Categoria: Proprietà industriale e opere dell’ingegno

Paternità dell’opera d’arte: quale il ruolo del giudice?

COMMENTO ALLA SENTENZA DEL TRIB. DI ROMA DEL 15-05-2017 (leggi qui il testo integrale della sentenza)

Il rapporto tra diritto e arte è da sempre terreno di accesi dibatti, sia dottrinali che giurisprudenziali. La sentenza in commento affronta due questioni particolarmente controverse: la prima riguarda la possibilità di chiedere l’accertamento giudiziale della paternità di un’opera d’arte nell’ipostesi in cui l’attribuzione sia controversa, ossia, in altre parole, se sussista un diritto, ed un conseguente potere giudiziale, di accertare con crisma di verità l’autenticità di un’opera; la seconda, invece, verte sulla facoltà del proprietario di un’opera d’arte di chiedere ad un soggetto, cui il mondo dell’arte attribuisce credibilità, il risarcimento dei danni derivanti dal rilascio di un parere che condiziona la commerciabilità del bene.

La controversia origina da una compravendita avente ad oggetto un’opera di un noto pittore (“senza titolo 973/1978 smalto su tela”), conclusa tra una società attiva nel campo dell’intermediazione e commercializzazione di opere d’arte e un collezionista.

L’acquirente, divenuto proprietario, vedeva rifiutata la propria richiesta di far inserire l’opera nell’Archivio generale del pittore, in quanto, a parere della fondazione responsabile, non sussistevano “elementi sufficienti per poter attribuire tale opera alla mano del pittore defunto”. Pertanto, il collezionista otteneva dal venditore la refusione del prezzo pagato, mediante permuta con un’opera certificata di pari valore.

A seguito di tali avvenimenti il venditore citava in giudizio la fondazione e il legale rappresentante della stessa, avanzando una duplice richiesta:
– che venisse accertata giudizialmente la paternità dell’opera il cui inserimento nell’archivio generale era stato negato;
– che i responsabili del rifiuto venissero condannati al risarcimento del danno extracontrattuale derivante dalla potenziale incommerciabilità dell’opera. Parte attrice, infatti, sosteneva che il mancato riconoscimento dell’autenticità dell’opera da parte della fondazione e il conseguente rifiuto di inserire la stessa nell’Archivio generale dell’artista, circostanze queste che di fatto rendevano il bene incommerciabile, fossero dipese da un parere rilasciato in violazione dei più basilari principi di diligenza professionale.

Il giudice, per le ragiono di cui si dirà, seppur in modo conciso, di seguito, respingeva in toto la domanda attorea.

In merito alla prima domanda, l’estensore ha rigettato la stessa fondando il proprio giudizio su due ragioni, una di diritto, l’altra di fatto.

Quanto alla prima, nella sentenza viene, innanzitutto, posto in evidenza come la funzione propria dell’azione di cognizione sia quella di determinare la certezza o meno sull’esistenza di un diritto.
Ebbene, nel caso di specie, parte attrice, nel domandare giudizialmente l’accertamento della paternità dell’opera, chiede “non l’accertamento di un diritto, bensì la verifica dell’esistenza di tutta una serie di qualità del bene, quali il tratto, i colori, l’uso di una determinata tela o di un certo soggetto, i quali, se insieme considerati, possono condurre e concorrere ad un giudizio di probabilità in relazione all’esecuzione da parte di un determinato artista, che operava secondo schemi noti. Ma l’azione giudiziale non può che arrestarsi di fronte alla percezione delle caratteristiche dell’opera. Il giudizio di sintesi sulla riconducibilità dell’opera pittorica all’artista non può essere demandato al giudice, poiché, come si è detto, l’azione di accertamento, anche mero, è comunque finalizzata alla sussistenza di diritti, non di dati fattuali”.

Dal punto di vista fattuale, poi, il giudice argomenta che il giudizio sull’autenticità di un opera, essendo quello degli esperti d’arte un settore di nicchia, dove sono pochissimi coloro che si occupano di un determinato artista, si risolverebbe in un giudizio di maggiore credibilità di un esperto piuttosto che di un altro. Infatti, al fine di verificare l’autenticità di un’opera d’arte “le corti si limiterebbero a disporre una consulenza tecnica di ufficio e ad operare un giudizio di credibilità di tale c.t.u.; l’accertamento giudiziale sull’autenticità dell’opera sarebbe quindi un’expertise validata dalle corti, trasportando in tribunale la dialettica tra diversi pareri che regna nel mondo dell’arte”.

Infine, quanto alle ragioni che hanno portato alla reiezione della domanda risarcitoria di parte attrice, è stato rilevato come, pur potendosi ammettere che un parere proveniente da soggetti cui il mondo dell’arte attribuisce credibilità sia potenzialmente foriero di un danno risarcibile, tale parere dovrebbe “essere di marchiana grossolanità e dovrebbe strutturarsi ex se come atto illecito”. Nella specie, per contro, “non è stata data prova del fatto che la perizia della convenuta fosse caratterizzata dalla dolosa volontà di pregiudicare l’attrice. E d’altronde l’expertise era formulata con caratteri dubitativi che escludono alla radice un’ipotesi di dolo”.

Riccardo Orlandi


Diritto d’autore, opere d’arte, paternità | Trib. Roma, 15.05.17

TRIBUNALE DI ROMA; sezione specializzata in materia di impresa; sentenza, 15-05-2017

