La tutela dei diritti dei legittimari lesi nel loro diritto a partecipare alla successione ereditaria

L’azione di riduzione è lo specifico mezzo di tutela dei legittimari ovvero di coloro che debbono in ogni caso, perché la legge riserva loro questo diritto, partecipare alla successione del defunto. Con questa azione il legittimario potrà ottenere la declaratoria di inefficacia delle disposizioni testamentarie e/o delle donazioni che hanno leso la sua quota di legittima. L’azione di riduzione, invero, si compone di tre diverse azioni, strettamente collegate tra loro, e per l’esattezza: a) l’azione di riduzione in senso stretto con la quale si accerta la sussistenza o meno della lesione e la sua entità al fine di fare dichiarare l’inefficacia, in tutto in parte, delle disposizioni  lesive; b) c)  mentre con le altre due azioni, più propriamente dette di restituzione logicamente e cronologicamente successive alla prima, si persegue la finalità di recuperare quanto fuoriuscito dal patrimonio del defunto, in seguito alla declaratoria di inefficacia delle disposizioni lesive conseguente all’esperimento  vittorioso dell’azione di riduzione.

Corte di Cassazione, Sez. 2 – , Sentenza n. 30079 del 19/11/2019 (Rv. 656200 – 01)

La sentenza della Corte di Cassazione qui commentata, offre l’opportunità di fare chiarezza su alcune problematiche inerenti l’azione di riduzione che come sopra è stato illustrato costituisce lo strumento del quale può avvalersi l’erede escluso ( il legittimario pretermesso) in tutto o in parte, per la tutela dei propri diritti.

Il caso

Nella fattispecie una donna aveva ceduto le quote di una società (99%) a due figli. All’apertura della sua successione i restanti figli (pretermessi) avevano  accertato l’assenza di beni relitti. Avevano quindi esperito l’azione di simulazione (dell’atto di cessione delle quote) – per l’accertamento della nullità del negozio dissimulato – preordinata all’azione di riduzione

I principi affermati dalla pronuncia

Il legittimario pretermesso non è chiamato alla successione per il solo fatto della morte del de cuius, potendo acquistare i suoi diritti solo dopo l’esperimento delle azioni di riduzione o di annullamento del testamento. Ne consegue che la condizione della preventiva accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario, stabilita dell’art. 564 c.c., comma 1, per l’esercizio dell’azione di riduzione, vale soltanto per il legittimario che abbia in pari tempo la qualità di erede, e non anche per il legittimario totalmente pretermesso dal testatore .

Chiariscono gli ermellini, altresì, che una totale pretermissione del legittimario può aversi tanto nella successione testamentaria, quanto nella successione ab intestato e, precisamente: a) nella successione testamentaria, se il testatore ha disposto a titolo universale dell’intero asse a favore di altri, in base alla considerazione che, a norma dell’art. 457 c.c., comma 2, questi non è chiamato all’eredità fino a quando l’istituzione testamentaria di erede non venga ridotta nei suoi confronti; b) nella successione ab intestato (in assenza di testamento), qualora il de cuius si sia spogliato in vita dell’intero suo patrimonio con atti di donazione, sul rilievo che, per l’assenza di beni relitti, il legittimario viene a trovarsi nella necessità di esperire l’azione di riduzione a tutela della situazione di diritto sostanziale che la legge gli riconosce.

Da qui, l’ulteriore conseguenza che il legittimario totalmente pretermesso che impugna per simulazione un atto compiuto dal de cuius a tutela del proprio diritto alla reintegrazione della quota di legittima, agisce, sia nella successione testamentaria, che nella successione ab intestato, in qualità di terzo e non in veste di erede, la cui qualità acquista solo in conseguenza del positivo esercizio dell’azione di riduzione, e non è, come tale, tenuto alla preventiva accettazione dell’eredità con beneficio di inventario.  Viceversa, se si tratta di azione di simulazione relativa proposta da chi già è erede in ordine ad un atto di disposizione patrimoniale del de cuius stipulato con un terzo, che si assume lesivo della quota di legittima ed abbia tutti i requisiti di validità del negozio dissimulato (come una donazione in favore di un altro erede), l’ammissibilità dell’azione, proposta esclusivamente in funzione dell’azione di riduzione prevista dall’art. 564 c.c., è condizionata dalla preventiva accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario: tale condizione non ricorre, infatti, soltanto quando l’erede agisca per far valere una simulazione assoluta od anche relativa, ma finalizzata a far accertare la nullità del negozio dissimulato, in quanto, in tale ipotesi, l’accertamento della realtà effettiva consente al legittimario di recuperare alla massa ereditaria i beni donati, mai usciti dal patrimonio del defunto.


