Categoria: Societario

Può il creditore sociale agire contro i soci di una società in liquidazione mediante espropriazione forzata ?

Società. Il riparto di attivo con il bilancio di liquidazione

 

Massima:    L’unica sanzione prevista dall’ordinamento per il riparto effettuato dal liquidatore in violazione delle disposizioni contenute negli artt. 2491 e ss c.c. è la responsabilità del liquidatore per i danni cagionati ai creditori i sociali (art. 2491 c.c. comma 3 c.c.) laddove si ravvisi (almeno secondo una tesi) la colpa del liquidatore stesso in analogia a quanto previsto dall’art. 2495 comma 2. c.c.

IL TRIBUNALE DI REGGIO EMILIA

Seconda sezione civile

In composizione monocratica, Giudice dr. Andrea Rat. ha pronunciato la seguente

S E N T E N Z A

nella causa civile iscritta al n. 8535/2008 r.g., promossa da:

  1. M. S.R.L.. con il patrocinio dell’Avv……………. ed elettivamente domiciliata in via……., 2 Reggio Emilia presso il suo difensore;

attrice

contro

ALFA IMMOBILIARE S.R.L.;  A.S. ; P. C. ed altri  tutti con il patrocinio dell’Avv. Orlandi Giovanni ed elettivamente domiciliati in Correggio, Corso Mazzini n.15 presso il loro difensore;

CONCLUSIONI

I procuratori delle parti concludono conte da udienza del 17/11/2011.

 

CONCISA ESPOSIZIONE DELLE RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA

DECISIONE

 

  1. Per sostenere le proprie ragioni, l’attrice M.M Srl, partendo da incontestate circostanze di procede alla seguente costruzione giuridica:

”a) la società Alfa immobiliare srl è in liquidazione sin dal 30 ottobre 1998;

  1. b) la società Alfa immobiliare srl è attualmente priva di qualsiasi cespite patrimoniale attivo, giusta dichiarazione resa all’ufficiale giudiziario ai sensi dell’articolo 492 comma quattro CPC in data 17 luglio 2006;
  2. c) nel bilancio finale di liquidazione al 31 dicembre 2003 della società Alfa immobiliare srl, approvato con verbale dell’assemblea dei soci in pari data, è stato ripartito fra tutti i soci, in proporzione alle rispettive quote di partecipazione al capitale sociale, un attivo residuo di complessivi euro 70.088,00;
  3. d) dopo l’approvazione del bilancio finale di liquidazione, il liquidatore della società Alfa immobiliare non ha richiesto la cancellazione della società dal registro delle imprese.

Questi sono i fatti.

Ai sensi dell’articolo 2493 CC il liquidatore di una società di capitali non puoi effettuare riparti a favore dei soci se non ha provveduto a pagare i creditori o ad accantonare le somme necessarie a soddisfarli.

Il riparto eseguito in violazione di tale disposizione integra un illecito sanzionato anche penalmente ai sensi dell’art. 2633 CC, che punisce con la reclusione da sei mesi a tre anni i liquidatori che ripartendo i beni sociali tra i soci prima del pagamento dei creditori sociali o dell’accantonamento delle somme necessarie a soddisfarli, cagionano danno ai creditori.

È evidente, su tali premesse, che è il reparto effettuato in data 31 dicembre 2003 è affetto da nullità assoluta per violazione di norme imperative punto

Dalla declaratoria di nullità del reparto deriva, come conseguenza immediata e diretta, l’emersione di un credito della società nei confronti dei singoli soci per la restituzione di quanto ne ha formato oggetto “ ( cfr. Comparsa conclusionale di parte attrice).

 

In altri termini oggetto dell’accertamento sarebbe, in tesi, il credito restitutorio vantato dalla società nei confronti dei soci derivante da nullità del riparto per violazione di norme imperative.