Esposizioni delle ragioni in fatto ed in diritto.
— La società Alfa (attrice), attiva nel campo dell’intermediazione e commercializzazione di opere d’arte, agiva in giudizio nei confronti dell’Archivio Beta (convenuto) e della sua legale rappresentante M. B., per l’accertamento giudiziale dell’autenticità dell’opera attribuita al maestro Beta «senza titolo 1973/1978 smalto su tela», già munito del parere di autenticità rilasciato dalla fondazione Beta multistudio, nonché per il risarcimento del danno, che valutava in complessivi euro 40.000, derivante dall’emissione da parte della convenuta di un parere relativo all’autenticità dell’opera non corrispondente ai necessari obblighi di diligenza e perizia. Rappresentava in punto di fatto che l’opera precedentemente menzionata era stata da lei venduta a G. C., noto collezionista, al prezzo di euro 40.000 e che il collezionista, il 18 luglio 2014, aveva ricevuto notizia dell’impossibilità di inserire il dipinto nell’archivio generale dell’opera Beta su parere sfavorevole della fondazione «Archivio Beta» a fronte dell’«insussistenza di elementi sufficienti per poter attribuire tale opera alla mano del pittore defunto»; in conseguenza di ciò il collezionista si era rivolto al venditore, odierna parte attrice, restituendo l’opera ed ottenendo la rifusione del prezzo pagato mediante permuta con un’opera certificata di pari valore. Parte attrice, oltre a domandare l’accertamento dell’originalità dell’opera, contestava in sé il parere rilasciato, contrario all’inserimento dell’opera nell’Archivio Beta, in quanto imperito e superficiale e rappresentava di avere commissionato una perizia grafologica sulla sottoscrizione apposta sul dipinto, che aveva concluso per la genuinità della sottoscrizione del maestro; lamentava quindi la superficialità del parere della convenuta ed evidenziava inoltre come l’attribuzione di una determinata opera d’arte ad un artista non poteva essere attribuita come prerogativa di unico soggetto, giacché chiunque può rilasciare, come da costante giurisprudenza, un parere di autenticità sulle opere d’arte. Dal momento, però, che il parere dell’Archivio convenuto era particolarmente significativo nella commercializzazione dell’opera ed era stato rilasciato in violazione dei più elementari principî di diligenza professionale, tale illecito aveva determinato nel patrimonio dell’attrice — a suo dire — un danno aquiliano pari al valore dell’opera venduta, la quale, senza il parere di autenticità rilasciato dall’Archivio convenuto, risultava di fatto incommerciabile. Si costituiva in giudizio l’Archivio Beta e la signora M.B., eccependo preliminarmente il difetto di legittimazione ad agire da parte dell’attrice, non avendo questa precisato a quale titolo fosse nella disponibilità dell’opera (originariamente l’attrice ha semplicemente asserito di essere nella disponibilità dell’opera e soltanto in corso di causa ha precisato che l’opera d’arte  de qua le è stata restituita da parte del compratore), denunciando un fumus persecutionis nei confronti dell’Archivio convenuto, avendo parte attrice già introdotto numerose azioni civili nei confronti della convenuta per l’accertamento dell’autenticità di rispettive opere d’arte e rappresentando, nel merito, che l’autenticazione dell’opera d’arte non può che essere effettuata ai sensi dell’art. 20 l.d.a. dallo stesso autore dell’opera e che residua agli eredi non tanto il potere di autenticare l’opera quanto quello di rivendicarla ai sensi dell’art. 20 l.d.a., fattispecie diversa dall’autentica che può provenire esclusivamente da colui che materialmente ha realizzato un’opera d’arte. Precisava inoltre di non avere mai affermato la falsità dell’opera, ma esclusivamente «che la stessa non era in possesso dei requisiti necessari anche nell’esecuzione della firma» affinché l’opera potesse essere inserita nell’archivio generale dell’opera di Beta; quello rilasciato quindi da parte convenuta era esclusivamente un parere, come altri potevano essere emessi nell’ambito dell’arte, che poteva essere anche superato da diversi contrari pareri e che ciò nulla aveva a che vedere con la commerciabilità dell’opera; la circostanza poi che il mondo dell’arte riteneva non commerciabili le opere d’arte prive della necessaria attestazione da parte dell’Archivio era circostanza a lei ignota e comunque non imputabile. Si opponeva anche ad ogni profilo risarcitorio, non ravvisando alcuna condotta illecita nell’avere emanato un parere, che, come tale, non assume alcuna funzione vincolante nei confronti dell’ipotetico compratore. 
All’udienza del 17 dicembre 2015, il giudice, ottenuta ogni precisazione sull’azione intrapresa dalla società attrice, ordinava l’integrazione del contraddittorio nei confronti dell’originario acquirente dell’opera G. C., posto che dalle allegazioni di parte attrice non era chiaro se lo stesso fosse ancora proprietario dell’opera. Nella medesima udienza parte attrice chiariva che l’azione era finalizzata principalmente all’ac-certamento della paternità dell’opera ed in secondo luogo alla liquidazione del danno extracontrattuale derivante dalla potenziale incommerciabilità dell’opera stessa. Il giudice ordinava inoltre l’estensione del contraddittorio nei confronti del co-titolare del diritto d’autore del defunto maestro Mario Schifano: M. G. Il chiamato G.C. si costituiva in giudizio con comparsa di costituzione del 2 maggio 2016, chiarendo che non era più proprietario dell’opera e chiedendo quindi che venisse pronunciato il suo difetto di legittimazione passiva. Si costituiva anche M. G., aderendo alle difese di parte convenuta. Le istanze istruttorie delle parti venivano successivamente disattese, avendo il giudice istruttore ritenuto ininfluente ai fini del decidere l’accertamento del fatto che i colori utilizzati per la realizzazione dell’opera  sub iudice erano i colori tradizionalmente utilizzati dal maestro Mario Schifano per la realizzazione delle proprie opere e ritenuta pacifica fra le parti l’ulteriore circostanza che la casa d’aste Christie’s International vendeva le opere del maestro solo se accompagnate dalla dichiarazione di autenticità resa dall’Archivio Beta. Sulla base quindi degli elementi acquisiti al fascicolo, la causa veniva rimessa al collegio con assegnazione dei termini di legge. 
La domanda non può essere accolta. Così come precisato dalla stessa parte attrice all’udienza del 17 dicembre 2015, l’oggetto principale dell’azione è l’accertamento della paternità dell’opera di cui la società attrice è attualmente proprietaria. Non è in discussione fra le parti il principio, ripetutamente affermato dalle corti, per cui ciascun esperto possa rilasciare un parere (expertise) in ordine all’autenticità di un’opera d’arte e che conseguentemente non vi può essere un soggetto che si possa arrogare in via esclusiva il diritto di rilasciare pareri sull’autenticità di un’opera. Oggetto, quindi, del presente giudizio è eminentemente se, nell’ipotesi di discordanza fra pareri, ovvero nella loro incertezza, l’autenticità dell’opera possa essere ottenuta giudizialmente, ovverosia se sussista un diritto, ed un conseguente potere, giudiziale, di accertare con carisma di verità l’autenticità di un’opera d’arte. La questione non è nuova: già in passato le corti si sono occupate del problema dell’accertamento giudiziale dell’autenticità dell’opera d’arte (v. Cass. 2765/82,  Foro it., 1982, I, 2864), escludendo che lo stesso potesse essere effettuato mediante riferimento all’art. 72 l. not. (autentica di sottoscrizione), ma ammettendo che si potesse accertare la falsità dell’autentica rilasciata dall’artista, giungendo ad ipotizzare anche un’ipotesi di danno all’integrità del patrimonio del potenziale acquirente nell’ipotesi di autentica non corrispondente all’effettiva paternità dell’opera (ipotesi, questa, non coltivata dalla successiva giurisprudenza di merito).L’autentica dell’artista non è quindi  ex se un dato inoppugnabile sull’autenticità dell’opera, potendosi ben verificare l’ipotesi di artista che, anche per esigenze di denaro, o per altri interessi, autentichi opere non originali, così come la parallela ipotesi di un artista che si rifiuti di autenticare opere proprie, ma costituisce piuttosto un dato oggettivo dotato di speciale autorevolezza, credibilità e pregnanza (una presunzione iuris tantum, come si direbbe in linguaggio giuridico), che può comunque essere disattesa da un parere di segno diverso.Il riportare l’«autentica» nell’alveo dei pareri, expertise, seppure in considerazione del valore che assume sul mercato l’autentica da parte dello stesso esecutore, consente di risolvere, con un certo agio, le questioni giuridiche portate all’attenzione di questo collegio e di potere affermare i seguenti principî: ciascuno, compreso naturalmente l’artista esecutore, può rilasciare pareri sull’autenticità di un’opera d’arte; — l’autentica è un’opinione «privilegiata» di un artista che si assume la paternità di un’opera d’arte; — ogni parere, nella diversa valenza, a seconda che promani dall’autore ovvero da soggetti che abbiano maturato credibilità nel mondo accademico e dell’arte, può essere messo in discussione da un parere di segno diverso, fatto questo che spesso non consente di pervenire ad un giudizio di assoluta certezza sulla paternità dell’opera; — in assenza di dati inoppugnabili, quali la documentazione fotografica dell’artista mentre realizza l’opera, non è possibile quindi accertare se un’opera pittorica sia veramente attribuibile ad un certo autore sulla sola base del tratto ovvero della firma, se non in termini probabilistici. — non esiste quindi un diritto, giudizialmente tutelabile, all’accertamento dell’autenticità di un’opera. — Quest’ultima affermazione merita un chiarimento. Al di là delle difficoltà oggettive e fattuali per la riconduzione di un dipinto ad un artista, questo collegio dubita che possa essere garantito dall’ordinamento giuridico un diritto all’accertamento  pro veritate dell’appartenenza di un’opera d’arte ad uno specifico artista, per due ragioni principali, la prima in diritto, la seconda in fatto. Va premesso che, in punto di diritto, se è vero che l’azione di accertamento giudiziale o cognizione ha per obiettivo l’enunciare l’esistenza di un diritto come volontà prescrittiva della legge nel dirimere un caso concreto, allora verrebbe qui in considerazione esclusivamente l’attività di «mero accertamento», ovvero la diversa esigenza di determinare la certezza o meno sull’esistenza di un diritto. L’accertamento infatti qui non appare finalizzato a conferire verità processuale ed a rendere effettiva una norma applicabile nel caso concreto, bensì solo ad accertare un diritto in sé astrattamente considerato. L’attenzione deve essere quindi focalizzata su quale sia il diritto che parte attrice ritiene dover essere oggetto dell’accertamento giudiziale. Tale diritto non può riguardare naturalmente la proprietà dell’opera, essendo pacifico ed indiscusso che l’opera d’arte pittorica sub iudice appartiene a parte attrice, né può riguardare il diritto morale d’autore, che pacificamente, per stessa ammissione di parte attrice, appartiene ai sensi dell’art. 20 l.d.a., agli eredi dell’autore defunto, ovvero — in astratto — allo stesso materiale artefice dell’opera d’arte e che comunque, come si dirà in seguito, nulla ha a che fare con l’autentica dell’opera.In assenza di diritto oggetto di mero accertamento non vi può essere azione esperibile. Non vi è infatti un diritto processualmente accertabile. Nel domandare giudizialmente l’accertamento della paternità dell’opera, parte attrice domanda quindi, in sostanza, non l’accertamento di un diritto, bensì la verifica dell’esistenza di tutta una serie di qualità del bene, quali il tratto, i colori, l’uso di una determinata tela o di un certo soggetto, i quali, se insieme considerati, possono condurre e concorrere ad un giudizio di probabilità in relazione all’esecuzione da parte di un determinato artista, che operava secondo schemi noti. Ma l’azione giudiziale non può che arrestarsi di fronte alla percezione delle caratteristiche dell’opera. Il giudizio di sintesi sulla riconducibilità dell’opera pittorica all’artista non può essere demandato al giudice, poiché, come si è detto, l’azione di accertamento, anche mero, è comunque finalizzata alla sussistenza di diritti, non di dati fattuali. Non ignora questo giudicante, così come peraltro ripetutamente sottolineato da parte attrice nei propri atti, che la Corte d’appello di Milano, in ipotesi analoga (ma non identica, poiché in tale fattispecie una galleria si era pronunciata per la non genuinità dell’opera, mentre nell’ipotesi odierna la convenuta si è semplicemente limitata ad affermare di non avere elementi sufficienti per potersi pronunciare sull’opera), ha affermato il principio della possibilità di accertare giudizialmente la paternità dell’opera d’arte. La pronuncia della Corte d’appello di Milano — in cui il principio  de quo è peraltro concentrato in poche e assiomatiche righe motivazionali — non può però essere condivisa.Il giudice meneghino, infatti, è partito dal presupposto — corretto — che oggetto dell’azione di accertamento è esclusivamente «una situazione giuridica di natura sostanziale» e quindi non una situazione di mero fatto, ma ha di seguito affermato l’equivalenza tra la paternità artistica dell’opera e la natura stessa del bene. La paternità dell’opera non sarebbe quindi un fatto estraneo al bene stesso, ma si integrerebbe nel bene fino a diventare parte essenziale «del contenuto del diritto di proprietà», sovrapponendo quindi la proprietà quale signoria sul bene, con le qualità estrinseche del bene. Quest’ultima affermazione non può essere condivisa. Non è qui infatti in contestazione il diritto di proprietà di un’opera (il dipinto è incontestatamente di proprietà della società Alfa), bensì le caratteristiche che potrebbero orientare il compratore al suo acquisto e, in sostanza, il valore di mercato che le viene attribuito sulla base dell’apprezzamento del mondo dell’arte. Ad avviso di questo collegio debbono invece sempre essere tenuti distinti il contenuto proprio del diritto assoluto di proprietà, che equivale all’uso esclusivo del bene e dal diritto di escludere i terzi dal godimento dell’opera, dall’accertamento delle qualità e del valore dell’opera mediante certo riferimento ad un determinato soggetto esecutore, che non può avvenire se non in termini probabilistici. Se il primo diritto è tutelabile dall’ordinamento sotto le forme del diritto soggettivo, il secondo può essere tutelato solo nelle forme dell’accertamento tecnico, lasciando poi spazio a opinioni, tra le quali svolgono un ruolo fondamentale le expertise, tra cui la stessa autentica dell’autore. Solo l’artista, infatti, sa con certezza se l’opera gli appartenga o meno (ma non è detto che tale certezza si riverberi nel contenuto dell’autentica). Il problema dell’attendibilità del-l’expertise può essere quindi traslato, tal quale, anche all’autentica fatta dall’esecutore (o presunto tale). Una volta deceduto l’esecutore, la certezza sulla paternità dell’opera diventa ancora più labile e maggiore rilievo assumono i pareri degli esperti. Non è quindi irragionevole pensare, come ha fatto parte attrice, che un parere, se superficiale e grossolano, e se proveniente da soggetto cui il mondo dell’arte attribuisce credibilità, sia potenzialmente foriero di un danno contrattuale risarcibile, secondo i tradizionali schemi dell’esecuzione imperita di un incarico. Ma tale parere deve essere di marchiana grossolanità e deve strutturarsi  ex se come atto illecito (quale l’affermare la falsità di ciò che si sa essere autentico al solo fine di danneggiare un terzo). Appare quindi difficile configurare un illecito risarcibile sulla sola base di un cauto parere, come quello oggetto del presente procedimento, che si limita a sospendere ogni giudizio («non sussistono elementi sufficienti per poter attribuire tale opera alla mano del pittore defunto») e, nel dubbio sull’autenticità, non consenta l’inserimento dell’opera in un archivio. Si entra quindi in un discorso di puro apprezzamento delle caratteristiche dell’opera, il quale non è di pertinenza del giudice per mezzo dell’azione di accertamento, ma che eventualmente, come si è accennato, può trovare un limitato riconoscimento esclusivamente nelle forme dell’accertamento descrittivo (che trovano spazio nel nostro ordinamento nelle forme di cui all’art. 696 c.p.c. ovvero per il ricorso per descrizione ex 129 cod. proprietà industriale previsto dal codice della proprietà industriale). Del bene, quindi, possono essere solo cristallizzati i dati evidenti dell’opera, ma mai il giudizio sulla sua autenticità, stante anche, e qui viene in considerazione l’elemento fattuale di cui si accennava in precedenza, l’esistenza di un settore di nicchia dove pochissimi sono gli esperti relativi ad un determinato artista. 
È opportuno, a questo punto, effettuare una significativa distinzione tra la cognizione relativa alla paternità dell’opera ed il diritto morale di autore, che è stato ripetutamente evocato, impropriamente, nel presente procedimento, e che invece si sostanzia nel diritto dell’autore di ottenere verso altri il riconoscimento dell’opera come propria rispetto a possibili usurpazioni, di opporsi alla sua modifica e di ritirarla dal mercato. Il diritto morale di autore non corrisponde, a ben guardare, al diritto di autentica, ben potendo, come si è detto, l’autore anche autenticare quadri non propri (fattispecie, queste, già venute alla ribalta in passato in pronunce di carattere giurisdizionale). Il diritto morale d’autore ha un contenuto sostanzialmente oppositivo, che mira quindi a tutelare l’opera d’arte da possibili interferenze che possano essere esercitate dall’esterno, sia in relazione alla paternità dell’opera, quando altri se ne appropri, sia in relazione al suo uso, sia relativamente ad eventuali manipolazioni.«Rivendicare la paternità dell’opera» (art. 20 l.d.a.) non significa quindi autenticare opere d’arte, ma un’attività di opposizione ad atti usurpativi che altri possano commettere. Tipico è il caso dell’artista che veda la sua opera erroneamente attribuita a terzi. La rivendica quindi dà per presupposta l’attribuzione dell’opera ad un artista o l’acquiescenza del destinatario della rivendica, tanto è vero che, se più artisti rivendichino contemporaneamente un’opera d’arte, nessuno di loro potrebbe qualificarsi come autore sulla sola base della rivendica. La tutela del diritto morale di autore è quindi più agevole di quella relativa all’accertamento della paternità dell’opera, perché generalmente ha per presupposto pacifico tra le parti l’attribuzione dell’opera originaria ad un determinato soggetto-autore. Più complessa è la fattispecie nella quale il diritto morale di autore venga esercitato dagli eredi ex art. 20 l.d.a., poiché effettivamente possono insorgere dubbi sull’effettiva riferibilità dell’opera al dante causa di coloro che agiscono per la tutela del diritto d’autore. Anche qui la prova della non genuinità dell’opera è però astrattamente più agevole di quella sull’autenticità: possono concorrere all’accertamento della non autenticità dell’opera elementi oggettivi come l’uso di determinati colori inesistenti all’epoca della realizzazione dell’opera, ovvero la rappresentazione di eventi non ancora verificatisi al momento della realizzazione dell’opera, ovvero la rappresentazione di oggetti non ancora conosciuti al momento della presunta realizzazione dell’opera. Come si è detto, radicalmente diversa è la fattispecie dell’autentica. Le abilità dei falsari si possono estendere sia all’uso dei medesimi colori, delle medesime tele, dei medesimi materiali e possono estendersi anche (nell’ipotesi in cui il falsario sia egli stesso un artista di pregio) all’uso dei medesimi tratti e alla realizzazione di una firma sostanzialmente analoga a quella dell’artista. Non può affermarsi, quindi, che spetti agli eredi un diritto esclusivo ad attestare l’autenticità dell’opera. Gli eredi, come altri soggetti qualificati, possono esclusivamente dare un parere significativo e autorevole sull’autenticità dell’opera d’arte per aver condiviso con l’artista defunto momenti di vita, esperienze ideali e per avere potuto, più di altre persone, osservare l’artista mentre realizzava un’opera d’arte, ma non possono attestare  pro veritate l’appartenenza dell’opera all’artista. E, d’altronde, si è anche chiarito che anche lo stesso artista non può attribuire pro veritate l’opera a sé stesso.
In conclusione, un accertamento giudiziale mirato alla verifica che una determinata opera d’arte presenta dei tratti analoghi a quelli di un noto artista ovvero dei colori compatibili con quelli utilizzati dall’artista, ovvero una firma verosimilmente compatibile con quella dell’artista, si può tradurre solo in un giudizio di verosimiglianza e, conseguentemente, in un ulteriore parere. Si tenga poi ulteriormente presente come, in punto di fatto, le corti si limiterebbero a disporre una consulenza tecnica di ufficio e ad operare un giudizio di credibilità di tale c.t.u.; l’accertamento giudiziale sull’autenticità dell’opera sarebbe quindi un’expertise validata dalle corti, trasportando in tribunale la dialettica tra diversi pareri che regna nel mondo dell’arte. Ed è quanto esattamente successo nella sentenza della Corte d’appello di Milano dell’11 dicembre del 2002 ( id., Rep. 2003, voceConsulente tecnico, n. 14), dove il giudizio di autenticità dell’opera si è sostanzialmente fondato su una maggiore credibilità di una perizia rispetto ad un’altra, ribaltando quanto in precedenza affermato dal tribunale di primo grado, che aveva invece ritenuto maggiormente convincente il parere poi disatteso dal giudice di secondo grado. Venendo poi alla domanda risarcitoria avanzata da parte attrice relativa ad una superficialità da parte della convenuta nel rilascio della perizia, si osserva come la stessa sia infondata. Non è stata data prova del fatto che la perizia della convenuta fosse caratterizzata dalla dolosa volontà di pregiudicare l’attrice. E d’altronde l’expertise era formulata con caratteri dubitativi che escludono alla radice un’ipotesi di dolo. Parte attrice lamenta poi una situazione di carattere fattuale: ovverosia la circostanza per cui il mercato dell’arte ed i grandi mediatori internazionali come le case d’asta attribuiscano particolare significato al parere dell’Archivio Beta. Anche qui questo collegio non dispone dei mezzi giuridici necessari per intervenire. Ne consegue la reiezione della domanda di parte attrice. 

