Locazioni commerciali. E’ valida la clausola che preveda l’iniziale predeterminazione del canone in misura differente e crescente?

Corte di Cassazione, Sezione 3 civile, Sentenza 10 novembre 2016, n. 22909

Alla stregua del principio generale della libera determinazione convenzionale del canone locativo per gli immobili destinati ad uso non abitativo, deve ritenersi legittima la clausola in cui venga pattuita l’iniziale predeterminazione del canone in misura differenziata e crescente per frazioni successive di tempo nell’arco del rapporto; e cio’, sia mediante la previsione del pagamento di rate quantitativamente differenziate e predeterminate per ciascuna frazione di tempo; sia mediante il frazionamento dell’intera durata del contratto in periodi temporali piu’ brevi a ciascuno dei quali corrisponda un canone passibile di maggiorazione; sia correlando l’entita’ del canone all’incidenza di elementi o di fatti (diversi dalla svalutazione monetaria) predeterminati e influenti, secondo la comune visione dei paciscenti, sull’equilibrio economico del sinallagma.

La legittimita’ di tale clausola dev’essere peraltro esclusa la’ dove risulti – dal testo del contratto o da elementi extratestuali della cui allegazione deve ritenersi onerata la parte che invoca la nullita’ della clausola – che le parti abbiano in realta’ perseguito surrettiziamente lo scopo di neutralizzare soltanto gli effetti della svalutazione monetaria, eludendo i limiti quantitativi posti dalla L. n. 392 del 1978, articolo 32, (nella formulazione originaria ed in quella novellata dalla L. n. 118 del 1985, articolo 1, comma 9 sexies), cosi’ incorrendo nella sanzione di nullita’ prevista dal successivo articolo 79, comma 1, della stessa legge”.

Nella specie, la Corte d’appello di Bologna ha espressamente sottolineato come il complesso degli elementi di prova acquisiti nel corso del giudizio avesse evidenziato il ricorso dei presupposti per il riconoscimento di una manifesta tolleranza del locatore rispetto ai molteplici ritardi in cui la società conduttrice era già ripetutamente incorsa nel corso del rapporto nel pagamento dei canoni di locazione: tolleranza di fatto ritenuta, dai giudici d’appello, idonea a giustificare la rinuncia del locatore ad avvalersi della clausola risolutiva espressa originariamente convenuta tra le parti, al punto da ingenerare l’obiettivo corrispondente convincimento della società debitrice, con la conseguente necessità di procedere alla valutazione nel merito dell’importanza dell’inadempimento della società debitrice (ai sensi dell’art. 1455 c.c.): importanza nella specie recisamente esclusa dalla corte territoriale, sulla base delle argomentazioni di merito diffusamente esposte nella motivazione della sentenza impugnata.

Testo della sentenza 

Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 22 settembre – 10 novembre 2016, n. 22909 Presidente Vivaldi – Relatore Dell’Utri

Svolgimento del processo

  1. F.F. ha convenuto la Eternedile s.p.a. dinanzi al Tribunale di Bologna per sentir convalidare lo sfratto per morosità in relazione a un contratto di locazione ad uso diverso di abitazione intercorso tra le parti. Costituitasi, la società intimata, dopo aver sanato integralmente la morosità contestatale, ha invocato in via riconvenzionale la condanna del locatore alla restituzione, in proprio favore, delle somme versate in eccesso a titolo di canoni, tenuto conto della nullità della previsione contrattuale riferita a un ammontare crescente nel tempo del canone, in violazione dell’art. 75 della legge n. 392/78 e, in ogni caso, in relazione alle modalità di rinnovazione automatica del rapporto. 2. Il Tribunale di Bologna ha rigettato la domanda di risoluzione contrattuale per inadempimento della società conduttrice e, in accoglimento della domanda riconvenzionale di quest’ultima, ha condannato il locatore alla restituzione delle somme percepite in eccesso a titolo di canoni. 3. Su impugnazione di entrambe le parti, con sentenza in data 4/4/2014, in riforma della sentenza di primo grado, la Corte d’appello di Bologna, ritenuta la validità della clausola di determinazione del canone di locazione, ha disatteso la domanda riconvenzionale proposta dalla società conduttrice, contestualmente rigettando la domanda di risoluzione proposta dal locatore, in considerazione dell’avvenuta rinuncia del locatore ad avvalersi della clausola risolutiva espressa e del carattere non grave del ritardo nel pagamento dei canoni della parte della conduttrice. 4. Avverso la sentenza d’appello, ha proposto ricorso per cassazione la Eternedile s.p.a. sulla base di sei motivi di impugnazione, illustrati da successiva memoria. 5. F.F. ha depositato controricorso invocando la dichiarazione d’inammissibilità ovvero il rigetto del ricorso principale, contestualmente proponendo ricorso incidentale sulla base di un unico motivo di impugnazione. 6. Ha depositato controricorso a ricorso incidentale la Eternedile s.p.a. concludendo per la dichiarazione di inammissibilità, ovvero per il rigetto del ricorso incidentale.