 

  1. La tesi attorea, per quanto suggestiva, non è

Le disposizioni civilistiche e penalistiche richiamate dalla difesa di parte attrice sono poste a presidio dell’interesse particolare dei creditori sociali e non proteggono, invece, un interesse pubblico e generale la cui violazione avrebbe forse consentito di ragionare in termini di patologia della fattispecie dedotta in giudizio.

L’unica sanzione prevista dall’ordinamento per il riparto effettuato dal liquidatore in violazione delle disposizioni contenute negli artt. 2491 e ss c.c. è la responsabilità del liquidatore per i danni cagionati ai creditori i sociali (art. 2491 c.c. comma 3 c.c.) laddove si ravvisi (almeno secondo una tesi) la colpa del liquidatore stesso. in analogia a quanto previsto dall’art. 2495 comma 2. c.c.

In altri termini, per tutelate l’interesse protetto dalla norma l‘ordinamento sanziona, anche penalmente, il comportamento illecito del liquidatore che pregiudichi le ragioni dei creditori sociali addossandogli la responsabilità personale per i danni cagionati a questi ultimi, ma non colpisce il bilancio ed il successivo riparto che, in assenza di una specifica ed espressa comminatoria di nullità, restano pienamente validi ed efficaci.

D’altro lato la nullità potrebbe colpire unicamente la delibera che approva il bilancio ma non il bilancio in sé considerato né, tantomeno, il successivo riparto.

Da ciò discende l’inesistenza di un obbligo restitutorio da parte dei soci e. per l‘effetto il rigetto della domanda attorea, inserita in un giudizio volto esclusivamente ad accertare 1’esistenza del credito vantato dal debitore nei confronti del terzo pignorato e nell’ambito del quale non può trovare spazio il giudizio relativo all’accertamento della responsabilità del liquidatore né un’ipotetica azione surrogatoria  della società odierna creditrice per fare valere nei confronti di terzi eventuali diritti spettanti al proprio debitore

4. Ogni altra questione assorbita

  1. Le spese, di lite liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza. non essendovi motivi per derogare ai principi di cui al l’art. 91 p.c.

In proposito occorre rilevare che la magmatica normativa in materia sembra escludere l’applicazione delle tariffe professionali,  quali risultanti dal decreto ministeriale 8 Aprile 2004 numero 127 , in attesa dell’emanazione di parametri diversi, allo stato non noti. Ne discende che questo giudice deve ricorrere a parametri generali e ai criteri di cui all’articolo 2225 CC.   Anche a non ritenere che le precedenti tariffe fossero un uso normativo, esse sicuramente rimangono un criterio residuale, corrispondendo al” risultato ottenuto e al lavoro necessario” (2225 cc); si tratta infatti di un criterio che, fino ad ora, ha operato, offrendo un parametro di corrispettivi, apparentemente in linea con i costi dei servizi legali di analoghe realtà normative ( paesi di affine civiltà giuridica). Naturalmente, la divisione in diritti/onorari/spese generali è da intendersi in senso puramente convenzionale, come relatio alle precedenti tariffe, essendo la liquidazione da intendersi come liquidazione di un unico compenso;

P.Q.M.

Il Giudice de1 Tribunale di Reggio Emilia In composizione monocratica, definitivamente pronunciando sulla causa iscritta al  n. 8535/2008 ogni diversa domanda, eccezione e deduzione respinte:

– rigetta la domanda attorea

-dichiara tenuta e condanna parte attrice a rifondere a parte convenuta le spese di lite che liquida in complessivi € 7.43 8.00 oltre spese generali al 12, 50% su tale somma : essa è da intendersi come compenso equo ai sensi dell’articolo 2225 c.c.; spettano infine, IVA e Cassa nelle misure di legge.

Cosi deciso in Reggio Emilia 7/2/2012.