Frode commerciale: etichetta attestante il prodotti “Nichel free”

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 7 marzo – 31 luglio 2017, n. 37983 Presidente Cavallo – Relatore Mengoni

Ritenuto in fatto

  1. Con sentenza del 6/5/2015, il Tribunale di Macerata assolveva Wu. Li. dall’imputazione di cui all’art. 515 cod. pen., perché il fatto non sussiste; pur accertata la messa in vendita – con etichetta “Nickel free” o “senza nichel” – di 587 monili vari in realtà contenenti tale metallo, peraltro in concentrazione superiore al consentito, il Giudice riscontrava che gli stessi oggetti non risultavano ceduti ad alcuno, e che non poteva esser configurato neppure il tentativo del reato, non ravvisandosi nessuna contrattazione in atto. 2. Propone ricorso per cassazione il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Ancona, deducendo – con unico motivo -l’inosservanza o erronea applicazione della legge penale. Il Giudice non avrebbe considerato che il tentativo del delitto in esame è ben configurabile a fronte della destinazione alla vendita del prodotto diverso, per origine, provenienza, qualità o quantità, da quello dichiarato o pattuito, come nel caso di specie.

Considerato in diritto

Preliminarmente si osserva che la presente motivazione è redatta in forma semplificata, ai sensi del decreto n. 68 del 28/4/2016 del Primo Presidente di questa Corte. 3. Il ricorso è fondato. Premesso che risulta pacifica la condotta della Wu. come accertata nei termini indicati, osserva il Collegio che – giusta costante e condiviso indirizzo di legittimità – la messa in vendita di prodotti non regolamentari integra il tentativo del reato di frode in commercio, poiché costituisce un aspetto della condotta che non è estraneo allo stadio della trattativa negoziale, risolvendosi, per il luogo di esposizione della merce, in un’offerta al pubblico e perciò configurandosi concretamente come una proposta contrattuale; sicché, non costituendo il contatto con la clientela un elemento necessario per integrare il tentativo del delitto in oggetto (Sez. 3, n. 9276 del 19/01/2011, Fa., Rv. 249784), la stessa messa/esposizione in vendita è condotta pienamente idonea e diretta in modo non equivoco alla conclusione dell’accordo finale, e quindi alla consumazione della frode commerciale di cui all’art. 515 cod. pen., se di questa ricorrono gli elementi oggettivi e soggettivi (Sez. U, n. 28 del 25/10/2000, Mo., Rv. 217295; successivamente, tra le altre, Sez. 3, n. 44340 del 30/9/2015, Ol., Rv. 265237; Sez. 3, n. 42953 del 9/7/2014, Hu., Rv. 265567). Il Tribunale, pertanto, ha errato nel negare la configurabilità del tentativo del reato in esame, assumendo che – al momento del controllo – nessuno stesse acquistando la merce di cui trattasi; tale circostanza di fatto, invero, non costituisce elemento essenziale della fattispecie. La sentenza, pertanto, deve essere annullata con rinvio, affinché il Giudice si adegui al principio di diritto indicato.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio al Tribunale di Macerata in diversa composizione, Così deciso in Roma, il 7 marzo 2017

Concorrenza sleale, denigrazione mediante social-network

Ricorre, invero, l’ipotesi della “concorrenza parassitaria” quando l’imitatore si ponga sulla scia del concorrente in modo sistematico e continuativo, sfruttando la creatività e avvalendosi delle idee e dei mezzi di ricerca e finanziari altrui. La “concorrenza parassitaria” si realizza in una pluralità di atti che, pur isolatamente leciti, e valutati nel loro insieme, costituiscono un illecito, poiché concretizzano una forma di imitazione delle iniziative del concorrente, che sfrutta in maniera sistematica il lavoro e la creatività altrui. Tali atti possono concretamente manifestarsi sia attraverso un’attività che in un unico momento imiti tutte le iniziative del concorrente (concorrenza parassitaria di tipo sincronico), sia attraverso la successione nel tempo di singoli atti imitativi (concorrenza parassitaria di tipo diacronico), come affermato dalla giurisprudenza della Suprema Corte (cfr. Cass, sent. n. 13423/2004). .

Testo della sentenza

TRIBUNALE di MILANO

SPECIALIZZATA IN MATERIA DI IMPRESA “A” CIVILE

Il Tribunale in composizione collegiale nelle persone dei seguenti magistrati:

dott. Claudio Marangoni                                                       Presidente

dott. Silvia Giani                                                                   Giudice Relatore

dott. Alima Zana                                                                   Giudice

all’esito dell’udienza del 20 aprile 2017

nel procedimento per reclamo iscritto al n. r.g. 6752/2017 promosso da:

TRADE DIRECT SRL con il patrocinio dell’avv. BRANDINA STEFANO e dell’avv. Francesca Caricato, elettivamente domiciliata in piazza FERRARI, 322 47921 RIMINI presso il difensore avv. BRANDINA STEFANO

RECLAMANTE

contro

CHAPTER 4 CORP. D.B.A. SUPREME con il patrocinio dell’avv. LAZZARINO PAOLO elettivamente domiciliato in VIA AGNELLO, 12 20121 MILANO presso il difensore avv. LAZZARINO PAOLO

E nei confronti di

A.GI.EMME DI ADRIANO MONTI con il patrocinio dell’avv. MAURI ENRICO elettivamente domiciliato in VIA CARLONI, 38 22100 COMO presso il difensore avv. MAURI ENRICO

RECLAMATI

Ha emesso la seguente

ORDINANZA

  1. Premesso che il Giudice, in accoglimento delle istanze cautelari, proposte ante causam ex art. 700 c.p.c. e 129 c.p.i. da CHAPTER 4 CORP D.B.A. SUPREME nei confronti di Trade Direct s.r.l. e di A.GI.EMME di Adriano Monti, ha inibito ogni produzione, esportazione e commercializzazione dei capi d’abbigliamento e di ogni altro prodotto recante il marchio “Supreme”; ha, inoltre, inibito a TRADE DIRECT S.R.L. l’uso del nome a dominio “supremeitalia.com” e ordinato il ritiro dal commercio dei prodotti recanti il marchio “Supreme” e dei materiali pubblicitari o promozionali relativi;
  2. la società TRADE DIRECT S.R.L. ha proposto reclamo avverso detta ordinanza, emessa in data 26 gennaio 2017, eccependo l’incompetenza territoriale del Tribunale di Milano, Sezione Specializzata, e, nel merito, chiedendo la revoca del provvedimento per carenza dei presupposti cautelari del fumus boni iuris e del periculum in mora; in particolare, sotto il primo profilo, ha eccepito la nullità del marchio sia per carenza del requisito di novità che per carenza di capacità distintiva, nonché l’assenza di concorrenza sleale.

2.1.Si è costituita la reclamata CHAPTER 4 CORP. D.B.A. SUPREME, chiedendo il rigetto del reclamo e la conferma del provvedimento;

2.2..si è costituita, altresì, A.GI. EMME di Adriano Monti, la quale ha ribadito il proprio ruolo marginale nella vicenda, in considerazione della esiguità dei capi, acquistati in buona fede da un abituale fornitore, rimettendosi alla decisione del collegio.

Ciò premesso, il Tribunale osserva che:

  1. l’eccezione d’ incompetenza territoriale sollevata dalla reclamante non è fondata.

In applicazione del combinato disposto degli artt. 33 c.p.c. e 120, sesto comma, c.p.i. sussiste la competenza del presente Tribunale, quale ufficio giudiziario nella cui circoscrizione sono stati perpetrati i fatti contestati, nonché quale sede legale di uno dei resistenti. Trattasi di un’ipotesi di cumulo soggettivo per connessione oggettiva che determina la deroga al criterio generale previsto dall’art. 19 c.p.c., essendo stata promossa la controversia anche nei confronti di una società (la A.Gi.Emme) che, secondo i criteri generali, ha la propria sede legale nell’ambito della circoscrizione del presente Tribunale.

L’argomentazione della reclamante, secondo la quale l’estromissione di A.Gi. EMME di Adriano Monti confermerebbe la strumentalità della chiamata in causa della medesima, presuppone un evento mai verificatosi (l’estromissione) e che, di per sé, non escluderebbe la sussistenza della competenza, che va valutata allo stato di fatto esistente al momento della proposizione della domanda.

  1. Venendo al merito della controversia, si osserva che l’illiceità della condotta perpetrata da TRADE DIRECT sussiste prima facie, sia con riguardo alla fattispecie di contraffazione di marchi di cui all’art 20 lett. A c.p.i., che con riguardo all’ autonoma e diversa fattispecie della concorrenza sleale parassitaria di cui all’art 2598 n. 3 c.c.

 

Con riguardo ai marchi in contestazione, la resistente TRADE DIRECT S.R.L. ha, infatti, utilizzato un identico segno, per prodotti identici, a quelli per cui il segno è stato registrato dalla ricorrente.

Va sin da subito evidenziato che lo stesso segno, del tutto sovrapponibile a quello utilizzato dalla resistente (odierna reclamante), per lettere e caratteri grafici (scritta “Supreme”, di colore bianco, all’interno di un rettangolo di colore nero, riproducibile anche in altri colori), è stato registrato dalla ricorrente CHAPTER 4 CORP. D.B.A. SUPREME, con domanda depositata all’UIBM il 9 ottobre 2015 e, quindi, in data anteriore rispetto al deposito della domanda da parte di TRADE DIRECT S.R.L. (resistente), avvenuta in data 18 novembre 2015.

Nel caso di specie, dunque, è fatto pacifico e documentale l’anteriorità della registrazione del marchio da parte di CHAPTER 4 rispetto a quello della reclamante TRADE DIRECT S.R.L., né risulta in discussione alcuna attività di preuso da parte di Trade Direct, mai allegato e a fortiori provato.

TRADE DIRECT S.R.L. ha piuttosto eccepito la nullità del marchio, con riferimento alla carenza dei requisiti di novità e di capacità distintiva.

Tuttavia, per quanto attiene alla eccezione di nullità, con riguardo all’ assenza di capacità distintiva, la condotta tenuta dalla resistente con la registrazione dell’identico marchio, descritto da essa stesso all’atto della registrazione come “marchio di fantasia”, si pone in chiaro contrasto con la detta eccezione, essendo essa dichiarativa del suo carattere distintivo e della sua originalità (cfr. domanda di registrazione marchio della resistente, sub. documento 3).

Peraltro, se da un lato la registrazione anteriore del marchio è idonea a farne presumere la validità, dall’altro il carattere distintivo e la sua percezione da parte di una cerchia giovane di consumatori emergono prima facie (e fatta salva ogni più approfondita valutazione nella sede del merito) dalla copiosa documentazione prodotta dalla reclamata CHAPTER 4 con riguardo alla diffusione, non solo a livello internazionale, ma anche italiano, del detto marchio (vedi in particolare i documenti prodotti sub nn. 64 e da 73 a 82).

L’ identità del segno e dei prodotti per i quali il marchio è stato registrato comporta la sussistenza della contraffazione, senza che risulti neppure necessaria la prova del rischio di confusione per il pubblico, integrandosi, nel caso concreto, la fattispecie di cui all’art. 20 lett. A c.p.i.

  1. Nel caso di specie, le prove documentali acquisite, comprovanti la ripresa, pedissequa di molteplici iniziative imprenditoriali di CHAPTER 4 da parte della resistente, integrano, altresì, la fattispecie di concorrenza sleale “parassitaria” prevista dall’art. 2598 n. 3 c.c.