Motivi della decisione

  1. Con il primo motivo del ricorso principale, la Eternedile s.p.a. censura la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione degli artt. 32 e 79 della legge n. 392/78, dell’art. 8 prel. e degli artt. 1374 e 2729 c.c.. Al riguardo, la ricorrente sottolinea come la corte territoriale abbia erroneamente ritenuto di escludere l’invalidità della clausola di determinazione del canone sulla base di argomentazioni tautologiche e del tutto congetturali, non avendo le parti provveduto ad alcun riferimento a elementi predeterminati cui vincolare il progressivo aumento del relativo ammontare nel tempo. 8. Con il secondo motivo, la società ricorrente si duole della violazione di legge (in relazione agli arti. 132, 112, 113, 115, 116 e 161 c.p.c. e 111 Cost.) in cui sarebbe incorsa la corte territoriale, per avere quest’ultima affermato la riconducibilità dell’accordo contrattuale raggiunto tra le parti alla previsione di elementi predeterminati al fine di determinare l’entità del canone di locazione, senza tuttavia aver individuato in concreto l’identità di detti elementi. 9. Con il terzo motivo, la società ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione degli artt. 28, 29, 32 e 79 della legge n. 392/78, nonché degli artt. 1367, 1372, 1597 e 2729 c.c.. Sul punto, la società ricorrente evidenzia come la corte territoriale abbia erroneamente escluso, nei casi di rinnovo automatico del rapporto, la persistenza delle medesime condizioni contrattuali originariamente stipulate dalle parti, escludendo arbitrariamente la prevista minore entità dei canoni di locazione stabilita per il primo triennio, sulla base di considerazioni interpretative totalmente illogiche, trascurando la decisiva circostanza in forza della quale le parti ebbero a determinare un importo globale del canone di locazione per l’intera durata sessennale del rapporto, sia pur diversamente ripartito nel tempo, come peraltro espressamente riconosciuto anche dalla controparte. 10. Con il quarto motivo, la società ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 113, 115 e 434 c.p.c. in relazione all’art. 36o n. 4 c.p.c.. Sul punto, la società ricorrente evidenzia come la corte territoriale abbia illegittimamente introdotto nella motivazione indicata a sostegno del rigetto della domanda riconvenzionale della conduttrice un’argomentazione mai invocata da controparte, con particolare riguardo alla cosiddetta “pratica invalsa” nell’ambito dei rapporti locativi circa le modalità di determinazione del canone. il. Con il quinto motivo, la ricorrente si duole della violazione di legge (in relazione agli artt. 132, 112, 113, 115, 116 e 161 c.p.c., nonché dell’art. in Cost., in relazione all’art. 36o n. 4 c.p.c.) in cui sarebbe incorsa la corte territoriale, per avere quest’ultima richiamato a fondamento della propria decisione una pretesa “pratica invalsa” e un imprecisato “orientamento consolidato” nell’ambito dei rapporti locativi, in modo del tutto apodittico e arbitrario, siccome del tutto avulso dai termini concreti della controversia in esame. 12. Con il sesto e ultimo motivo, la società ricorrente censura la sentenza impugnata per omesso esame di un fatto decisivo controverso tra le parti, avendo la corte territoriale trascurato di esaminare il fatto storico relativo alla sussistenza o meno, nel caso di specie, di elementi predeterminati idonei a influire sul sinallagma contrattuale e a giustificare la fissazione di canoni differenziati in aumento nel tempo, senza incorrere in alcuna violazione degli artt. 32 e 79 della legge n. 392/78. 