabilire se la tutela contro il licenziamento prevista da tale disposizione si estenda ad una lavoratrice che si trovi nelle circostanze di cui alla causa principale. 37 Orbene, tanto dalla formulazione dell’art. 10 della direttiva 92/85 quanto dallo scopo principale perseguito da quest’ultima, ricordato al punto 31 della presente sentenza, emerge che, per beneficiare della tutela contro il licenziamento riconosciuta da tale articolo, la gravidanza in questione deve aver avuto inizio. 38 Al riguardo si deve osservare che, pur essendo vero, come ha rilevato il governo austriaco, che il trattamento di fecondazioni artificiali e cellule in via di sviluppo costituisce un tema sociale particolarmente delicato in numerosi Stati membri, contrassegnato dalle molteplici tradizioni e sistemi di valore di questi ultimi, la Corte non è chiamata, con la presente domanda di pronuncia pregiudiziale, ad affrontare questioni di natura medica o etica, ma deve limitarsi ad un’interpretazione giuridica delle disposizioni rilevanti della direttiva 92/85, tenuto conto della formulazione, dell’economia e degli scopi di quest’ultima. 39 Orbene, dal quindicesimo ‘considerando’ della direttiva 92/85 emerge che il divieto di licenziamento previsto nel suo art. 10 ha lo scopo di evitare che il rischio di licenziamento per motivi connessi al loro stato possa avere effetti dannosi sulla condizione fisica e psichica delle lavoratrici gestanti. 40 È pertanto evidente, come ha peraltro rilevato il governo austriaco, che al fine di garantire la sicurezza e la tutela delle lavoratrici gestanti deve tenersi conto della prima data possibile di inizio della gravidanza. 41 Tuttavia, anche supponendo, nel caso di una fecondazione in vitro, che tale data coincida con il momento del trasferimento degli ovuli fecondati nell’utero della donna, non è ammissibile, per ragioni relative al rispetto del principio della certezza del diritto, che la tutela istituita dall’art. 10 della direttiva 92/85 sia estesa al caso in cui, alla data della comunicazione del licenziamento, il trasferimento degli ovuli fecondati in vitro nell’utero della lavoratrice non sia ancora avvenuto. 42 Infatti, come emerge dalle osservazioni sottoposte alla Corte e dai paragrafi 43‑45 delle conclusioni dell’avvocato generale, prima del trasferimento nell’utero della donna interessata, i detti ovuli fecondati possono, in taluni Stati membri, essere conservati per un periodo più o meno esteso; la normativa nazionale in questione nella causa principale prevede a tale proposito la possibilità di conservare gli ovuli fecondati fino a dieci anni. Di conseguenza, l’applicazione ad una lavoratrice della tutela contro il licenziamento sancita dall’art. 10 della direttiva 92/85 prima dell’impianto degli ovuli fecondati potrebbe avere l’effetto di concedere il beneficio di tale tutela anche qualora il trasferimento degli ovuli fecondati, per un qualsivoglia motivo, sia rimandato per diversi anni o addirittura si sia definitivamente rinunciato a un tale trasferimento, e la fecondazione in vitro sia stata praticata come semplice misura cautelativa. 43 Tuttavia, anche se la direttiva 92/85 non è applicabile a una situazione come quella di cui alla causa principale, nondimeno la Corte, conformemente alla propria giurisprudenza, può prendere in considerazione norme di diritto comunitario alle quali il giudice nazionale non ha fatto riferimento nel formulare la propria questione (sentenze 12 dicembre 1990, causa C‑241/89, SARPP, Racc. pag. I‑4695, punto 8, e 26 aprile 2007, causa C‑392/05, Alevizos, Racc. pag. I‑3505, punto 64). 44 Nel corso del procedimento dinanzi alla Corte i governi ellenico e italiano, nonché la Commissione, hanno suggerito che, pur non essendo possibile inferire dalla direttiva 92/85 la tutela contro il licenziamento di una lavoratrice in una situazione come quella di cui alla causa principale, tale lavoratrice potrebbe eventualmente far valere la tutela contro la discriminazione fondata sul sesso riconosciuta dalla direttiva 76/207. 45 A tale proposito occorre ricordare che l’art. 2, n. 1, della direttiva 76/207 precisa che «il principio della parità di trattamento implica l’assenza di qualsiasi discriminazione fondata sul sesso, direttamente o indirettamente, in particolare mediante riferimento allo stato matrimoniale o di famiglia». Ai sensi dell’art. 5, n. 1, della medesima direttiva, «[l]’applicazione del principio della parità di trattamento per quanto riguarda le condizioni di lavoro, comprese le condizioni inerenti al licenziamento, implica che siano garantite agli uomini e alle donne le medesime condizioni, senza discriminazioni fondate sul sesso». 46 Come emerge dal punto 33 della presente sentenza, la Corte ha già stabilito che, in forza del principio di non discriminazione e, in particolare, degli artt. 2, n. 1, e 5, n. 1, della direttiva 76/207, una tutela contro il licenziamento dev’essere riconosciuta alla donna non solo durante il congedo di maternità, ma anche durante l’intero periodo della gravidanza. Secondo la Corte, il licenziamento di una lavoratrice a motivo della sua gravidanza o per un motivo basato sostanzialmente su tale stato può riguardare solo le donne e costituisce quindi una discriminazione diretta basata sul sesso (v., in tal senso, citate sentenze Handels‑ og Kontorfunktionærernes Forbund, punto 13; Brown, punti 16, 24 e 25; McKenna, punto 47, nonché Paquay, punto 29). 47 Poiché la decisione di rinvio non indica le ragioni per le quali la Flöckner ha licenziato la sig.ra Mayr, spetta al giudice del rinvio determinare le circostanze rilevanti della controversia di cui è investito e, poiché il licenziamento della ricorrente nella causa principale è intervenuto quando la stessa era in congedo di malattia per sottoporsi ad un trattamento di fecondazione in vitro, verificare se un siffatto licenziamento sia basato essenzialmente sul fatto che essa si sottoponesse a tale trattamento. 48 Qualora fosse questa la ragione del licenziamento della ricorrente nella causa principale, occorre determinare se essa valga indistintamente per i lavoratori dei due sessi o se, invece, sia valida esclusivamente per una delle due categorie. 49 La Corte ha già rilevato che, poiché i lavoratori dei due sessi sono esposti alle malattie nella stessa misura, se una lavoratrice viene licenziata per assenza dovuta a malattia nelle stesse condizioni di un lavoratore non vi è discriminazione diretta fondata sul sesso (v. citata sentenza Handels‑ og Kontorfunktionærernes Forbund, punto 17). 50 Certamente i lavoratori di entrambi i sessi possono avere un impedimento di carattere temporaneo ad effettuare il loro lavoro a causa dei trattamenti medici che debbano seguire. Tuttavia, gli interventi di cui trattasi nella causa principale, vale a dire un prelievo follicolare e il trasferimento nell’utero della donna degli ovuli prelevati immediatamente dopo la loro fecondazione, riguardano direttamente soltanto le donne. Ne consegue che il licenziamento di una lavoratrice a causa essenzialmente del fatto che essa si sottoponga a questa fase importante di un trattamento di fecondazione in vitro costituisce una discriminazione diretta fondata sul sesso. 