Ed invero, è stato documentato l’uso, da parte di Trade Direct, non solo dell’identico segno distintivo per la medesima tipologia di prodotti, ma, altresì, è stata accertata la ripresa dei medesimi elementi decorativi nei prodotti, nonché delle medesime immagini pubblicitarie e, ancora, delle medesime modalità di promozione pubblicitaria volte, per la loro identità o per la costante e implicita ( se non addirittura, esplicita) associazione, a forme di agganciamento parassitario con l’attività e l’impresa della ricorrente CHAPTER 4. Ciò emerge in maniera palese da un raffronto dei prodotti commercializzati dalla resistente TRADE DIRECT con quelli della ricorrente (si veda il catalogo della resistente sub doc. n. 61, nonché le fotografie prodotte a pagg. 18 e 19 del reclamo), nonché dalle modalità di presentazione dell’attività svolta da TRADE DIRECT e, ancora, dalle modalità pubblicitarie da essa intraprese, di accostamento e agganciamento ai prodotti della ricorrente, così da ingenerare la convinzione della sussistenza di un collegamento, se non addirittura di una identità, con l’attività e i prodotti della ricorrente/reclamata. Esemplificativa è la presentazione di TRADE DIRECT come “licenziatario dei marchi più importanti del panorama streetwear mondiale”, contenuta nel catalogo ove sono riportati i prodotti, con i medesimi segni distintivi, le medesime caratteristiche, le immagini della città natale del marchio “Supreme”, le medesime immagini pubblicitarie utilizzate dalla ricorrente (si veda, in proposito, oltre che il catalogo sub doc. n. 61 della resistente, anche, per l’identità delle immagini, il doc. n. 137 della ricorrente e la pag. 28 del menzionato catalogo). La sistematica ripresa, da parte della resistente-reclamante, di molti dei prodotti commercializzati, del segno distintivo e, persino, della scelta dei colori e della grafica dello stesso, sono tutti elementi che fanno ritenere sussistenti, quantomeno prima facie, i presupposti dell’attività illecita di concorrenza sleale “parassitaria”, di cui all’art. 2598 n. 3 c.c. Lo sfruttamento degli sforzi organizzativi e degli investimenti di carattere pubblicitario effettuati da CHAPTER 4 da parte della reclamante, la quale non ha sostenuto i relativi oneri economici, costituisce concorrenza “parassitaria”, quale integrante condotta illecita che si pone in contrasto con le regole di correttezza professionale cui deve informarsi l’attività imprenditoriale.

Ricorre, invero, l’ipotesi della “concorrenza parassitaria” quando l’imitatore si ponga sulla scia del concorrente in modo sistematico e continuativo, sfruttando la creatività e avvalendosi delle idee e dei mezzi di ricerca e finanziari altrui. La “concorrenza parassitaria” si realizza in una pluralità di atti che, pur isolatamente leciti, e valutati nel loro insieme, costituiscono un illecito, poiché concretizzano una forma di imitazione delle iniziative del concorrente, che sfrutta in maniera sistematica il lavoro e la creatività altrui. Tali atti possono concretamente manifestarsi sia attraverso un’attività che in un unico momento imiti tutte le iniziative del concorrente (concorrenza parassitaria di tipo sincronico), sia attraverso la successione nel tempo di singoli atti imitativi (concorrenza parassitaria di tipo diacronico), come affermato dalla giurisprudenza della Suprema Corte (cfr. Cass, sent. n. 13423/2004).

6.Sussiste, altresì, il requisito del periculum in mora in relazione alle misure richieste per gli illeciti concorrenziali posti in essere da TRADE DIRECT, atteso il concreto pericolo di sviamento della clientela, di annacquamento del marchio, nonché di compromissione dell’immagine commerciale della ricorrente; tutti elementi non ristorabili in termini puramente economici e monetari, e comunque di difficile quantificazione. L’attualità della commercializzazione dei prodotti contraffatti da parte della reclamante, inoltre, concretizza l’imminenza del pregiudizio, in conformità al disposto dell’art. 131.1 CPI.

Ai fini della valutazione del periculum in mora, è invece superflua la valutazione della sussistenza di un danno alla data della richiesta misura cautelare, il cui scopo è di cessare la prosecuzione dell’illecito o anche solo di prevenirne la verificazione. La verificazione del danno rileva semmai sul piano risarcitorio e non su quello inibitorio.

  1. Considerata la natura anticipatoria del presente procedimento cautelare, alla soccombenza della reclamante segue la sua condanna alla rifusione delle spese della fase di reclamo, le quali si liquidano, in favore di Chapter 4, in euro 5.500,00 per compensi, oltre spese generali, iva e c.p.a. come per legge.

7.1. Tenuto conto della modesta attività difensiva svolta (costituendosi e rimettendosi al Tribunale), dichiara compensate le spese con A.GI.Emme di Adriano Monti srl.

  1. Ai sensi dell’art. 1, comma 17, della Legge n. 228 del 2012, si dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del reclamante, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il reclamo, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.

P.Q.M.

 

Il Tribunale di Milano, Sezione Specializzata dell’impresa – A – , decidendo sul reclamo proposto da TRADE DIRECT S.R.L. nei confronti di CHAPTER 4 DBA. SUPREME e di A.GI.EMME di Adriano Monti s.r.l., così provvede

  • Rigetta il reclamo proposto da TRADE DIRECT S.R.L. nei confronti di CHAPTER 4 DBA. SUPREME e A.GI.EMME di Adriano Monti s.r.l.
  • Condanna la reclamante alla rifusione delle spese processuali, che vengono liquidate in favore di CHAPTER 4 D.B.A. SUPREME, in € 5.500,00 per compensi, oltre spese generali, iva e c.p.a. come per legge.
  • Dichiara compensate le spese con A.GI.EMME di Adriano Monti s.r.l.
  • Dichiara, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quaterP.R. n. 115 del 2002 – come modificato dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012 – la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del reclamante, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.

Così deliberato in Milano, nella camera di consiglio del 20 aprile 2017

Il Relatore                                                                                                               Il  Presidente

dott.ssa Silvia Giani                                                                              dott. Claudio Marangoni

 

 

 

 

 

 

Segreto industriale, misure di segregazione, concorrenza sleale: sottrazione e utilizzazione di informazioni aziendali riservate (file e disegni tecnici). Tribunale di Bologna 27 luglio 2015

Con atto di citazione ritualmente notificato, la società ALFA s.r.l.,  ha convenuto  in giudizio XX e le società Beta s.r.l e Nuovi Gamma s.a.s., chiedendo che l’adìto Tribunale, previo accertamento del compimento da parte dei convenuti di attività di concorrenza sleale, boicottaggio e sottrazione/utilizzazione di informazioni aziendali riservate a norma degli artt. 2598 n. 3 c.c. e 98-99 CPI, inibisse ai convenuti, secondo le rispettive vesti e qualità, la prosecuzione degli illeciti sopra indicati con particolare riferimento ai file e/o disegni tecnici relativi all’attacco da scialpinismo denominato “NX” progettato e prodotto dall’attrice ed illecitamente attribuiti all’attacco Haereo GO progettato, prodotto, commercializzato e pubblicizzato dai convenuti, ordinando il ritiro dal commercio di tale ultimo prodotto, con conseguente condanna dei convenuti al risarcimento dei danni, al pagamento di una penale pecuniaria per ogni violazione delle disposte inibitorie e pubblicazione della emananda sentenza.

Il Tribunale di Bologna ha ritenuto insufficiente la misura adottata dalla società attrice, consistente nella conservazione dei disegni tecnici contestati in un computer privato, ad uso esclusivo dell’ex socio-amministratore e progettista, dotato di password.

Infatti, secondo un ormai consolidato orientamento giurisprudenziale (v. ad es. Trib. Bologna, Sez. Spec. Propr. Industr. ed Intell. 9/2/2010), il codice della proprietà industriale (D.lvo n. 30/05, all’art. 98), considera meritorie di tutela le informazioni aziendali e le esperienze tecnico-industriali, comprese quelle commerciali soggette al legittimo controllo del detentore, ove tali informazioni siano segrete.

Si tratta, quindi, di informazioni che, singolarmente o nella loro combinazione, siano tali da non poter essere assunte dall’operatore del settore, in tempi e a costi ragionevoli e la cui acquisizione da parte del concorrente richieda, per ciò, sforzi o investimenti.

Ebbene il Tribunale felsineo ha giudicato la misura di protezione non sufficiente in quanto la società si è avvalsa di uno strumento privato, in dotazione esclusiva del soggetto che aveva partecipato alla realizzazione dei disegni, e non, invece, di un strumento informatico aziendale, che, in quanto avrebbe potuto essere “direttamente gestibile e controllabile dalla società”.

Il giudice di prime cure, tuttavia, nella fattispecie ha ravvisato la configurabilità della concorrenza sleale, in quanto le informazioni oggetto di rivelazione al concorrente avevano comunque natura riservata, stante la relativa non facile accessibilità, ed il loro utilizzo che aveva attribuito al concorrente un indebito vantaggio. Ha quindi ribadito, secondo un l principio costantemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità, che costituisce atto di concorrenza sleale per violazione dei principî della correttezza professionale la condotta, potenzialmente dannosa, volta a carpire notizie riservate, anche non costituenti segreto industriale, relative ai processi produttivi e alle sostanze utilizzate per realizzare un dato prodotto da parte di un’impresa concorrente, senza necessità di accertare la presenza di prodotti simili sul mercato (Cass. Civ. Sez. I, 20/01/2014, n. 1100).

V’è da riferire, infine, che lo stesso giudice non ha accolto domanda risarcitoria formulata da parte della società attrice, a causa della mancanza di sufficienti allegazioni e prove atte a dimostrare i danni sofferti.

 

TRIBUNALE ORDINARIO di BOLOGNA

QUARTA SEZIONE CIVILE

SEZIONE SPECIALIZZATA IN MATERIA DI IMPRESA

Il Tribunale, in composizione collegiale nelle persone dei seguenti magistrati:

dott. Giovanni Salina – Presidente Relatore

dott.ssa Anna Maria Rossi – Giudice

dott.ssa Daria Sbariscia – Giudice

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. 1658/2012 promossa da:

ALFA RACE S.R.L. (C.F. ***), con il patrocinio dell’avv. MACCAGNANI MASSIMO, elettivamente domiciliato in VIALE CARDUCCI N. 24 40125 BOLOGNA presso il difensore avv. MACCAGNANI MASSIMO.

ATTORE

contro

BETA S.R.L. UNIPERSONALE (C.F. ***), con il patrocinio dell’avv. NICOLINI GIOVANNI, dell’avv. BELLAN FEDERICO (BLLFRC73M23L219L), dell’avv. MASETTI ZANNINI DE CONCINA ALESSANDRO e dell’avv. CARTELLA ROBERTO (CRTRRT68R31H501E), elettivamente domiciliato in VIA DELL’INDIPENDENZA 27 40121 BOLOGNA presso il difensore avv. NICOLINI GIOVANNI.

CONVENUTO

XX (C.F.).

NUOVI GAMMA S.A.S. DI R.R. & C. (C.F. ***).

CONVENUTI/CONTUMACI

CONCLUSIONI

Le parti hanno concluso come da fogli allegati al verbale d’udienza di precisazione delle conclusioni.

FATTO E SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione ritualmente notificato, la società ALFA Race s.r.l., in persona del suo legale rappresentante pro-tempore, conveniva in giudizio, innanzi all’intestato Tribunale, XX e le società Beta s.r.l. Unipersonale e Nuovi Gamma s.a.s. di R. R. & C., in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro-tempore, chiedendo che l’adìto Tribunale, previo accertamento del compimento da parte dei convenuti di attività di concorrenza sleale, boicottaggio e sottrazione/utilizzazione di informazioni aziendali riservate a norma degli artt. 2598 n. 3 c.c. e 98-99 CPI, inibisse ai convenuti, secondo le rispettive vesti e qualità, la prosecuzione degli illeciti sopra indicati con particolare riferimento ai file e/o disegni tecnici relativi all’attacco da scialpinismo denominato “NX” progettato e prodotto dall’attrice ed illecitamente attribuiti all’attacco Haereo GO progettato, prodotto, commercializzato e pubblicizzato dai convenuti, ordinando il ritiro dal commercio di tale ultimo prodotto, con conseguente condanna dei convenuti al risarcimento dei danni, al pagamento di una penale pecuniaria per ogni violazione delle disposte inibitorie e pubblicazione della emananda sentenza.

L’attrice, in particolare, esponeva che, come accertato all’esito del procedimento cautelare promosso ante causam, la società Beta s.r.l., avvalendosi dell’opera dell’ing. XX, ex amministratore e socio della società ALFA Race s.r.l., nonché coprogettista dell’attacco denominato “NX”, aveva sottratto ed utilizzato informazioni tecnico-aziendali riservate inerenti a quest’ultimo prodotto al fine di impiegarli nella realizzazione e commercializzazione, in tempi estremamente brevi, di un attacco da scialpinismo tecnicamente sovrapponibile al primo in quanto riproduttivo delle medesime caratteristiche funzionali, tecniche e di design di quest’ultimo.

Lamentava, quindi, l’attrice che le condotte poste in essere dai convenuti le avevano provocato un ingente pregiudizio patrimoniale, conseguente soprattutto alla illegittima sottrazione di quote di mercato inaspettatamente attuata dalla società Beta s.r.l. in pochi mesi in un settore di mercato per questa del tutto nuovo, sfruttando la pluriennale attività di studio, progettazione e produzione in precedenza svolta da ALFA Race s.r.l., nonché un rilevante danno di natura non patrimoniale derivante dalla lesione della sua immagine commerciale consolidatasi in virtù della notorietà e rinomanza raggiunta dai suoi prodotti nei circuiti agonistici nazionali ed internazionali.

Si costituiva in giudizio la convenuta Beta s.r.l., la quale, contestando la fondatezza delle argomentazioni svolte dall’attrice, concludeva chiedendo l’integrale reiezione delle domande ex adverso formulate.

Nel corso del giudizio, celebrato nella contumacia dei convenuti Nuovi Gamma s.a.s. e XX, il G.I., espletati gli incombenti di cui all’art. 183 c.p.c., ammetteva le prove per interrogatorio formale e per testi dedotte dall’attrice, disponendo altresì c.t.u.