13. Con l’unico motivo di ricorso incidentale, F.F. censura la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione degli artt. 1322, 1362, 1363 e 1456 c.c., per avere la corte territoriale omesso di pronunciare la risoluzione del contratto di locazione intercorso tra le parti, nonostante all’atto dell’intimazione di sfratto per morosità la società conduttrice fosse effettivamente in ritardo nel pagamento di tre mensilità di canone, in tal senso trascurando il tenore della clausola risolutiva espressa pattuita tra le parti e conferendo, viceversa, un decisivo rilievo alla tolleranza del locatore, di per sé inidonea a integrare una tacita rinuncia dello stesso ad avvalersi di detta clausola. 14. Il terzo motivo del ricorso principale è inammissibile. Con riguardo al motivo in esame – espressamente dedotto dalla società ricorrente nella forma della denunzia di violazione di legge -, ritiene il collegio opportuno ribadire – in conformità al costante insegnamento della giurisprudenza di legittimità – come, in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consista nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge, implicando necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione. Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (cfr., ex plurimis, Sez. L, Sentenza n. 7394 del 26/03/2010, Rv. 612745; Sez. 5, Sentenza n. 26110 del 30/12/2015, Rv. 638171). Nel caso di specie, al di là del formale richiamo, contenuto nell’epigrafe del motivo d’impugnazione in esame, al vizio di violazione e falsa applicazione di legge, l’ubi consistamdelle censure sollevate dall’odierna società ricorrente deve piuttosto individuarsi nella contestata correttezza dell’interpretazione fornita dal giudice d’appello in ordine alla volontà delle parti di prevedere – non già un unico e onnicomprensivo canone globale sessennale da ripartire diversamente negli anni – bensì un canone iniziale ridotto (al fine di favorire l’avvio in loco dell’impresa della conduttrice) destinato ad attestarsi nella misura definitiva successivamente al primo triennio di rapporto e a permanere nella medesima misura definitiva sin dall’inizio della rinnovazione automatica del rapporto alla prima scadenza e a quelle successive. Si tratta, come appare manifesto, di argomentazioni critiche con evidenza dirette a censurare, non già un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge (come accade per il classico caso della violazione di legge), bensì una (tipica) erronea ricognizione della fattispecie concreta, di necessità mediata dalla contestata valutazione delle risultanze documentali di causa; e pertanto di una tipica censura diretta a denunciare il vizio di motivazione in cui sarebbe incorso il provvedimento impugnato nel travisare l’obiettivo (secondo la società ricorrente) contenuto rappresentativo proprio di fonti probatorie dedotte (nella specie, del testo contrattuale concordato tra le parti) al fine di ricostruire l’esatta volontà contrattuale delle parti. Ciò posto, in ossequio al consolidato insegnamento della giurisprudenza di legittimità, il motivo d’impugnazione così formulato deve ritenersi inammissibile. Osserva infatti il collegio come – dovendo il vizio di violazione o falsa applicazione di norme di diritto risolversi in un giudizio sulla fattispecie astratta contemplata dalla norma di diritto applicabile al caso concreto, e dovendo la relativa denunzia avvenire mediante la specifica indicazione dei punti della sentenza impugnata che si assumono essere in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza e/o dalla dottrina prevalente – deve considerarsi inammissibile il ricorso per cassazione con il quale si censura come violazione di norma di diritto, e non come vizio di motivazione, un errore in cui si assume che sia incorso il giudice di merito nella ricostruzione di un fatto giuridicamente rilevante, sul quale la sentenza doveva pronunciarsi (Sez. 3, Sentenza n. 10385 del 18/10/2005, Rv 581564; Sez. 5, Sentenza n. 9185 del 21/04/2011, Rv. 616892). 