Il Giudice

Dr. Andrea Rat

 

 

 

Cessione di ramo d’azienda, configurabilità,

Secondo  Cass. n. 7364 del 2021  la Corte europea ha costantemente ribadito il principio secondo il quale, per determinare se siano soddisfatte o meno le condizioni per l’applicabilità della direttiva in materia di trasferimento d’impresa, occorre “prendere in considerazione il complesso delle circostanze di fatto che caratterizzano l’operazione di cui trattasi, fra le quali rientrano in particolare il tipo d’impresa o di stabilimento in questione, la cessione o meno degli elementi materiali, quali gli edifici ed i beni mobili, il valore degli elementi materiali al momento del trasferimento, la riassunzione o meno della maggior parte del personale da parte del nuovo imprenditore, il trasferimento o meno della clientela, nonché il grado di analogia delle attività esercitate prima e dopo la cessione e la durata di un’eventuale sospensione di tali attività”, ma “questi elementi, tuttavia, sono soltanto aspetti parziali di una valutazione complessiva cui si deve procedere e non possono, perciò, essere valutati isolatamente”; si è altresì evidenziato che “l’importanza da attribuire rispettivamente ai singoli criteri varia necessariamente in funzione dell’attività esercitata, o addirittura in funzione dei metodi di produzione o di gestione utilizzati nell’impresa, nello stabilimento o nella parte di stabilimento di cui trattasi”

Ne consegue che, come nel caso oggetto del giudizio,  e conformemente a quando affermato dalla giurisprudenza della CGUE, il trasferimento del ramo d’azienda è configurabile  anche quando oggetto della cessione sia un gruppo organizzato di dipendenti stabilmente assegnato a un compito comune senza elementi materiali significativi, purché tale entità preesista al trasferimento e sia in grado di svolgere quello specifico servizio prescindendo dalla struttura dalla quale viene estrapolata, in favore di una platea indistinta di potenziali clienti

http://www.italgiure.giustizia.it/xway/application/nif/clean/hc.dll?verbo=attach&db=snciv&id=./20210316/snciv@sL0@a2021@n07364@tS.clean.pdf

Societario. Può essere risolto il contratto di cessione di partecipazioni sociali in caso di carenze o vizi del patrimonio ?

Sentenza n. 19814/2015   R.G.  Trib.le di Roma

La sentenza che si annota consente di fare il punto su un aspetto di indubbio  interesse,  che riguarda la cessione di partecipazioni societarie ed in particolare il caso non infrequente dell’emersione di sopravvenienze passive successivamente alla definizione dell’accordo.

Premette, il Tribunale capitolino, che costituiscono patti accessori al contratto di cessione le clausole inserite dalle parti in un contratto di compravendita di partecipazioni sociali con le quali si garantisce una certa consistenza del patrimonio sociale della società, ovvero ci si assume la responsabilità circa le sopravvenienze e sopravvivenze passive.  In quanto tali riguardano esclusivamente le parti di quel negozio, e  l’originario acquirente è legittimato a far valere i diritti che ne discendono  anche ove  abbia successivamente alienato quelle quote a un soggetto terzo.

Riportandosi poi ad un orientamento ormai consolidato nella giurisprudenza, sia di legittimità che di merito, afferma che la consistenza patrimoniale della società nell’ambito della cessione di quote od azioni di quest’ultima rileva solo in presenza di una specifica garanzia assunta dal cedente.

In effetti la cessione delle azioni o delle quote di una società di capitali o di persone ha come oggetto immediato la partecipazione sociale, intesa come l’insieme dei diritti patrimoniali e amministrativi che qualificano lo status di socio, e come oggetto mediato la quota parte del patrimonio che, pertanto, rileva solo in presenza di una specifica garanzia assunta in tal senso dal cedente; in caso contrario, le eventuali carenze o vizi del patrimonio, riguardando il valore economico della società e la sfera delle valutazioni motivazionali, non possono giustificare la risoluzione del contratto di cessione.

Non è necessario che la garanzia, con la quale il cedente si assume la piena responsabilità circa le carenze e i vizi della consistenza patrimoniale della società,  sia qualificata come tale, ma è sufficiente che si evinca inequivocabilmente dal contratto.