Infine, all’udienza del 5/3/2015, sulle conclusioni precisate dai difensori delle parti, il Giudice rimetteva la causa al Collegio per la decisione, assegnando i termini di cui all’art. 190 c.p.c. per lo scambio di comparse conclusionali e memorie di replica.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Giova preliminarmente dare atto che la società attrice, anche alla luce dei provvedimenti resi dall’intestato Tribunale in sede cautelare ante causam, non ha reiterato nel presente giudizio di merito le argomentazioni in precedenza svolte a sostegno delle dedotte responsabilità degli allora resistenti ed odierni convenuti a titolo di contraffazione di brevetto e di modello comunitario non registrato, di violazione del divieto legale di concorrenza e di concorrenza sleale per imitazione servile, limitandosi a riproporre unicamente quelle volte all’accertamento e alla declaratoria della responsabilità dei convenuti a titolo di concorrenza sleale per utilizzazione parassitaria di informazioni aziendali riservate e boicottaggio ex art. 2598 n. 3 c.c., nonché, nonostante le contrarie statuizioni assunte dal Giudice della cautela, quella a titolo di sottrazione ed uso di dati ed informazioni aziendali segrete di cui agli artt. 98-99 CPI.

Precisato nei termini suddetti il thema decidendum, appare evidente come le deduzioni e le domande qui (ri)proposte dall’attrice, soprattutto quelle in punto di appropriazione e sfruttamento di informazioni aziendali ex artt. 2598 n. 3 c.c. e 98-99 CPI, presuppongano, tra l’altro, il positivo accertamento del carattere riservato e/o segreto dei dati tecnico-aziendali di proprietà dell’attrice ed asseritamente sottratti e trasferiti, in modo illegittimo e scorretto, all’interno del ciclo produttivo della convenuta Beta s.r.l. a seguito e per l’effetto del passaggio alle dipendenze di quest’ultima dell’ex amministratore e socio di ALFA Race s.r.l., ing. XX.

A fronte di siffatte deduzioni, la società convenuta Beta s.r.l. ha, a sua volta, asserito che i particolari tecnici che, secondo lo stesso Giudice della cautela, sarebbero confluiti nell’attacco Haereo Go da essa progettato e prodotto, in realtà, erano noti e, quindi, facevano parte del c.d. stato della tecnica, già in epoca antecedente la data di realizzazione, presentazione e commercializzazione di tale ultimo prodotto, evidenziando, peraltro, come lo stesso Tribunale adìto in sede cautelare avesse escluso ogni ipotesi di contraffazione e, quindi, di interferenza tecnico-giuridica dell’attacco c.d. “Beta” rispetto all’ambito di tutela rivendicato dal brevetto nella titolarità dell’attrice, sia pure con motivazione ritenuta dalla stesa convenuta contraddittoria rispetto alla affermata concorrenza sleale per sottrazione ed utilizzazione di notizie aziendali riservate.

Infatti, secondo la tesi prospettata dalla convenuta, i particolari tecnici dell’attacco NX di ALFA Race s.r.l., asseritamente presenti nell’attacco Hareo Go, prototipato e presentato nel periodo ottobre-dicembre 2009, erano pubblici e da tempo diffusi nel settore di riferimento, e, quindi, avrebbero già fatto parte dell’arte nota o stato della tecnica, quantomeno a far data dalla pubblicazione della domanda di brevetto N. MO 2007 A 000365 del 28.11.2007 relativa al predetto attacco NX, avvenuta nel mese di maggio 2009.

A quest’ultimo riguardo, la convenuta ha precisato come la realizzazione del suddetto trovato fosse stata il frutto dell’attività inventiva svolta (anche) dall’ing. XX nel dicembre 2008 e maggio 2009, il quale, per ciò, sciogliendo ogni vincolo con ALFA Race (luglio 2009) e transitando subito dopo alle dipendenze di Beta s.r.l. nel corso della seconda metà dell’anno 2009, altro non avrebbe fatto che impiegare legittimamente nel suo nuovo rapporto di collaborazione professionale, il patrimonio di conoscenze ed esperienze professionali precedentemente maturato anche durante il legame socio-lavorativo con ALFA Race s.r.l.

Fatte queste premesse, per quel che concerne il primo profilo di responsabilità dedotto dall’attrice, come noto, l’illecito delineato dai citati artt. 98 e 99 CPI postula, in primo luogo, l’esistenza di dati, notizie ed informazioni aziendali, di natura tecnica e/o commerciale, dotate dei requisiti della segretezza intesa come loro non facile accessibilità da parte degli esperti ed operatori del settore di riferimento, della loro rilevanza economica e, infine, della loro sottoposizione a misure idonee a mantenerle segrete.

Infatti, secondo un ormai consolidato orientamento giurisprudenziale (v. ad es. Trib. Bologna, Sez. Spec. Propr. Industr. ed Intell. 9/2/2010), il codice della proprietà industriale (D.lvo n. 30/05, all’art. 98, considera meritorie di tutela le informazioni aziendali e le esperienze tecnico-industriali, comprese quelle commerciali, soggette al legittimo controllo del detentore, ove tali informazioni siano segrete, nel senso che non siano nel loro insieme o nella precisa configurazione e combinazione dei loro elementi generalmente note o facilmente accessibili agli esperti ed agli operatori del settore; abbiano valore economico in quanto segrete e siano sottoposte, da parte delle persone al cui legittimo controllo sono soggette, a misure da ritenersi ragionevolmente adeguate a mantenerle segrete.

Si tratta, quindi, di informazioni che, singolarmente o nella loro combinazione, siano tali da non poter essere assunte dall’operatore del settore, in tempi e a costi ragionevoli e la cui acquisizione da parte del concorrente richieda, per ciò, sforzi o investimenti.

In secondo luogo, occorre che le informazioni segrete presentino un valore economico, non nel senso che possiedano un valore di mercato, ma nel senso che il loro utilizzo comporti, da parte di chi lo attua, un vantaggio concorrenziale che consenta di mantenere o aumentare la quota di mercato.

In terzo luogo, occorre che le informazioni siano sottoposte, da parte delle persone al cui legittimo controllo sono soggette, a misure da ritenersi ragionevolmente adeguate a mantenerle segrete.

Sotto quest’ultimo profilo, si ritiene comunemente necessario che il titolare delle informazioni renda edotti i propri dipendenti e i propri collaboratori della natura delle informazioni e della necessità di mantenere il segreto sia come condizione contrattuale, sia come informazione comunque diretta a collaboratori e dipendenti (v. ad es. Ordinanza Trib. BO Sez. Spec. Propr. Industr. 28/9/2010).

Orbene, alla luce dei principi sopra richiamati e tenuto conto dei presupposti, oggettivi e soggettivi, richiesti ai fini della sussistenza del denunciato illecito, si ritiene che, nella fattispecie in esame, così come peraltro statuito dal Giudice della cautela con motivazioni ampie, esaustive e pienamente condivisibili da intendersi in questa sede di merito integralmente richiamate, non sia concretamente configurabile la dedotta responsabilità dei convenuti a norma dei citati artt. 98 e 99 CPI.

Al riguardo, appare quantomeno opportuno rilevare che tra le parti non vi è controversia in ordine alla appartenenza giuridica delle informazioni tecnico-aziendali in questione e, segnatamente, dei particolari costruttivi contenuti nei disegni tecnici prodotti in causa dalla società ALFA Race s.r.l..

Infatti, è pacifico ed incontestato che si tratti di elaborati progettuali, costruttivi e meccanici, la cui materiale (co)predisposizione da parte dell’ing. XX, all’epoca socio-amministratore ed anche progettista di ALFA Race s.r.l., è stata pur sempre e comunque effettuata per conto e nell’interesse della predetta società che, in tal modo, ne ha acquisito e mantenuto la proprietà.

Detto questo, in relazione ai requisiti sopra evidenziati e, segnatamente, in ordine alla notorietà e/o agevole acquisibilità da parte di esperto del ramo dei particolari tecnico-costruttivi (c.d. quid inventum) cristallizzati nei disegni elaborati a fini di deposito della domanda di brevetto ALFA e per la progettazione e produzione dell’attacco NX già all’epoca di divulgazione dell’attacco Hareo GO, è stata disposta ed espletata apposita c.t.u. diretta a verificare, sulla scorta dei disegni tecnici versati in atti dalla parte attrice sub all. nn. 33-44, 46 e 94 bis, quali fossero gli elementi tecnici in essi contenuti già pubblici a seguito della domanda di brevetto MO 2007 A 000365 del 28.11.2007 e quali fossero facilmente accessibili atteso lo stato della tecnica, specificando, in caso positivo, quali di tali aspetti ed elementi fossero presenti nei prodotti Haeréo dell’ottobre 2009 e dicembre 2010. Dalla relazione di c.t.u. in atti, le cui conclusioni appaiono ampiamente argomentate ed immuni da contraddizioni di natura tecnica e logica, risulta che i disegni ALFA, relativi all’attacco da scialpinismo NX, realizzati dal XX, prevalentemente, nell’anno 2008 e, in parte, negli anni 2009 e 2007, contengono tutte le informazioni, tecnico-costruttive, necessarie per la realizzazione dell’attacco (puntale e talloniera) da scialpinismo NX, in quanto recano le indicazioni relative alle quote, ai materiali e alle lavorazioni.

Tali informazioni, invece, non risultano suscettibili di acquisizione né attraverso la domanda di brevetto, né dallo stato della tecnica nota all’epoca di divulgazione dell’attacco Haereo Go prodotto da Beta s.r.l.

Infatti, come puntualmente evidenziato dal CTU, la domanda di brevetto in questione descrive il puntale del predetto attacco NX sia dal punto di vista strutturale, che dal punto di vista funzionale, ma non contiene alcuna informazione sulla talloniera, né contiene gli insegnamenti tecnici derivabili dal disegno meccanico (quote, lavorazioni, trattamenti ecc.), sicchè l’operatore privo della tavola dei disegni tecnici ALFA non è in grado di realizzare la leva o forcella così come prevista in progetto e le relative informazioni non sono, quindi, ricavabili neppure dalle figure allegate alla predetta domanda di brevetto, la cui presentazione non ha perciò reso pubblici gli elementi tecnici, invece, rinvenibili nei disegni ALFA.

Quanto allo stato della tecnica costituito dalle anteriorità indicate dalla convenuta ed asseritamente anticipatorie degli elementi tecnici propri dell’attacco NX (brevetti europei EP 0 199 098 B1 e EP 1 559 457 B1; documenti Dynafit TLT 1993-2007; serie di attacchi in commercio come meglio indicati in atti), il CTU ha chiaramente affermato che tali anteriorità, pur presentando alcune analogie costruttive, strutturali, funzionali ed estetiche a quelle dell’attacco dell’attrice, non contengono, però, gli insegnamenti tecnici derivabili, invece, dai disegni meccanici ALFA (quote, lavorazioni, trattamenti), che, per tale ragione, non possono definirsi agevolmente accessibili neppure in base allo stato della tecnica.

I particolari meccanici, tecnici e costruttivi contenuti nei disegni ALFA, in quanto frutto dell’attività progettuale svolta dalla società attrice, costituiscono indubbiamente informazioni aziendali, di tipo tecnico, atte a governare il relativo processo produttivo e, per ciò, appartengono al patrimonio di conoscenze ed esperienze tecnico-costruttive della società medesima, il cui contenuto, ancorchè eventualmente non sottoposto a speciali misure atte a mantenerlo segreto, in quanto non facilmente acquisibile da terzi e non destinato ad essere conosciuto e divulgato all’esterno, deve essere comunque considerato riservato.

Accertata positivamente la sussistenza del requisito della riservatezza delle informazioni tecnico-aziendali in questione, deve ritenersi pure sussistente il requisito della loro rilevanza economica in ragione, da un lato, del significativo grado di penetrazione del mercato raggiunto dall’attrice attraverso la commercializzazione degli attacchi cui si riferiscono i predetti dati tecnico-costruttivi, e, dall’altro, dell’indubbio ed evidente vantaggio concorrenziale acquisito dalla società Beta s.r.l. che, in pochissimi mesi (da luglio a ottobre-novembre 2009) è riuscita ad inserirsi in modo rilevante e con prodotti di sua diretta produzione, in un segmento di mercato ad essa del tutto inedito ovvero nel quale essa, fino ad allora, aveva operato non in modo diretto ma solo quale distributrice di beni prodotti da altre aziende, mantenendo così e, anzi, ampliando sensibilmente la propria originaria quota di mercato.

Tuttavia, come peraltro statuito dal Giudice della cautela, con provvedimento alle cui condivisibili motivazioni deve farsi integrale rinvio, nel caso di specie, non è ravvisabile o, comunque, non è sufficientemente dimostrata, la sussistenza dell’ulteriore requisito richiesto dalla lett. c) del citato art. 98 CPI.

In particolare, non vi è prova che la società attrice avesse predisposto dispositivi o presidii volti ad impedire l’accesso e la conoscenza dei dati tecnici riportati nei suddetti disegni, né che avesse quantomeno impartito specifiche direttive in tal senso.

Infatti, pur trattandosi di patrimonio conoscitivo e tecnico di proprietà dell’attrice non agevolmente accessibile ab esterno e, quindi, riservato, non vi è prova che lo stesso fosse stato anche reso e mantenuto segreto nel senso in cui quest’ultimo termine è stato impiegato dal legislatore ed interpretato dalla giurisprudenza.