51 Ammettere la possibilità che un datore di lavoro licenzi una lavoratrice in circostanze come quelle di cui alla causa principale sarebbe peraltro in contrasto con la finalità di tutela perseguita dall’art. 2, n. 3, della direttiva 76/207, qualora, ovviamente, il licenziamento si fondasse essenzialmente sul fatto del trattamento di fecondazione in vitro e, in particolare, sugli interventi specifici menzionati nel punto precedente che un siffatto trattamento comporta. 52 Di conseguenza, gli artt. 2, n. 1, e 5, n. 1, della direttiva 76/207 ostano al licenziamento di una lavoratrice che, in circostanze quali quelle di cui alla causa principale, si trovi in una fase avanzata di un trattamento di fecondazione in vitro, vale a dire tra il prelievo follicolare e il trasferimento immediato degli ovuli fecondati in vitro nel suo utero, purché sia dimostrato che il licenziamento si fondi essenzialmente sul fatto che l’interessata si sia sottoposta a tale trattamento. 53 Alla luce delle considerazioni sin qui svolte, occorre rispondere alla questione sottoposta che la direttiva 92/85 e, in particolare, il divieto di licenziamento delle lavoratrici gestanti previsto nell’art. 10, punto 1, di tale direttiva devono essere interpretati nel senso che non riguardano una lavoratrice che si sottopone a fecondazione in vitro qualora, al momento della comunicazione del licenziamento, la fecondazione dei suoi ovuli con gli spermatozoi del partner abbia già avuto luogo, e si sia quindi già in presenza di ovuli fecondati in vitro, ma questi non siano stati ancora trasferiti nell’utero della lavoratrice. 54 Tuttavia, gli artt. 2, n. 1, e 5, n. 1, della direttiva 76/207 ostano al licenziamento di una lavoratrice che, in circostanze quali quelle di cui alla causa principale, si trovi in una fase avanzata di un trattamento di fecondazione in vitro, vale a dire tra il prelievo follicolare e il trasferimento immediato degli ovuli fecondati in vitro nel suo utero, purché sia dimostrato che il licenziamento si fondi essenzialmente sul fatto che l’interessata si sia sottoposta a tale trattamento. Sulle spese 55 Nei confronti delle parti nella causa principale il presente procedimento costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione. Per questi motivi, la Corte (Grande Sezione) dichiara: La direttiva del Consiglio 19 ottobre 1992, 92/85/CEE, concernente l’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento (decima direttiva particolare ai sensi dell’articolo 16, paragrafo 1 della direttiva 89/391/CEE), e, in particolare, il divieto di licenziamento delle lavoratrici gestanti di cui all’art. 10, punto 1, di tale direttiva devono essere interpretati nel senso che non riguardano una lavoratrice che si sottopone a fecondazione in vitro qualora, al momento della comunicazione del licenziamento, la fecondazione dei suoi ovuli con gli spermatozoi del partner abbia già avuto luogo, e si sia quindi già in presenza di ovuli fecondati in vitro, ma questi non siano stati ancora trasferiti nell’utero della lavoratrice. Gli artt. 2, n. 1, e 5, n. 1, della direttiva del Consiglio 9 febbraio 1976, 76/207/CEE, relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro, ostano al licenziamento di una lavoratrice che, in circostanze quali quelle di cui alla causa principale, si trovi in una fase avanzata di un trattamento di fecondazione in vitro, vale a dire tra il prelievo follicolare e il trasferimento immediato degli ovuli fecondati in vitro nel suo utero, purché sia dimostrato che il licenziamento si fondi essenzialmente sul fatto che l’interessata si sia sottoposta a tale trattamento.
 
 
 

 

Indicazioni geografiche e denominazioni d’origine dei prodotti agricoli ed alimentari – Uso della denominazione “parmesan”

 

Corte di Giustizia – Grande Sezione, Sentenza 26 febbraio 2008

 

 

La Corte di Giustizia, con questa storica sentenza, si è pronunciata sul ricorso con il quale la Commissione ha chiesto di dichiarare che la Germania, rifiutando formalmente di perseguire come illecito l’impiego nel suo territorio della denominazione «parmesan» nell’etichettatura di prodotti non corrispondenti al disciplinare della denominazione d’origine protetta «Parmigiano Reggiano», favorendo così l’usurpazione da parte di terzi della notorietà di cui gode il prodotto autentico, tutelato a livello comunitario, è venuta meno agli obblighi che le incombono in forza dell’art. 13, n. 1, lett. b), del regolamento (CEE) del Consiglio 14 luglio 1992, n. 2081, relativo alla protezione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni d’origine dei prodotti agricoli ed alimentari. La Germania ha sempre sostenuto che – “l’uso del termine «parmesan» non costituisce una violazione dell’art. 13, n. 1, lett. b), del regolamento n. 2081/92 dato che, già secondo la Commissione, rappresenterebbe solo la traduzione della parola «Parmigiano» che è una denominazione generica, come dimostrano la situazione in Italia e in altri Stati membri nonché le normative nazionali e comunitaria. Tale termine, in quanto denominazione generica, non potrebbe beneficiare della tutela del detto regolamento”; – “anche supponendo che il termine «Parmigiano» non sia una denominazione generica e che, pertanto, non si applichino a tale elemento costitutivo le disposizioni dell’art. 13, n. 1, secondo comma, del regolamento n. 2081/92, l’uso del termine «parmesan» non integra una violazione delle disposizioni relative alla tutela della denominazione d’origine «Parmigiano Reggiano». Il nome «parmesan» avrebbe subito un’evoluzione secolare a sé stante e sarebbe divenuto, in Germania, come pure in altri Stati membri, una denominazione generica. Il suo uso non costituirebbe dunque né un’usurpazione né un’evocazione della DOP «Parmigiano Reggiano»”. Viceversa, secondo la Corte di Giustizia oltre “sapere se la denominazione «parmesan» sia la traduzione della DOP «Parmigiano Reggiano» è irrilevante ai fini dell’esame del presente ricorso”. Infatti, “si deve tener conto anche della somiglianza concettuale tra tali due termini, pur di lingue diverse, testimoniata dal dibattito dinanzi alla Corte. Tale somiglianza, come già le somiglianze fonetiche e ottiche rilevate al punto 46 della presente sentenza, è idonea ad indurre il consumatore a prendere come immagine di riferimento il formaggio recante la DOP «Parmigiano Reggiano» quando si trova dinanzi ad un formaggio a pasta duro, grattugiato o da grattugiare, recante la denominazione «parmesan». In tale contesto, l’uso della denominazione «parmesan» dev’essere considerato un’evocazione della DOP «Parmigiano Reggiano» ai sensi dell’art. 13, n. 1, lett. b), del regolamento n. 2081/92”. La Germania – secondo la Corte – non ha dimostrato la fondatezza della propria tesi della presunta genericità della denominazione «parmesan». In particolare, “la Germania si è limitata a produrre citazioni tratte da dizionari e da letteratura specializzata che non offrono un quadro completo del modo in cui il termine «parmesan» è percepito dai consumatori in Germania e in altri Stati membri, e non ha presentato neppure dati relativi alla produzione o al consumo del formaggio commercializzato con la denominazione «parmesan» in Germania o in altri Stati membri. Inoltre, dalla documentazione sottoposta alla Corte risulta che in Germania alcuni produttori di formaggio recante la denominazione «parmesan» commercializzano tale prodotto con etichette che richiamano tradizioni culturali e paesaggi italiani. È legittimo dedurne che i consumatori in tale Stato membro percepiscono il formaggio «parmesan» come un formaggio associato all’Italia anche se, in realtà, è stato prodotto in un altro Stato membro”. In definitiva, e qui sta la pronuncia di grande rilievo, la Corte ha affermato che “non avendo la Repubblica federale di Germania dimostrato che la denominazione «parmesan» riveste carattere generico, l’utilizzazione del termine «parmesan» per formaggi che non sono conformi al disciplinare della DOP «Parmigiano Reggiano» deve essere considerata, nella fattispecie, lesiva della tutela riconosciuta dall’art. 13, n. 1, lett. b), del regolamento n. 2081/92”. Tuttavia, la Corte di Giustizia ha ritenuto che la Commissione, a propria volta, “non ha dimostrato che la Germania, rifiutando formalmente di perseguire come illecito l’impiego nel suo territorio della denominazione «parmesan» nell’etichettatura di prodotti non corrispondenti al disciplinare della DOP «Parmigiano Reggiano», è venuta meno agli obblighi che le incombono in forza dell’art. 13, n. 1, lett. b), del regolamento n. 2081/92”. E’ vero infatti, secondo la Commissione che “non è in discussione che l’ordinamento giuridico tedesco dispone di strumenti giuridici, come le disposizioni legislative menzionate al punto 63 della presente sentenza, per assicurare una tutela effettiva dei diritti che i singoli traggono dal regolamento n. 2081/92. Non è in discussione neppure che la possibilità di impugnare ogni comportamento idoneo a ledere i diritti derivanti da una DOP non è riservata al solo utilizzatore legittimo della stessa, ma è, al contrario, aperta ai concorrenti, alle associazioni di imprese e alle associazioni di consumatori”.

 

Corte di Giustizia CE
Sentenza 26/02/2008 La denominazione Parmesan vale solo per i prodotti DOP Inadempimento di uno Stato – Regolamento (CEE) n. 2081/92 – Protezione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni d’origine dei prodotti agricoli ed alimentari – Formaggio “Parmigiano Reggiano” – Uso della denominazione “parmesan” – Obbligo di uno Stato membro di sanzionare d’ufficio l’uso illegittimo di una denominazione d’origine protetta

 

Grande Sezione Nella causa C‑132/05, avente ad oggetto un ricorso per inadempimento ai sensi dell’art. 226 CE, proposto il 21 marzo 2005, Commissione delle Comunità europee, rappresentata dal sig. E. de March, dalla sig.ra S. Grünheid e dal sig. B. Martenczuk, in qualità di agenti, con domicilio eletto in Lussemburgo, ricorrente, sostenuta da: Repubblica ceca, rappresentata dal sig. T. Boček, in qualità di agente, Repubblica italiana, rappresentata dal sig. I.M. Braguglia, in qualità di agente, assistito dal sig. G. Aiello, avvocato dello Stato, con domicilio eletto in Lussemburgo, intervenienti, contro Repubblica federale di Germania, rappresentata dai sigg. M. Lumma e A. Dittrich, in qualità di agenti, assistiti dall’avv. M. Loschelder, Rechtsanwalt, convenuta, sostenuta da: Regno di Danimarca, rappresentato dal sig. J. Molde, in qualità di agente, con domicilio eletto in Lussemburgo, Repubblica d’Austria, rappresentata dal sig. E. Riedl, in qualità di agente, con domicilio eletto in Lussemburgo, intervenienti, LA CORTE (Grande Sezione), composta dal sig. V. Skouris, presidente, dai sigg. C.W.A. Timmermans, A. Rosas, K. Lenaerts e U. Lõhmus, presidenti di sezione, dai sigg. J.N. Cunha Rodrigues (relatore), K. Schiemann, P. Kūris, E. Juhász, E. Levits e A. Ó Caoimh, giudici, avvocato generale: sig. J. Mazák cancelliere: sig. B. Fülöp, amministratore vista la fase scritta del procedimento e in seguito alla trattazione orale del 13 febbraio 2007, sentite le conclusioni dell’avvocato generale, presentate all’udienza del 28 giugno 2007, ha pronunciato la seguente Sentenza 1 Con il ricorso in esame la Commissione delle Comunità europee chiede alla Corte di dichiarare che la Repubblica federale di Germania, rifiutando formalmente di perseguire come illecito l’impiego nel suo territorio della denominazione «parmesan» nell’etichettatura di prodotti non corrispondenti al disciplinare della denominazione d’origine protetta (in prosieguo: la «DOP») «Parmigiano Reggiano», favorendo così l’usurpazione da parte di terzi della notorietà di cui gode il prodotto autentico, tutelato a livello comunitario, è venuta meno agli obblighi che le incombono in forza dell’art. 13, n. 1, lett. b), del regolamento (CEE) del Consiglio 14 luglio 1992, n. 2081, relativo alla protezione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni d’origine dei prodotti agricoli ed alimentari (GU L 208, pag. 1). Contesto normativo 2 Il regolamento n. 2081/92 istituisce una protezione comunitaria delle denominazioni d’origine e delle indicazioni geografiche dei prodotti agricoli ed alimentari. 3 L’art. 2 del regolamento n. 2081/92 dispone quanto segue: «1. La protezione comunitaria delle denominazioni d’origine e delle indicazioni geografiche dei prodotti agricoli ed alimentari è ottenuta conformemente al presente regolamento. 2. Ai fini del presente regolamento si intende per: a) “denominazione d’origine”: il nome di una regione, di un luogo determinato o, in casi eccezionali, di un paese che serve a designare un prodotto agricolo o alimentare – originario di tale regione, di tale luogo determinato o di tale paese e – la cui qualità o le cui caratteristiche siano dovute essenzialmente o esclusivamente all’ambiente geografico comprensivo dei fattori naturali ed umani e la cui produzione, trasformazione ed elaborazione avvengano nell’area geografica delimitata; (…)». 4 L’art. 3, n. 1, di tale regolamento è così formulato: «Le denominazioni divenute generiche non possono essere registrate. Ai fini del presente regolamento, si intende per “denominazione divenuta generica” il nome di un prodotto agricolo o alimentare che, pur collegato col nome del luogo o della regione in cui il prodotto agricolo o alimentare è stato inizialmente ottenuto o commercializzato, è divenuto, nel linguaggio corrente, il nome comune di un prodotto agricolo o alimentare. Per determinare se una denominazione sia divenuta generica o meno, si tiene conto di tutti i fattori, in particolare: – della situazione esistente nello Stato membro in cui il nome ha la sua origine e nelle zone di consumo, – della situazione esistente in altri Stati membri, – delle pertinenti legislazioni nazionali o comunitarie. (…)». 