Tra le clausole che possono essere previste e introdotte nel contratto di cessione di partecipazioni societarie, quelle di garanzia tendono a garantire l’acquirente da passività potenziali o da attività inesistenti o minori, riferibili alla situazione aziendale e imprenditoriale esistente al momento della cessione , mentre gli eventuali oneri e sopravvenienze future rientrano nell’ambito del normale rischio di impresa e non possono che gravare sul cessionario.

Nel contratto di cessione di partecipazioni societarie possono essere assunti due tipi di garanzie, l’una, relativa alla quota sociale oggetto del trasferimento (c.d. nomen verum), con la quale il cedente è tenuto a garantire che la partecipazione ceduta è di sua proprietà e che ne può liberamente disporre; l’altra, connessa alla situazione patrimoniale della società, con la quale il cedente assicura la consistenza e la capacità reddituale dell’impresa (c.d. nomen bonum).

 

Estinzione della società

 (Cass. Civ., sez I, 15 ottobre 2012, n. 17637 )

 La pronuncia di legittimità in commento ha stabilito il principio per cui con la cancellazione viene meno la soggettività dell’ente, e con esso la sua capacità processuale, nonché la legittimazione attiva e passiva dei suoi organi, la quale, relativamente ai processi in corso, si trasferisce ai singoli soci.

Questi ultimi, infatti, a seguito della estinzione, divengono non solo responsabili nei confronti dei creditori sociali per i crediti rimasti insoddisfatti, nei limiti delle somme da loro riscosse nel bilancio finale di liquidazione, ma anche partecipi della comunione sui beni residuati dalla liquidazione o sopravvenuti alla cancellazione, con conseguente configurabilità di una successione a titolo universale che dà luogo, sul piano processuale, all’applicabilità dell’art. 110 c.p.c. Prima della cancellazione, invece, la legittimazione processuale spetta unicamente ai liquidatori ai quali l’assemblea della società abbia attribuito la rappresentanza della stessa, ai sensi dell’art. 2487 c.c., verificandosi, per effetto dell’iscrizione della nomina nel registro delle imprese, la cessazione della carica degli amministratori ed il sub ingresso dei liquidatori nei relativi poteri. Tale pronuncia si è posta quindi come un superamento in senso confermativo di quell’orientamento risalente della giurisprudenza secondo il quale l’atto formale di cancellazione di una società dal Registro delle Imprese, così come il suo scioglimento, con l’instaurazione della fase di liquidazione, non determinava l’estinzione della società ove non si fossero esauriti tutti i rapporti giuridici ad essa facenti capo a seguito della procedura di .liquidazione, ovvero non fossero definite tutte le controversie giudiziarie in corso con i terzi, e non determinava, conseguentemente, in relazione a detti rapporti rimasti in sospeso e non definiti la perdita della legittimazione processuale della società ed un mutamento della rappresentanza sostanziale e processuale della stessa, che permaneva in capo ai medesimi organi che la rappresentavano prima della cancellazione (cfr, ex multis, Cass. Civ. 646/2007; Cass. Civ. 3221/1999).

Sia quindi che si segua il nuovo orientamento della Cassazione sia che si voglia optare per quello più risalente la ratio sottesa alle due scelte di campo è unica e cioè evitare che il processo si interrompa per il solo effetto della volontaria cancellazione, non rinvenendosi un successore della stessa legittimato a proseguirlo, e la società estinta possa agevolmente sottrarsi alle proprie obbligazioni (così App. Milano, Sez. I, ord. 1482/2008).

 

Societario. Il voto maggioritario e il superamento del principio “un’azione un voto”

 

Decreto Competitività

 

Con l’entrata in vigore del Decreto Competitività ( Legge 116/2014 di conversione, con modificazioni, del D.L. 91/2014), il legislatore ha inteso semplificare la normativa che incide sull’accesso delle società al mercato di capitale di rischio.

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Tutela del credito, società di persone, preventiva escussione del patrimonio sociale ex art. 2304 c.c.

