Anno: 2017

Locazione ad uso diverso. E’ valida la clausola che prevede l’aumento del canone nel corso del rapporto locatizio ?

Corte di Cassazione, Sezione 3 civile, Sentenza 11 ottobre 2016, n. 20384

In tema di locazione di immobili adibiti ad uso diverso da quello abitativo, ogni pattuizione avente ad oggetto non gia’ l’aggiornamento del corrispettivo ai sensi della L. 27 luglio 1978, n. 392, articolo 32, ma veri e propri aumenti del canone, deve ritenersi nulla ex articolo 79, comma 1, della stessa legge, in quanto diretta ad attribuire al locatore un canone piu’ elevato rispetto a quello legislativamente previsto, senza che il conduttore possa, neanche nel corso del rapporto, e non soltanto in sede di conclusione del contratto, rinunciare al proprio diritto di non corrispondere aumenti non dovuti.

La clausola che preveda la determinazione del canone in misura differenziata e crescente per frazioni successive di tempo nell’arco del rapporto e’ valida a condizione che si tratti, non gia’ di un vero e proprio “aumento”, bensi’ di un “adeguamento” del canone al mutato valore locativo dell’immobile volto a ripristinare il sinallagma originario, evitando uno squilibrio a vantaggio del conduttore altrimenti determinato dal canone fisso ovvero di una limitata e iniziale “riduzione” del canone convenuto, sempre che nell’uno, come nell’altro caso, tanto emerga da elementi obiettivi e predeterminati cui sia affidata “la scaletta” del canone.

Testo della sentenza

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VIVALDI Roberta – Presidente
Dott. AMBROSIO Annamaria – rel. Consigliere
Dott. BARRECA Giuseppina Luciana – Consigliere
Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere
Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere

ha pronunciato la seguente:
SENTENZA

sul ricorso 5498/2014 proposto da:

(OMISSIS), elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentata e difesa dall’avvocato (OMISSIS) giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

COSTRUZIONI SANTA CHIARA SRL, in persona del suo amministratore e legale rappresentante Dott.ssa (OMISSIS), elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentata e difesa dall’avvocato (OMISSIS) giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1354/2013 della CORTE D’APPELLO di CATANIA, depositata il 12/07/2013;

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza in data 07.12.2010 il Tribunale di Catania, sez. di Mascalucia, in accoglimento dell’opposizione proposta dalle odierne ricorrenti, (OMISSIS) e (OMISSIS) s.r.l., avverso il decreto ingiuntivo di pagamento emesso ad istanza della s.r.l. (OMISSIS) per la somma di Euro 8.223,11 a titolo di differenze canoni insoluti, revocava il decreto ingiuntivo e condannava le opponenti al pagamento della minor somma di Euro 489,11 per oneri condominiali e quota parte dell’imposta di registro.

Con sentenza n. 1354 in data 12.07.2013, la Corte di appello di Catania – accogliendo l’appello proposto dalla s.r.l. (OMISSIS) avverso detta decisione – rigettava l’opposizione, condannando le opponenti al pagamento delle spese del doppio grado.

Avverso detta sentenza hanno proposto ricorso per cassazione (OMISSIS) e la s.r.l. (OMISSIS), svolgendo cinque motivi.

Ha resistito la s.r.l. (OMISSIS), depositando controricorso e memoria.

MOTIVI DELLA DECISIONE

  1. La controversia e’ incentrata sulla pretesa di pagamento di maggiori canoni di locazione rispetto a quello inizialmente convenuto tra le parti, secondo “una scaletta” prevista con scrittura modificativa in data 1 aprile 2009, registrata in data 18.04.2010 (“scaletta”, pacificamente diversa da quella stabilita dalle stesse parti con il contratto originario in data 30 marzo 2009).

La Corte di appello – muovendo dalla considerazione dell’autonomia delle parti, vuoi nella determinazione del canone di locazione ad uso non abitativo, vuoi nella successiva modificazione dell’accordo originario – ha ritenuto legittima la pretesa della locatrice ai maggiori importi pretesi con il decreto ingiuntivo opposto, sulla base delle seguenti argomentazioni:

– innanzitutto era indifferente la circostanza che la modifica del canone iniziale di locazione avvenisse con accordo successivo alla sua stipulazione e con atto non avente contenuto transattivo: tanto per il rilievo che la nullita’ predicata dalla giurisprudenza di legittimita’ si verifica solo se sussiste una violazione (o elusione) della L. n. 392 del 1978, articolo 32, in comb. disp. con l’articolo 79, stessa legge a prescindere dal tempo in cui intervengono e per l’ulteriore considerazione che si e’ ritenuto simmetricamente di trarne e, cioe’, che all’inverso, la validita’ del patto prescinde dal fatto che si verta in ipotesi di accordo contestuale o modificativo;

– non esiste un sistema di blocco del canone nelle locazioni non abitative, essendo vietato dall’articolo 32 cit. unicamente di perseguire lo scopo di neutralizzare gli effetti eccedenti i limiti della svalutazione monetaria; di conseguenza – in dichiarato dissenso con la giurisprudenza di legittimita’ – occorreva ritenere che, una volta stabilita l’inesistenza di tale scopo elusivo, non era consentita una lettura dell’articolo 79 cit. in termini di nullita’ di protezione, nell’indimostrato presupposto di una posizione del conduttore piu’ debole rispetto a quella del locatore; anche perche’ la lettera della legge e i principi in tema di autonomia contrattuale non consentivano deroghe in mancanza di esplicita previsione;

– l’accordo modificativo recante la data del 1 aprile 2009 con il quale era stato variato in aumento il canone stabilito (previsto gia’ a scaletta, in quanto convenuto in Euro 1.600,00 e quindi fissato in Euro 1.100,00 iniziali “al solo fine di agevolare la crisi economica attuale” nel contratto del 30 marzo 2009) era valido, cosi’ come era valido il contratto originario; e cio’ perche’ anche in questo contratto il canone era stato pattuito “a scaletta”; in particolare i contraenti, considerata la rilevante superficie del locale e al “al solo fine di agevolare la crisi economica attuale” stabilivano che il canone iniziale sarebbe stato di Euro 1.590,00; si trattava di un aumento non elusivo, perche’ del tutto indipendentemente dalle variazioni della moneta, era stato ancorato a predeterminati elementi incidenti sull’equilibrio economico del sinallagma contrattuale e legato a una giustificata riduzione del canone per un limitato periodo iniziale, senza che, di per se’, la pattuizione incorresse nel divieto di cui all’articolo 32 cit..

1.1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia violazione o falsa applicazione degli articoli 112, 342 e 434 c.p.c. (ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 3). Al riguardo parte ricorrente lamenta che la Corte di appello abbia violato il principio del tantum devolutum, quantum appellatum, avendo posto a fondamento delle sua decisione circostanze di fatto (e, cioe’, l’assenza di contestualita’ delle due scritture negoziali del 30.03.2009 e del 01.04.2009 intervenute dalle parti) diverse da quelle allegate dalla locatrice, secondo cui dette scritture erano state redatte nello stesso momento.

1.2. Con il secondo motivo di ricorso si denuncia violazione della L. n. 392 del 1978, articoli 32 e 79, per aver ritenuto legittimo il patto contenuto nella scrittura del 01.04.2009 in forza del quale le parti avevano stabilito il canone in misura diversa da quella del contratto di locazione stipulato in data 30.03.2009, in palese difformita’ con l’orientamento di legittimita’ consolidato nel senso della nullita’ dei patti modificativi della misura del canone sottoscritti nel corso del rapporto locativo. A tal riguardo le ricorrenti osservano che le clausole che prevedono aumenti progressivi “a scaletta” sono valide a tre condizioni e, cioe’, che siano fissate ab initio, che siano ancorate ad elementi oggettivi e predeterminati e che prevedano un canone finale fisso rispetto al quale i canoni minori costituiscano stadi intermedi per giungere al corrispettivo effettivo prefissato; rilevano, quindi, nello specifico che, ove la scrittura integrativa racchiudesse una modalita’ di aggiornamento del canone, sarebbe illegittima in quanto costituirebbe una modalita’ di elusione della L. n. 392 del 1978, articolo 32; che ove la stessa scrittura (pacificamente successiva alla conclusione del contratto iniziale) fosse interpretabile come una “scaletta” di aumenti progressivi che conducano gradualmente alla cifra del canone di locazione definitivo e concordato, essa sarebbe ugualmente illegittima perche’ mancano le condizioni sopra indicate, per l’assenza di elementi oggettivi e predeterminati, tali non essendo il fine generico di “agevolare il superamento della crisi economica attuale”: denunciano, infine, che – sebbene si tratti di valutazioni riservate al giudice del merito – nella specie non e’ stata operata alcuna verifica sul punto.

1.3. Con il terzo motivo di ricorso si denuncia omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che e’ stato oggetto di discussione tra le parti (ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 5) nonche’ violazione o falsa applicazione dell’articolo 112 c.p.c. (ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 3). Al riguardo parte ricorrente lamenta che la Corte territoriale non si sia pronunciata sulle proprie argomentazioni, laddove evidenziava il carattere “di stile” della clausola che faceva riferimento “al solo fine di agevolare la crisi economica attuale”, ripetuta nei due contratti e quindi tale da non potere giustificare una diversa “scaletta”.

1.4. Con il quarto motivo di ricorso si denuncia omesso esame dell’appello incidentale nullita’ della sentenza (ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 4) e violazione o falsa applicazione dell’articolo 112 c.p.c. (ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 3), per non essersi la Corte di appello pronunciata sull’appello incidentale condizionato, con cui si deduceva la violazione della L. n. 311 del 2004, articolo 1, comma 346, e la nullita’ ex articoli 1344 e 1345 c.c..

1.5. Con il quinto motivo si denuncia omesso esame dell’appello incidentale nullita’ della sentenza (ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 4) e violazione o falsa applicazione dell’articolo 112 c.p.c. (ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 3) per non essersi la Corte di appello pronunciata sul secondo motivo di appello incidentale relativo all’erronea condanna al pagamento degli oneri accessori.

  1. Il primo motivo e’ infondato.

Le ricorrenti si dolgono che il giudice di appello abbia fondato la decisione sulla considerazione dell’intervenuta modificazione dell’originario contratto di locazione del 30 marzo 2009 con la scrittura privata del 1 aprile 2009, sebbene la tesi dell’appellante postulasse la contestualita’ delle due scritture. Senonche’ tutto cio’ attiene all’interpretazione dei fatti oggetto d’esame e non ridonda nel vizio di ultrapetizione.

Invero e’ pacifico (ex plurimis: Cass., n. 11455/2004; Cass., n. 8218/2002) che il principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, fissato dall’articolo 112 cod. proc. implica il divieto per il giudice di attribuire alla parte un bene non richiesto o, comunque, di emettere una statuizione che non trovi corrispondenza nella domanda. Il suddetto principio e’, quindi, violato ogni qual volta il giudice, interferendo nel potere dispositivo delle parti, alteri alcuno degli elementi obiettivi di identificazione dell’azione, attribuendo o negando ad alcuno dei contendenti un bene diverso da quello richiesto e non compreso, nemmeno implicitamente o virtualmente, nella domanda, ovvero, nell’ambito del petitum, rilevi d’ufficio un’eccezione in senso stretto che puo’ essere sollevata soltanto dall’interessato, oppure ponga a fondamento della decisione fatti e situazioni estranei alla materia del contendere, introducendo nel processo un titolo nuovo e diverso da quello enunciato dalla parte a sostegno della domanda; mentre non osta a che – come e’ avvenuto nella decisione in esame – il giudice renda la pronuncia richiesta in base ad una ricostruzione o ad una interpretazione dei fatti autonoma rispetto a quella prospettata dalle parti.

Il motivo va, dunque, rigettato.