5 Ai sensi dell’art. 4, n. 2, lett. g), del regolamento n. 2081/92, il disciplinare comprende almeno «i riferimenti relativi alle strutture di controllo previste all’articolo 10». 6 L’art. 5, nn. 3 e 4, di tale regolamento recita: «3. La domanda di registrazione include segnatamente il disciplinare di cui all’articolo 4. 4. La domanda di registrazione è inviata allo Stato membro sul cui territorio è situata l’area geografica». 7 L’art. 10 del detto regolamento così dispone: «1. Gli Stati membri provvedono a che entro sei mesi dall’entrata in vigore del presente regolamento vi siano strutture di controllo aventi il compito di garantire che i prodotti agricoli e alimentari recanti una denominazione protetta rispondano ai requisiti del disciplinare. 2. La struttura di controllo può essere composta da una o più autorità di controllo designate e/o da uno o più organismi privati autorizzati a tal fine dallo Stato membro. Gli Stati membri comunicano alla Commissione l’elenco delle autorità e/o degli organismi autorizzati, nonché le loro rispettive competenze. La Commissione pubblica queste informazioni nella Gazzetta ufficiale delle Comunità europee. 3. Le autorità di controllo designate e/o gli organismi privati devono offrire garanzie sufficienti di obiettività e di imparzialità nei confronti di ogni produttore o trasformatore soggetto al controllo e disporre permanentemente degli esperti e dei mezzi necessari per assicurare i controlli dei prodotti agricoli e dei prodotti alimentari recanti una denominazione protetta. Se la struttura di controllo si avvale, per taluni controlli, di un organismo terzo, quest’ultimo deve offrire le stesse garanzie. Tuttavia, le autorità di controllo designate e/o gli organismi privati autorizzati sono […] responsabili, nei confronti dello Stato membro, della totalità dei controlli. A decorrere dal 1° gennaio 1998, per ottenere l’autorizzazione dello Stato membro ai fini del presente regolamento, gli organismi devono adempiere le condizioni stabilite nella norma EN 45011, del 26 giugno 1989. 4. Qualora constatino che un prodotto agricolo o alimentare recante una denominazione protetta originaria del suo Stato membro non risponde ai requisiti del disciplinare, le autorità di controllo designate e/o gli organismi privati di uno Stato membro prendono i necessari provvedimenti per assicurare il rispetto del presente regolamento. (…) 5. Qualora le condizioni di cui ai paragrafi 2 e 3 non siano più soddisfatte, lo Stato membro revoca l’autorizzazione dell’organismo di controllo. Esso ne informa la Commissione che pubblica nella Gazzetta ufficiale delle Comunità europee un elenco riveduto degli organismi autorizzati. 6. Gli Stati membri adottano le misure necessarie per garantire che il produttore che rispetta il presente regolamento abbia accesso al sistema di controllo. 7. I costi dei controlli previsti dal presente regolamento sono sostenuti dai produttori che utilizzano la denominazione protetta». 8 Ai sensi dell’art. 13 del medesimo regolamento: «1. Le denominazioni registrate sono tutelate contro: (…) b) qualsiasi usurpazione, imitazione o evocazione, anche se l’origine vera del prodotto è indicata o se la denominazione protetta è una traduzione o è accompagnata da espressioni quali “genere”, “tipo”, “metodo”, “alla maniera”, “imitazione” o simili; (…) Se una denominazione registrata contiene la denominazione di un prodotto agricolo o alimentare che è considerata generica, l’uso di questa denominazione generica per il prodotto agricolo o alimentare appropriato non è contrario al primo comma, lettera a) o b). (…) 3. Le denominazioni protette non possono diventare generiche». 9 Ai sensi dell’art. 2 del regolamento (CE) della Commissione 12 giugno 1996, n. 1107, relativo alla registrazione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni di origine nel quadro della procedura di cui all’articolo 17 del regolamento (…) n. 2081/92 (GU L 148, pag. 1), nonché della parte A dell’allegato di tale regolamento, la denominazione «Parmigiano Reggiano» costituisce una DOP a decorrere dal 21 giugno 1996. Fase precontenziosa 10 In seguito alla denuncia sporta da vari operatori economici, la Commissione chiedeva alle autorità tedesche, con lettera 15 aprile 2003, di impartire chiare istruzioni agli organismi pubblici incaricati di perseguire le frodi affinché ponessero fine alla commercializzazione nel territorio tedesco di prodotti denominati «parmesan» non conformi al disciplinare della DOP «Parmigiano Reggiano». Secondo la Commissione, il termine «parmesan» era la traduzione della DOP «Parmigiano Reggiano» e il suo uso costituiva perciò una violazione dell’art. 13, n. 1, lett. b), del regolamento n. 2081/92. 11 La Repubblica federale di Germania rispondeva, con lettera 13 maggio 2003, che il termine «parmesan», se pure storicamente legato alla regione di Parma, era divenuto una denominazione generica per formaggi a pasta dura di varia provenienza geografica, grattugiati o da grattugiare, distinguendosi dalla DOP «Parmigiano Reggiano». Pertanto, l’uso di tale termine non integrerebbe una violazione del regolamento n. 2081/92. 12 Il 17 ottobre 2003 la Commissione inviava una lettera di diffida alla Repubblica federale di Germania cui quest’ultima rispondeva con lettera del 17 dicembre 2003. 13 La Commissione, non essendo soddisfatta delle spiegazioni ricevute dalla Repubblica federale di Germania, il 30 marzo 2004 emetteva un parere motivato, invitando tale Stato membro ad adottare le misure necessarie a conformarvisi entro due mesi dalla notifica. 14 Con lettera 15 giugno 2004 la Repubblica federale di Germania comunicava alla Commissione di voler mantenere la posizione precedentemente espressa. 15 In tale contesto, la Commissione ha deciso di proporre il presente ricorso. Sul ricorso 16 Con ordinanza del presidente della Corte 6 settembre 2005 la Repubblica italiana, da un lato, e il Regno di Danimarca nonché la Repubblica d’Austria, dall’altro, sono stati ammessi ad intervenire a sostegno delle conclusioni, rispettivamente, della Commissione e della Repubblica federale di Germania. 17 Con ordinanza del presidente della Corte 15 maggio 2006 la Repubblica ceca è stata ammessa ad intervenire a sostegno delle conclusioni della Commissione. 18 A sostegno del ricorso la Commissione deduce una sola censura, relativa al rifiuto, da parte della Repubblica federale di Germania, di perseguire come illecito l’impiego nel suo territorio della denominazione «parmesan» nell’etichettatura di prodotti non corrispondenti al disciplinare della DOP «Parmigiano Reggiano». 