Secondo la prospettazione difensiva dell’attrice, invece, il requisito in esame, di cui alla lettera c) del citato art. 98 CPI, dovrebbe ritenersi sussistente in ragione del fatto che le suddette informazioni tecniche e, segnatamente, i predetti disegni tecnici erano custoditi in un personal computer privato, dotato di password ed in uso esclusivo al socio- amministratore e coprogettista XX.

La circostanza allegata dall’attrice appare, tuttavia, insufficiente a conferire ai dati aziendali in esame il carattere della segretezza nell’accezione di cui alla lett. c) dell’art. 98 CPI.

Si tratta, infatti, di misura non adeguatamente protettiva, in quanto, in primo luogo, le informazioni de quibus erano state immesse in un computer privato ed in dotazione esclusiva al XX anziché in un sistema informatico aziendale direttamente gestibile e controllabile dalla società.

In secondo luogo, la sua operatività ed efficacia erano state interamente affidate allo stesso soggetto sul cui operato e, segnatamente sull’utilizzo dei dati e delle informazioni in questione non risulta che la società abbia esercitato alcun controllo, dato specifiche direttive o posto limiti atti a prevenirne un uso abusivo.

L’inadeguatezza della misura in commento, poi, appare in tutta la sua evidenza ove si consideri che la verifica e la vigilanza sull’uso legittimo di tali informazioni aziendali avrebbero potuto essere attuate dalla società soltanto per il tramite dello stesso utilizzatore che, così, avrebbe assunto, contemporaneamente, le vesti, tra di loro incompatibili, di controllato- controllore.

Misura, questa, peraltro, suscettibile di elusione da parte di esperto informatico, e, comunque, di per sé non impeditiva del trasferimento a terzi dei dati in questione a seguito e per effetto del passaggio da parte del detentore del predetto personal computer alle dipendenze di altra azienda concorrente.

Conseguentemente, alla luce delle considerazioni che precedono, nel caso di specie, non è configurabile a carico dei convenuti la dedotta responsabilità per l’illecito di cui agli artt. 98-99 CPI.

Tuttavia, l’espressa riserva contenuta nell’art. 99 CPI, che fa salva, in ogni caso, la normativa in materia di concorrenza sleale, consente di ritenere sempre configurabili le fattispecie di concorrenza sleale costituite dall’utilizzazione di notizie riservate o, in genere, dall’utilizzazione di know-how aziendale, a condizione che l’utilizzo avvenga secondo modalità scorrette e che sia potenzialmente foriero di danno concorrenziale, potenziale o attuale.

E ciò, deve ancora ritenersi, sia nei casi in cui siano presenti tutti i requisiti delle informazioni segrete postulati dall’art. 98 CPI, sia nel caso in cui tali requisiti non sussistano o non ricorrano tutti, sicchè la condotta illecita, in tali casi, può ricevere soltanto tutela obbligatoria e non reale (v. a d es. Trib. Bologna, Sent. N. 516/2010 del 9/2/2010; 1/3/2010; 6/7/2010).

Ciò, indubbiamente, rappresenta un’apertura ad una tutela delle notizie riservate più ampia di quella prospettata dal citato art. 98 CPI, così come nell’elaborazione giurisprudenziale risulta acquisito, tanto da ricomprendervi le semplici conoscenze richieste per produrre un bene, per attuare un processo produttivo o per il corretto impiego di una tecnologia (know-how in senso stretto; cfr. Cass. N. 85/1873; Cass. N. 92/659).

La configurabilità della concorrenza sleale richiede, quindi, in primo luogo, che le notizie rivelate a terzi o da questi acquisite o utilizzate fossero destinate a non essere divulgate al di fuori dell’azienda (v. Cass. civ. Sez. I, 13/10/2014, n. 21588), dovendosi, per ciò, trattare di informazioni riservate, nel senso, sopra delineato, di non facile accessibilità al loro contenuto. Costituisce, dunque, condotta di concorrenza sleale per violazione dei principî della correttezza professionale la condotta, potenzialmente dannosa, volta a carpire notizie riservate, anche non costituenti segreto industriale, relative ai processi produttivi e alle sostanze utilizzate per realizzare un dato prodotto da parte di un’impresa concorrente, senza necessità di accertare la presenza di prodotti simili sul mercato (Cass. Civ. Sez. I, 20/01/2014, n. 1100).

Conseguentemente, deve ritenersi violato il regime di leale concorrenza, a norma dell’art. 2598 n. 3 c.c., anche da parte di chi risparmia, con la sottrazione di dati riservati, quei tempi e quei costi di una autonoma ricostruzione delle informazioni industrialmente utili: con il conseguente compimento di atti concorrenzialmente sleali in relazione ad ogni acquisizione avvenuta per sottrazione e non per autonoma capacità di elaborazione.

Sulla sussistenza, nel caso di specie, del requisito della riservatezza o, comunque, della non agevole accessibilità delle notizie tecnico-costruttive in questione, è sufficiente fare integrale rinvio alle esaurienti conclusioni rassegnate sul punto dal CTU ed in precedenza esaminate in tema di sottrazione di informazioni segrete ex artt. 98-99 CPI.

Inoltre, che vi sia stato un effettivo travaso di informazioni aziendali di proprietà dell’attrice nel ciclo produttivo della convenuta società Beta s.r.l. lo si desume agevolmente da una pluralità di circostanze di fatto che, per la loro gravità, precisione e concordanza, costituiscono elementi di valutazione di tipo presuntivo, comunque idonei, singolarmente e nel loro insieme, a fondare il libero convincimento del Giudice, anche in ragione della mancata allegazione e dimostrazione da parte della convenuta di elementi di segno contrario in grado di scardinare il predetto complesso indiziario.

In particolare, come correttamente enunciato dal Collegio in sede di reclamo, risultano significativi in tal senso l’individuazione nella stessa persona del progettista dell’uno e dell’altro modello; l’inesistenza di una soluzione di continuità tra l’uscita del XX dalla società attrice, la sua entrata in Beta s.r.l. e la presentazione del modello Haereo GO; la palese contiguità dei prodotti; la mancanza di una esperienza specifica e diretta nel settore da parte della convenuta, la quale, al di là di generiche affermazioni e produzioni di documenti relativi a prodotti del tutto diversi, non ha affatto dimostrato di avere una struttura che le consentisse di elaborare quel progetto e in tempi così rapidi; la capacità manifestata da Beta s.r.l. di entrare nel mercato esattamente dopo l’arrivo del XX.

Al riguardo, va soprattutto evidenziato come il CTU abbia riscontrato che gran parte dei particolari costruttivi, tecnici e meccanici dell’attacco NX di ALFA Race s.r.l., riportati nei disegni contenenti, come detto, informazioni tecnico-aziendali riservate di proprietà di quest’ultima, sono presenti nell’attacco Haereo Go prodotto dalla società convenuta.

Tale circostanza, unitamente alla non facile acquisibilità delle predette informazioni tecniche custodite nel personal computer in uso al XX, socio-amministratore e coprogettista ALFA, a sua volta trasmigrato alle dipendenze di Beta s.r.l. pochi mesi prima della concreta realizzazione e divulgazione dell’attacco Hareo Go dal medesimo incontestatamente progettato, costituiscono, nel loro complesso, plurimi elementi di fatto, gravi, precisi e concordanti, sulla base dei quali è più che ragionevole ritenere che la realizzazione dell’attacco di Beta s.r.l. e, quindi, il suo ingresso nel settore di mercato degli attacchi da scialpinismo, fino ad allora frequentato solo in via indiretta e non per prodotti di sua fabbricazione, siano stati resi possibili, con tempistiche così rapide (tre-quattro mesi) rispetto a quelle impiegate dall’attrice (due-tre anni), soltanto attraverso lo sfruttamento abusivo e parassitario dei predetti dati tecnici riservati di proprietà dell’attrice e trasferiti alla società convenuta dal menzionato comune ideatore-progettista, con evidente parassitario risparmio, di risorse, costi, tempi ed oneri, da parte dell’abusiva utilizzatrice.

I convenuti Beta s.r.l. e XX, quindi, in concorso tra loro ex art. 2055 c.c., si sono resi responsabili di atti di concorrenza sleale per contrarietà alla correttezza professionale, in violazione del disposto di cui all’art. 2598, n. 3, c.c.

Tale statuizione impone, poi, l’inibitoria invocata dall’attrice al fine di impedire ai suddetti convenuti l’ulteriore prosecuzione dell’illecito sopra accertato mediante il compimento di attività di progettazione, produzione, commercializzazione e pubblicizzazione di attacchi da scialpinismo contenenti i particolari costruttivi di cui ai suddetti disegni tecnici di proprietà dell’attrice e specificamente sottoposti a verifica peritale, con conseguente ordine di ritiro dal commercio degli attacchi già prodotti. Quanto alla convenuta società Nuovi Gamma s.a.s., rimasta contumace, dalle acquisite risultanze istruttorie risulta che la stessa si sia limitata a svolgere il ruolo di mero rivenditore dell’attacco Hareo Go senza però alcun coinvolgimento, diretto o indiretto, nella pregressa attività illecita di sottrazione ed impiego, a fini progettuali e produttivi, delle predette informazioni riservate, sicchè a suo carico non può fondatamente affermarsi alcuna responsabilità in ordine all’illecito denunciato dall’attrice.

A questo punto non resta che valutare la sussistenza degli estremi dell’ulteriore illecito prospettato dalla società attrice ex art. 2598 n. 3 c.c., di concorrenza sleale tramite boicottaggio c.d. “secondario”, asseritamente consistito nelle pressioni indebitamente operate dalla società Beta s.r.l. al fine di costringere, in particolare, la ditta Helium di Stefano Tschager e quella di tale Albert Heicher a recedere dai rispettivi contratti di procacciamento d’affari e di agenzia stipulati con l’attrice.

Orbene, come noto, l’illecito de quo ricorre allorquando esista tra le parti un rapporto di concorrenza anche nella forma del rapporto tra imprese operanti a diversi livelli”, il boicottante versi in condizioni di obiettiva forza contrattuale pur se non equiparabili alla situazione che sta alla base dell’abuso di “posizione dominante”, le condotte imputate a titolo di boicottaggio siano caratterizzate da un “quid pluris” rispetto alle normali prassi commerciali essendo rivolte “allo scopo esclusivo di escludere il concorrente dal mercato” e, infine, sussista un “accordo discriminatorio”, nel senso “che un soggetto abbia esercitato pressioni su altri soggetti, imprenditori, perché si astengano da rapporti commerciali con il boicottato, a sua volta imprenditore”.

Ed invero, anche a voler prescindere da ogni considerazione circa la effettiva sussistenza in capo alla società convenuta di una condizione di oggettiva forza contrattuale prossima anche se non necessariamente coincidente con una posizione di vero e proprio dominio, nella fattispecie in esame, pare comunque carente la prova dell’accordo discriminatorio volto a impedire o ad ostacolare le relazioni commerciali tra l’imprenditore concorrente boicottato e i terzi.

Infatti, dall’espletata istruttoria orale e segnatamente dalle deposizioni testimoniali rese dai titolari delle ditte asseritamente costrette o indotte a recedere dai rapporti contrattuali con l’attrice, risulta che la decisione di liberarsi da tale vincolo negoziale, sorto con l’attrice in modo peraltro del tutto autonomo ed in epoca oltretutto successiva rispetto a quelli precedentemente instaurati tra i medesimi terzi e l’odierna convenuta, sia stata, in realtà, il frutto di una loro, sia pur sofferta, ma comunque libera ed incondizionata determinazione imprenditoriale, scevra da pressioni da parte della società Beta s.r.l. e motivata, sul piano della convenienza economico- commerciale, dall’interesse di mantenere in vita il pregresso e più conveniente rapporto negoziale, rispetto al quale la più recente relazione contrattuale con l’attrice si sarebbe posta in termini di incompatibilità a causa delle condizioni di esclusiva previste dai nuovi accordi. Incompatibilità negoziale, questa, che la convenuta ha verosimilmente fatto presente ai propri agenti, in termini probabilmente forti, ma commercialmente comprensibili e non anomali rispetto alle prassi consolidate, richiamandoli al rispetto delle pregresse relazioni contrattuali anche al fine di conservare l’integrità della propria rete-vendita.

Ne consegue che anche la domanda in esame deve essere rigettata.

Quanto alla domanda risarcitoria formulata dalla società attrice, la relativa richiesta va, in gran parte, rigettata.

Con riferimento al lamentato danno da lucro cessante, va evidenziato come l’attrice non abbia adeguatamente e specificamente contestato e confutato le documentate allegazioni di parte convenuta circa il reale andamento del fatturato di ALFA Race nel periodo di compresenza nel mercato degli attacchi NX e Haereo GO, e, in particolare, quelle attestanti, da un lato, la sostanziale irrilevanza del calo di fatturato registrato dall’attrice per poche migliaia di euro nell’anno 2009-2010, non necessariamente imputabile, in assenza di prove in tal senso, alla peraltro recentissima presentazione e commercializzazione del prodotto Beta, e, dall’altro, il suo considerevole incremento nell’esercizio successivo, sintomatico, quest’ultimo, di una progressiva e positiva penetrazione del mercato da parte dell’attacco NX, rivelatosi, di fatto, insensibile alla coeva presenza di prodotti concorrenti simili.

Quanto all’allegato minor incremento dei predetti fatturati rispetto alle previsioni tendenziali di periodo, si tratta di mere supposizioni non supportate da dati concreti e riscontrabili.