2.2. Il secondo motivo e’ fondato e assorbente rispetto agli altri motivi.

2.2.1. Innanzitutto va ribadito che in tema di immobili adibiti ad uso diverso da abitazione, ogni pattuizione avente ad oggetto non gia’ l’aggiornamento del corrispettivo ai sensi della L. n. 392 del 1978, articolo 32, ma veri e propri aumenti del canone, deve ritenersi nulla, ex articolo 79, comma 1, della stessa legge, in quanto diretta ad attribuire al locatore un canone piu’ elevato rispetto a quello previsto dalla norma. (cfr., in particolare, Cass., 11 aprile 2006, n. 8410; Cass., 27 luglio 2001, n. 10286).

E’ ben vero che – come evidenziato nella decisione impugnata – questa Corte, con riferimento ai contratti di locazione ad uso non abitativo, in virtu’ del principio della libera determinazione convenzionale del canone locativo, ha ritenuto legittima la clausola che preveda la determinazione del canone in misura differenziata e crescente per frazioni successive di tempo nell’arco del rapporto; ma tutto cio’ a condizione che l’aumento sia ancorato ad elementi predeterminati ed idonei ad influire sull’equilibrio del sinallagma contrattuale, ovvero appaia giustificata la riduzione del canone per un limitato periodo che la suddetta clausola non costituisca un aggirare la norma imperativa di cui alla L. n. 392, articolo 32, circa le modalita’ e aggiornamento del canone in relazione alle iniziale, salvo espediente per 27 luglio 1978, la misura di variazioni del potere d’acquisto della moneta (ex plurimis, cfr. Cass. 30 settembre 2014, n. 20553).

In sostanza tale principio – lungi dal postulare simmetricamente la legittimita’ di una pattuizione che intervenga nel corso del rapporto, come opinato dalla Corte territoriale – obbliga il giudice a verificare se la previsione di “una scaletta” del canone non sia volta ad eludere la norma di cui all’articolo 32 cit., occorrendo che si tratti – non gia’ di un aumento che non sarebbe, comunque consentito (sia esso convenuto ab origine ovvero nel corso del rapporto) – bensi’ di un “adeguamento” del canone al mutato valore locativo dell’immobile volto a ripristinare il sinallagma originario, evitando uno squilibrio a vantaggio del conduttore altrimenti determinato dal canone fisso ovvero di una limitata e iniziale “riduzione” del canone convenuto, sempre che nell’uno, come nell’altro caso, tanto emerga da elementi obiettivi e predeterminati cui sia affidata “la scaletta” del canone.

2.2.2. La decisione impugnata appare ispirata a un risalente orientamento secondo cui il divieto posto dalla L. n. 392 del 1972, articolo 79 (comminante la nullita’ delle pattuizioni dirette ad attribuire al locatore un canone maggiore rispetto a quello dovuto) e’ da intendersi come diretto ad evitare una elusione solamente di tipo preventivo dei diritti del locatario, e, attesa la desunta possibilita’ di disporre dei diritti una volta sorti e quindi suscettibili di essere fatti valere, ritiene valido il patto avente ad oggetto l’aumento del canone convenuto nel corso del rapporto (v. Cass., 19 novembre 993, n. 11402).

In contrario senso – argomentando dal complessivo tenore della norma di cui all’articolo 79 – si e’ peraltro posto in rilievo che il citato articolo 79, comma 1, sanziona di nullita’ un’ampia gamma di pattuizioni, comprensiva di quelle volte a limitare la durata legale del contratto; ad attribuire al locatore un canone maggiore rispetto al canone di legge ovvero anche altro vantaggio in contrasto con le disposizioni della legge sull’equo canone; mentre al comma 2 (secondo cui “Il conduttore, con azione proponibile fino a sei mesi dopo la riconsegna dell’immobile locato, puo’ ripetere le somme sotto qualsiasi forma corrisposte in violazione dei divieti e dei limiti previsti dalla presente legge”) e’ dettata una specifica disciplina circa i modi ed i tempi per far valere la nullita’, con riferimento alle sole pattuizioni dalle quali consegua la corresponsione di somme di denaro, tra le quali sono ovviamente comprese le pattuizioni aventi ad oggetto la determinazione del canone in difformita’ da quanto previsto dalla legge. Se ne trae quale necessario corollario, che il diritto a non erogare somme in misura eccedente il canone legalmente dovuto sorge al momento della conclusione del contratto; persiste durante tutto il corso del rapporto; puo’ essere fatto valere, in virtu’ di espressa disposizione legislativa, dopo la riconsegna dell’immobile locato, entro il termine di decadenza di sei mesi (v. Cass., 27 luglio 2001, n. 10286). Se il diritto in esame puo’ essere fatto valere dopo la riconsegna dell’immobile, non e’ sostenibile – si e’ osservato, con argomento che va qui ribadito – che di esso possa disporre il conduttore in corso di rapporto, accettando aumenti non dovuti.

La validita’ di una rinunzia espressa o tacita del medesimo ad avvalersi del diritto a non subire aumenti non dovuti, eventualmente intervenuta in corso di rapporto, appare, infatti, inconciliabile, con la facolta’ attribuita al conduttore di ripetere “le somme sotto qualsiasi forma corrisposte in violazione dei divieti e dei limiti previsti dalla presente legge” entro sei mesi dalla riconsegna dell’immobile. E’ pertanto la riconsegna dell’immobile (con conseguente cessazione del rapporto di fatto tra il conduttore e la cosa locata) ad individuare, per espressa scelta del legislatore, il momento dal quale il diritto alla ripetizione di quanto indebitamente pagato puo’ essere fatto valere dal conduttore “liberamente”, e cioe’ senza la “remora” che il locatore possa agire in ritorsione nei suoi confronti (v. Cass. n. 10286/2001 cit.).

2.2.3. Se, dunque, puo’ convenirsi con la Corte territoriale laddove ha ritenuto indifferente il momento della stipulazione della clausola comportante un aumento del canone, cio’ va affermato in un’ottica diametralmente opposta a quella seguita dal giudice di appello; nel senso, cioe’, che e’ da escludere che il conduttore possa, neanche nel corso del rapporto, e non soltanto in sede di conclusione del contratto, rinunziare al proprio diritto di non corrispondere aumenti non dovuti.

Soprattutto gli argomenti su cui fa leva la Corte territoriale essenzialmente riconducibili alla valorizzazione dell’autonomia contrattuale nella determinazione del canone e, quindi, anche della sua modificazione nel corso del rapporto – finiscono per collidere con l’interpretazione assunta dalla consolidata giurisprudenza di questa Corte del comb. disp. della L. n. 392 del 1978, articoli 32 e 79; in particolare detti argomenti – proprio perche’ affidati al rilievo dell’esistenza, tanto nel contratto originario, quanto nella scrittura modificativa (peraltro vicinissimi di data) di una (diversa) “scaletta” del canone, giustificata, nell’una come nell’altra scrittura, dal dichiarato “solo fine di agevolare la crisi economica attuale” – obliterano un dato fondamentale e, cioe’, che, per escludere l’intento elusivo del divieto di veri e propri aumenti del canone, occorre che vi siano elementi obiettivi e predeterminati da cui emerga che la previsione di un canone crescente nell’arco del rapporto sia finalizzato a mantenere integra l’originario sinallagma ovvero che diano contezza di una iniziale riduzione del canone.

  1. In definitiva il primo motivo va rigettato; va invece accolto il secondo motivo, risultando assorbiti gli altri motivi; cio’ comporta la cassazione della sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e il rinvio alla Corte di appello di Catania in diversa composizione, che dovra’ dare applicazione dei seguenti principi:

in tema di locazione di immobili adibiti ad uso diverso da quello abitativo, ogni pattuizione avente ad oggetto non gia’ o’ l’aggiornamento del corrispettivo ai sensi della L. 27 luglio 1978, n. 392, articolo 32, ma veri e propri aumenti del canone, deve ritenersi nulla ex articolo 79, comma 1, della stessa legge, in quanto diretta ad attribuire al locatore un canone piu’ elevato rispetto a quello legislativamente previsto, senza che il conduttore possa, neanche nel corso del rapporto, e non soltanto in sede di conclusione del contratto, rinunciare al proprio diritto di non corrispondere aumenti non dovuti;

la clausola che preveda la determinazione del canone in Misura differenziata e crescente per frazioni successive di tempo nell’arco del rapporto e’ valida a condizione che si tratti, non gia’ di un vero e proprio “aumento”, bensi’ di un “adeguamento” del canone al mutato valore locativo dell’immobile volto a ripristinare il sinallagma originario, evitando uno squilibrio a vantaggio del conduttore altrimenti determinato dal canone fisso ovvero di una limitata e iniziale “riduzione” del canone convenuto, sempre che nell’uno, come nell’altro caso, tanto emerga da elementi obiettivi e predeterminati cui sia affidata “la scaletta” del canone.

Il giudice del rinvio provvedera’ anche alla regolazione delle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il primo motivo di ricorso; accoglie il secondo, assorbiti gli altri; cassa la sentenza impugnata in relazione e rinvia anche per le spese del giudizio di cassazione alla Corte di appello di Catania in diversa composizione.

Locazioni commerciali. E’ valida la clausola che preveda l’iniziale predeterminazione del canone in misura differente e crescente?

Corte di Cassazione, Sezione 3 civile, Sentenza 10 novembre 2016, n. 22909

Alla stregua del principio generale della libera determinazione convenzionale del canone locativo per gli immobili destinati ad uso non abitativo, deve ritenersi legittima la clausola in cui venga pattuita l’iniziale predeterminazione del canone in misura differenziata e crescente per frazioni successive di tempo nell’arco del rapporto; e cio’, sia mediante la previsione del pagamento di rate quantitativamente differenziate e predeterminate per ciascuna frazione di tempo; sia mediante il frazionamento dell’intera durata del contratto in periodi temporali piu’ brevi a ciascuno dei quali corrisponda un canone passibile di maggiorazione; sia correlando l’entita’ del canone all’incidenza di elementi o di fatti (diversi dalla svalutazione monetaria) predeterminati e influenti, secondo la comune visione dei paciscenti, sull’equilibrio economico del sinallagma.

La legittimita’ di tale clausola dev’essere peraltro esclusa la’ dove risulti – dal testo del contratto o da elementi extratestuali della cui allegazione deve ritenersi onerata la parte che invoca la nullita’ della clausola – che le parti abbiano in realta’ perseguito surrettiziamente lo scopo di neutralizzare soltanto gli effetti della svalutazione monetaria, eludendo i limiti quantitativi posti dalla L. n. 392 del 1978, articolo 32, (nella formulazione originaria ed in quella novellata dalla L. n. 118 del 1985, articolo 1, comma 9 sexies), cosi’ incorrendo nella sanzione di nullita’ prevista dal successivo articolo 79, comma 1, della stessa legge”.

Nella specie, la Corte d’appello di Bologna ha espressamente sottolineato come il complesso degli elementi di prova acquisiti nel corso del giudizio avesse evidenziato il ricorso dei presupposti per il riconoscimento di una manifesta tolleranza del locatore rispetto ai molteplici ritardi in cui la società conduttrice era già ripetutamente incorsa nel corso del rapporto nel pagamento dei canoni di locazione: tolleranza di fatto ritenuta, dai giudici d’appello, idonea a giustificare la rinuncia del locatore ad avvalersi della clausola risolutiva espressa originariamente convenuta tra le parti, al punto da ingenerare l’obiettivo corrispondente convincimento della società debitrice, con la conseguente necessità di procedere alla valutazione nel merito dell’importanza dell’inadempimento della società debitrice (ai sensi dell’art. 1455 c.c.): importanza nella specie recisamente esclusa dalla corte territoriale, sulla base delle argomentazioni di merito diffusamente esposte nella motivazione della sentenza impugnata.