19 La Repubblica federale di Germania contesta l’inadempimento sulla base di tre ordini di motivi: – in primo luogo, una denominazione d’origine è protetta ai sensi dell’art. 13 del regolamento n. 2081/92 solo nella forma precisa in cui è registrata; – in secondo luogo, l’uso della parola «parmesan» non è in contrasto con la tutela garantita alla denominazione d’origine «Parmigiano Reggiano» e – in terzo luogo, essa non è tenuta a perseguire d’ufficio le violazioni del detto art. 13. Quanto alla protezione delle denominazioni composte 20 La Commissione sostiene che il sistema di tutela comunitaria è retto dal principio secondo cui la registrazione di una denominazione contenente più termini conferisce la tutela del diritto comunitario sia ai singoli elementi costitutivi della denominazione composta sia all’intera denominazione composta. L’effettiva tutela delle denominazioni composte implicherebbe, quindi, che, in linea di principio, tutti gli elementi costitutivi di una denominazione composta siano protetti contro utilizzazioni abusive. La Commissione ritiene che, per garantire tale tutela, il regolamento n. 2081/92 non richieda la registrazione di ognuno dei singoli elementi di una denominazione composta suscettibili di tutela, ma presupponga che ogni singolo elemento sia intrinsecamente protetto. Un’interpretazione del genere avrebbe trovato riscontro nella sentenza della Corte 9 giugno 1998, cause riunite C‑129/97 e C‑130/97, Chiciak e Fol (Racc. pag. I‑3315). 21 La Commissione osserva che il principio della protezione di tutti gli elementi costitutivi di una denominazione composta ammette un’unica eccezione, prevista all’art. 13, n. 1, secondo comma, del regolamento n. 2081/92: l’utilizzazione di un singolo elemento di una denominazione composta non è contraria all’art. 13, n. 1, lett. a) e b), del detto regolamento, quando tale elemento è la denominazione di un prodotto agricolo o alimentare considerata denominazione generica. Orbene, questa disposizione sarebbe superflua se si dovesse ritenere che i singoli elementi costitutivi di denominazioni registrate unicamente come denominazioni composte non siano in alcun modo tutelati. 22 Un elemento costitutivo di una denominazione utilizzato isolatamente non beneficerebbe della protezione concessa dal regolamento n. 2081/92 anche qualora gli Stati membri interessati, nel comunicare la denominazione composta in oggetto, abbiano dichiarato di non richiedere la tutela per certe parti di tale denominazione. 23 La Commissione avrebbe tenuto conto [di tale dichiarazione] al momento dell’adozione del regolamento n. 1107/96 precisando, eventualmente, in una nota a piè di pagina, che non era richiesta tutela per una parte della denominazione composta. 24 Nel caso della denominazione «Parmigiano Reggiano» nessuno dei due elementi costitutivi sarebbe stato menzionato in una nota a piè di pagina. 25 La Repubblica federale di Germania replica che una DOP beneficia della tutela ex art. 13 del regolamento n. 2081/92 solo nella forma precisa in cui è registrata. Contrariamente a quanto sostenuto dalla Commissione, non si può trarre una conclusione di segno opposto dalla citata sentenza Chiciak e Fol. 26 Inoltre, nell’ambito della controversia decisa con sentenza 25 giugno 2002, causa C‑66/00, Bigi (Racc. pag. I‑5917), la stessa Repubblica italiana avrebbe espressamente confermato di aver rinunciato alla registrazione della denominazione «Parmigiano». In tale contesto, in mancanza di registrazione, tale denominazione non rientrerebbe nell’ambito di tutela del diritto comunitario. 27 A tale proposito, dall’ottavo ‘considerando’ del regolamento n. 1107/96 risulta «che alcuni Stati membri hanno fatto presente che per talune parti delle denominazioni la protezione non era richiesta e che è opportuno tenerne conto». 28 Il regolamento n. 1107/96 precisa, rinviando alle note a piè di pagina del suo allegato, in quali casi non è stata richiesta la tutela di una parte della denominazione considerata. 29 Si deve osservare, tuttavia, che l’inesistenza di una dichiarazione nel senso che, per talune componenti di una denominazione, la tutela conferita dall’art. 13 del regolamento n. 2081/92 non è stata richiesta non può costituire un argomento sufficiente per determinare l’ampiezza di tale protezione (v., in tal senso, sentenza Chiciak e Fol, cit., punto 37). 30 Nel sistema di protezione istituito mediante il regolamento n. 2081/92 le questioni relative alla protezione da accordare ai singoli elementi di una denominazione, e segnatamente quelle relative all’eventualità che si tratti di un nome generico o di un elemento protetto contro le prassi oggetto dell’art. 13 del detto regolamento, rientrano nella competenza del giudice nazionale, che le risolverà in base ad un’analisi approfondita del contesto fattuale quale ricostruito ed illustrato dagli interessati (sentenza Chiciak e Fol, cit., punto 38). 31 In tale contesto non può avere fortuna l’argomento della Repubblica federale di Germania secondo cui una DOP beneficia della tutela ex art. 13 del regolamento n. 2081/92 solo nella forma precisa in cui è registrata. Quanto al pregiudizio arrecato alla DOP «Parmigiano Reggiano» 32 Secondo la Commissione, la commercializzazione di formaggi denominati «parmesan» non conformi al disciplinare della DOP «Parmigiano Reggiano» costituisce una violazione dell’art. 13, n. 1, lett. b), del regolamento n. 2081/92 perché il termine «parmesan» è la traduzione esatta della DOP «Parmigiano Reggiano». La traduzione, al pari della DOP nella lingua dello Stato membro che ne ha ottenuto la registrazione, sarebbe riservata esclusivamente ai prodotti conformi al disciplinare. 33 La Commissione aggiunge che, come dimostra lo stretto legame, attestato dagli sviluppi storici, tra la particolare regione geografica d’Italia dalla quale proviene tale tipo di formaggio e il termine «parmesan», quest’ultimo non è una denominazione generica distinguibile dalla DOP «Parmigiano Reggiano». 34 In ogni caso, l’uso della denominazione «parmesan» per un formaggio non conforme al disciplinare della DOP «Parmigiano Reggiano» costituirebbe un’evocazione di tale denominazione, vietata dall’art. 13, n. 1, lett. b), del regolamento n. 2081/92. 35 La Commissione afferma altresì che il termine «parmesan» non è divenuto una denominazione generica. 36 Naturalmente, una denominazione geografica potrebbe, nel tempo e attraverso l’uso, diventare una denominazione generica, nel senso che il consumatore potrebbe giungere a considerarla indicazione di un certo tipo di prodotto piuttosto che dell’origine geografica del prodotto stesso. Tale slittamento di senso si sarebbe verificato in particolare nel caso delle denominazioni «Camembert» e «Brie». 37 La Commissione prosegue affermando che il termine «parmesan» non ha mai perso la sua connotazione geografica. Infatti, se «parmesan» fosse realmente un termine neutro privo di tale connotazione, non vi sarebbero spiegazioni plausibili all’ostinazione dei produttori di imitazioni a stabilire con parole o con immagini un nesso tra i loro prodotti e l’Italia. 