Le insidie che si possono celare dietro la clausola arbitrale (Cassazione, Sezioni Unite, 9 maggio 2016, n. 9341 )

In applicazione della disciplina transitoria dettata dall’art. 27 del d.lgs. n. 40 del 2006, l’art. 829 c.p.c., comma 3, come riformulato dall’art. 24 del d.lgs. n. 40/2006, si applica nei giudizi arbitrali promossi dopo l’entrata in vigore del suddetto decreto, ma la legge cui lo stesso art. 829 c.p.c., comma 3, rinvia, per stabilire se è ammessa l’impugnazione per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia, è quella vigente al momento della stipulazione della convenzione che include la clausola arbitrale (Massima).

Testo della sentenza

Cassazione, Sezioni Unite, 9 maggio 2016, n. 9341

(Rordorf presidente, Nappi estensore) – Bertucci (avv.ti G. Iannotta, F. Iannotta) – Tironi s.p.a. (avv.ti Crisci, Benedetti)

[Omissis]   Con la sentenza impugnata la Corte d’appello di Milano dichiarò inammissibile l’impugnazione proposta da Bertucci per la dichiarazione di nullità del lodo arbitrale pronunciato nella controversia insorta con la Tironi s.p.a. in relazione al preliminare di compravendita stipulato tra le parti il 27 novembre 2001. Ritennero i giudici del merito che l’impugnazione per violazione delle norme di diritto relative al merito della controversia era inammissibile, in quanto la richiesta di arbitrato, pur fondata su una clausola compromissoria inserita nel contratto preliminare del 2001, era stata proposta il 12 marzo 2007, dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 40 del 2006, il cui art. 24 ha modificato l’art. 829 c.p.c., nel senso che «l’impugnazione per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia è ammessa se espressamente disposta dalle parti o dalla legge», mentre una tale previsione delle parti non era contenuta nella clausola compromissoria. Del D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 27, prevede infatti che anche l’art. 829 c.p.c., si applichi nella nuova formulazione ai procedimenti arbitrali nei quali la domanda  di arbitrato sia stata proposta dopo l’entrata in vigore della nuova disciplina (2 marzo 2006), così escludendo l’applicabilità della sua precedente formulazione, che ammetteva la impugnazione del lodo per violazione di regole di diritto, quando le parti non avessero autorizzato decisioni secondo equità né dichiarato il lodo non impugnabile. Per la cassazione di questa sentenza ha proposto ricorso B. rv. sulla base di due motivi d’impugnazione, illustrati poi anche da memoria, cui resiste con controricorso la Tironi s.p.a., proponendo altresì ricorso incidentale condizionato. La Prima sezione civile di questa corte, cui il ricorso era stato assegnato, ne ha chiesto la rimessione alle Sezioni unite, avendo rilevato che è controverso in giurisprudenza se la nuova formulazione dell’art. 829 c.p.c., debba applicarsi anche quando la convenzione arbitrale sia stata stipulata prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 40 del 2006.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.1 – Con il primo motivo il ricorrente principale censura l’interpretazione del D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 27, proposta dalla Corte d’appello di Milano, in quanto contraria ai principi generali di irretroattività della legge e di immodificabilità della disciplina contrattuale per effetto dei successivi mutamenti della legislazione, nonché lesiva del diritto di difesa, «finendo per ricollegare al silenzio delle parti un significato opposto a quello dalla legge previsto al momento della stipula della convenzione di arbitrato».

1.2 – Con il secondo motivo il ricorrente principale propone questione di costituzionalità dell’art. 829 c.p.c., ove interpretato nel senso ritenuto dai giudici del merito.

1.3 – Con l’unico motivo del ricorso incidentale subordinato, la Tironi s.p.a. deduce l’inammissibilità dell’impugnazione di B. per carenza di interesse, avendo egli posto il lodo controverso a fondamento dei propri assunti in un altro giudizio.