Testo della sentenza 

Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 22 settembre – 10 novembre 2016, n. 22909 Presidente Vivaldi – Relatore Dell’Utri

Svolgimento del processo

  1. F.F. ha convenuto la Eternedile s.p.a. dinanzi al Tribunale di Bologna per sentir convalidare lo sfratto per morosità in relazione a un contratto di locazione ad uso diverso di abitazione intercorso tra le parti. Costituitasi, la società intimata, dopo aver sanato integralmente la morosità contestatale, ha invocato in via riconvenzionale la condanna del locatore alla restituzione, in proprio favore, delle somme versate in eccesso a titolo di canoni, tenuto conto della nullità della previsione contrattuale riferita a un ammontare crescente nel tempo del canone, in violazione dell’art. 75 della legge n. 392/78 e, in ogni caso, in relazione alle modalità di rinnovazione automatica del rapporto. 2. Il Tribunale di Bologna ha rigettato la domanda di risoluzione contrattuale per inadempimento della società conduttrice e, in accoglimento della domanda riconvenzionale di quest’ultima, ha condannato il locatore alla restituzione delle somme percepite in eccesso a titolo di canoni. 3. Su impugnazione di entrambe le parti, con sentenza in data 4/4/2014, in riforma della sentenza di primo grado, la Corte d’appello di Bologna, ritenuta la validità della clausola di determinazione del canone di locazione, ha disatteso la domanda riconvenzionale proposta dalla società conduttrice, contestualmente rigettando la domanda di risoluzione proposta dal locatore, in considerazione dell’avvenuta rinuncia del locatore ad avvalersi della clausola risolutiva espressa e del carattere non grave del ritardo nel pagamento dei canoni della parte della conduttrice. 4. Avverso la sentenza d’appello, ha proposto ricorso per cassazione la Eternedile s.p.a. sulla base di sei motivi di impugnazione, illustrati da successiva memoria. 5. F.F. ha depositato controricorso invocando la dichiarazione d’inammissibilità ovvero il rigetto del ricorso principale, contestualmente proponendo ricorso incidentale sulla base di un unico motivo di impugnazione. 6. Ha depositato controricorso a ricorso incidentale la Eternedile s.p.a. concludendo per la dichiarazione di inammissibilità, ovvero per il rigetto del ricorso incidentale.