38 Inoltre, secondo la Commissione, il fatto che fino al 2000 venisse prodotto sul territorio italiano un formaggio denominato «parmesan» non conforme al disciplinare della DOP «Parmigiano Reggiano» non significa che il termine costituisca una denominazione generica, in Italia, per formaggi a pasta dura di origine diversa, dato che quel formaggio era destinato unicamente all’esportazione verso paesi in cui il termine «parmesan» non fruiva di alcuna protezione particolare, conformemente al principio di territorialità. D’altronde, la denominazione d’origine «Parmigiano Reggiano» è stata protetta a livello comunitario solo a partire dal 21 giugno 1996, data in cui è entrato in vigore il regolamento n. 1107/96. 39 La Repubblica federale di Germania afferma che l’uso del termine «parmesan» non costituisce una violazione dell’art. 13, n. 1, lett. b), del regolamento n. 2081/92 dato che, già secondo la Commissione, rappresenterebbe solo la traduzione della parola «Parmigiano» che è una denominazione generica, come dimostrano la situazione in Italia e in altri Stati membri nonché le normative nazionali e comunitaria. Tale termine, in quanto denominazione generica, non potrebbe beneficiare della tutela del detto regolamento. 40 In subordine, la Repubblica federale di Germania sostiene che, anche supponendo che il termine «Parmigiano» non sia una denominazione generica e che, pertanto, non si applichino a tale elemento costitutivo le disposizioni dell’art. 13, n. 1, secondo comma, del regolamento n. 2081/92, l’uso del termine «parmesan» non integra una violazione delle disposizioni relative alla tutela della denominazione d’origine «Parmigiano Reggiano». Il nome «parmesan» avrebbe subito un’evoluzione secolare a sé stante e sarebbe divenuto, in Germania, come pure in altri Stati membri, una denominazione generica. Il suo uso non costituirebbe dunque né un’usurpazione né un’evocazione della DOP «Parmigiano Reggiano». 41 A suffragio di tale tesi la Repubblica federale di Germania invoca, in primo luogo, il paragrafo 35 delle conclusioni dell’avvocato generale Ruiz-Jarabo Colomer nella causa C‑317/95, definita dall’ordinanza 8 agosto 1997, Canadane Cheese Trading e Kouri (Racc. pag. I‑4681); in secondo luogo, la citata sentenza Bigi, dove la Corte ha espressamente lasciato insoluta la questione se il termine «parmesan» costituisca un nome generico, e, in terzo luogo, il fatto che non è sufficiente constatare che il nome di un prodotto è la traduzione di una denominazione di origine. Occorrerebbe verificare di volta in volta se tale traduzione evochi effettivamente la denominazione di cui trattasi. Non la evocherebbe nell’ipotesi in cui la denominazione controversa, pur essendo inizialmente una traduzione, abbia assunto col tempo un altro significato nell’accezione corrente dei consumatori, divenendo in tal modo una denominazione generica. In quarto luogo, il detto Stato membro si appella al fatto che in Germania, unico Stato membro in cui la valutazione della genericità del termine «parmesan» è decisiva, visto il presente procedimento per inadempimento, il termine «parmesan» è considerato da sempre la denominazione generica di un formaggio a pasta dura grattugiato o da grattugiare. Ciò varrebbe, del resto, anche in altri Stati membri, Italia compresa. 42 Occorre anzitutto stabilire se, rispetto alla DOP «Parmigiano Reggiano», l’uso della denominazione «parmesan» rientri in uno dei casi contemplati dall’art. 13, n. 1, del regolamento n. 2081/92. 43 A tale proposito giova ricordare che, in forza dell’art. 13, n. 1, lett. b), del detto regolamento, le denominazioni registrate sono tutelate, in particolare, contro qualsiasi usurpazione, imitazione o evocazione, anche se l’origine vera del prodotto è indicata o se la denominazione protetta è una traduzione. 44 In merito all’evocazione di una DOP, la Corte ha stabilito che tale nozione si riferisce all’ipotesi in cui il termine utilizzato per designare un prodotto incorpori una parte di una denominazione protetta, di modo che il consumatore, in presenza del nome del prodotto, sia indotto ad aver in mente, come immagine di riferimento, la merce che fruisce della denominazione (sentenza 4 marzo 1999, causa C‑87/97, Consorzio per la tutela del formaggio Gorgonzola, Racc. pag. I‑1301, punto 25). 45 La Corte ha precisato che può esservi evocazione di una DOP in mancanza di qualunque rischio di confusione tra i prodotti di cui è causa e anche quando nessuna tutela comunitaria si applichi agli elementi della denominazione di riferimento ripresi dalla terminologia controversa (sentenza Consorzio per la tutela del formaggio Gorgonzola, cit., punto 26). 46 Nella presente causa sussistono analogie fonetiche ed ottiche fra le denominazioni «parmesan» e «Parmigiano Reggiano» in un contesto in cui i prodotti di cui è causa sono formaggi a pasta dura, grattugiati o da grattugiare, cioè simili nel loro aspetto esterno (v., in tal senso, sentenza Consorzio per la tutela del formaggio Gorgonzola, cit., punto 27). 47 Peraltro, che la denominazione «parmesan» sia o meno la traduzione esatta della DOP «Parmigiano Reggiano» o del termine «Parmigiano», si deve tener conto anche della somiglianza concettuale tra tali due termini, pur di lingue diverse, testimoniata dal dibattito dinanzi alla Corte. 48 Tale somiglianza, come già le somiglianze fonetiche e ottiche rilevate al punto 46 della presente sentenza, è idonea ad indurre il consumatore a prendere come immagine di riferimento il formaggio recante la DOP «Parmigiano Reggiano» quando si trova dinanzi ad un formaggio a pasta duro, grattugiato o da grattugiare, recante la denominazione «parmesan». 49 In tale contesto, l’uso della denominazione «parmesan» dev’essere considerato un’evocazione della DOP «Parmigiano Reggiano» ai sensi dell’art. 13, n. 1, lett. b), del regolamento n. 2081/92. 50 Sapere se la denominazione «parmesan» sia la traduzione della DOP «Parmigiano Reggiano» è quindi irrilevante ai fini dell’esame del presente ricorso. 51 La Repubblica federale di Germania sostiene, tuttavia, che, siccome la denominazione «parmesan» è divenuta una denominazione generica, utilizzarla non equivale ad evocare illecitamente la DOP «Parmigiano Reggiano». 52 Spettava alla Repubblica federale di Germania dimostrare la fondatezza di tale argomento, tanto più che la Corte ha già affermato che è tutt’altro che evidente che la denominazione «parmesan» sia divenuta generica (sentenza Bigi, cit., punto 20). 53 Nel valutare la genericità di una denominazione occorre prendere in considerazione, conformemente all’art. 3, n. 1, del regolamento n. 2081/92, i luoghi di produzione del prodotto considerato sia all’interno sia al di fuori dello Stato membro che ha ottenuto la registrazione della denominazione in oggetto, il consumo di tale prodotto e il modo in cui viene percepita dai consumatori la sua denominazione all’interno e al di fuori del detto Stato membro, l’esistenza di una normativa nazionale specifica relativa al detto prodotto, nonché il modo in cui la detta denominazione è stata utilizzata nella legislazione comunitaria (v. sentenza 25 ottobre 2005, cause riunite C‑465/02 e C‑466/02, Germania e Danimarca/Commissione, Racc. pag. I‑9115, punti 76‑99). 