2.1 – Il primo motivo del ricorso principale pone la questione sulla quale si è manifestato nella giurisprudenza di questa corte il contrasto denunciato dalla Prima sezione civile. Come ben chiarisce l’ordinanza di rimessione, infatti, l’originario testo dell’art. 829 c.p.c., comma 2, prevedeva che, salvo deroghe convenzionali, i lodi arbitrali fossero sempre impugnabili per violazione di norme di diritto sostanziali; mentre nel suo nuovo testo, introdotto dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 24, l’art. 829 c.p.c., comma 3, prevede all’opposto che l’impugnazione dei lodi arbitrali per violazione di norme di diritto sostanziali è ammessa solo «se espressamente disposta dalle parti o dalla legge». Sicché il silenzio delle parti stipulanti, che in origine rendeva impugnabile il lodo arbitrale anche per violazione delle norme di diritto sostanziali, con la sopravvenuta nuova formulazione esclude invece l’impugnabilità del lodo per tali motivi. Secondo una parte della giurisprudenza tuttavia il D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 27, comma 4, che prevede l’applicazione delle nuove norme ai giudizi arbitrali promossi dopo il 2 marzo 2006, andrebbe interpretato in coerenza con il principio generale di irretroattività della legge e con gli artt. 3 e 24 Cost., con la conseguenza che il nuovo testo dell’art. 829 c.p.c., comma 3, non varrebbe a precludere l’impugnabilità per errores in judicando dei lodi arbitrali emessi sulla base di clausole compromissorie precedentemente stipulate (Cass., sez. 1, 19 aprile 2012, n. 6148, rv. 622519, Cass., sez. 1, 3 giugno 2014, n. 12379, rv. 631488, Cass., sez. 1, 18 giugno 2014, n. 13898, Cass., sez. 1, 19 gennaio 2015, n. 745, Cass., sez. 1, 19 gennaio 2015, n. 748, Cass., sez. 1, 28 ottobre 2015, n. 22007). A questa interpretazione si è però opposto che il D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 27, comma 4, è «chiarissimo» laddove stabilisce che l’art. 829 c.p.c., nel suo nuovo testo, si applica «ai procedimenti arbitrali nei quali la domanda di arbitrato è stata proposta successivamente alla data di entrata in vigore del predetto decreto, pur se riferita a clausola compromissoria stipulata in epoca anteriore» (Cass., sez. 6, 17 settembre 2013, n. 21205, rv. 627936, Cass., sez. 1, 20 febbraio 2012, n. 2400, rv. 621295, Cass., sez. 1, 25 settembre 2015, n. 19075, rv. 636684). Sicché il nuovo testo dell’art. 829 c.p.c., comma 3, si applica anche ai lodi arbitrali emessi sulla base di clausole compromissorie stipulate prima del 2 marzo 2006.