Motivi della decisione

  1. Con il primo motivo del ricorso principale, la Eternedile s.p.a. censura la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione degli artt. 32 e 79 della legge n. 392/78, dell’art. 8 prel. e degli artt. 1374 e 2729 c.c.. Al riguardo, la ricorrente sottolinea come la corte territoriale abbia erroneamente ritenuto di escludere l’invalidità della clausola di determinazione del canone sulla base di argomentazioni tautologiche e del tutto congetturali, non avendo le parti provveduto ad alcun riferimento a elementi predeterminati cui vincolare il progressivo aumento del relativo ammontare nel tempo. 8. Con il secondo motivo, la società ricorrente si duole della violazione di legge (in relazione agli arti. 132, 112, 113, 115, 116 e 161 c.p.c. e 111 Cost.) in cui sarebbe incorsa la corte territoriale, per avere quest’ultima affermato la riconducibilità dell’accordo contrattuale raggiunto tra le parti alla previsione di elementi predeterminati al fine di determinare l’entità del canone di locazione, senza tuttavia aver individuato in concreto l’identità di detti elementi. 9. Con il terzo motivo, la società ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione degli artt. 28, 29, 32 e 79 della legge n. 392/78, nonché degli artt. 1367, 1372, 1597 e 2729 c.c.. Sul punto, la società ricorrente evidenzia come la corte territoriale abbia erroneamente escluso, nei casi di rinnovo automatico del rapporto, la persistenza delle medesime condizioni contrattuali originariamente stipulate dalle parti, escludendo arbitrariamente la prevista minore entità dei canoni di locazione stabilita per il primo triennio, sulla base di considerazioni interpretative totalmente illogiche, trascurando la decisiva circostanza in forza della quale le parti ebbero a determinare un importo globale del canone di locazione per l’intera durata sessennale del rapporto, sia pur diversamente ripartito nel tempo, come peraltro espressamente riconosciuto anche dalla controparte. 10. Con il quarto motivo, la società ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 113, 115 e 434 c.p.c. in relazione all’art. 36o n. 4 c.p.c.. Sul punto, la società ricorrente evidenzia come la corte territoriale abbia illegittimamente introdotto nella motivazione indicata a sostegno del rigetto della domanda riconvenzionale della conduttrice un’argomentazione mai invocata da controparte, con particolare riguardo alla cosiddetta “pratica invalsa” nell’ambito dei rapporti locativi circa le modalità di determinazione del canone. il. Con il quinto motivo, la ricorrente si duole della violazione di legge (in relazione agli artt. 132, 112, 113, 115, 116 e 161 c.p.c., nonché dell’art. in Cost., in relazione all’art. 36o n. 4 c.p.c.) in cui sarebbe incorsa la corte territoriale, per avere quest’ultima richiamato a fondamento della propria decisione una pretesa “pratica invalsa” e un imprecisato “orientamento consolidato” nell’ambito dei rapporti locativi, in modo del tutto apodittico e arbitrario, siccome del tutto avulso dai termini concreti della controversia in esame. 12. Con il sesto e ultimo motivo, la società ricorrente censura la sentenza impugnata per omesso esame di un fatto decisivo controverso tra le parti, avendo la corte territoriale trascurato di esaminare il fatto storico relativo alla sussistenza o meno, nel caso di specie, di elementi predeterminati idonei a influire sul sinallagma contrattuale e a giustificare la fissazione di canoni differenziati in aumento nel tempo, senza incorrere in alcuna violazione degli artt. 32 e 79 della legge n. 392/78. 13. Con l’unico motivo di ricorso incidentale, F.F. censura la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione degli artt. 1322, 1362, 1363 e 1456 c.c., per avere la corte territoriale omesso di pronunciare la risoluzione del contratto di locazione intercorso tra le parti, nonostante all’atto dell’intimazione di sfratto per morosità la società conduttrice fosse effettivamente in ritardo nel pagamento di tre mensilità di canone, in tal senso trascurando il tenore della clausola risolutiva espressa pattuita tra le parti e conferendo, viceversa, un decisivo rilievo alla tolleranza del locatore, di per sé inidonea a integrare una tacita rinuncia dello stesso ad avvalersi di detta clausola. 14. Il terzo motivo del ricorso principale è inammissibile. Con riguardo al motivo in esame – espressamente dedotto dalla società ricorrente nella forma della denunzia di violazione di legge -, ritiene il collegio opportuno ribadire – in conformità al costante insegnamento della giurisprudenza di legittimità – come, in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consista nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge, implicando necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione. Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (cfr., ex plurimis, Sez. L, Sentenza n. 7394 del 26/03/2010, Rv. 612745; Sez. 5, Sentenza n. 26110 del 30/12/2015, Rv. 638171). Nel caso di specie, al di là del formale richiamo, contenuto nell’epigrafe del motivo d’impugnazione in esame, al vizio di violazione e falsa applicazione di legge, l’ubi consistamdelle censure sollevate dall’odierna società ricorrente deve piuttosto individuarsi nella contestata correttezza dell’interpretazione fornita dal giudice d’appello in ordine alla volontà delle parti di prevedere – non già un unico e onnicomprensivo canone globale sessennale da ripartire diversamente negli anni – bensì un canone iniziale ridotto (al fine di favorire l’avvio in loco dell’impresa della conduttrice) destinato ad attestarsi nella misura definitiva successivamente al primo triennio di rapporto e a permanere nella medesima misura definitiva sin dall’inizio della rinnovazione automatica del rapporto alla prima scadenza e a quelle successive. Si tratta, come appare manifesto, di argomentazioni critiche con evidenza dirette a censurare, non già un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge (come accade per il classico caso della violazione di legge), bensì una (tipica) erronea ricognizione della fattispecie concreta, di necessità mediata dalla contestata valutazione delle risultanze documentali di causa; e pertanto di una tipica censura diretta a denunciare il vizio di motivazione in cui sarebbe incorso il provvedimento impugnato nel travisare l’obiettivo (secondo la società ricorrente) contenuto rappresentativo proprio di fonti probatorie dedotte (nella specie, del testo contrattuale concordato tra le parti) al fine di ricostruire l’esatta volontà contrattuale delle parti. Ciò posto, in ossequio al consolidato insegnamento della giurisprudenza di legittimità, il motivo d’impugnazione così formulato deve ritenersi inammissibile. Osserva infatti il collegio come – dovendo il vizio di violazione o falsa applicazione di norme di diritto risolversi in un giudizio sulla fattispecie astratta contemplata dalla norma di diritto applicabile al caso concreto, e dovendo la relativa denunzia avvenire mediante la specifica indicazione dei punti della sentenza impugnata che si assumono essere in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza e/o dalla dottrina prevalente – deve considerarsi inammissibile il ricorso per cassazione con il quale si censura come violazione di norma di diritto, e non come vizio di motivazione, un errore in cui si assume che sia incorso il giudice di merito nella ricostruzione di un fatto giuridicamente rilevante, sul quale la sentenza doveva pronunciarsi (Sez. 3, Sentenza n. 10385 del 18/10/2005, Rv 581564; Sez. 5, Sentenza n. 9185 del 21/04/2011, Rv. 616892). 15. Il primo, il secondo, il quarto, il quinto e il sesto motivo del ricorso principale – congiuntamente esaminabili in ragione dell’intima connessione delle questioni dedotte – devono ritenersi integralmente privi di fondamento, siccome tutti argomentati sul presupposto di un’errata interpretazione delle norme applicabili al caso di specie, secondo quanto di seguito precisato. Con riguardo al tema della legittimità del patto di predeterminazione differenziata del canone di locazione di immobili urbani ad uso diverso di abitazione, ritiene il collegio opportuno procedere a una rapida ricapitolazione della questione, al fine di comporre in termini univoci, anche sul piano terminologico, gli orientamenti interpretativi della Corte di cassazione, succedutisi nel tempo in forme o termini che appaiono non sempre informati a criteri di reciproca e rigorosa coerenza. 15.1. Secondo un’argomentazione sovente richiamata a proposito del patto di determinazione differenziata nel tempo del canone di una locazione commerciale, la nullità di tale patto discenderebbe dal combinato disposto degli artt. 32 e 79 della legge n. 392/78, dovendo ritenersi che, ove le parti non abbiano vincolato detta determinazione differenziata al ricorso di elementi oggettivi e predeterminati, idonei a influire sull’equilibrio economico degli interessi contrattualmente disposti, tale patto non possa che esprimere una sostanziale volontà elusiva del divieto stabilito dall’art. 32 cit., ai sensi del quale l’aggiornamento periodico del canone di una locazione commerciale non può avere luogo in termini quantitativamente superiori al 75% dell’indice dei prezzi al consumo calcolato dall’Istat per le famiglie di operai e impiegati per ciascuna annualità di rapporto. Tale impostazione sembrerebbe trovare riscontro nel vigore di principi fatti propri da diversi arresti della giurisprudenza di legittimità, testualmente tramandatisi attraverso la formula secondo la quale: “In relazione al principio della libera determinazione convenzionale del canone locativo in materia di locazione di immobili destinati ad uso non abitativo, la clausola convenzionale, che prevede future maggiorazioni del canone diverse dall’aggiornamento ex art. 32 della legge n. 392 del 1978, per qualificarsi legittima, deve chiaramente riferirsi ad elementi predeterminati, desumibili dal contratto e tali da essere idonei ad influire sull’equilibrio economico del rapporto, in modo autonomo dalle variazioni annue del potere di acquisto della moneta” (Sez. 3, Sentenza n. 19475 del 06/10/2005, Rv. 584778). Una medesima enunciazione del principio di diritto caratterizza pronunce di analogo tenore (Sez. 3, Sentenza n. 1070 del 01/02/2000, Rv. 533312; Sez. 3, Sentenza n. 9227 del 12/07/2000, Rv. 538386; Sez. 3, Sentenza n. 11320 del 21/07/2003, Rv. 565302), e appare talora equivalente (o in larga misura assimilabile) ad altre formulazioni desumibili dalle sentenze rese da Sez. 3, Sentenza n. 2770 del 08/03/1993, Rv. 481314; Sez. 3, Sentenza n. 4474 del 15/04/1993, Rv. 481851; Sez. 3, Sentenza n. 9878 del 22/11/1994, Rv. 488760; Sez. 3, Sentenza n. 5632 del 24/06/1997, Rv. 505418; Sez. 3, Sentenza n. 6695 del 03/08/1987, Rv. 454914; Sez. 3, Sentenza n. 5349 del 05/03/2009, Rv. 606954; Sez. 3, Sentenza n. 19475 del 06/10/2005, Rv. 584778; Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 10834 del 17/05/2011, Rv. 618213; Sez. 3, Sentenza n. 17061 del 28/07/2014, Rv. 632144. 15.2. In termini che appaiono alludere a una diversa impostazione, altre pronunce argomentano la legittimità del patto di determinazione differenziata nel tempo del canone di una locazione commerciale richiamandosi al principio secondo il quale “Il riferimento, contenuto nell’originaria formulazione dell’art. 32 della legge 27 luglio 1978 n. 392, alla possibilità che il canone locativo degli immobili destinati per uso non abitativo sia concordato secondo misure contrattualmente stabilite e, quindi, differenziate nel loro importo, è espressione del principio generale della libera determinazione convenzionale del canone locativo degli immobili destinati ad uso non abitativo, al quale la stessa norma deroga eccezionalmente solo per le clausole di aggiornamento per variazioni del potere di acquisto della moneta, o clausole Istat, con una disposizione che non può essere estesa, per analogia, alle altre clausole contrattuali volte ad incrementare, secondo la comune intenzione delle parti, il valore reale del corrispettivo per diverse e successive frazioni del medesimo rapporto e che debbono, pertanto, ritenersi valide a meno che non sia in concreto accertata la loro funzione elusiva del citato limite posto dall’art. 32 (Sez. 3, Sentenza n. 8883 del 19/08/1991, Rv. 473538). A tale formulazione appaiono riconducibili, tra le altre, le massime ricavabili da Sez. 3, Sentenza n. 1683 del 26/02/1999, Rv. 523684; Sez. 3, Sentenza n. 6246 del 25/05/1992, Rv. 477371. 15.3. La sostanza della divergenza tra gli orientamenti ricordati (che si riflette, in termini pratici, sul piano della disciplina degli oneri probatori e delle conseguenze processuali del relativo mancato assolvimento) sembra emergere in relazione al ruolo rivestito dal richiamo, operato dalle parti, al ricorso di elementi obiettivi e predeterminati, diversi e autonomi dalla svalutazione monetaria, idonei a influire sull’equilibrio economico del piano contrattuale; da un lato assumendo, detto richiamo (ove naturalmente corrispondente a un effettivo dato di realtà), la veste di una condizione preliminare al cui soddisfacimento parrebbe subordinato il libero dispiegamento della libertà contrattuale delle parti; dall’altro limitandosi, il significato di detti elementi, a costituire semplici indici strumentali (di per sé non esclusivi) per la determinazione obiettiva, al momento della conclusione del contratto, dell’entità esatta degli oneri economici corrispettivi connessi al godimento dell’immobile locato. 15.4. Così posti i termini della questione, nel ricostruire l’evoluzione dinamica della giurisprudenza di legittimità sul punto, individuandone le presumibili occasioni d’origine, converrà osservare come, questa Corte, già in epoca di poco successiva all’approvazione della legge sulle locazioni di immobili urbani (legge n. 392/78), con la sentenza Sez. 3, Sentenza n. 6695 del 03/08/1987 ebbe a puntualizzare, sul piano interpretativo, la necessità di non disperdere il significato dei diversi termini (selezionati, dal legislatore del tempo, con preciso rigore) destinati a contrassegnare le differenti ragioni potenzialmente suscettibili di influire, nel corso del rapporto, sull’entità monetaria del canone di locazione. Da questo punto di vista – segnalava già al tempo la riflessione del giudice di legittimità -, deve ritenersi radicalmente inammissibile una confusione tra i concetti di “aumento” del canone (di locazione dello stesso immobile secondo contratti succedentesi nel tempo, anche per via di rinnovazione); di “determinazione differenziata” del canone (correlativamente a periodi compresi nella durata del medesimo rapporto contrattuale) e di “aggiornamento” del canone (in dipendenza della perdita del potere di acquisto della moneta verificatasi durante la pendenza del medesimo rapporto contrattuale). Sotto il profilo storico – invitava a rilevare la Corte di legittimità – giova ricordare che la larga diffusione assunta, nella pratica del commercio delle locazioni in tempi di crescente inflazione, dalle clausole di adeguamento dei canoni (così dette clausole Istat), costrinse il legislatore a occuparsene a salvaguardia del regime di blocco dei canoni stessi, allora vigente (cfr. art. 1 del d.l. 24/7/1973 n. 426). Ma già con riferimento alla legislazione vincolistica, la giurisprudenza di questa Corte non mancò di segnalare la non confondibilità – concettuale e di regolamento normativo – tra clausole di adeguamento Istat e patti di aumento del canone: in quanto “l’aumentò implica un accrescimento non solo dell’espressione monetaria ma anche del valore reale del corrispettivo, dovuto dal conduttore, mentre l’adeguamento” importa soltanto una variazione della quantità monetaria, fermo rimanendo il suo valore effettivo (cfr. tra le altre Cass. n. 6574 e n. 4958 del 1979 e, segnatamente, Cass. n. 2758 del 1976). Successivamente, introdotta con la legge n. 392 del 1978 la predeterminazione legale del livello massimo del canone di locazione per gli immobili adibiti ad uso abitativo, secondo parametri oggettivi, rimase viva l’esigenza di salvaguardare l’equilibrio economico effettivo tra prestazione e controprestazione a fronte nella sopravvenienza, in pendenza del rapporto a durata vincolata, di elementi influenti su detto equilibrio, e si ebbe cura di distinguere “l’aggiornamento” (art. 24) da l’”adeguamento” del canone (art. 25) a seconda che il mutamento avesse inciso sul potere di acquisto della moneta, e cioè sul valore reale della prestazione del conduttore, oppure su parametri e coefficienti correttivi ex art. 13 e 15, e cioè sul valore reale della prestazione del locatore. In materia di locazione di immobili adibiti ad uso diverso da quello di abitazione, meno pressante si profila l’esigenza di disciplinare “l’aggiornamento” del canone – vale a dire la validità o meno delle c.d. clausole Istat – una volta rimessa all’incontro della libera volontà delle parti, secondo le leggi di mercato, la determinazione convenzionale del canone. Ma sia per amore di simmetria, sia in considerazione dei problemi connaturati alla notevole durata del rapporto locatizio, venne introdotto l’art. 32 – poi sostituito dall’art. 1, co. nove sexies, della legge n. 118 del 1985, di portata assai più liberale. Quale che fosse il grado della sua pratica realizzabilità, la finalità perseguita dalla citata norma, nell’originaria e nella novellata formulazione, sembra potersi individuare in quella di dissuadere i contraenti da una spesso arbitraria previsione a lungo termine circa la flessione del potere di acquisto della moneta nell’arco dell’intera durata del rapporto, neutralizzandone in partenza gli effetti futuri attraverso una lievitazione del livello del corrispettivo preteso per concedere il godimento dell’immobile (ma così anticipando all’attualità l’incidenza negativa sul costo medio della vita di un evento temuto quale l’inflazione nel futuro); dissuasione suggerita concedendo alle parti di convenire (contestualmente alla stipulazione del contratto o successivamente) la variazione del canone secondo una percentuale ancorata all’indice Istat dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati. Si resta comunque e sempre nel campo del vero e proprio “aggiornamento” del canone che, con costante precisione terminologica, il legislatore utilizza per individuare il fenomeno del mantenimento (almeno tendenziale) del valore reale della prestazione del conduttore – incidente sull’equilibrio del sinallagma nonostante la variabilità della sua espressione monetaria in dipendenza della flessione nel tempo del potere di acquisto della lira. Questa revisione riequilibratrice, e i limiti della sua operatività, nulla hanno a vedere con il diverso campo dell’incondizionata facoltà per le parti, secondo la loro libera valutazione espressa al momento della stipulazione del contratto di locazione di immobile adibito ad uso non abitativo, di assicurare al locatore un corrispettivo maggiore, in termini di valore reale e non nominalistica, rispetto a quello goduto in occasione di un precedente rapporto contrattuale (e cioè un aumento del canone in senso proprio); oppure di assicurare al locatore un corrispettivo crescente – sempre in termini di valore reale – durante l’arco di svolgimento dello stesso rapporto, sia prevedendo il pagamento di rate quantitativamente differenziate, sia prevedendo il frazionamento dell’intera durata del contratto in periodi temporali più brevi a ciascuno dei quali corrisponda un canone passibile di maggiorazione, in difetto dell’incidenza di elementi o di fatti (diversi dalla svalutazione monetaria) predeterminati e influenti, secondo la comune visione dei paciscenti, sull’equilibrio economico del sinallagma (ipotesi dicanone differenziato). È invero di agevole intuizione che il valore locativo dello stesso immobile urbano adibito