54 Orbene, come ha rilevato l’avvocato generale ai paragrafi 63 e 64 delle conclusioni, la Repubblica federale di Germania si è limitata a produrre citazioni tratte da dizionari e da letteratura specializzata che non offrono un quadro completo del modo in cui il termine «parmesan» è percepito dai consumatori in Germania e in altri Stati membri, e non ha presentato neppure dati relativi alla produzione o al consumo del formaggio commercializzato con la denominazione «parmesan» in Germania o in altri Stati membri. 55 Inoltre, dalla documentazione sottoposta alla Corte risulta che in Germania alcuni produttori di formaggio recante la denominazione «parmesan» commercializzano tale prodotto con etichette che richiamano tradizioni culturali e paesaggi italiani. È legittimo dedurne che i consumatori in tale Stato membro percepiscono il formaggio «parmesan» come un formaggio associato all’Italia anche se, in realtà, è stato prodotto in un altro Stato membro (v., in tal senso, sentenza Germania e Danimarca/Commissione, cit., punto 87). 56 All’udienza, infine, la Repubblica federale di Germania non ha fornito informazioni neppure sulle quantità di formaggio prodotto in Italia con la DOP «Parmigiano Reggiano» importate in Germania, non permettendo così alla Corte di avvalersi dei dati relativi al consumo di tale formaggio per concludere in ordine alla genericità o meno della denominazione «parmesan» (v., in tal senso, sentenza Germania e Danimarca/Commissione, cit., punto 88). 57 Ne consegue che, non avendo la Repubblica federale di Germania dimostrato che la denominazione «parmesan» riveste carattere generico, l’utilizzazione del termine «parmesan» per formaggi che non sono conformi al disciplinare della DOP «Parmigiano Reggiano» deve essere considerata, nella fattispecie, lesiva della tutela riconosciuta dall’art. 13, n. 1, lett. b), del regolamento n. 2081/92. Quanto all’obbligo della Repubblica federale di Germania di perseguire le violazioni dell’art. 13, n. 1, del regolamento n. 2081/92 58 La Commissione fa valere che la Repubblica federale di Germania è tenuta, ai sensi degli artt. 10 e 13 del regolamento n. 2081/92, a prendere d’ufficio le misure necessarie per reprimere i comportamenti lesivi delle DOP. A suo avviso, l’intervento degli Stati membri comprende, sui piani amministrativo e penale, misure atte a permettere la realizzazione degli obiettivi di tale regolamento in materia di protezione delle denominazioni d’origine. I prodotti non conformi alle prescrizioni del regolamento non potrebbero essere messi in circolazione. 59 La Commissione precisa che le sue censure non riguardano né la normativa tedesca né una qualsivoglia impossibilità di ricorso dinanzi ai tribunali nazionali, bensì la prassi amministrativa delle autorità tedesche in contrasto con la legislazione comunitaria. Se gli Stati membri fossero sollevati dal loro obbligo di intervento e se, quindi, i singoli operatori economici dovessero agire in giudizio ogniqualvolta venga violato il loro diritto d’uso esclusivo della DOP sull’intero territorio dell’Unione europea, gli obiettivi del regolamento n. 2081/92 non potrebbero essere raggiunti. 60 Sempre secondo la Commissione, in una causa che oppone operatori economici privati, il punto centrale è che siano rispettati i diritti di proprietà intellettuale di cui godono i produttori stabiliti nella regione d’origine del prodotto in questione, laddove la repressione da parte dei poteri pubblici delle infrazioni all’art. 13 del regolamento n. 2081/92 è volta a tutelare non interessi economici privati, bensì i consumatori, le cui aspettative quanto a qualità e ad origine geografica del prodotto non devono essere deluse. La tutela dei consumatori perseguita dal regolamento sarebbe compromessa se l’attuazione dei divieti previsti dallo stesso fosse rimessa integralmente all’iniziativa processuale degli operatori economici privati. 61 La Commissione conclude che il comportamento della Repubblica federale di Germania deve essere assimilato ad una violazione per omissione del diritto comunitario. 62 Da parte sua, la Repubblica federale di Germania sostiene che l’art. 13 del regolamento n. 2081/92 definisce l’ambito d’applicazione della protezione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni d’origine registrate. Dato l’effetto diretto del regolamento, tale articolo sarebbe idoneo a conferire ai titolari o agli utilizzatori legittimi delle DOP diritti che le giurisdizioni nazionali hanno l’obbligo di tutelare. 63 L’applicabilità diretta del regolamento n. 2081/92 non dispenserebbe gli Stati membri dall’obbligo di adottare misure nazionali che permettano di assicurare la sua attuazione. La Repubblica federale di Germania avrebbe adottato, in ogni caso, numerose disposizioni legislative atte a contrastare l’uso illecito delle DOP, in particolare la legge sulla lotta alla concorrenza sleale (Gesetz gegen den unlauteren Wettbewerb), del 7 giugno 1909, e la legge relativa alla tutela dei marchi e di altri segni distintivi (Gesetz über den Schutz von Marken und sonstigen Kennzeichen), del 25 ottobre 1994 (BGBl. 1994 I, pag. 3085). 64 Non solo. La possibilità di impugnare ogni comportamento lesivo dei diritti derivanti da una DOP non sarebbe riservata al solo titolare della medesima. Al contrario, essa sarebbe aperta ai concorrenti, alle associazioni d’imprese e alle associazioni dei consumatori. L’ampia cerchia di soggetti legittimati a proporre ricorso già basterebbe a mostrare che le disposizioni in vigore nella Repubblica federale di Germania non si limitano ad offrire una tutela dei diritti di proprietà intellettuale propri dei produttori stabiliti nella regione d’origine del prodotto in questione. Esse creerebbero un sistema generale ed efficace atto ad impedire violazioni dell’art. 13 del regolamento n. 2081/92 e a sanzionarle efficacemente per via giudiziaria. 65 Riconoscendo questi diritti civili, la Repubblica federale di Germania avrebbe preso tutte le dovute misure per assicurare la piena e completa applicazione dell’art. 13, n. 1, del regolamento n. 2081/92. Non sarebbe necessario che le autorità pubbliche sanzionino d’ufficio, con misure di polizia amministrativa, le violazioni di tale disposizione, né lo imporrebbero gli artt. 10 e 13 del medesimo regolamento. Secondo la Repubblica federale di Germania, dal confronto tra le varie versioni linguistiche dell’art. 10, n. 4, del regolamento n. 2081/92 emerge che, data l’origine italiana della DOP «Parmigiano Reggiano», spetta al Consorzio del Formaggio Parmigiano Reggiano, e non agli organi di controllo tedeschi, verificare che la denominazione venga utilizzata in maniera conforme al disciplinare. 