15. Il primo, il secondo, il quarto, il quinto e il sesto motivo del ricorso principale – congiuntamente esaminabili in ragione dell’intima connessione delle questioni dedotte – devono ritenersi integralmente privi di fondamento, siccome tutti argomentati sul presupposto di un’errata interpretazione delle norme applicabili al caso di specie, secondo quanto di seguito precisato. Con riguardo al tema della legittimità del patto di predeterminazione differenziata del canone di locazione di immobili urbani ad uso diverso di abitazione, ritiene il collegio opportuno procedere a una rapida ricapitolazione della questione, al fine di comporre in termini univoci, anche sul piano terminologico, gli orientamenti interpretativi della Corte di cassazione, succedutisi nel tempo in forme o termini che appaiono non sempre informati a criteri di reciproca e rigorosa coerenza. 15.1. Secondo un’argomentazione sovente richiamata a proposito del patto di determinazione differenziata nel tempo del canone di una locazione commerciale, la nullità di tale patto discenderebbe dal combinato disposto degli artt. 32 e 79 della legge n. 392/78, dovendo ritenersi che, ove le parti non abbiano vincolato detta determinazione differenziata al ricorso di elementi oggettivi e predeterminati, idonei a influire sull’equilibrio economico degli interessi contrattualmente disposti, tale patto non possa che esprimere una sostanziale volontà elusiva del divieto stabilito dall’art. 32 cit., ai sensi del quale l’aggiornamento periodico del canone di una locazione commerciale non può avere luogo in termini quantitativamente superiori al 75% dell’indice dei prezzi al consumo calcolato dall’Istat per le famiglie di operai e impiegati per ciascuna annualità di rapporto. Tale impostazione sembrerebbe trovare riscontro nel vigore di principi fatti propri da diversi arresti della giurisprudenza di legittimità, testualmente tramandatisi attraverso la formula secondo la quale: “In relazione al principio della libera determinazione convenzionale del canone locativo in materia di locazione di immobili destinati ad uso non abitativo, la clausola convenzionale, che prevede future maggiorazioni del canone diverse dall’aggiornamento ex art. 32 della legge n. 392 del 1978, per qualificarsi legittima, deve chiaramente riferirsi ad elementi predeterminati, desumibili dal contratto e tali da essere idonei ad influire sull’equilibrio economico del rapporto, in modo autonomo dalle variazioni annue del potere di acquisto della moneta” (Sez. 3, Sentenza n. 19475 del 06/10/2005, Rv. 584778). Una medesima enunciazione del principio di diritto caratterizza pronunce di analogo tenore (Sez. 3, Sentenza n. 1070 del 01/02/2000, Rv. 533312; Sez. 3, Sentenza n. 9227 del 12/07/2000, Rv. 538386; Sez. 3, Sentenza n. 11320 del 21/07/2003, Rv. 565302), e appare talora equivalente (o in larga misura assimilabile) ad altre formulazioni desumibili dalle sentenze rese da Sez. 3, Sentenza n. 2770 del 08/03/1993, Rv. 481314; Sez. 3, Sentenza n. 4474 del 15/04/1993, Rv. 481851; Sez. 3, Sentenza n. 9878 del 22/11/1994, Rv. 488760; Sez. 3, Sentenza n. 5632 del 24/06/1997, Rv. 505418; Sez. 3, Sentenza n. 6695 del 03/08/1987, Rv. 454914; Sez. 3, Sentenza n. 5349 del 05/03/2009, Rv. 606954; Sez. 3, Sentenza n. 19475 del 06/10/2005, Rv. 584778; Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 10834 del 17/05/2011, Rv. 618213; Sez. 3, Sentenza n. 17061 del 28/07/2014, Rv. 632144. 