ad uso commerciale possa – data la non breve e non riducibile durata legale minima del rapporto locatizio – subire variazione in dipendenza dello sviluppo urbano, della dotazione di maggiori servizi nella zona, della concentrazione di immobili destinabili ad uso concorrenziale, o di altri infiniti fattori estrinseci. Di essi non può essere interdetto ai contraenti di tenere il debito conto ai fini dell’accordo sul corrispettivo, nel senso di rendere compartecipe il locatore dell’incremento nel tempo della redditività da posizione dell’immobile locato, attraverso meccanismi o formule di accrescimento del valore reale del canone ancorati a parametri certi e determinati (non escluso quello rappresentato dal volume degli affari del commerciante conduttore). Controindicazioni a quanto ora affermato non possono essere desunte dall’art. 32; e ciò, non tanto perché nel testo originario di quella norma la previsione che il canone fosse dovuto secondo “misure” (al plurale) contrattualmente stabilite lasciasse sottintendere che le misure stesse fossero anche differenziate nel loro importo; quanto e soprattutto perché il principio generale e immanente della libera determinazione convenzionale del canone locatizio (per immobili destinati ad uso non abitativo) soffre, attraverso quella disposizione, di una deroga eccezionale limitatamente alla valenza delle clausole di aggiornamento per eventuali variazioni del potere di acquisto della moneta, o clausole Istat, la quale mai potrebbe essere estesa, per via di interpretazione analogica, al di fuori del predetto settore e con riferimento ad altre clausole contrattuali volte a incrementare – giusta la comune intenzione delle parti – il valore reale del corrispettivo per diverse e successive frazioni di durata del medesimo rapporto. Precisato ciò, non può peraltro essere elusa la considerazione che, ragionando in termini di realismo economico, un accrescimento del valore effettivo del corrispettivo mai potrebbe essere conseguito dal locatore se non previa depurazione dal suo importo monetario di una quota corrispondente alla compensazione del decremento, nel tempo, del potere di acquisto della moneta. Si pone pertanto, in sede di interpretazione del contratto, il problema di stabilire se mediante la formula adottata a determinazioni di canoni differenziati e crescenti per frazioni di tempo, le parti abbiano in realtà perseguito lo scopo di neutralizzare soltanto gli effetti negativi della svalutazione monetaria (con eventuale surrettizia elusione, sanzionabile ai sensi dell’art. 79, dei limiti quantitativi posti dall’art. 32 in esame) oppure abbiano di comune accordo inteso riconoscere al locatore, in misura dinamica, una maggiore fruttuosità in termini reali del ceduto godimento dell’immobile. Ma trattasi di problema di accertamento della volontà delle parti contraenti e dello scopo comune verso cui esse dirigono, affidato al potere discrezionale del giudice del merito e non sindacabile in sede di legittimità se non sotto il profilo dell’inadeguatezza della motivazione o della violazione delle regole di ermeneutica. 15.5. Questo essendo il piano della lineare argomentazione della Corte di cassazione (Sez. 3, Sentenza n. 6695 del 03/08/1987, cit.), la sentenza de qua trovò una corrispettiva segnalazione nella massimazione, da parte dell’Ufficio competente, del seguente principio di diritto (Rv. 454914): “Alla stregua del principio generale della libera determinazione convenzionale del canone locativo per gli immobili destinati ad uso non abitativo, deve ritenersi legittima la clausola in cui venga pattuita la determinazione del canone in misura differenziata e crescente per frazioni successive di tempo nell’arco del rapporto, ancorandola ad elementi predeterminati ed idonei ad influire sull’equilibrio economico del sinallagma contrattuale, del tutto indipendenti dalle variazioni annue del potere di acquisto della lira (nella specie, con riguardo alla locazione di un immobile ad uso di sala cinematografica, al costo unitario del biglietto d’ingresso ed al numero dei biglietti venduti annualmente), salvo che risulti – a seguito di un accertamento di fatto devoluto esclusivamente al giudice del merito ed insindacabile in sede di legittimità ove congruamente motivato – che le parti abbiano in realtà perseguito surrettiziamente lo scopo di neutralizzare soltanto gli effetti della svalutazione monetaria, eludendo i limiti quantitativi posti dall’art. 32 della legge n. 392 del 1978 (nella formulazione originaria ed in quella novel-lata dall’art. 1, comma nono – sexies, della legge n. 118 del 1985) ed incorrendo così nella sanzione di nullità prevista dal successivo art. 79, primo comma, della stessa legge”. 15.6. Converrà segnalare come il riferimento, risultante dalla massima appena trascritta, al c.d. ancoramento della pattuizione del canone ad “elementi predeterminati ed idonei ad influire sull’equilibrio economico del sinallagma contrattuale, del tutto indipendenti dalle variazioni annue del potere di acquisto della lira” sembrerebbe indurre (come, in effetti, ha talora indotto) una lettura del principio sancito dalla Corte nel senso che, in tanto la libertà di determinazione convenzionale del canone locativo per gli immobili destinati ad uso non abitativo potrà esprimersi nella previsione di un canone in misura differenziata e crescente per frazioni successive di tempo nell’arco del rapporto, in quanto le parti abbiano cura di ancorare la misura del canone “ad elementi predeterminati ed idonei ad influire sull’equilibrio economico del sinallagma contrattuale, del tutto indipendenti dalle variazioni annue del potere di acquisto della moneta” (salvo poi che non risulti che le parti “abbiano in realtà perseguito surrettiziamente lo scopo di neutralizzare soltanto gli effetti della svalutazione monetaria, eludendo i limiti quantitativi posti dall’art. 32 della legge n. 392 del 1978). In breve, assecondando questa (errata) lettura della massima, si arriverebbe alla conclusione secondo cui le parti di un contratto di locazione a uso diverso da abitazione, là dove vogliano liberamente determinare l’entità del canone in misure differenziate e crescenti per frazioni di tempo, avrebbero l’onere (anche in termini probatori) di allegare necessariamente l’avvenuto ancoramento degli aumenti del canone ai richiamati “elementi predeterminati ed idonei ad influire sull’equilibrio economico del sinallagma contrattuale, del tutto indipendenti dalle variazioni annue del potere di acquisto della moneta”. Tale preliminare condizionamento dell’autonomia contrattuale, tuttavia, non appare desumibile da nessuno dei passaggi argomentativi della sentenza richiamata, avendo la Corte viceversa affermato la piena e incondizionata libertà delle parti di assicurare al locatore un corrispettivo crescente – sempre in termini di valore reale – durante l’arco di svolgimento dello stesso rapporto, sia prevedendo il pagamento di rate quantitativamente differenziate, sia prevedendo il frazionamento dell’intera durata del contratto in periodi temporali più brevi a ciascuno dei quali corrisponda un canone passibile di maggiorazione; sia prevedendo l’ancoraggio del canone a elementi o di fatti (diversi dalla svalutazione monetaria) predeterminati e influenti, secondo la comune visione dei contraenti, sull’equilibrio economico del sinallagma (ipotesi di canone differenziato). In breve, secondo la Corte, là dove non emergano elementi o fatti (diversi dalla svalutazione monetaria) predeterminati e influenti, secondo la comune visione dei paciscenti, sull’equilibrio economico del sinallagma, tali da consentire l’ancoramento automatico ad essi della misura dell’aumento del canone al fine di mantenere costante l’equilibrio economico del sinallagma voluto dai contraenti (come peraltro accaduto nella fattispecie concretamente affrontata dalla Corte, là dove le parti avevano vincolato, la misura del canone di locazione di una sala cinematografica, al costo unitario del biglietto d’ingresso e al numero dei biglietti venduti annualmente), le parti conservano in ogni caso la libertà di assicurare al locatore un corrispettivo crescente – sempre in termini di valore reale – durante l’arco di svolgimento dello stesso rapporto, sia prevedendo il pagamento di rate quantitativamente differenziate, sia prevedendo il frazionamento dell’intera durata del contratto in periodi temporali più brevi a ciascuno dei quali corrisponda un canone passibile di maggiorazione; e ciò, salvo che le stesse parti non abbiano in realtà perseguito surrettiziamente lo scopo di neutralizzare soltanto gli effetti della svalutazione monetaria, eludendo i limiti quantitativi posti dall’art. 32 della legge n. 392 del 1978. Dunque, diversamente da quanto potrebbe equivocarsi dalla lettura della massima riportata (Rv. 454914), la Corte – lungi dall’imporre ai contraenti l’onere preliminare (anche in termini probatori) di allegare necessariamente l’avvenuto ancoramento degli aumenti del canone ai richiamati “elementi predeterminati e idonei” ad influire sull’equilibrio economico del sinallagma contrattuale, del tutto indipendenti dalle variazioni annue del potere di acquisto della moneta – ha piuttosto riaffermato il contrario principio della piena e incondizionata libertà delle parti di assicurare al locatore un corrispettivo crescente sempre in termini di valore reale – durante l’arco di svolgimento dello stesso rapporto (ciò che costituisce la regola); e ciò, salvo che le stesse parti non abbiano in realtà perseguito surrettiziamente lo scopo di neutralizzare soltanto gli effetti della svalutazione monetaria (ciò che costituisce l’eccezione): in tal caso, costituisce onere del conduttore (che invoca l’eventuale nullità del patto per violazione del combinato disposto degli artt. 32 e 75 della legge n. 392/78) allegare gli elementi, eventualmente desumibili dal testo del contratto o da elementi extratestuali, idonei a rivelare l’effettivo intento delle parti di eludere il divieto di cui agli artt. 32 e 75 citt.. In difetto di una simile allegazione – o della prova dell’intento elusivo delle parti – il patto di determinazione differenziata del canone per frazioni di tempo successive deve ritenersi comunque valido. 15.7. È appena il caso di rilevare come nessuna incidenza spiega, ai fini della risoluzione della questione in esame, l’analisi delle pronunce in forza delle quali “In tema di locazione di immobili adibiti ad uso diverso da abitazione, ogni pattuizione avente ad oggetto, non già l’aggiornamento del corrispettivo ai sensi dell’art. 32 della legge n. 392 del 1978, ma veri e propri aumenti del canone, deve ritenersi nulla ex art. 79, primo comma, della stessa legge, in quanto diretta ad attribuire al locatore un canone più elevato rispetto a quello previsto dalla norma, senza che il conduttore possa, neanche nel corso del rapporto, e non soltanto in sede di conclusione del contratto, rinunziare al proprio diritto di non corrispondere aumenti non dovuti. Il diritto del conduttore a non erogare somme eccedenti il canone legalmente dovuto (corrispondente a quello pattuito, maggiorato degli aumenti c.d. Istat, se previsti) sorge nel momento della conclusione del contratto, persiste durante l’intero corso del rapporto e può essere fatto valere, in virtù di espressa disposizione di legge, dopo la riconsegna dell’immobile, entro il termine di decadenza di sei mesi (Sez. 3, Sentenza n. 2932 del 07/02/2008, Rv. 601329, cit., cui corrispondono Sez. 3, Sentenza n. 24433 del 19/11/2009, Rv. 610334; Sez. 3, Sentenza n. 13826 del 09/06/2010, Rv. 613271, ma anche Sez. 3, Sentenza n. 2902 del 09/02/2007, Rv. 595536; Sez. 3, Sentenza n. 2961 del 07/02/2013, Rv. 625373; Sez. 3, Sentenza n. 8410 del 11/04/2006, Rv. 591347). In relazione a tali pronunce, converrà infatti tener conto della circostanza per cui i principi di diritto formulati risultano tratti da decisioni emesse in relazione a fattispecie concrete in cui si è trattato di “aumenti di canoni in senso proprio” (ossia di aumenti di canoni di locazione dello stesso immobile, in corso di rapporto, secondo contratti succedentesi nel tempo, anche per via di rinnovazione), e non già di iniziali “predeterminazioni differenziate” del canone (correlativamente a periodi compresi nella durata del medesimo rapporto contrattuale). In particolare, Sez. 3, Sentenza n. 2932 del 07/02/2008, Rv. 601329 – largamente richiamata in altri arresti successivi – evoca espressamente in motivazione il punto concernente l’avvenuto superamento della questione relativa alla liceità del patto di maggiorazione del canone convenuto – non già inizialmente, una volta per tutte (secondo l’ipotesi della predeterminazione differenziata per frazioni tempo), bensì – nel corso del rapporto (secondo l’ipotesi dell’aumento in senso proprio): aumento in senso proprio ritenuto legittimo da Sez. 3, Sentenza n. 11402 del 19/11/1993 (Rv. 484377) e in seguito illegittimo da Sez. 3, Sentenza n. 10286 del 27/07/2001 (Rv. 548558) che (consapevole del contrasto) incidentalmente sostiene la Irrinunciabilità’ del “diritto di non corrispondere aumenti non dovuti” nel corso del rapporto, come si desumerebbe dal principio della reclamabilità di quanto indebitamente corrisposto solo successivamente alla riconsegna dell’immobile. Ciò posto, trattandosi di fattispecie estranee a quella qui in esame (relativa, occorre ripetere, alla sola ipotesi della “predeterminazione differenziata” del canone per frazioni di tempo nell’arco del medesimo rapporto), le stesse appaiono tali da non incidere in alcun modo sul discorso che si conduce. 15.8. Questo collegio – nel ritenere che il riferimento (talora contenuto in talune decisioni della Corte di cassazione) al significato “condizionante” (in senso, per così dire, “sospensivo” del pieno esercizio della libertà contrattuale) dei c.d. “elementi predeterminati e idonei ad influire sull’equilibrio economico del sinallagma contrattuale, del tutto indipendenti dalle variazioni annue del potere di acquisto della moneta” sia da ascrivere a un’incongrua e impropria trasmissione della corretta e lineare ratio interpretativa originariamente fatta propria da Sez. 3, Sentenza n. 6695 del 03/08/1987 (come in precedenza descritta) all’insegnamento di tale ultimo arresto intende tornare a riferirsi, sì come lettura più corretta e coerente del testo legislativo oggetto d’esame; intendendo altresì allo stesso insegnamento assicurare continuità, attraverso l’affermazione dei seguenti principi di diritto: “Alla stregua del principio generale della libera determinazione convenzionale del canone locativo per gli immobili destinati ad uso non abitativo, deve ritenersi legittima la clausola in cui venga pattuita l’iniziale predeterminazione del canone in misura differenziata e crescente per frazioni successive di tempo nell’arco del rapporto; e ciò, sia mediante la previsione del pagamento di rate quantitativamente differenziate e predeterminate per ciascuna frazione di tempo; sia mediante il frazionamento dell’intera durata del contratto in periodi temporali più brevi a ciascuno dei quali corrisponda un canone passibile di maggiorazione; sia correlando l’entità del canone all’incidenza di elementi o di fatti (diversi dalla svalutazione monetaria) predeterminati e influenti, secondo la comune visione dei paciscenti, sull’equilibrio economico del sinallagma. La legittimità di tale clausola dev’essere peraltro esclusa là dove risulti – dal testo del contratto o da elementi extratestuali della cui allegazione deve ritenersi onerata la parte che invoca la nullità della clausola – che le parti abbiano in realtà perseguito surrettiziamente lo scopo di neutralizzare soltanto gli effetti della svalutazione monetaria, eludendo i limiti quantitativi posti dall’art. 32 della legge n. 392 del 1978 (nella formulazione originaria ed in quella novellata dall’art. 1, comma nono – sexies, della legge n. 118 del 1985), così incorrendo nella sanzione di nullità prevista dal successivo art. 79, primo comma, della stessa legge“. 15.9. Nel caso di specie, avendo la corte territoriale testualmente escluso il ricorso di alcuna volontà delle parti destinata a eludere i limiti normativamente imposti dall’art. 32 della legge n. 392/78 (in ogni caso né allegata, né comprovata dall’odierna società ricorrente), dev’essere altresì escluso il ricorso di alcuna violazione o falsa applicazione di norme di diritto da parte della stessa (tanto sul punto relativo alla validità del patto di “predeterminazione differenziata” del canone per frazioni di tempo nell’arco del medesimo rapporto, quanto in relazione alla corretta distribuzione degli oneri di allegazione probatoria tra le parti in conflitto circa eventuali finalità elusive delle stesse), così come il ricorso di alcun rilevante omesso esame di fatti decisivi controversi, con il conseguente rilievo della radicale infondatezza di ciascuno dei motivi d’impugnazione oggetto dell’odierna analisi. 16. L’unico motivo del ricorso incidentale è inammissibile. Osserva il collegio come, attraverso l’argomentazione critica articolata dal ricorrente incidentale, quest’ultimo si sia inammissibilmente spinto a prospettare la rinnovazione, in questa sede di legittimità, del riesame nel merito della vicenda oggetto di lite, precluso a questo giudice di legittimità. Deve qui, infatti, ribadirsi il principio secondo cui il ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità, non già il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (cfr., ex plurimis, Sez. 5, Sentenza n. 27197 del 16/12/2011, Rv. 620709). Nella specie, la Corte d’appello di Bologna ha espressamente sottolineato come il complesso degli elementi di prova acquisiti nel corso del giudizio avesse evidenziato il ricorso dei presupposti per il riconoscimento di una manifesta tolleranza del locatore rispetto ai molteplici ritardi in cui la società conduttrice era già ripetutamente incorsa nel corso del rapporto nel pagamento dei canoni di locazione: tolleranza di fatto ritenuta, dai giudici d’appello, idonea a giustificare la rinuncia del locatore ad avvalersi della clausola risolutiva espressa originariamente convenuta tra le parti, al punto da ingenerare l’obiettivo corrispondente convincimento della società debitrice, con la conseguente necessità di procedere alla valutazione nel merito dell’importanza dell’inadempimento della società debitrice (ai sensi dell’art. 1455 c.c.): importanza nella specie recisamente esclusa dalla corte territoriale, sulla base delle argomentazioni di merito diffusamente esposte nella motivazione della sentenza impugnata. Si tratta di considerazioni che il giudice d’appello ha elaborato nel pieno rispetto dei canoni di correttezza giuridica dell’interpretazione e di coerenza logico-formale dell’argomentazione, immuni da vizi d’indole logica o giuridica e, come tali, del tutto idonee a sottrarsi alle censure in questa sede illustrate dalla ricorrente; censure, peraltro, inammissibilmente inclini a dissentire rispetto all’interpretazione nel merito del rapporto intercorso tra le parti e non già all’eventuale erronea ricognizione del significato delle norme di legge – e dunque delle fattispecie astratte – asseritamente violate. 17. Le argomentazioni che precedono impongono la pronuncia del rigetto del ricorso principale e la dichiarazione d’inammissibilità del ricorso incidentale. La reciproca soccombenza delle parti giustifica l’integrale compensazione tra le stesse delle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso principale e dichiara inammissibile il ricorso incidentale. Dichiara integralmente compensate tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità. Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente principale e del ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale e per il ricorso incidentale, a norma dell’art. i-bis, dello stesso articolo 13.