66 Se è vero – come considera la Commissione – che la sanzione inflitta dallo Stato membro interessato per le violazioni dell’art. 13 del regolamento n. 2081/92 deve assicurare la tutela non soltanto degli interessi economici privati, ma anche dei consumatori, nulla nel regolamento lascerebbe ritenere che, contrariamente a quanto accade per altri diritti di proprietà intellettuale o per disposizioni di tutela della concorrenza, per la protezione delle denominazioni d’origine i rimedi giurisdizionali non siano sufficienti. 67 La Repubblica federale di Germania fa valere, infine, che se, in Germania, l’uso della denominazione «parmesan» per prodotti non corrispondenti al disciplinare della DOP «Parmigiano Reggiano» non è oggetto di procedimenti d’ufficio né di sanzioni penali, ammesso che tale utilizzo integri una violazione dell’art. 13, n. 1, del regolamento n. 2081/92, è semplicemente perché essa ha rinunciato a modalità sanzionatorie che gli Stati membri possono, sì, prevedere, ma che allo stato attuale del diritto comunitario non sono tenute ad adottare. 68 A tale proposito occorre ricordare che la facoltà di cui godono i cittadini di far valere le disposizioni di un regolamento dinanzi ai giudici nazionali non dispensa gli Stati membri dall’adottare le misure interne che permettano di assicurarne la piena e completa applicazione qualora ciò si renda necessario (v., in particolare, sentenza 20 marzo 1986, causa 72/85, Commissione/Paesi Bassi, Racc. pag. 1219, punto 20). 69 Non è in discussione che l’ordinamento giuridico tedesco dispone di strumenti giuridici, come le disposizioni legislative menzionate al punto 63 della presente sentenza, per assicurare una tutela effettiva dei diritti che i singoli traggono dal regolamento n. 2081/92. Non è in discussione neppure che la possibilità di impugnare ogni comportamento idoneo a ledere i diritti derivanti da una DOP non è riservata al solo utilizzatore legittimo della stessa, ma è, al contrario, aperta ai concorrenti, alle associazioni di imprese e alle associazioni di consumatori. 70 Se ne desume che una normativa siffatta è idonea a garantire la tutela di interessi diversi da quelli dei produttori dei beni protetti da una DOP, segnatamente: gli interessi dei consumatori. 71 All’udienza, la Repubblica federale di Germania ha del resto indicato che a quella data erano in corso dinanzi ai giudici tedeschi procedimenti relativi all’uso in Germania della denominazione «parmesan», uno dei quali avviato dal Consorzio del Formaggio Parmigiano Reggiano. 72 Per quanto riguarda la censura della Commissione vertente sull’obbligo degli Stati membri di adottare d’ufficio le misure necessarie a perseguire la violazione dell’art. 13, n. 1, del detto regolamento, occorre considerare quanto segue. 73 Innanzi tutto, un obbligo del genere non deriva dall’art. 10 del regolamento n. 2081/92. 74 Vero è che, per assicurare l’efficacia delle disposizioni del regolamento n. 2081/92, l’art. 10, n. 1, prevede che gli Stati membri provvedano a che entro sei mesi dall’entrata in vigore del regolamento siano predisposte strutture di controllo. Essi sono dunque tenuti a creare tali strutture. 75 Tuttavia, l’art. 10, n. 4, del regolamento n. 2081/92, disponendo che «[q]ualora constatino che un prodotto agricolo o alimentare recante una denominazione protetta originaria del suo Stato membro non risponde ai requisiti del disciplinare, le autorità di controllo designate e/o gli organismi privati di uno Stato membro prendono i necessari provvedimenti per assicurare il rispetto del presente regolamento (…)», indica che le autorità di controllo designate e/o gli organismi privati di uno Stato membro sono quelli dello Stato membro di provenienza della DOP. 76 Il fatto che, al n. 3, parli di «produttore o trasformatore soggetto al controllo», al n. 6, del diritto dei produttori all’accesso al sistema di controllo e, al n. 7, dell’obbligo dei produttori di sostenere i costi dei controlli, conferma che l’art. 10 del regolamento n. 2081/92 riguarda obblighi degli Stati membri da cui proviene la DOP. 77 Tale interpretazione è ulteriormente confortata dal combinato disposto degli artt. 4, n. 2, lett. g), e 5, nn. 3 e 4, del regolamento n. 2081/92 dal quale emerge che la domanda di registrazione deve includere il disciplinare, che tale domanda deve essere inviata allo Stato membro sul cui territorio è situata l’area geografica interessata e che il detto disciplinare deve contenere «i riferimenti relativi alle strutture di controllo previste all’articolo 10». 78 Ne consegue che gli organi di controllo cui incombe l’obbligo di assicurare il rispetto del disciplinare delle DOP sono quelli dello Stato membro da cui proviene la DOP medesima. Il controllo sul rispetto del disciplinare nell’uso della DOP «Parmigiano Reggiano» non compete quindi alle autorità di controllo tedesche. 79 È vero che l’art. 13, n. 1, lett. b), del regolamento n. 2081/92 prescrive la protezione delle denominazioni registrate contro qualsiasi «usurpazione, imitazione o evocazione, anche se l’origine vera del prodotto è indicata o se la denominazione protetta è una traduzione o è accompagnata da espressioni quali “genere”, “tipo”, “metodo”, “alla maniera”, “imitazione” o simili». 80 Nondimeno, da un lato, la Commissione non ha dimostrato che la Repubblica federale di Germania ha disatteso gli obblighi derivanti dal regolamento n. 2081/92 e, dall’altro, non ha presentato elementi nel senso che misure come quelle menzionate al punto 63 della presente sentenza non siano state adottate o non fossero idonee a tutelare la DOP «Parmigiano Reggiano». 81 Tutto ciò considerato, occorre dichiarare che la Commissione non ha dimostrato che la Repubblica federale di Germania, rifiutando formalmente di perseguire come illecito l’impiego nel suo territorio della denominazione «parmesan» nell’etichettatura di prodotti non corrispondenti al disciplinare della DOP «Parmigiano Reggiano», è venuta meno agli obblighi che le incombono in forza dell’art. 13, n. 1, lett. b), del regolamento n. 2081/92. 82 Pertanto, il ricorso della Commissione deve essere respinto. Sulle spese 83 A norma dell’art. 69, n. 2, del regolamento di procedura, la parte soccombente è condannata alle spese se ne è stata fatta domanda. Poiché la Repubblica federale di Germania ne ha fatto domanda, la Commissione, rimasta soccombente, deve essere condannata alle spese. Ai sensi del n. 4 del detto articolo, la Repubblica ceca, il Regno di Danimarca, la Repubblica italiana nonché la Repubblica d’Austria sopporteranno ciascuna le proprie spese. Per questi motivi, la Corte (Grande Sezione) dichiara e statuisce: 1) Il ricorso è respinto. 2) La Commissione delle Comunità europee è condannata alle spese. 3) La Repubblica ceca, il Regno di Danimarca, la Repubblica italiana nonché la Repubblica d’Austria sopporteranno ciascuna le proprie spese.