Testo integrale della sentenza

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –

Dott. SABATO Raffaele – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato il 27 luglio 2009 Z.B. evocava, dinanzi al Tribunale di Milano, Z.G., Z.A., Z.M.G., Z.L.A., Z.P.E. e Z.G.M. svolgendo domanda di accertamento della simulazione dei contratti di cessione di quote della società Algia Immobiliare a r.l. stipulati in data (OMISSIS) e (OMISSIS) da G.M. in favore dei figli Z.G. ed A. e per l’effetto dichiarare la nullità delle dissimulate donazioni, con conseguente dichiarazione che la quota del 99% della Algia Immobiliare era di proprietà della de cuius G.M. al momento del decesso, per cui la stessa andava calcolata e divisa tra gli eredi per quote; in via subordinata, chiedeva accertarsi la natura di contratti misti con donazione delle suddette cessioni e per l’effetto, ritenuta prevalente quella liberale, dichiarare la nullità delle donazioni per difetto di forma; in via ulteriormente subordinata, chiedeva pronunciarsi declaratoria di inefficacia delle cessioni per violazione dell’art. 2479 c.c., all’epoca vigente.

Instaurato il contraddittorio, nella resistenza dei convenuti Z.G. ed A., che eccepivano la carenza di legittimazione e di interesse ad agire dell’attore, nonchè la insussistenza della dedotta simulazione ovvero la prescrizione, nonchè l’acquisto per usucapione dei diritti, con conseguente infondatezza delle domande, mentre aderiva alla domanda attorea Z.M.G., ed in seguito anche la germana Z.L.A., veniva disposta l’integrazione del contraddittorio nei confronti della Algia Immobiliare s.r.l.. L’incombente veniva assolto dall’attore ed il Tribunale adito, rimasta contumace la società chiamata in giudizio e dichiarata l’inammissibilità delle domande riconvenzionali proposte da Z.L.A. per intervenuta decadenza ex artt. 166 e 167 c.p.c., accertava la carenza di legittimazione attiva di Z.B. e M.G. rispetto alle domande di simulazione, di nullità e di accertamento della riferibilità del 99% delle quote della chiamata alla de cuius, nonchè di divisione, giacchè trattandosi di soggetti totalmente pretermessi dall’eredità di G.M., nessuna domanda di reintegrazione della legittima ovvero di accertamento della qualità di erede pretermesso o di riduzione della donazioni era stata dagli stessi proposta.

In virtù di rituale appello interposto, con separati atti di citazione, da Z.B., da una parte, e dalle germane, dall’altra, poi riuniti nel corso del giudizio, con il quale lamentavano che il giudice di prime cure avesse dichiarato inammissibili le domande sull’erroneo presupposto del difetto di interesse ad agire, la Corte di appello di Milano, nella resistenza degli appellati Z.G. ed A., rimaste contumaci Z.P.E. e G.M., nonchè l’Algia Immobiliare s.r.l., accoglieva parzialmente gli appelli proposti da Z.M.G. e B., mentre dichiarava inammissibile quello di L.A. (per tardività della riconvenzionale) e le restanti domande, e in parziale riforma della decisione impugnata dichiarava che gli atti di cessione di 19.800 quote ciascuno della Algia Immobiliare, pari al complessivo valore del 99% del capitale sociale, da parte di G.M. in favore di Z.G. ed A. costituivano vendite simulate, dissimulando donazioni nulle per vizio di forma e per l’effetto le indicate quote sociali appartenevano al compendio immobiliare di G.M. vedova Z., deceduta l'(OMISSIS), dal quale erano da considerare come mai fuoriuscite; dichiarava interamente compensate fra le parti costituite le spese di entrambi i gradi di giudizio.

A sostegno della adottata sentenza la Corte distrettuale evidenziava, in via preliminare, il difetto di legittimazione attiva delle parti appellanti quanto alla divisione del compendio ereditario, spettante solo a chi già riveste la posizione di coerede; nel merito, accoglieva i motivi di gravame relativi all’accertamento della simulazione, in quanto preferito l’orientamento giurisprudenziale che non prevedeva come necessario l’esercizio contestuale dell’azione di riduzione, per avere il legittimario pretermesso già un proprio attuale interesse a far accertare l’effettiva consistenza e composizione del patrimonio ereditario nonchè del donatum.