 

Omesso versamento di ritenute previdenziali.La Cassazione conferma che la nuova soglia di punibilità non abroga il reato.

(Cassazione Penale, sez. III, n. 649/17; depositata il 9 gennaio)

“Deve ritenersi che il legislatore non abbia affatto inteso abrogare il reato di cui all’art. 2, comma 1 bis, legge n. 638 del 1983 ma, lasciandone immutata la condotta omissiva, abbia inteso introdurre la necessità del superamento di un importo di per sé significativo, anche in ragione della mutata realtà socio – economica, caratterizzata da maggiori difficoltà di liquidità e del contemperamento con le esigenze connesse al sistema previdenziale – pensionistico, dell’indice di necessaria offensività della condotta.”

 La sentenza riguarda il reato di omesso versamento di ritenute previdenziali  che il Legislatore, con il D. Lgs. n. 8 del 2016, ha riformato introducendo una soglia di punibilità..

Allo stato, l’omesso versamento di ritenute previdenziali integra il reato ove l’importo non versato sia superiore a Euro 10.000 annui. La riforma, dunque, non solo ha introdotto una soglia di punibilità, ma ha ricollegato tale superamento al periodo temporale dell’anno.

La diversa struttura del reato determina un diverso momento consumativo che incide sul calcolo del termine di prescrizione: mentre nel precedente assetto normativo il reato si consumava in corrispondenza di ogni omesso versamento mensile, nell’attuale struttura la consumazione appare coincidere, alternativamente, o con il superamento, a partire dal mese di gennaio, dell’importo di Euro 10.000, ove allo stesso non faccia più seguito alcuna ulteriore omissione, o con l’ulteriore o le ulteriori omissioni successive sempre riferite al medesimo anno ovvero, definitivamente e comunque, laddove anche il versamento del mese di dicembre sia omesso, con la data del 16 gennaio dell’anno successivo.

Ciononostante, con la sentenza in epigrafe la Suprema Corte di Cassazione ha chiarito che le modifiche  introdotte con il D. Lgs. n. 8 del 2016 non hanno determinato l’introduzione di una fattispecie di reato totalmente nuova e diversa rispetto a quella di cui al precedente assetto normativo.

La Corte giunge a tale conclusione osservando che la nuova formulazione mantiene inalterato il nucleo caratterizzante il reato, ovvero la condotta omissiva del mancato versamento di ritenute previdenziali.

Inoltre, i Giudici di legittimità osservano che a tale esito deve giungersi in ragione del mantenimento della stessa sanzione già originariamente prevista.

Dott. Matteo Gambarati (Studio Legale Orlandi)

 

Testo della sentenza

Cassazione penale sez. III 20/10/2016 n. 649

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

  SEZIONE TERZA PENALE

  Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:              Dott. DI NICOLA Vito           –  Presidente   –                    Dott. ROCCHI   Giacomo    –  rel. Consigliere  –                    Dott. LIBERATI Giovanni        –  Consigliere  –                    Dott. GAI       Emanuela        –  Consigliere  –                    Dott. SCARCELLA Alessio         –  Consigliere  –                    ha pronunciato la seguente:                                                                      SENTENZA

sul ricorso proposto da:

             M.F. nato il (OMISSIS); avverso la sentenza del 26/02/2016 della CORTE APPELLO di PALERMO; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita in PUBBLICA UDIENZA del 20/10/2016, la relazione svolta dal Consigliere GIACOMO ROCCHI; Udito il Procuratore Genera e in persona del PASQUALE FIMIANI, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.

Fatto RITENUTO IN FATTO

  1. Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte di appello di Palermo, in riforma di quella del Tribunale di Trapani emessa nei confronti di M.F. ed appellata dal Procuratore della Repubblica di Trapani, dichiarava non doversi procedere nei confronti dell’imputato per l’omesso versamento delle ritenute previdenziali operate nei mesi di gennaio e febbraio 2007 perchè reato estinto per prescrizione; assolveva l’imputato dallo stesso reato per l’omesso versamento relativo agli anni 2006 e 2008 perchè il fatto non è più previsto dalla legge come reato, disponendo la trasmissione degli atti all’I.N.P.S.; dichiarava l’imputato colpevole del reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali operate nel periodo da marzo a dicembre 2007 e lo condannava alla pena di mesi due di reclusione ed Euro 200,00 di multa.

La Corte osservava che il totale delle ritenute mensilmente non versate nel 2007 superava la somma di 10.000 Euro, cosicchè la condotta non poteva ritenersi depenalizzata; negava il decorso della prescrizione per il periodo marzo – dicembre 2007, ricordando che il reato si consuma il giorno 16 del mese successivo a quello della ritenuta, che il termine di prescrizione è sospeso durante i tre mesi successivi alla diffida e che, sia nel corso del giudizio di primo grado che in quello di appello, il termine era stato ulteriormente sospeso.

La Corte ricordava che la diffida INPS era stata notificata in carcere all’imputato unitamente all’avviso di conclusione delle indagini preliminari.

Venivano negate all’imputato le attenuanti generiche; la pena base veniva fissata, per il mese di giugno 2007, in mesi uno e giorni sei di reclusione ed Euro 120,00 di multa, con aumento di giorni sei di reclusione ed Euro 20 di multa per ciascuno dei reati relativi agli altri mesi in contestazione.

  1. Ricorre per cassazione il difensore di M.F., deducendo violazione dell’art. 157 c.p., e del D.L. n. 463 del 1983, art. 2, comma 1 bis.

La Corte territoriale avrebbe dovuto dichiarare prescritti anche gli omessi versamenti relativi ai mesi di marzo, aprile e maggio 2007 e, quindi, assolvere l’imputato per quelli dei mesi successivi, tenuto conto che il totale delle ritenute evase dal giugno al dicembre 2007 non superava la somma di 10.000 Euro.

Il ricorrente contesta che la prescrizione rimanga sospesa durante i tre mesi successivi alla diffida ed osserva che, con riferimento all’omesso versamento relativo al mese di marzo 2007, il decreto di citazione era stato emesso dopo il decorso del termine ordinario di prescrizione.

In un secondo motivo, il ricorrente deduce violazione di legge e vizio di motivazione.

La diffida da parte dell’I.N.P.S. non era stata notificata regolarmente all’imputato che, pertanto, non ne era venuto a conoscenza; la Corte aveva ritenuto superato il dato in conseguenza della notifica dell’avviso di cui all’art. 415 bis c.p.p.: ma non si trattava di atto equipollente.

Di conseguenza non era preclusa la facoltà di ricorrere alla causa di non punibilità prevista dall’art. 2, comma 1 bis cit..

In un terzo motivo il ricorrente deduce violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla mancata concessione delle attenuanti generiche e alla quantificazione della pena.