Tribunale di Reggio Emilia, ordinanza 10 settembre 2004

Il provvedimento annotato offre uno spunto di riflessione su un problema che si presenta frequentemente nella pratica.  Com’è noto, ai sensi dell’art. 2304 c.c “I creditori sociali, anche se la società è in liquidazione, non possono pretendere il pagamento dai singoli soci, se non dopo l’escussione del patrimonio sociale”.         Continue reading “Tutela del credito, società di persone, preventiva escussione del patrimonio sociale ex art. 2304 c.c.”

Estinzione della società, cancellazione dell’ente capacità processualee legittimazione

(Cass. Civ., sez I, 15 ottobre 2012, n. 17637 in Diritto e Giustizia 2012)

La pronuncia di legittimità in commento ha stabilito il principio per cui con la cancellazione viene meno la soggettività dell’ente, e con esso la sua capacità processuale, nonché la legittimazione attiva e passiva dei suoi organi, la quale, relativamente ai processi in corso, si trasferisce ai singoli soci.

Questi ultimi, infatti, a seguito della estinzione, divengono non solo responsabili nei confronti dei creditori sociali per i crediti rimasti insoddisfatti, nei limiti delle somme da loro riscosse nel bilancio finale di liquidazione, ma anche partecipi della comunione sui beni residuati dalla liquidazione o sopravvenuti alla cancellazione, con conseguente configurabilità di una successione a titolo universale che dà luogo, sul piano processuale, all’applicabilità dell’art. 110 c.p.c. Prima della cancellazione, invece, la legittimazione processuale spetta unicamente ai liquidatori ai quali l’assemblea della società abbia attribuito la rappresentanza della stessa, ai sensi dell’art. 2487 c.c., verificandosi, per effetto dell’iscrizione della nomina nel registro delle imprese, la cessazione della carica degli amministratori ed il sub ingresso dei liquidatori nei relativi poteri.

Tale pronuncia si è posta quindi come un superamento in senso confermativo di quell’orientamento risalente della giurisprudenza secondo il quale l’atto formale di cancellazione di una società dal Registro delle Imprese, così come il suo scioglimento, con l’instaurazione della fase di liquidazione, non determinava l’estinzione della società ove non si fossero esauriti tutti i rapporti giuridici ad essa facenti capo a seguito della procedura di .liquidazione, ovvero non fossero definite tutte le controversie giudiziarie in corso con i terzi, e non determinava, conseguentemente, in relazione a detti rapporti rimasti in sospeso e non definiti la perdita della legittimazione processuale della società ed un mutamento della rappresentanza sostanziale e processuale della stessa, che permaneva in capo ai medesimi organi che la rappresentavano prima della cancellazione (cfr, ex multis, Cass. Civ. 646/2007; Cass. Civ. 3221/1999).

         Sia quindi che si segua il nuovo orientamento della Cassazione sia che si voglia optare per quello più risalente la ratiosottesa alle due scelte di campo è unica e cioè evitare che il processo si interrompa per il solo effetto della volontaria cancellazione, non rinvenendosi un successore della stessa legittimato a proseguirlo, e la società estinta possa agevolmente sottrarsi alle proprie obbligazioni (così App. Milano, Sez. I, ord. 1482/2008).

 

Societario. Maggioranza fraudolenta a verbale, illecito penale

Cassazione penale Sentenza 12/01/2012, n. 555

Integra il reato ex art. 2636 c.c. l’adozione di provvedimenti da parte dell’assemblea sociale, la cui regolare costituzione sia stata fraudolentemente attestata nel verbale.

Interessante decisione della Suprema Corte in relazione al delitto di influenza illecita sull’assemblea.