Aggiungeva che il carattere simulato delle alienazioni emergeva dal fatto che gli apparenti acquirenti non avevano minimamente allegato elementi di prova idonei a comprovare l’avvenuto pagamento, limitandosi a riferire di avere versato per contanti le rendite, non sufficienti al riguardo le dichiarazioni dell’alienante di essere stato pagato, ancorchè rese in un atto pubblico, provenendo da una delle parti dell’accordo simulatorio. Concludeva che la fattispecie integrava una ipotesi di compravendita dissimulante un’effettiva donazione, che però era nulla per difetto di forma.

Infine quanto alla pretesa usucapione delle quote sociali dedotta dagli appellanti, veniva rilevato che solo dai verbali di assemblea successivi al 1989 si faceva chiaro riferimento all’esistenza di tre soci; aggiungeva che comunque Z.A. e G. avevano preso parte all’accordo simulatorio inerente alla cessione delle predette quote per cui non poteva ritenersi il loro possesso acquisito in buona fede ex art. 1611 c.c..

Avverso l’indicata sentenza della Corte di Appello di Milano hanno proposto ricorso per cassazione Z.G. ed A., che risulta articolato su sette motivi, al quale hanno resistito Z.B., da una parte, e Z.L.A. e M.G., dall’altra, con due separati controricorso.

In prossimità della pubblica udienza le parti controricorrenti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

Va pregiudizialmente rilevato il mancato perfezionamento della notificazione del ricorso alla ALGIA Immobiliare s.r.l., in ordine alla quale carenza il Collegio ritiene di non dover assumere alcun provvedimento ai sensi degli artt. 291 e 331 c.p.c.. Infatti pur trattandosi di una parte rimasta contumace per l’intero giudizio (sia in primo sia in secondo grado), per cui i fatti allegati da parte attrice non possono ritenersi non contestati ovvero escludere che l’attore debba fornire la prova di tutti i fatti costituitivi del diritto dedotto in giudizio, tuttavia sulla base della medesima prospettazione delle parti costituite nel giudizio non viene allegato che la società sia titolare della posizione passiva relativa al diritto di cui parte attrice ha chiesto l’affermazione (cfr. Cass., Sez. Un., 16 febbraio 2016 n. 2951).

In altri termini, l’azione di simulazione è esercitata nei confronti degli eredi della de cuius, Z.A. e G., per far valere la natura di donazione degli atti di cessione della Algia Immobiliare, ragione per la quale le quote della società costituiscono l’oggetto del diritto fatto valere, ma la cui titolarità passiva grava esclusivamente sui germani Z. convenuti.

Del resto è consolidata ed univoca la giurisprudenza per cui la carenza di legittimazione, attiva o passiva che sia, può essere eccepita in ogni grado e stato del giudizio e può essere rilevata dal giudice d’ufficio (da ultimo, Cass. 4 dicembre 2018 n. 31313).

Passando al merito del ricorso, con il primo motivo i ricorrenti lamentano la violazione e la falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., per avere il giudice distrettuale disposto la compensazione delle spese di lite anche rispetto alla posizione di Z.M.G. totalmente soccombente in entrambi i gradi di giudizio.

Il motivo è privo di fondamento.

Lo stesso si rivolge nei confronti della decisione della Corte di appello di compensare integralmente – per entrambi i gradi – le spese di lite pur non ricorrendo l’ipotesi della reciproca soccombenza, che insieme all’assoluta novità della questione trattata o del mutamento della giurisprudenza, ai sensi dell’art. 92 c.p.c., così come modificato dal D.L. 12 settembre 2014, n. 132, convertito dalla L. 10 novembre 2014, n. 162 (applicabile ai procedimenti introdotti a decorrere dall’11 dicembre 2014), avrebbe potuto legittimare un simile provvedimento. Prima ancora di verificare se le ragioni ravvisate dalla Corte di appello di Milano siano ascrivibili ad una delle ipotesi tipiche previste dalla norma testè citata, occorre rilevare che, con sentenza del 19 aprile 2018, n. 77, la Corte costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 92 c.p.c., comma 2, nella parte in cui non consente, nelle ipotesi di soccombenza totale, di compensare parzialmente o per intero le spese di lite anche ove ricorrano gravi ed eccezionali ragioni, diverse da quelle tipizzate dal legislatore.