Diritto CONSIDERATO IN DIRITTO

  1. Il ricorso è infondato.

In primo luogo deve affermarsi che, a seguito della riforma della norma incriminatrice operata dal D.Lgs. n. 8 del 2016, la soglia di punibilità di riferimento è stabilita in Euro 10.000 Euro annui; ciò comporta che, anche se i reati relativi ad alcuni mesi sono estinti per prescrizione, per valutare la punibilità della condotta, occorre ugualmente avere riguardo alla somma delle ritenute non versate nel corso dell’intero anno (Sez. 3, n. 14729 del 09/02/2016 – dep. 11/04/2016, Ratti, Rv. 26663301).

In realtà, la riforma operata ha inciso in maniera rilevante sulla struttura del reato e, quindi, anche sulla data della consumazione e della conseguente decorrenza della prescrizione.

Stabilendo che l’omesso versamento delle ritenute previdenziali integra reato ove l’importo sia superiore a quello di 10.000 Euro annui, il legislatore non si è limitato semplicemente ad introdurre un limite di “non punibilità” delle condotte lasciando inalterato, per il resto, l’assetto della precedente figura normativa (che, come noto, nessun limite prevedeva), ma ha configurato tale superamento, strettamente collegato al periodo temporale dell’anno, quale vero e proprio elemento caratterizzante il disvalore di offensività che viene a segnare, tra l’altro, il momento consumativo dello stesso; in altri termini, il reato deve ritenersi già perfezionato, in prima battuta, nel momento e nel mese in cui l’importo non versato, calcolato a decorrere dalla mensilità di gennaio dell’anno considerato, superi l’importo di 10.000 Euro senza che, peraltro, attesa, come si è detto, la necessaria connessione con il periodo temporale dell’anno, le ulteriori omissioni che seguano nei mesi successivi dello stesso anno sino al mese finale di dicembre possano “aprire” un nuovo periodo e, dunque, dare luogo, in caso di secondo superamento, ad un ulteriore reato. Tali omissioni, infatti, contribuiscono ad accentuare la lesione inferta al bene giuridico per effetto del già verificatosi superamento dell’importo di legge sicchè, da un lato, non possono semplicemente atteggiarsi quale post factum penalmente irrilevante e, dall’altro, approfondendo il disvalore già emerso, non possono segnare, in corrispondenza di ogni ulteriore mensilità non versata, un ulteriore autonomo momento di disvalore (che sarebbe infatti assorbito da quello già in essere).

Ricorre, in realtà dunque, a ben vedere, alla stessa stregua di altre figure criminose (come, ad esempio, le fattispecie di corruzione o di usura: cfr. rispettivamente, per la prima, Sez. 6, n. 49226 del 25/09/2014, Chisso, Rv.261352; per la seconda, da ultimo, Sez. 2, n. 40380 del 11/06/2015, P.G., Tiesi in proc. Cardamone, Rv.264887), una fattispecie caratterizzata dalla progressione criminosa nel cui ambito, una volta superato il limite di legge, le ulteriori omissioni nel corso del medesimo anno si atteggiano a momenti esecutivi di un reato unitario a consumazione prolungata la cui definitiva cessazione viene a coincidere con la scadenza prevista dalla legge per il versamento dell’ultima mensilità, ovvero, come noto, con il termine del 16 del mese di gennaio dell’anno successivo.

Quanto sopra comporta dunque che, rispetto alla precedente figura di reato, il momento consumativo sia evidentemente diverso: mentre nel precedente assetto normativo il reato si consumava in corrispondenza di ogni omesso versamento mensile (cfr., da ultimo, Sez. 3, n. 26732 del 05/03/2015, P.G. in proc. Bongiorno, Rv. 264031), nell’attuale e nuovo la consumazione appare coincidere, secondo una triplice diversa alternativa, o con il superamento, a partire dal mese di gennaio, dell’importo di Euro 10.000 ove allo stesso non faccia più seguito alcuna ulteriore omissione, o con l’ulteriore o le ulteriori omissioni successive sempre riferite al medesimo anno ovvero, definitivamente e comunque, laddove anche il versamento del mese di dicembre sia omesso, con la data del 16 gennaio dell’anno successivo.

La struttura del “nuovo” reato come tratteggiata sopra, impone inoltre di tenere conto, al fine dell’individuazione o meno del superamento del limite di legge di 10.000 Euro, di tutte le omissioni verificatesi nel medesimo anno e, dunque, nella specie, anche di quelle eventualmente estinte per prescrizione: del resto, la mera declaratoria di estinzione del reato per ragioni connesse al decorso del tempo non può significare elisione della materiale sussistenza del fatto di omesso versamento.

La diversa strutturazione del reato comporta dunque che, con riferimento ai fatti pregressi, laddove l’omissione annuale non abbia superato l’importo di 10.000 Euro, debba applicarsi, in quanto norma sicuramente più favorevole, la nuova previsione normativa alla stregua dell’art. 2 c.p., comma 4, mentre, laddove l’importo sia stato superato, previgente norma e nuova norma debbano essere poste a confronto tra loro onde verificare quale delle due sia concretamente più favorevole con riferimento, in particolare, al momento consumativo determinante al fine di individuare la decorrenza del termine di prescrizione (tenuto conto peraltro, in entrambe le fattispecie, del periodo di sospensione di mesi tre di cui al D.L. n. 463 del 1983, art. 2, comma 1 quater, non inciso infatti dalle modifiche di cui sopra).

Nè le modifiche poste in essere dal D.Lgs. n. 8 del 2016, sono state di tale segno da avere comportato l’introduzione di una fattispecie di reato totalmente nuova e diversa rispetto a quella di cui al precedente assetto ed incompatibile rispetto a quest’ultima, con conseguente implicita abrogazione della stessa ex art. 15 preleggi, sì che dovrebbe, nella specie, farsi applicazione non già dell’art. 2 c.p., comma 4, bensì dell’art. 2 c.p., comma 2. In senso chiaramente ostativo rispetto a tale conclusione deve infatti essere evidenziato il mantenimento, in entrambe le figure, del medesimo nucleo caratterizzante il reato, ovvero la condotta omissiva del mancato versamento, rimasta chiaramente inalterata, senza che il mutamento del momento consumativo, inevitabilmente discendente, per quanto già spiegato, dalla diversa strutturazione quantitativo – temporale, possa condurre ad esiti diversi.

Nè può sottovalutarsi, nel senso concorrente alla conclusione qui esposta, il mantenimento della medesima sanzione già originariamente prevista.

In definitiva, per concludere sul punto, deve ritenersi che il legislatore non abbia affatto inteso abrogare il reato di cui alla L. n. 638 del 1983, art. 2, comma 1 bis, ma, lasciandone immutata la condotta omissiva, abbia inteso introdurre la necessità del superamento di un importo di per sè significativo, anche in ragione della mutata realtà socio – economica, caratterizzata da maggiori difficoltà di liquidità e del contemperamento con le esigenze connesse al sistema previdenziale – pensionistico, dell’indice di necessaria offensività della condotta.

  1. Nel caso in esame, l’importo delle ritenute non versate nell’anno 2007 è in ogni caso superiore a 10.000 Euro, dovendosi prescindere dalla declaratoria di prescrizione effettuata per i primi mesi dell’anno.

Sempre rimanendo al tema della prescrizione, il ricorrente sostiene che il termine di prescrizione non è sospeso nei tre mesi successivi alla diffida da parte dell’I.N.P.S.: ma tale sospensione è espressamente prevista dal D.L. n. 463 del 1983, art. 2, comma 1 quater, fin dalla riforma operata nel 1994; il testo è rimasto identico anche a seguito della ulteriore riforma operata dal D.Lgs. n. 8 del 2016.

Di conseguenza, il termine di prescrizione non era decorso nemmeno per il mese di marzo 2007 e con riferimento a tutte le mensilità per le quali la Corte territoriale ha confermato la condanna.

E’ errata anche la deduzione in ordine alla tardività della notifica del decreto di citazione a giudizio rispetto al decorso del termine di prescrizione ordinario di sei anni quanto all’omesso versamento relativo al mese di marzo 2007: in effetti, alla luce della diversa struttura del reato all’epoca vigente, il reato si era consumato il 16/4/2007, cosicchè il deposito del decreto di citazione a giudizio, avvenuto il 4/4/2013, era tempestivo (per di più dovendosi tenere conto anche dei tre mesi di sospensione successivi alla diffida di cui si è già trattato).

  1. Anche il secondo motivo di ricorso è infondato: infatti, la diffida dell’I.N.P.S. era stata notificata unitamente all’avviso di conclusione delle indagini preliminari a cura del P.M..

Non si tratta affatto, come sembra ritenere il ricorrente, di valutare se l’avviso ex art. 415 bis c.p.p., fosse atto equipollente alla diffida, perchè, appunto, il P.M., avvedutosi che la raccomandata dell’Istituto previdenziale non era andata a buon fine, aveva provveduto a notificarla fisicamente all’imputato detenuto.

Anche il terzo motivo di ricorso è infondato: la motivazione della sentenza è ampia e logica nel giustificare il diniego delle attenuanti generiche e la quantificazione della pena.

PQM P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 20 ottobre 2016.

Depositato in Cancelleria il 9 gennaio 2017

 

 

Societario. Può essere risolto il contratto di cessione di partecipazioni sociali in caso di carenze o vizi del patrimonio ?

Sentenza n. 19814/2015   R.G.  Trib.le di Roma

La sentenza che si annota consente di fare il punto su un aspetto di indubbio  interesse,  che riguarda la cessione di partecipazioni societarie ed in particolare il caso non infrequente dell’emersione di sopravvenienze passive successivamente alla definizione dell’accordo.

Premette, il Tribunale capitolino, che costituiscono patti accessori al contratto di cessione le clausole inserite dalle parti in un contratto di compravendita di partecipazioni sociali con le quali si garantisce una certa consistenza del patrimonio sociale della società, ovvero ci si assume la responsabilità circa le sopravvenienze e sopravvivenze passive.  In quanto tali riguardano esclusivamente le parti di quel negozio, e  l’originario acquirente è legittimato a far valere i diritti che ne discendono  anche ove  abbia successivamente alienato quelle quote a un soggetto terzo.

Riportandosi poi ad un orientamento ormai consolidato nella giurisprudenza, sia di legittimità che di merito, afferma che la consistenza patrimoniale della società nell’ambito della cessione di quote od azioni di quest’ultima rileva solo in presenza di una specifica garanzia assunta dal cedente.

In effetti la cessione delle azioni o delle quote di una società di capitali o di persone ha come oggetto immediato la partecipazione sociale, intesa come l’insieme dei diritti patrimoniali e amministrativi che qualificano lo status di socio, e come oggetto mediato la quota parte del patrimonio che, pertanto, rileva solo in presenza di una specifica garanzia assunta in tal senso dal cedente; in caso contrario, le eventuali carenze o vizi del patrimonio, riguardando il valore economico della società e la sfera delle valutazioni motivazionali, non possono giustificare la risoluzione del contratto di cessione.

Non è necessario che la garanzia, con la quale il cedente si assume la piena responsabilità circa le carenze e i vizi della consistenza patrimoniale della società,  sia qualificata come tale, ma è sufficiente che si evinca inequivocabilmente dal contratto.

Tra le clausole che possono essere previste e introdotte nel contratto di cessione di partecipazioni societarie, quelle di garanzia tendono a garantire l’acquirente da passività potenziali o da attività inesistenti o minori, riferibili alla situazione aziendale e imprenditoriale esistente al momento della cessione , mentre gli eventuali oneri e sopravvenienze future rientrano nell’ambito del normale rischio di impresa e non possono che gravare sul cessionario.

Nel contratto di cessione di partecipazioni societarie possono essere assunti due tipi di garanzie, l’una, relativa alla quota sociale oggetto del trasferimento (c.d. nomen verum), con la quale il cedente è tenuto a garantire che la partecipazione ceduta è di sua proprietà e che ne può liberamente disporre; l’altra, connessa alla situazione patrimoniale della società, con la quale il cedente assicura la consistenza e la capacità reddituale dell’impresa (c.d. nomen bonum).