In ogni caso, non è dimostrato che il mancato raggiungimento dei livelli di fatturato attesi dall’impresa attrice sia dipeso, sul piano eziologico, dalla produzione e commercializzazione degli attacchi Beta, tenuto soprattutto conto della duplice circostanza che l’attacco ALFA Race era anch’esso un prodotto di recente produzione e quello concorrente è stato compresente sul mercato per pochissimi mesi, e, precisamente, dalla fine dell’anno 2009 (epoca di presentazione e produzione dell’attacco Haereo GO) alla metà dell’anno 2010, epoca di adozione della misura cautelare di inibitoria.

Un arco temporale così ristretto, in assenza di elementi probatori di segno contrario, induce, quindi, a ritenere insussistente o, comunque, non direttamente imputabile alla convenuta il pregiudizio come sopra allegato dall’attrice.

Quanto alla richiesta di condanna della convenuta Beta s.r.l. al risarcimento del danno in termini di reversione degli utili che quest’ultima ha conseguito attraverso l’illegittimo impiego delle informazioni aziendali riservate abusivamente sottratte, al riguardo va rilevata la mancanza di sufficienti allegazioni e prove circa il fatto che gli utili che, per stessa ammissione di parte, sono stati effettivamente realizzati da Beta s.r.l. sarebbero stati, in tutto o in parte, conseguiti dall’attrice in assenza di condotte anticoncorrenziali della convenuta, atteso che anche il prodotto NX di ALFA Race era stato immesso sul mercato appena pochi mesi prima della produzione e commercializzazione dell’attacco Haereo Go, e che, inoltre, esso non rappresentava l’unico prodotto idoneo a soddisfare le esigenze ed i gusti dei consumatori di riferimento, esistendo, per allegazione della stessa attrice, altre aziende operanti nel medesimo settore, detentrici di ampie quote di mercato i cui prodotti erano anch’essi oggetto di forte domanda.

In relazione, poi, al danno asseritamente sofferto in conseguenza del passaggio del XX alle dipendenze delle convenuta, sul punto, è sufficiente evidenziare come non costituisca oggetto della presente causa alcuna ipotesi di responsabilità da storno di dipendenti.

Per quel che concerne, infine, il danno non patrimoniale lamentato dall’attrice in termini di pregiudizio all’immagine commerciale dell’impresa, va, al riguardo, rilevato un insanabile deficit assertivo e, soprattutto, probatorio dal quale discende inevitabilmente la reiezione della relativa richiesta, basata, appunto, su allegazioni del tuto generiche ed indeterminate, prive di concreto riscontro istruttorio.

Va, invece, accolta la domanda di risarcimento del danno c.d. emergente costituito, nel caso di specie, dagli oneri e costi sostenuti dall’attrice per il conseguimento della prova dell’illecito anticoncorrenziale sopra accertato.

In particolare, all’attrice va riconosciuto il ristoro del danno equivalente all’importo di € 429,00, speso dall’attrice per l’acquisto dell’attacco Haerèo G0 presso Nuovi Gamma s.a.s. (cfr. doc. 77 fascicolo cautelare).

Pertanto, i convenuti Beta s.r.l. e XX vanno condannati, in solido tra loro, al pagamento, in favore dell’attrice, a titolo di risarcimento del danno, della somma di € 429,00.

Trattandosi di importo dovuto a titolo di risarcimento del danno, costituente debito di valore, non liquidato all’attualità, la suddetta somma deve essere rivalutata secondo gli indici ISTAT dalla data del suo esborso da parte dell’attrice fino alla data della presente sentenza.

Inoltre, all’attrice spetta il risarcimento del danno da ritardato conseguimento della somma dovuta, da liquidarsi, in via equitativa, mediante attribuzione degli interessi di legge maturati sulla somma come sopra progressivamente rivalutata dalla data del fatto a quella della presente decisione.

Sull’importo come sopra complessivamente determinato, sono pure dovuti all’attrice gli ulteriori interessi legali dalla sentenza al saldo.

In ragione del tempo trascorso dall’epoca dei fatti, della loro ridotta estensione temporale e della loro indimostrata incidenza negativa sul patrimonio dell’attrice, si ritiene, invece, che le ulteriori misure invocate da quest’ultima, di pubblicazione della sentenza e di imposizione di penale pecuniaria, siano ipertrofiche e non consone alla reale entità della presente vicenda.

Infine, per quel che concerne le spese di lite, si ritiene che, in considerazione del parziale rigetto delle domande attrici e, comunque, dell’accertata responsabilità dei convenuti Beta e XX in ordine al l’illecito di cui all’art. 2598 n. 3 c.c., nel caso di specie, ricorrano le condizioni per disporre la loro parziale compensazione in misura del 50%, liquidando, come da dispositivo, il restante 50% a carico dei suddetti convenuti, in solido tra loro.

P.Q.M.

Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni altra istanza ed eccezione disattesa o assorbita, così dispone:

DICHIARA

i convenuti XX e Beta s.r.l. responsabili, in concorso tra loro ex art. 2055 c.c., di concorrenza sleale ex art. 2598 n. 3 c.c., per sottrazione ed utilizzo di informazioni aziendali riservate di proprietà della società attrice.

INIBISCE

ai predetti convenuti il compimento di attività di progettazione, produzione, commercializzazione e pubblicizzazione di attacchi da scialpinismo, comunque denominati, contenenti i particolari costruttivi di cui ai disegni tecnici di proprietà dell’attrice relativi all’attacco da scialpinismo denominato “NX e versati in causa sub all. nn. 33-44, 46 e 94 bis., ordinando il ritiro dal commercio degli attacchi da scialpinismo già prodotti da Beta s.r.l. e recanti i particolari costruttivi di cui ai suddetti disegni tecnici.

CONDANNA

i suddetti convenuti, in solido tra loro, al pagamento in favore dell’attrice, a titolo di risarcimento del danno emergente, della complessiva somma di € 490,00, rivalutata e maggiorata di interessi legali nei termini precisati in motivazione.

RIGETTA

tutte le domande formulate dall’attrice nei confronti della convenuta Nuovi Gamma s.a.s., nonché le restanti domande proposte nei confronti di XX e Beta s.r.l.

DISPONE

tra la società attrice ed i convenuti XX e Beta s.r.l., la parziale compensazione delle spese processuali in misura del 50% e, per l’effetto, condanna i convenuti XX e Beta s.r.l., in solido tra loro, al rimborso in favore dell’attrice del restante 50% liquidato in € 2.000,00 per spese e € 13.000,00 per compenso di avvocato, oltre accessori se e come dovuti per legge.

Così deciso in Bologna, nella Camera di Consiglio della IV Sezione Civile – Sezione Specializzata in Materia di Impresa, del Tribunale, il 22/07/2015.

Il Presidente est.

dott. Giovanni Salina

Pubblicata il 27/07/2015

 

 

 

 

Concorrenza sleale, responsabilità per fatto degli ausiliari .

 

Concorrenza sleale, denigrazione, diffusione, per interposta persona,  di opinioni inerenti l’attività dell’impresa concorrente, responsabilità per fatto degli ausiliari .

Corte di Cassazione, I sezione civile, sentenza n. 18691 del 25.09.2015

La Corte di Cassazione con  la sentenza che si segnala  ha preso posizione in materia di concorrenza sleale affermando i seguenti principi:

  1. Ai fini della configurabilità della concorrenza sleale per denigrazione, le notizie e gli apprezzamenti diffusi tra il pubblico non debbono necessariamente riguardare i prodotti dell’impresa concorrente, ma possono avere ad oggetto anche circostanze od opinioni inerenti in generale l’attività di quest’ultima, la sua organizzazione o il modo di agire dell’imprenditore nell’ambito, la cui conoscenza da parte dei terzi risulti comunque idonea a ripercuotersi negativamente sulla considerazione che ha l’impresa presso i consumatori.
  2. Si devono apprezzare, ai fini della potenzialità lesiva delle denigrazioni, l’effettiva “diffusione”, il contenuto fortemente diffamatorio degli apprezzamenti stessi e la potenzialità espansiva della comunicazione per la scelta dei destinatari.
  3. La concorrenza sleale non è ravvisabile ove manchi il presupposto soggettivo del cosiddetto “rapporto di concorrenzialità”; l’illecito, peraltro, non è escluso se l’atto lesivo sia stato posto in essere da un soggetto (il cd. terzo interposto), che agisca per conto di un concorrente del danneggiato poiché, in tal caso, il terzo responsabile risponde in solido con l’imprenditore che si sia giovato della sua condotta, mentre ove il terzo sia un dipendente dell’imprenditore che ne ha tratto vantaggio, quest’ultimo ne risponde ai sensi dell’art. 2049 c.c. ancorché l’atto non sia causalmente riconducibile all’esercizio delle mansioni affidate al dipendente, risultando sufficiente un nesso di “occasionalità necessaria” per aver questi agito nell’ambito dell’incarico affidatogli.
  4. Ai fini della configurabilità della fattispecie di concorrenza sleale per interposta persona, non si richiede l’esistenza di uno specifico accordo ispirato a tali finalità tra l’imprenditore concorrente e il terzo, ma è necessaria e sufficiente una relazione di interessi tra detti soggetti tale da far ritenere che il terzo, con la propria attività, abbia agito in ragione di quegli interessi.

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott.          RORDORF     Renato                                                                                         –

Dott.          NAPPI             Aniello                                                                                        –

Dott. MERCOLINO Guido                                                                                  – rel.

Dott.     LAMORGESE         Antonio    Pietro  –

Dott.    NAZZICONE      Loredana               –

ha pronunciato la seguente:

sentenza sul ricorso proposto da

 ITALCOOP SOC. COOP. A R.L., in persona del presidente p.t.U., elettivamente domiciliata in Roma, alla via Monte Zebio 30, presso l’avv. CAMICI CLAUDIO, dal quale, unitamente all’avv. GIOVANNI del foro di Milano, è rappresentata e difesa in virtù procura speciale a margine del ricorso;      ricorrente –

contro

la Special Coop Italia Soc. coop. a r.l.,  B.G. e R.

 

 

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 30 aprile 2015 dal Consigliere Dott. Guido Mercolino;

  • udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DEL CORE Sergio, il quale ha concluso per il rigetto dei primi due motivi di ricorso e l’accoglimento del terzo motivo.
  • avverso la sentenza della Corte di Appello di Milano pubblicata il 15 maggio 2007.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

  1. – L’Italcoop Soc. coop. a r.l. convenne in giudizio la Special Coop Italia Soc. coop. a r.l., B.G. e R., per sentirli condannare al risarcimento dei danni cagionati da atti di concorrenza sleale consistenti nella costituzione della società convenuta, avente denominazione assonante ed oggetto sociale affine a quello di essa attrice, nell’uso di segni distintivi simili, nello storno di soci lavoratori, nello sviamento di clientela, nell’artificiosa pratica di bassi prezzi e nella sottrazione di documentazione.
    1. – Con sentenza del 6 dicembre 2001, il Tribunale di Milano accolse parzialmente la domanda principale, ritenendo sussistente unicamente la concorrenza sleale per sviamento della clientela, ravvisarle nella diffusione di una lettera circolare sottoscritta dal B., e condannando quest’ultimo e la Special Coop al risarcimento dei danni, da liquidarsi in separato giudizio; dichiarò invece inammissibile la domanda riconvenzionale proposta dai convenuti.
  2. Si costituirono i convenuti, e resistettero alla domanda, chiedendo in via riconvenzionale la condanna dell’attrice al risarcimento dei danni derivanti dalla diffusione di notizie false e denigratorie nei confronti della Special Coop e di B.G..
  3. – L’impugnazione proposta dalla Special Coop e dai B. è stata parzialmente accolta dalla Corte d’Appello di Milano, che con sentenza non definitiva del 28 dicembre 2004 ha dichiarato ammissibile la domanda riconvenzionale, confermando nel resto la sentenza di primo grado, e con sentenza definitiva del 15 maggio 2007 ha ritenuto sussistente la concorrenza sleale anche a carico dell’Ital-coop, condannandola al risarcimento dei danni arrecati agli appellanti, da liquidarsi in separato giudizio.
  4. A fondamento della decisione, la Corte ha ritenuto che dalle deposizioni dei testimoni escussi emergesse effettivamente la diffusione di notizie false ed apprezzamenti idonei a determinare discredito nei confronti della Special Coop e del B., attribuendone la paternità a G.D., il quale, nell’incontestata qualità di fiduciario e mandatario della società appellata, in occasione della riconsegna dei libretti di lavoro a due dipendenti passate alla Special Coop, si era lasciato andare ad affermazioni diffamatorie nei confronti del B., accusandolo di essere mafioso e di essere stato arrestato per aver sottratto denaro alla società; tali affermazioni, volte a scoraggiare il trasferimento, erano state fatte in modo subdolo e tendenzioso e in un contesto tale da indurre nelle lavoratrici un giudizio fortemente negativo in ordine alla persona del B. ed alle loro prospettive di lavoro presso la nuova società.
  5. – Avverso la predetta sentenza l’Italcoop propone ricorso per cassazione, articolato in tre motivi. Gl’intimati non hanno svolto attività difensiva.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