Gli effetti della pronuncia di illegittimità costituzionale retroagiscono fino al momento dell’introduzione nell’ordinamento della norma dichiarata illegittima. Pertanto, l’apprezzamento della sussistenza del vizio denunciato con il ricorso dev’essere fatto con riferimento alla situazione normativa determinata dalla pronuncia di incostituzionalità.

Questa Corte – a seguito della pronuncia del giudice delle leggi – ha affermato il principio di diritto secondo cui: “Poichè gli effetti della dichiarazione di incostituzionalità retroagiscono alla data di introduzione nell’ordinamento del testo di legge dichiarato costituzionalmente illegittimo, nel caso in cui con un ricorso per cassazione sia denunciata ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 – la violazione dell’art. 92 c.p.c., comma 2 (nel testo modificato dal D.L. 12 settembre 2014, n. 132, art. 13, comma 1, convertito, con modificazioni, nella L. 10 novembre 2014, n. 162), che la Corte costituzionale, con sentenza 19 aprile 2018, n. 77, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede che il giudice possa compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni, la valutazione della fondatezza o meno del ricorso deve farsi con riferimento alla situazione normativa determinata dalla pronuncia di incostituzionalità, essendo irrilevante che la decisione impugnata o addirittura la stessa proposizione del ricorso siano anteriori alla pronuncia del Giudice delle leggi” (Cass. 14 febbraio 2019 n. 4360).

In applicazione di tale principio, deve rilevarsi, pertanto, che le ragioni poste a fondamento della decisione impugnata rispondono certamente alle caratteristiche di gravità ed eccezionalità che, a seguito della sentenza della Corte costituzionale, giustificano la compensazione delle spese processuali.

Del resto, quanto partitamente a Z.M.G., per tutta la durata del giudizio la convenuta non è mai stata destinataria di una domanda nei suoi confronti, ed anzi la stessa ha aderito alla domanda attorea svolta nei confronti dei soli ricorrenti, per cui non può nella specie neanche invocarsi il principio della soccombenza.

Con il secondo motivo è denunciata la violazione o la falsa applicazione dell’art. 81 c.p.c., artt. 1414 e 1415 c.c., nonchè dell’art. 554 c.c., per avere la corte territoriale ritenuto legittimati ad agire Z.B. e M.G. senza che gli stessi avessero mai esercitato azione di riduzione. Ad avviso dei ricorrenti, infatti, la mancanza di legittimazione ad agire per la reintegrazione della massa ereditaria discenderebbe proprio dal mancato esercizio nel presente giudizio di un’azione di riduzione.

Con il terzo mezzo i ricorrenti nel denunciale la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1414,1415,1417,2697 e 2729 c.c., insistono nel sostenere che in caso di mancato contestuale esercizio dell’azione di simulazione e dell’azione di riduzione, il legittimario pretermesso non potrebbe beneficiare del regime probatorio che l’art. 1417 c.c., riservato ai terzi e ai creditori, con la conseguenza che non potrebbe provare l’esistenza del negozio dissimulato nè a mezzo di testimoni, nè a mezzo di presunzioni e neanche si potrebbe avvantaggiare dell’inversione dell’onere della prova circa l’effettivo pagamento del prezzo del corrispettivo pattuito nel negozio dissimulato. I due motivi di ricorso, che possono essere esaminati congiuntamente in quanto parzialmente sovrapponibili, oltre che argomentativamente conseguenziali, sono infondati.

Come questa Corte ha già avuto modo di precisare, il legittimario pretermesso non è chiamato alla successione per il solo fatto della morte del de cuius, potendo acquistare i suoi diritti solo dopo l’esperimento delle azioni di riduzione o di annullamento del testamento. Ne consegue che la condizione della preventiva accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario, stabilita dell’art. 564 c.c., comma 1, per l’esercizio dell’azione di riduzione, vale soltanto per il legittimario che abbia in pari tempo la qualità di erede, e non anche per il legittimario totalmente pretermesso dal testatore (Cass. n. 28632 del 2011). Ora, una totale pretermissione del legittimario può aversi tanto nella successione testamentaria, quanto nella successione ab intestato e, precisamente: a) nella successione testamentaria, se il testatore ha disposto a titolo universale dell’intero asse a favore di altri, in base alla considerazione che, a norma dell’art. 457 c.c., comma 2, questi non è chiamato all’eredità fino a quando l’istituzione testamentaria di erede non venga ridotta nei suoi confronti; b) nella successione ab intestato, qualora il de cuius si sia spogliato in vita dell’intero suo patrimonio con atti di donazione, sul rilievo che, per l’assenza di beni relitti, il legittimario viene a trovarsi nella necessità di esperire l’azione di riduzione a tutela della situazione di diritto sostanziale che la legge gli riconosce (Cass. n. 19527 del 2005; Cass. n. 13804 del 2006; Cass. n. 28632 del 2011; Cass. n. 16635 del 2013).