 

Fideiussione, in taluni casi è possibile concedere nuovo credito al terzo senza l’autorizzazione del garante

Cassazione civile, sez. I, 02/03/2016,  n. 4112

Nella fattispecie la ricorrente, fideiussore del marito,  proponendo opposizione a decreto ingiuntivo, ha invocato l’art. 1956 cod. civ. per sottrarsi alle pretese della banca creditrice, ma la Corte d’Appello ha stabilito che la richiesta di autorizzazione ivi prevista doveva ritenersi nella specie irrilevante, tenuto conto che la moglie, stante il vincolo coniugale e di convivenza, era da considerare al corrente dell’aggravamento delle condizioni economiche del marito al punto da avere sostanzialmente assentito all’ulteriore credito.

La Corte di Cassazione ha confermato la correttezza di detta pronuncia. Diversamente da quanto eccepito nel ricorso, l’assenso del fideiussore, nel caso previsto dall’art. 1956 cod. civ., non impone la forma scritta, non potendosene affermare la configurazione in termini di accordo a latere del contratto bancario cui la fideiussione accede.

L’ipotesi contemplata dalla norma, che cioè il creditore, senza autorizzazione del fideiussore, abbia “fatto credito” al terzo pur sapendo che le condizioni patrimoniali di costui sono frattanto significativamente peggiorate, non è necessariamente equiparabile alla instaurazione di nuovi rapporti obbligatori tra il creditore e il terzo cui debba poi estendersi la garanzia per debiti futuri in precedenza prestata dal fideiussore.

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FORTE       Fabrizio                        –  Presidente   –

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria                     –  Consigliere  –

Dott. ACIERNO     Maria                           –  Consigliere  –

Dott. TERRUSI     Francesco                  –  rel. Consigliere  –

Dott. NAZZICONE   Loredana                        –  Consigliere  –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 4646-2011 proposto da:

D.R.G.  (C.F.  (OMISSIS)),   elettivamente

domiciliata in  ROMA, VIALE GORIZIA 14, presso  l’avvocato  SABATINI

FRANCO, rappresentata  e difesa dall’avvocato MARCHIONNE  LANFRANCO,

giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

U.C.M.B. – UNICREDIT MANAGEMENT CREDIT BANK, nuova denominazione  di

U.G.C. BANCA S.P.A., e per essa UNICREDIT CREDIT MANAGEMENT BANK,

Fatto

 SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

D.R.G. proponeva, in qualità di fideiussore e assieme al marito P.F., debitore principale, opposizione a un decreto ingiuntivo emesso dal presidente del tribunale di Pescara, su ricorso del Credito italiano s.p.a. (oggi Unicredit s.p.a.), per uno scoperto di conto corrente.

Eccepiva, per quanto in effetti ancora rileva, la propria liberazione dal vincolo, avendo la banca effettuato credito al garantito, senza autorizzazione di essa garante, per somme superiore all’affidamento, nonostante il mutamento delle condizioni patrimoniali del debitore.

L’opposizione veniva rigettata dall’adito tribunale, salvo il riconoscimento del diritto degli opponenti alla detrazione di una piccola somma.

L’appello della D.R. è stato a sua volta respinto dalla corte d’appello de L’Aquila, la quale, con sentenza in data 26-11-2010, ha ritenuto inammissibile per novità la deduzione relativa all’illegittimità della pretesa di pagamento di una somma superiore al limite massimo garantito e infondata la doglianza con la quale era stata invocata la liberazione del fideiussore per obbligazioni future ai sensi dell’art. 1956 cod. civ..

A tal proposito la corte ha in modo assorbente considerato che la mancata richiesta di autorizzazione da parte della banca non poteva configurare una violazione contrattuale liberatoria, in quanto la conoscenza delle condizioni economiche doveva ritenersi “comune” a creditore (rectius, debitore) e a garante, ovvero presunta in ragione del vincolo coniugale e dello stato di convivenza. Questi fatti – invero pacifici in causa costituivano, a dire della corte d’appello, elementi presuntivi di rilevante gravità, non superati da altri di segno contrario, in ordine “alla conoscenza da parte del fideiussore dell’aggravamento delle condizioni economiche del debitore e del suo sostanziale consenso all’ulteriore credito”.

Contro la sentenza citata la D.R. ha proposto ricorso per cassazione sulla base di due motivi.

Unicredit s.p.a. ha resistito con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

  1. – Col primo mezzo la ricorrente deduce la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ.per avere la corte d’appello erroneamente affermato la novità e di conseguenza l’inammissibilità di un profilo di censura, circa la pretesa di somme superiori al limite della garanzia, in verità mai prospettato.

Col secondo mezzo la ricorrente deduce la violazione dell’art. 1956 cod. civ., della L. n. 385 del 1993, art. 117 e dell’art. 2697 cod. civ. per avere la corte d’appello errato quanto al profilo afferente l’estinzione della fideiussione.

La tesi esposta nel secondo motivo è che, diversamente da quanto sostenuto in sentenza, la speciale autorizzazione di cui all’art. 1956 cod. civ. imponeva la forma scritta, tenendo conto del sistema garantista e documentale attualmente in vigore per i contratti bancari e del fatto che detta autorizzazione riveste la qualifica di vero e proprio contratto in appendice alla fideiussione.

La ricorrente censura inoltre la decisione di merito nella parte in cui ha ritenuto che la conoscenza del garante circa l’aggravamento delle condizioni economiche del debitore avesse di per sè integrato l’autorizzazione citata, mentre la norma richiede che debba essere provata appunto la concessione dell’autorizzazione e non la conoscenza dello stato di aggravamento delle condizioni economiche dell’obbligato principale. In sostanza, ove anche fosse stata provata, nella fideiubente, la conoscenza dell’aggravamento, ella avrebbe potuto pur sempre negare l’autorizzazione per le future obbligazioni, e dunque in tal senso avrebbe dovuto essere comunque sollecitata a esprimersi dal creditore secondo il disposto di legge.

Sul piano logico-giuridico, poi, non poteva secondo la ricorrente giustificarsi la duplice affermazione della corte d’appello circa la presunzione di conoscenza della moglie in ordine alle condizioni economiche del marito e al conseguente consenso tacito alla concessione di ulteriore credito: dal primo punto di vista, si sarebbe stati dinanzi a una presunzione tutt’altro che grave precisa e concordante; dal secondo, a una illazione non poggiante su alcuna presunzione, stante che questa avrebbe dovuto riguardare un fatto positivo (l’autorizzazione) di cui nessuna dimostrazione era stata data.

  1. – Il ricorso è infondato in relazione al secondo motivo, il cui esame si palesa assorbente di ogni questione.
  2. – La ricorrente, fideiussore del marito, ha invocato l’art. 1956 cod. civ.per sottrarsi alle pretese della banca creditrice, ma la corte d’appello ha stabilito che la richiesta di autorizzazione ivi prevista doveva ritenersi nella specie irrilevante, tenuto conto che la moglie, stante il vincolo coniugale e di convivenza, era da considerare al corrente dell’aggravamento delle condizioni economiche del marito al punto da avere sostanzialmente assentito all’ulteriore credito.

Diversamente da quanto eccepito nel ricorso, l’assenso del fideiussore, nel caso previsto dall’art. 1956 cod. civ., non impone la forma scritta, non potendosene affermare la configurazione in termini di accordo a latere del contratto bancario cui la fideiussione accede. L’ipotesi contemplata dalla norma, che cioè il creditore, senza autorizzazione del fideiussore, abbia “fatto credito” al terzo pur sapendo che le condizioni patrimoniali di costui sono frattanto significativamente peggiorate, non è necessariamente equiparabile alla instaurazione di nuovi rapporti obbligatori tra il creditore e il terzo cui debba poi estendersi la garanzia per debiti futuri in precedenza prestata dal fideiussore.

Essa comprende anche la semplice modalità di gestione di un rapporto obbligatorio già instaurato col terzo, coperto dalla garanzia fideiussoria, e dunque non implica affatto un nuovo contratto nè tra la banca e il debitore, nè tra la banca e il terzo fideiussore.

La norma costituisce molto più semplicemente un’applicazione del principio di buona fede nell’esecuzione dei contratti (v. per tutte Sez. 1, n. 394-06) e perciò onera il creditore di un comportamento coerente col rispetto di tale principio nella gestione del rapporto debitorio, tale da non ledere ingiustificatamente l’interesse del fideiussore.

  1. – Questa corte ha peraltro da tempo chiarito che vi possono essere casi in cui la richiesta di speciale autorizzazione di cui all’art. 1956 cod. civ.non è necessaria perchè l’autorizzazione può essere ritenuta implicitamente o tacitamente concessa dal fideiussore. Il che è esattamente coerente col fatto che per l’autorizzazione, appunto, non è richiesta la forma scritta ad substantiam.

In guisa di simile principio è stato così affermato che i presupposti applicativi dell’art. 1956 cod. civ. non ricorrono quando, per esempio, in una stessa persona coesistono le qualità di fideiussore e di legale rappresentante della società debitrice, visto che la richiesta di credito, in tali casi, proviene sostanzialmente dalla persona fisica che somma la posizione di garante (v. Sez. 3, n. 7587-01, Sez. 1 n. 3761-06), donde la conoscenza della difficoltà economica del debitore devesi ritenere quanto meno comune.

Al di là di questa formula, sulla quale insiste la corte d’appello e che, invece, la ricorrente contesta in rapporto al distinto caso in cui il fideiussore sia il coniuge dell’obbligato, vi è che la ratio dell’insegnamento sta in ciò: che non è necessaria la richiesta di autorizzazione laddove possa ritenersi che vi sia già perfetta conoscenza, in capo al fideiussore, della situazione patrimoniale del debitore garantito.

Questo perchè tale perfetta conoscenza può essere considerata valida base di una presunzione di connessa autorizzazione tacita alla concessione del credito, desunta dalla possibilità di attivarsi mediante l’anticipata revoca della fideiussione per non aggravare i rischi assunti.

  1. – La corte d’appello non ha infranto i principi evocati, avendo appunto affermato, con apprezzamento di fatto non censurato sotto il profilo del vizio di motivazione, e dunque insindacabile in questa sede, che il consenso (id est, l’autorizzazione) del fideiussore, essendo questi coniuge convivente del debitore, al corrente della di lui aggravata condizione economica, dovevasi considerare in effetti sostanzialmente acquisito.

Se è vero che, in ipotesi di concessione del credito nonostante il deterioramento delle condizioni patrimoniali del debitore, la mancata richiesta di autorizzazione non può configurare una violazione contrattuale liberatoria se la conoscenza delle difficoltà economiche in cui versa il debitore principale può essere presunta comune al fideiussore, non è implausibile sostenere che tale sia anche, in relazione alle circostanze concrete, la condizione caratterizzante il coniuge dell’obbligato, ove sia desunta – come nella specie – dal legame tra debitore e fideiussore sorretto da vincoli stabili di comunione di vita e di interessi, tali da indurre a ritenere probabile – in mancanza di risultanze di segno contrario – sia la conoscenza sia il consenso del secondo.

Non si è in presenza, infatti, di una presunzione di secondo grado, notoriamente vietata, in quanto il fatto noto è costituito dalla stabile comunione di vita e di interessi tra fideiussore e debitore principale, cui segue la conoscenza del mutamento delle condizioni patrimoniali quale sintomo dell’autorizzazione tacita alla concessione del credito.

  1. – Tanto determina il rigetto del ricorso, assorbita rimanendo la questione prospettata nel primo motivo.

Le spese processuali seguono la soccombenza.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese processuali, che liquida in Euro 3.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori e rimborso forfetario di spese generali nella percentuale di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della prima sezione civile, il 20 gennaio 2016.

Depositato in Cancelleria il 2 marzo 2016