  1. – Con il primo motivo d’impugnazione, la ricorrente denuncia la violazione o la falsa applicazione dell’art. 2598 cod. civ., nonché l’omessa o insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, osservando che la sentenza impugnata ha imputato alla società frasi denigratorie proferite da un suo socio lavoratore, senza accertare se esse fossero state pronunciate per conto della società ovvero in collegamento con la stessa. Premesso che la controversia traeva origine dal recesso del B. dall’Italcoop, a seguito della sua estromissione dalla gestione della filiale di (OMISSIS) e dell’affidamento della stessa al G., afferma che l’incarico conferito a quest’ultimo, limitato a tale aspetto operativo, non consentiva di ascrivere ad essa ricorrente le frasi da lui pronunciate, non essendo stata dimostrata la riconducibilità delle stesse alla volontà della società o la sussistenza di un nesso di occasionalità necessaria con le mansioni affidate al socio lavoratore.
    1. – Il motivo è infondato.Alla stregua di tali principi, costantemente ribaditi dalla giurisprudenza di legittimità, non merita censura la sentenza impugnata, nella parte in cui, pur avendo accertato che le espressioni diffamatorie nei confronti del B. e denigratorie nei confronti della Special Coop erano ascrivibili al G., ne ha addebitato la responsabilità all’Italcoop, in virtù del rapporto di dipendenza intercorrente tra quest’ultima ed il predetto soggetto, nonché della circostanza, concordemente riferita dai testi, che le medesime espressioni erano state pronunciate in occasione della chiusura dei rapporti di lavoro con altri dipendenti. L’affermazione della ricorrente, secondo cui il G. subentrò al B. nella gestione della filiale di (OMISSIS) della Cooperativa, suona d’altronde come un’ulteriore conferma della circostanza, ritenuta pacifica dalla sentenza impugnata e desunta comunque anche dalle deposizioni dei testi, che l’autore dell’illecito agì in qualità di fiduciario o mandatario dell’Italcoop, alla quale pertanto la Corte di merito ha correttamente imputato gli effetti delle sue dichiarazioni.
    2. Com’è noto, il principio secondo cui la concorrenza sleale costituisce una fattispecie tipicamente riconducibile ai soggetti del mercato in concorrenza, pur escludendone la configurabilità in mancanza del presupposto oggettivo rappresentato dal cd. rapporto di concorrenzialità, non impedisce di ravvisare l’illecito in questione anche nel caso in cui l’atto lesivo del diritto del concorrente venga posto in essere da un soggetto (cd. terzo interposto) che, pur non essendo egli stesso in possesso dei necessari requisiti soggettivi, ovverosia della qualità di concorrente del danneggiato, si trovi con il soggetto avvantaggiato in una particolare relazione, tale da far ritenere che l’atto sia stato oggettivamente compiuto nell’interesse di quest’ultimo (cfr. Cass., Sez. 1, 6 giugno 2012, n. 9117; 9 agosto 2007, n. 17459; 8 settembre 2003, n. 13071). Qualora poi, come nella specie, l’autore dell’illecito sia un dipendente dell’imprenditore che ne ha tratto vantaggio, quest’ultimo è tenuto a risponderne ai sensi dell’art. 2049 cod. civ., sulla base del mero rapporto intercorrente con il soggetto agente, anche se l’atto non sia causalmente riconducibile allo esercizio delle mansioni affidate a quest’ultimo, risultando sufficiente che tra le stesse e l’illecito sia configurabile un rapporto di occasionalità necessaria, nel senso che il dipendente abbia agito nell’ambito dell’incarico affidatogli, sia pur eccedendo i limiti delle proprie attribuzioni o all’insaputa del datore di lavoro (cfr. Cass., Sez. 3, 4 aprile 2013, n. 8210; 12 marzo 2008, n. 6632; Cass., Sez. lav., 25 marzo 2013, n. 7403).
  2. – Con il secondo motivo, la ricorrente deduce la violazione o la falsa applicazione dell’art. 2598 c.c., nn. 2 e 3, sostenendo che, nel qualificare come atti di concorrenza sleale le espressioni riferite dai testi, la Corte di merito non ha considerato che le stesse non riguardavano i prodotti o l’attività della Special Coop, ma vicende personali del B., estranee all’attività prestata nell’ambito della Special Coop o al periodo in cui ne era socio, ed attinenti al rapporto intercorso con l’Italcoop; esse, non essendo rivolte ai clienti ma a soci lavoratori già transitati nella Special Coop, non integravano una forma di divulgazione illecita, e non erano quindi idonee a provocare discredito, né potevano cagionare alcun danno all’impresa concorrente.
    1. – Il motivo é infondato.Cass., Sez. 1, 8 marzo 2013, n. 5848; 30 maggio 2007, n. 12681).
    2. Nella specie, tuttavia, la potenzialità lesiva delle dichiarazioni denigratorie é stata affermata in virtù del loro contenuto fortemente diffamatorio e della loro destinazione ai dipendenti dell’Italcoop in procinto di trasferirsi presso la Special Coop, nonché della finalità dissuasiva della divulgazione, che. in quanto volta a scoraggiare l’assunzione di tali iniziative da parte dei lavoratori, é stata correttamente ritenuta sufficiente a dimostrare il carattere non occasionale della condotta e la portata espansiva della comunicazione, rivolta a soggetti determinati ma idonea ad estendere i propri effetti ad una pluralità di persone (cfr. al riguardo, Cass., Sez. 1, 29 luglio 1968, n. 2728).
    3. Ai fini della configurabilità della concorrenza sleale per denigrazione, non é infatti necessario che le notizie e gli apprezzamenti diffusi tra il pubblico riguardino specificamente i prodotti dell’impresa concorrente, potendo gli stessi avere ad oggetto anche circostanze od opinioni inerenti più in generale all’attività di quest’ultima, e quindi anche alla sua organizzazione o al modo di agire dell’imprenditore nell’ambito professionale (con esclusione, quindi, della sua sfera strettamente personale e privata), la cui conoscenza da parte dei terzi risulti comunque idonea a ripercuotersi negativamente sulla considerazione di cui l’impresa gode presso i consumatori. E’ pur vero che la lettera dell’art. 2598 c.c., n. 2, richiedendo la “diffusione” delle notizie e degli apprezzamenti denigratori, fa riferimento ad un’effettiva propalazione di fatti e giudizi tra un numero indeterminato, o quanto meno tra una pluralità di persone, in tal modo escludendo, in linea di principio, la configurabilità della fattispecie in esame nell’ipotesi di esternazioni occasionalmente rivolte a singoli interlocutori nell’ambito di separati e limitati colloqui (cfr.
  3. – Con il terzo ed ultimo motivo, la ricorrente lamenta la violazione o la falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ. e/o dell’art. 2598 cod. civ., rilevando che la condanna al risarcimento dei danni é stata pronunciata anche in favore di B.R., sebbene la relativa domanda fosse stata proposta soltanto dalla Special Coop e da B.G.; aggiunge che, nel riconoscere ai B. il predetto diritto, la Corte di merito non ha considerato che gli stessi non rivestivano la qualità di imprenditori, con la conseguente esclusione della configurabilità di un rapporto di concorrenza con essa ricorrente.
    1. – Il motivo è parzialmente fondato.Mentre peraltro alla Special Coop doveva essere senz’altro riconosciuta la qualità di soggetto passivo dell’illecito concorrenziale, in quanto società commerciale esercente un’attività in concorrenza con quella dell’Italcoop, non poteva dirsi altrettanto per B.G. e R., i quali, come è pacifico tra le parti, rivestono rispettivamente la carica di amministratore e la qualità di socio della società convenuta: la fattispecie prevista dall’art. 2598 cod. civ., presupponendo innanzitutto la sussistenza di un rapporto di concorrenzialità tra soggetti che esercitino contemporaneamente un’attività industriale o commerciale in un ambito territoriale anche solo potenzialmente comune, non è infatti configurabile nell’ipotesi in cui, come accade nella specie, uno di essi non sia in possesso della qualifica di imprenditore, svolgendo la predetta attività non già in proprio, ma attraverso una società. Nei confronti di B.G., che aveva costituito direttamente e personalmente oggetto delle dichiarazioni denigratorie, la mancanza della qualifica d’imprenditore non impediva tuttavia di affermare l’illiceità dell’attività posta in essere dal fiduciario dell’Italcoop, la cui portata diffamatoria, traducendosi nella lesione dell’onore e della reputazione dell’interessato, consentiva ugualmente il riconoscimento della responsabilità della società attrice, ai sensi degli artt. 2043 e 2049 cod. civ., indipendentemente dalla configurabilità dell’illecito concorrenziale. E’ solo nei confronti di B.R., dunque, che il difetto della qualifica d’imprenditore impediva di ravvisare qualsiasi responsabilità a carico della società attrice, non essendo da un lato configurabile rispetto a quest’ultima il rapporto di concorrenzialità richiesto dall’art. 2598 cod. civ., e non potendo la convenuta essere considerata soggetto passivo del reato di cui all’art. 595 cod. pen., in quanto le dichiarazioni diffamatorie del G. si riferivano esclusivamente all’amministratore della Special Coop. 4. – La sentenza impugnata va pertanto cassata, nei limiti segnati dai motivi accolti, e, non risultando necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., u.c., con il rigetto della domanda di risarcimento dei danni proposta da B.R..
    2. 5. – La mancata costituzione della Special Coop e di B. G. esclude la necessità di provvedere al regolamento delle spese del giudizio di legittimità nei rapporti tra gli stessi e la ricorrente. Nei rapporti tra quest’ultima e B.R., la peculiarità delle questioni trattate induce invece a dichiarare integralmente compensate tra le parti le spese dei tre gradi di giudizio.
    3. Come si evince dalle conclusioni rassegnate nel giudizio d’appello e riportate testualmente nell’epigrafe della sentenza impugnata, la domanda proposta in via riconvenzionale, pur trovando fondamento nell’asserita diffusione di notizie ed apprezzamenti idonei a screditare la Special Coop ed il suo presidente B.G., aveva ad oggetto la condanna dell’attrice al risarcimento dei danni in favore di tutti i convenuti: può quindi escludersi che, nel pronunciare la predetta condanna, la Corte territoriale sia incorsa in ultrapetizione, ravvisabile esclusivamente nel caso in cui il giudice di merito, interferendo nel potere dispositivo delle parti, abbia alterato gli elementi obiettivi dell’azione, sostituendo i fatti costitutivi della pretesa (cd. causa petendi) o emettendo un provvedimento diverso da quello richiesto (c.d. petitum immediato), ovvero attribuendo o negando un bene della vita diverso da quello conteso (c.d. petitum mediato) (cfr. ex plurimis, Cass., Sez. lav., 11 gennaio 2011, n. 455; Cass., Sez. 3, 22 marzo 2007, n. 6945; Cass., Sez. 2, 12 luglio 2005, n. 14552).

PQM

La Corte rigetta i primi due motivi di ricorso, accoglie parzialmente il terzo motivo, cassa la sentenza impugnata, e, decidendo nel merito, rigetta la domanda di risarcimento dei danni proposta da B.R.; dichiara interamente compensate le spese dei tre gradi di giudizio tra l’Italcoop Soc. coop. a r.l. e B.R..

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Prima Sezione Civile, il 30 aprile 2015.

Depositato in Cancelleria il 22 settembre 2015

Concorrenza sleale – norme ISO

Ordinanza Trib.le di Modena Sez. Distaccata di Carpi in data 7 gennaio 2010

Secondo una recente ordinanza del Tribunale di Modena, Sezione Distaccata di Carpi, emessa a seguito di un ricorso ex art. 700 c.p.c. costituisce atto di concorrenza sleale per contrarietà ai principi della correttezza professionale (art. 2598 n. 3 c.c.) ed appropriazione di pregi (art. 2598 n. 2 c.c.) l’apporre una certificazione ISO sul proprio prodotto qualora le qualità dello stesso non siano più aggiornate alle ultime norme ISO .

Le conclusioni dell’ordinanza, poi confermata in sede di reclamo, sono in linea di principio da condividere. Il giudicante ha giustamente ritenuto che “non avrebbe senso, infatti, confidare su un prodotto che promette di essere dotato di caratteristiche realizzate secondo la migliore scienza ed esperienza del momento se questa non è più tale perché superata da conoscenze ed esperienze migliori”. D’altronde, sia la dottrina che la giurisprudenza erano da sempre concordi nel ritenere un caso tipico di illecita appropriazione di pregi l’apposizione al proprio prodotto di certificazione ISO qualora questa fosse avvenuta mentre il prodotto era privo delle qualità certificate (VANZETTI-DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Milano, 2009; e App. Milano, 18 marzo 2006). Tuttavia l’ordinanza si spinge oltre ritenendo appunto che, non solo si ha illecita appropriazione di pregi quando il prodotto certificato sia completamente sprovvisto degli standard ISO, ma anche quando questo, per così dire, sia “rimasto indietro” nell’aggiornamento di detti standard, millantando caratteristiche che sono rispondenti alle vecchie norme ISO non più aggiornate con la recente normativa.

 

L’invenzione del dipendente

In tema di rivendicazione del dipendente

 

Tribunale Bologna. Sentenza n. 2381/12

 

Come è noto le rivendicazioni costituiscono quella parte del brevetto che definisce e delimita l’ambito di protezione del brevetto oppure, detto in altri termini e a norma dell’art. 52 Codice della Proprietà Industriale, quella parte che “contribuisce a formarne l’oggetto”. Continue reading “L’invenzione del dipendente”