 Questo il caso sottoposto al vaglio dei giudici di legittimità: la Corte di appello di Palermo confermava la sentenza di prime cure, la quale aveva affermato la penale responsabilità dell’imputato in ordine al reato di cui all’art. 2636 c.c., perché, quale amministratore unico di una s.r.l., aveva ripetutamente determinato le maggioranze nelle assemblee sociali con atti fraudolenti, di fatto impedendo a due delle tre socie di parteciparvi, condotte poste in essere con finalità di conseguimento di un ingiusto profitto. In particolare, si era appurato che l’imputato – marito di una delle tre socie della s.r.l. – a causa di perdite di esercizio che non voleva, nella sua veste, far emergere, aveva convocato le assemblee sociali del 2004 e del 2006, nel primo caso facendo figurare a verbale la presenza di una socia, che invece non era stata neppure convocata; nel seconda, attribuendo alla moglie la titolarità di quote sufficienti per la valida costituzione della assemblea, nonostante così non fosse. In entrambe le assemblee erano state prese determinazioni funzionali all’intento preso di mira dall’imputato, quali l’approvazione del bilancio del 2003 e la rinnovazione della carica di amministratore. Nel ricorrere per cassazione, tra i motivi di ricorso la difesa censurava la motivazione della sentenza d’appello, che, a suo avviso, confermato la sentenza di primo grado nonostante l’assenza di prova circa: la falsificazione di documentazione sottoposta ai soci, le interferenze sulla regolare formazione delle delibere assembleari, il ricorso ad artifici, la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato. La Cassazione ha respinto il ricorso prendendo le mosse dal dato normativo: nel prevedere il reato di “illecita influenza sull’assemblea” l’art. 2636 c.c., «punisce la condotta di chiunque compia qualsiasi atto di natura fraudolenta che di fatto determini in maniera alterata la maggioranza della assemblea dei soci, quando tale condotta è finalizzata al conseguimento di un ingiusto profitto». Sotto il profilo oggettivo, il reato è perciò integrato da «qualsiasi operazione che artificiosamente permetta di alterare la formazione delle maggioranze assemblea, rendendo così di fatto possibile il conseguimento di risultati vietati dalla legge o non consentiti dallo statuto della società» (in senso conforme, Cass., Sez. I, 3 marzo 2009) . Nel caso di specie, la Corte ha evidenziato come l’attività fraudolenta fosse consistita – come esattamente affermato dai giudici di merito – nella falsa rappresentazione della presenza della maggioranza dei soci alle assemblee, in una’occasione facendo figurare come presente, con la falsificazione della relativa firma sul verbale, una socia invece assente; nell’altra attestando la titolarità in capo alla socia, nonché moglie dell’imputato, di un numero di quote sufficiente a costituire la maggioranza, ciò che non corrispondeva alla titolarità reale. Quanto, poi, all’elemento soggettivo, il dolo in capo all’imputato era stato esattamente desunto dalle modalità dalla la condotta dell’imputato, la quale non trovava altra spiegazione se non in quella di poter agire indisturbato, senza, cioè, dover subire il controllo dei soci, che avrebbero potuto esautorarlo, e senza, soprattutto, rendere conto delle perdite subite. Proprio il non dovere sottoporsi al giudizio negativo dei soci comportava, per l’imputato, il vantaggio di continuare ad esercitare una carica altrimenti destinata ad essere revocata, carica che gli consentiva invece di controllare un’attività commerciale in cui egli aveva interesse, anche quale marito di una socia al 33 % del capitale sociale.

La compensazione e il conferimento di capitale

Corte di Cassazione, Sez. I Civile 19 marzo 2009, n. 6711

La sentenza in commento offre lo spunto per alcune brevi riflessioni sugli aspetti problematici che coinvolgono la compensazione, quando sia applicata all’obbligo di conferimento di capitale di società per azioni.

Riassumendo la SpA Alfa deliberava un aumento di capitale per il conferimento di nuovi apporti di danaro ai sensi dell’art. 2438 cc. Fra i sottoscrittori delle nuove azioni risultava anche la società Beta, già partecipante della Alfa. In seguito,la Alfa veniva sottoposta a procedura fallimentare.    Nel corso di questa, il giudice delegato ingiungeva alla Beta – per decreto ex art. 150 LF – il pagamento della somma di danaro corrispondente al valore delle azioni sottoscritte e non ancora liberate.  Presentata opposizione,il decreto veniva confermato sia in primo che in secondo grado. Veniva al riguardo ritenuta inammissibile la compensazione dedotta dalla stessa Beta con un precedente credito pecuniario vantato nei confronti della emittente. La questione era pertanto sottoposta al vaglio della Suprema Corte.