Di qui, l’ulteriore conseguenza che il legittimario totalmente pretermesso che impugna per simulazione un atto compiuto dal de cuius a tutela del proprio diritto alla reintegrazione della quota di legittima, agisce, sia nella successione testamentaria, che nella successione ab intestato, in qualità di terzo e non in veste di erede, la cui qualità acquista solo in conseguenza del positivo esercizio dell’azione di riduzione, e non è, come tale, tenuto alla preventiva accettazione dell’eredità con beneficio di inventario (Cass. n. 16635 del 2013; in senso conf., Cass. n. 12496 del 2007). Viceversa, se si tratta di azione di simulazione relativa proposta da chi già è erede in ordine ad un atto di disposizione patrimoniale del de cuius stipulato con un terzo, che si assume lesivo della quota di legittima ed abbia tutti i requisiti di validità del negozio dissimulato (come una donazione in favore di un altro erede), l’ammissibilità dell’azione, proposta esclusivamente in funzione dell’azione di riduzione prevista dall’art. 564 c.c., è condizionata dalla preventiva accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario (Cass. n. 15546 del 2017, in motiv.: “l’azione di simulazione relativa proposta dall’erede in ordine ad un atto di disposizione patrimoniale del “de cuius” stipulato con un terzo, che si assume lesivo della quota di legittima ed abbia tutti i requisiti di validità del negozio dissimulato (nella specie una donazione in favore di un altro erede), deve ritenersi proposta esclusivamente in funzione dell’azione di riduzione prevista dall’art. 564 c.c., con la conseguenza che l’ammissibilità dell’azione è condizionata dalla preventiva accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario”): tale condizione non ricorre, infatti, soltanto quando l’erede agisca per far valere una simulazione assoluta od anche relativa, ma finalizzata a far accertare la nullità del negozio dissimulato, in quanto, in tale ipotesi, l’accertamento della realtà effettiva consente al legittimario di recuperare alla massa ereditaria i beni donati, mai usciti dal patrimonio del defunto (Cass. n. 15546 del 2017: “l’esigenza del rispetto di tale condizione non ricorre quando l’erede agisca per far valere una simulazione assoluta od anche relativa, ma finalizzata a far accertare la nullità del negozio dissimulato, in quanto, in tale ipotesi, l’accertamento della realtà effettiva dell’atto consente al legittimario di recuperare alla massa ereditaria i beni donati, in realtà mai usciti dal patrimonio del defunto”; conf., Cass. n. 4400 del 2011).

Nel caso di specie, come in precedenza esposto, i giudici del merito hanno accertato che la de cuius, con gli atti dispositivi del suo patrimonio, aveva, in realtà, esaurito l’intero asse ereditario, in assenza di altri beni relitti.

Con la conseguenza che la corte di merito ha fatto buon governo dei principi sopra illustrati, non avendo i ricorrenti contestato con le critiche mosse che si versi in ipotesi di legittimari totalmente pretermessi dalla successione della de cuius, ragione per la quale va escluso che l’attore avrebbe dovuto accettarne l’eredità con beneficio di inventario ai fini dell’esperimento dell’azione di simulazione dei contratti di cessione di quote della società Algia Immobiliare s.r.l., stipulati il (OMISSIS) ed il (OMISSIS), in quanto preordinati esclusivamente al successivo eventuale esercizio dell’azione di riduzione delle donazioni che tale atti, in ipotesi, dissimulano.