2.2– Benché manifestatosi con riferimento all’interpretazione del D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 27, comma 4, il contrasto giurisprudenziale denunciato dalla Prima sezione civile deve trovare la sua soluzione nell’interpretazione dell’art. 829 c.p.c., comma 3. Non sembra infatti discutibile l’inequivocabile portata della pur controversa norma transitoria, laddove prevede che le disposizioni del D.Lgs. n. 40 del 2006, artt. 21, 22, 23, 24 e 25, «si applicano ai procedimenti arbitrali, nei quali la domanda di arbitrato è stata proposta successivamente» al 2 marzo 2006, quand’anche sulla base di clausole compromissorie stipulate precedentemente, cui è esclusa l’applicabilità solo delle disposizioni del D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 20, relative a forma ed effetti delle convenzioni. A tutti i giudizi arbitrali promossi dopo il 2 marzo 2006 si applica dunque anche l’art. 829 c.p.c., comma 3, come modificato dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 24, con la previsione che «l’impugnazione per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia è ammessa se espressamente disposta dalle parti o dalla legge». Occorre tuttavia domandarsi quale sia la «legge» la cui espressa previsione può rendere ammissibile l’impugnazione del lodo arbitrale anche «per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia». E sembra ragionevole ritenere che questa legge debba avere i tre seguenti connotati. Deve innanzitutto trattarsi ovviamente di una legge diversa dallo stesso art. 829 c.p.c., comma 3, che esclude certamente l’impugnabilità del lodo arbitrale per violazione delle norme di diritto sostanziali, ma ammette che a questa esclusione  possano derogare altra norma di legge o la volontà delle parti. Deve trattarsi in secondo luogo di una legge che disciplini la convenzione di arbitrato, perché è quella convenzione a definire, anche per volontà delle parti, i limiti di impugnabilità del lodo. Deve trattarsi infine della legge vigente nel momento in cui la convenzione di arbitrato viene stipulata, perché è solo la legge vigente in quel momento che può ascrivere al silenzio delle parti un significato normativamente predeterminato. Infatti il silenzio è un comportamento di per sé neutro; è solo il contesto normativo preesistente che può attribuirgli un particolare significato. Secondo quanto l’art. 1368 c.c., comma 2, dispone per l’interpretazione dei contratti, «le clausole ambigue s’interpretano secondo ciò che si pratica generalmente nel luogo in cui il contratto è stato concluso». E il silenzio è appunto un comportamento ambiguo (Cass., sez. 1, 10 aprile 1975, n. 1326, rv. 374846, Cass., sez. 3, 3 giugno 1978, n. 2785, rv. 392208), che può assumere un significato convenzionale solo in ragione del contesto anche normativo proprio del luogo e del momento dell’azione (Cass., sez. 3, 15 maggio 1959, n. 1442, rv. 880789, Cass., sez. 2, 14 giugno 1997, n. 5363, rv. 505200). È certo possibile che una legge sopravvenuta privi di effetti una determinata convenzione contrattuale, ammessa nel momento in cui fu stipulata (Cass., sez. 3, 26 gennaio 2006, n. 1689, rv. 587843). Sicché si è ritenuto che «il divieto di arbitrato, previsto dal D.L. 11 giugno 1998, n. 180, art. 3, comma 2 (convertito con modificazioni dalla L. 3 agosto 1998, n. 267) per le controversie relative all’esecuzione di opere pubbliche comprese in programmi di ricostruzione di territori colpiti da calamità naturali, comporta l’inefficacia per il futuro delle clausole compromissorie già stipulate» (Cass., sez. 1, 27 aprile 2011, n. 9394, rv. 617862). Ma non è possibile che una norma sopravvenuta ascriva al silenzio delle parti un significato convenzionale che le vincoli per il futuro in termini diversi da quelli definiti dalla legge vigente al momento della conclusione del contratto. Né vale osservare, come pure si è fatto, che le parti, consapevoli del sopravvenuto mutamento legislativo, possono rinnovare la convenzione, perché la conclusione della nuova convenzione richiederebbe il consenso di tutti gli stipulanti, anche di quelli eventualmente interessati al mantenimento del vincolo precedente. Non è possibile dunque che al silenzio tenuto dalle parti nel momento in cui la convenzione di arbitrato fu stipulata venga attribuito un significato diverso da quello che vi ascriveva la legge vigente al momento della stipulazione. Del resto è questa la ratio della stessa disciplina transitoria dettata del D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 27, dai commi 3 e 4, che distinguono appunto tra norme disciplinanti le convenzioni e norme disciplinanti il giudizio di arbitrato. E poiché è la convenzione a definire i limiti di impugnabilità dei lodi, è alle norme che la disciplinano nel momento della stipulazione che occorre richiamarsi. Né in questa prospettiva assume rilievo il mutamento di giurisprudenza intervenuto nel 2013, con il riconoscimento della natura giurisdizionale (Cass., sez. un., 25 ottobre 2013, n. 24153, rv. 627786), anziché negoziale (Cass., sez. un., 3 agosto 2000, n. 527, rv. 539100), dell’arbitrato rituale. Infatti la natura processuale dell’attività degli arbitri non esclude che sia pur sempre la convenzione di arbitrato a determinare i limiti di impugnabilità dei lodi. Mentre la presenza di un’esplicita disciplina transitoria priva di rilevanza esclusiva il riferimento alla natura processuale degli atti per risolvere le questioni di diritto intertemporale.

2.3 – Nel caso in esame la convenziona di arbitrato, essendo stata stipulata il 27 novembre 2001, risultava dunque regolata dal previgente art. 829 c.p.c., comma 2, laddove prevedeva che «l’impugnazione per nullità è altresì ammessa se gli arbitri nel giudicare non hanno osservato le regole di diritto, salvo che le parti li avessero autorizzati a decidere secondo equità o avessero dichiarato il lodo non impugnabile». Ed è questa la legge che, in applicazione del sopravvenuto nuovo testo dell’art. 829 c.p.c., comma 3, ammette l’impugnazione del lodo per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia, in mancanza di contraria previsione delle parti. Sicché nel caso in esame, contrariamente a quanto affermato dai giudici del merito, è ammissibile l’impugnazione del lodo anche per errores in judicando. Il primo motivo del ricorso principale di Bertucci è dunque fondato e assorbente del secondo motivo. Il ricorso incidentale condizionato è invece inammissibile per genericità, perché la società ricorrente non precisa in quale contesto giudiziario e in quale sua parte il lodo arbitrale sarebbe stato oggetto di acquiescenza da parte del ricorrente principale. L’accoglimento del primo motivo del ricorso principale comporta la cassazione della sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’appello di Milano, che si atterrà al seguente principio di diritto: «In applicazione della disciplina transitoria dettata dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 27, l’art. 829 c.p.c., comma 3, come riformulato dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 24, si applica nei giudizi arbitrali promossi dopo l’entrata in vigore del suddetto decreto, ma la legge cui lo stesso art. 829 c.p.c., comma 3, rinvia, per stabilire se è ammessa l’impugnazione per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia, è quella vigente al momento della stipulazione della convenzione d’arbitrato». [Omissis]