La Cassazione, con la sentenza in epigrafe, accoglieva il ricorso riconoscendo l’efficacia del conferimento eseguito in via compensativa. Risultava così espresso il principio per cui l’obbligo di conferimento di denaro, in occasione di un aumento di capitale, può venire soddisfatto attraverso il meccanismo della compensazione con debito parimenti di natura pecuniaria.  Le conclusioni del giudice di legittimità poggiano sul rilievo del carattere pienamente satisfattivo della compensazione, venendo il creditore-società, per effetto di essa, ad acquisire un valore economico succedaneo al credito estinto ed espresso nella liberazione da un corrispondente debito.

Si è dato, in questo modo, seguito ad un orientamento giurisprudenziale che annovera fra i suoi più significativi precedenti le decisioni della Cassazione n. 936 del 05/02/2006 en. 4236 del   24/04/1998.                                                                         Né è valsa la doglianza, espressa dalla curatela, secondo cui l’operare della compensazione, eliminando la necessità di una materiale erogazione, pregiudicherebbe la simmetria tra capitale nominale e la sua effettiva entità. Invero, ciò che è stato ritenuto rilevante è la corrispondenza tra patrimonio netto e capitale. L’elisione di un debito della società comporta l’accrescimento del patrimonio netto (grandezza relativa, data dalla differenza tra attivo e passivo) in una misura pari al debito che viene ad estinguersi.

La compensazione in discorso è evidentemente quella legale ex art. 1243 cc, peraltro l’unica comunemente consentita nelle fattispecie di aumento di capitale sociale.       In secondo luogo, l’operare della compensazione nell’ambito delle procedure fallimentari è espressamente previsto dall’art. 56 LF e costituisce una esplicita deroga al principio della par condicio creditorum, conseguendo il creditore il soddisfacimento integrale delle proprie ragioni. La giurisprudenza, tuttavia, pretende che i fatti costitutivi dei crediti contrapposti si collochino – cronologicamente – entrambi nella fase antecedente all’apertura del concorso. Successivamente, il patrimonio, ormai vincolato alla procedura, resterebbe insensibile ad ogni effetto dispositivo-solutorio non rispettoso della regolazione concorsuale dei crediti (Tribunale di Milano, 29 dicembre 2004, in Corriere del merito 2005, pag. 629; Cassazione Civile, Sez. I 26 febbraio 1999, n. 1671).  Per quanto concerne la deduzione della compensazione nel fallimento,si può ritenere che la stessa sarà oggetto di cognizione del giudice delegato nelle sole seguenti ipotesi: a) quando il creditore chieda di essere ammesso al passivo per un certo importo, dedotto il minor credito del fallito; b) quando sia il curatore, nella fase di verificazione del passivo, ad eccepire in compensazione l’esistenza del contro-credito del fallito.

Nel caso di specie pare, invece, che il creditore non abbia provveduto alla previa insinuazione al passivo, limitandosi a far valere l’effetto legale della compensazione in sede di opposizione al decreto con il quale, ai sensi dell’art. 150 LF, gli era stato ingiunto il versamento dei conferimenti ancora dovuti. La compensazione è stata dunque accertata in sede ordinaria.

Il modus procedendi è corretto. Il creditore che intende solo avvalersi della facoltà di compensare – senza avanzare pretese per un eventuale importo residuo – non è tenuto a partecipare al concorso. Inoltre, la dichiarazione in sede extra-fallimentare di compensazione non determina alcuna effettiva lesione del contraddittorio con i creditori concorsuali. La compensazione viene, in tal caso, in rilievo come semplice causa estintiva (opponibile al fallimento) del credito del fallito al pari, ad esempio, della prescrizione.