Per completezza va osservato, altresì, che nella sentenza (pagg. 14 e 15 della decisione impugnata) viene dato atto che Z.M.G. ha precisato che era pendente dinanzi al Tribunale di Milano altro giudizio in cui lei e Z.B. avevano impugnato con azione di riduzione il testamento olografo di G.M. vedova Z. del (OMISSIS) pubblicato l’1.10.1999, che li aveva totalmente pretermessi, nominando quali unici eredi Z.A. e G., causa che era stata sospesa in attesa di definizione del presente giudizio.

Con il quarto mezzo i ricorrenti lamentano – in via di subordine l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, in particolare l’avere la corte territoriale ritenuto non provato l’effettivo pagamento del prezzo pattuito per la cessione delle quote della Algia s.r.l. omettendo completamente di esaminare un’ulteriore e significativa richiesta istruttoria, reiterata in appello, circa l’effettivo pagamento della rendita vitalizia. Di tutto ciò non vi è alcuna menzione nella sentenza impugnata, che oltre a non riportare la corposa prova per testi, non riporta neanche il dedotto interrogatorio formale.

Anche il quarto motivo è privo di fondamento.

Occorre muovere dal rilievo che – come questa Corte ha affermato a più riprese (ex multis, Cass. n. 13375 del 2009) – il giudice del merito non è tenuto ad ammettere i mezzi di prova dedotti dalle parti ove ritenga sufficientemente istruito il processo e ben può, nell’esercizio dei suoi poteri discrezionali insindacabili in cassazione, non ammettere la dedotta prova testimoniale quando, alla stregua di tutte le altre risultanze di causa, valuti la stessa come inconducente. Trattasi di valutazione demandata al potere discrezionale del giudice di merito con apprezzamento che, se congruamente motivato, si sottrae al sindacato di legittimità.

A detta regola fa da pendant il principio – anch’esso ripetutamente affermato da questa Corte (cfr., ex pluribus, Cass. n. 828 del 2007; Cass. n. 2272 del 2007; Cass. n. 16499 del 2009) – per cui spetta al giudice di merito, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, fra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei falli ad esse sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova. In questo potere discrezionale rientra anche la facoltà di escludere la rilevanza di una prova mediante un giudizio che può essere anche implicito, cioè risultante dal tenore della motivazione, non essendo il giudice obbligato ad esplicitare per ogni mezzo istruttorie le ragioni per cui egli lo ritenga irrilevante, ovvero, più in generale, ad enunciare specificamente che la controversia può essere decisa senza l’assunzione dei mezzi di prova richiesti dalle parti oppure in base a quelli già assunti e senza necessità di ulteriori acquisizioni (cfr. Cass. n. 2404 del 2000; Cass. n. 9942 del 1998).

Nella specie la corte territoriale, nel ritenere non assolto l’onere della prova dai convenuti/appellati, per il c.d. principio di prossimità della prova, ha in via preliminare focalizzato la propria attenzione sulla circostanza che non potessero essere sufficienti le dichiarazioni dell’alienante di essere stato pagato, quand’anche contenute in un atto pubblico – in cui peraltro si dava atto che il versamento del corrispettivo delle cessioni avveniva nella forma di costituzione di rendite vitalizie a favore della venditrice – in quanto provenienti da una delle parti partecipanti all’accordo simulatorio. Inoltre ha aggiunto che non potevano essere considerate a tal fine le attestazioni, coeve alle cessioni, di avvenuto pagamento in via definitiva riportate sul libro soci, nè la successiva (in data 06.06.1999) costituzione in pegno delle quote sociali a favore di G.M., in quanto anche in detti casi si trattava comunque di atti provenienti e formati dagli stessi soggetti partecipanti all’accordo simulatorio. A fronte di ciò la corte distrettuale rilevava una serie di elementi di giudizio di natura indiziaria che, di converso, deponevano per la natura di donazione degli atti di cessione in contestazione: la nomina, financo nel testamento, dei ricorrenti quali unici eredi del suo patrimonio, pretermettendo totalmente gli altri cinque figli; la circostanza che nella costituzione del pegno aveva partecipato anche l’attore che pure non aveva preso parte alle cessioni del 1981 e del 1983.

Orbene, il procedimento logico – giuridico sviluppato nell’impugnata decisione a sostegno delle riportate conclusioni è ineccepibile in quanto logico e razionale, oltre ad essere frutto di una completa valutazione delle risultanze di causa.

Coerentemente, quindi, il giudice di merito non ha ammesso i mezzi di prova chiesti dai ricorrenti volti a dimostrare circostanze di fatto che, seppure con motivazione non espressa, ma desumibile per implicito dal complesso delle argomentazioni offerte in sentenza, sono state ritenute nella sostanza inattendibili, alla stregua degli elementi emergenti dagli atti processuali: si tratta di un giudizio sorretto da congrua e non apparente motivazione che sfugge quindi ai sindacato in questa sede di legittimità.

Con il quinto motivo i ricorrenti nel lamentare l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio censurano la sentenza per non avere ritenuto provato l’esercizio di un possesso ad usucapendum delle quote societarie in oggetto prima del 1989. In altri termini, sarebbero stato omesso l’esame di tutte le ulteriori e significative richieste istruttorie circa la prova della presenza alle assemblee sociali della Algia dei ricorrenti in qualità di soci effettivi della stessa sin dal 1981 ovvero dal 1983, circostanza ampiamente discussa tra le parti nel corso del giudizio.

Con il sesto motivo è denunciata la violazione e la falsa applicazione dell’art. 1161 c.c., per avere escluso la corte territoriale la buona fede possessoria, senza tenere conto che nella specie l’esercizio del possesso sulle quote della Algia da parte dei ricorrenti corrispondeva alla concreta volontà manifestata dalla de cuius, tant’è che il loro possesso si era protratto per oltre dieci anni proprio nel lasso di tempo in cui la donante era ancora in vita.

I due motivi – suscettibili di trattazione congiunta, data la loro connessione tematica ed argomentativa – risultano privi di pregio.

Premesso che la denunciata violazione dell’art. 1161 c.c., presuppone una ricostruzione fattuale alternativa, smentita dalla sentenza, oramai l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia).

Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie; in definitiva la norma in parola consente il ricorso solo in presenza di omissione della motivazione su un punto controverso e decisivo (dovendosi assimilare alla vera e propria omissione le ipotesi di “motivazione apparente”, di “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e di “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione: così Cass., Sez. Un., 7 aprile 2014 n. 8053 e n. 8054; Cass. 8 ottobre 2014 n. 21257), omissione che qui non si rileva affatto, avendo la Corte locale motivato la propria decisione sia quanto alla ritenuta mala fede dei ricorrenti al momento della sottoscrizione delle simulate vendite sia in relazione al dies a quo per il computo del ventennio necessario al possesso ad usucapionem.

Va osservato, infatti, che la Corte di merito ha chiaramente precisato che il possesso dei fratelli Z.A. e G. non poteva che essere stato acquistato in mala fede, ponendo in essere una vendita apparente in luogo della donazione dissimulata, ben consapevoli di arrecare un futuro pregiudizio ai diritti dei fratelli quali legittimari.

Inoltre, sulla base dell’esame complessivo dei plurimi elementi di giudizio (tutti riportati) la pronuncia ha valorizzato nella motivazione, quanto al dies a quo, la circostanza che nei verbali di assemblea solo dopo il 1989 si facesse chiaro riferimento all’esistenza di tre soci, Z.A., G. e B., mentre tutti gli altri erano contraddetti, come la lettera del 27.4.1987 del Dott. Gi.Fr., consulente della de cuis, all’avv. Fagetti, in cui verrebbe adombrata ancora una proprietà della Algia s.r.l. in capo a G.M..

Appare quindi evidente che la mala fede e l’epoca del decorso utile del tempo ad usucapionem sono stati individuati senza margini di incertezza, mentre il dissenso dei ricorrenti risiede in una valutazione alternativa del materiale probatorio e per tali ragioni i vizi denunciati non possono essere emendato in sede di legittimità.

Con il settimo ed ultimo motivo i ricorrenti denunciano la violazione o la falsa applicazione dell’art. 1161 c.c., comma 2 e art. 1165 c.c., per avere la corte di merito ritenuto interrotto il decorso del termine di esercizio del possesso ad usucapendum con la introduzione da parte dei legittimari pretermessi di un giudizio volto alla riduzione delle diposizioni testamentarie di G.M. e dunque di un’azione genericamente volta al recupero dell’intero asse ereditario, mentre sarebbe stato necessario l’esperimento di una domanda giudiziale specificamente volta al recupero del bene determinato sul quale il possesso medesimo veniva esercitato. Nella specie la domanda giudiziale volta alla reintegrazione nel possesso delle quote sociali della Algia è stata avanzata dai legittimari pretermessi solo con l’introduzione del presente giudizio (atto di citazione notificato il 27.07.2009/03.08.2009) mentre la stessa corte colloca la data di inizio del possesso nel maggio 1989.

Il motivo va accolto nei limiti di seguito illustrati.

Rileva il Collegio che correttamente la corte ha ravvisato il rapporto di pregiudizialità tra il giudizio di riduzione delle disposizioni testamentarie di G.M. vedova Z. introdotto dai legittimari pretermessi Z.M.G. e B. con atto di citazione notificato il 27.07.2000, disponendone la sospensione ex art. 295 c.p.c.; tuttavia per ottenere che siffatto atto produca anche l’effetto interruttivo di cui l’art. 1165 c.c., laddove fa rinvio all’art. 2943 c.c. (previsione la quale stabilisce che le regole generali sulla prescrizione e quelle relative alle cause di sospensione, d’interruzione ed al computo dei termini, si osservano, in quanto applicabili, all’usucapione) occorre un puntuale accertamento sulla circostanza che l’atto che ha instaurato il giudizio contenga la manifestazione di volontà – anche in forma implicita – di riacquistare il possesso delle quote cedute della Algia al patrimonio della de cuius.

Diversamente, in ipotesi di difetto di una volontà in tal senso, il dies a quo dell’interruzione del possesso ad usucapionem va fatto risalite alla data di introduzione del presente giudizio, 27.07/03.08.2009, con esigenza di un accertamento specifico della data dei verbali di assemblea dai quali è stato desunto un possesso delle quote sociali.

Infatti, costituisce orientamento consolidato di questa Corte il principio secondo cui in tema di possesso ad usucapionem, con il rinvio fatto dall’art. 1165 c.c. all’art. 2943 c.c., la legge elenca tassativamente gli atti interruttivi, cosicchè non è consentito attribuire efficacia interruttiva ad atti diversi da quelli stabiliti dalla norma, per quanto con essi si sia inteso manifestare la volontà di conservare il diritto, giacchè la tipicità dei modi di interruzione della prescrizione non ammette equipollenti (Cass. 12 settembre 2000 n. 12024; Cass. 21 maggio 2001 n. 6910; Cass. 1 aprile 2003 n. 4892; Cass. 11 giugno 2009 n. 13625). D’altra parte, come pure ripetutamente affermato da questa Corte, non può riconoscersi efficacia interruttiva del possesso se non ad atti giudiziali diretti ad ottenere “ope iudicis” la privazione del possesso nei confronti del possessore usucapente (v. Cass. 23 dicembre 2010 n. 26018) o comunque ad atti che comportino, per il possessore, la perdita materiale del potere di fatto sulla cosa; proprio dal limite di compatibilità con la natura dell’usucapione che l’art. 1165 c.c., pone all’applicazione del rinvio alle disposizioni generali sulla prescrizione, si ricava che non può esservi interruzione dell’usucapione senza la perdita materiale del potere di fatto sulla cosa o senza atti giudiziari diretti a privare il possessore del possesso. In coerenza agli evidenziati principi questa Corte (Cass. 19 giugno 2003 n. 9845) ha rilevato che neppure la messa in mora o la diffida (pur considerati interruttivi della prescrizione dall’art. 2943 c.c., richiamato dall’art. 1165 c.c.) possono costituire atti interruttivi dell’usucapione.

Ne discende che il giudice di appello nel riconoscere all’introduzione del giudizio di riduzione efficacia di atto interruttivo dell’usucapione avrebbe dovuto argomentare il convincimento non essendo sufficiente il riferimento ad una richiesta “genericamente formulata”.

– E d’altro canto, nella diversa ipotesi sopra riportata, diverrebbe assolutamente necessario la individuazione della data di inizio del possesso.

In conclusione, va accolto il settimo motivo di ricorso, rigettati tutti i restanti.

La sentenza impugnata va cassata in relazione alla censura accolta, con rinvio ad altra Sezione della Corte di appello di Milano che, ai fini dell’eccezione di usucapione, procederà all’esame delle risultanze istruttorie alla luce dei principi sopra illustrati.

Il giudice del rinvio provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità, a norma dell’art. 385 c.p.c., u.p..

PQM

La Corte, accoglie il settimo motivo di ricorso, respinti i restanti;

cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità, ad altra Sezione della Corte di appello di Milano.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte di Cassazione, il 2 aprile 2019.

Depositato in Cancelleria il 19 novembre 2019