15.2. In termini che appaiono alludere a una diversa impostazione, altre pronunce argomentano la legittimità del patto di determinazione differenziata nel tempo del canone di una locazione commerciale richiamandosi al principio secondo il quale “Il riferimento, contenuto nell’originaria formulazione dell’art. 32 della legge 27 luglio 1978 n. 392, alla possibilità che il canone locativo degli immobili destinati per uso non abitativo sia concordato secondo misure contrattualmente stabilite e, quindi, differenziate nel loro importo, è espressione del principio generale della libera determinazione convenzionale del canone locativo degli immobili destinati ad uso non abitativo, al quale la stessa norma deroga eccezionalmente solo per le clausole di aggiornamento per variazioni del potere di acquisto della moneta, o clausole Istat, con una disposizione che non può essere estesa, per analogia, alle altre clausole contrattuali volte ad incrementare, secondo la comune intenzione delle parti, il valore reale del corrispettivo per diverse e successive frazioni del medesimo rapporto e che debbono, pertanto, ritenersi valide a meno che non sia in concreto accertata la loro funzione elusiva del citato limite posto dall’art. 32 (Sez. 3, Sentenza n. 8883 del 19/08/1991, Rv. 473538). A tale formulazione appaiono riconducibili, tra le altre, le massime ricavabili da Sez. 3, Sentenza n. 1683 del 26/02/1999, Rv. 523684; Sez. 3, Sentenza n. 6246 del 25/05/1992, Rv. 477371. 15.3. La sostanza della divergenza tra gli orientamenti ricordati (che si riflette, in termini pratici, sul piano della disciplina degli oneri probatori e delle conseguenze processuali del relativo mancato assolvimento) sembra emergere in relazione al ruolo rivestito dal richiamo, operato dalle parti, al ricorso di elementi obiettivi e predeterminati, diversi e autonomi dalla svalutazione monetaria, idonei a influire sull’equilibrio economico del piano contrattuale; da un lato assumendo, detto richiamo (ove naturalmente corrispondente a un effettivo dato di realtà), la veste di una condizione preliminare al cui soddisfacimento parrebbe subordinato il libero dispiegamento della libertà contrattuale delle parti; dall’altro limitandosi, il significato di detti elementi, a costituire semplici indici strumentali (di per sé non esclusivi) per la determinazione obiettiva, al momento della conclusione del contratto, dell’entità esatta degli oneri economici corrispettivi connessi al godimento dell’immobile locato. 15.4. Così posti i termini della questione, nel ricostruire l’evoluzione dinamica della giurisprudenza di legittimità sul punto, individuandone le presumibili occasioni d’origine, converrà osservare come, questa Corte, già in epoca di poco successiva all’approvazione della legge sulle locazioni di immobili urbani (legge n. 392/78), con la sentenza Sez. 3, Sentenza n. 6695 del 03/08/1987 ebbe a puntualizzare, sul piano interpretativo, la necessità di non disperdere il significato dei diversi termini (selezionati, dal legislatore del tempo, con preciso rigore) destinati a contrassegnare le differenti ragioni potenzialmente suscettibili di influire, nel corso del rapporto, sull’entità monetaria del canone di locazione. Da questo punto di vista – segnalava già al tempo la riflessione del giudice di legittimità -, deve ritenersi radicalmente inammissibile una confusione tra i concetti di “aumento” del canone (di locazione dello stesso immobile secondo contratti succedentesi nel tempo, anche per via di rinnovazione); di “determinazione differenziata” del canone (correlativamente a periodi compresi nella durata del medesimo rapporto contrattuale) e di “aggiornamento” del canone (in dipendenza della perdita del potere di acquisto della moneta verificatasi durante la pendenza del medesimo rapporto contrattuale). Sotto il profilo storico – invitava a rilevare la Corte di legittimità – giova ricordare che la larga diffusione assunta, nella pratica del commercio delle locazioni in tempi di crescente inflazione, dalle clausole di adeguamento dei canoni (così dette clausole Istat), costrinse il legislatore a occuparsene a salvaguardia del regime di blocco dei canoni stessi, allora vigente (cfr. art. 1 del d.l. 24/7/1973 n. 426). Ma già con riferimento alla legislazione vincolistica, la giurisprudenza di questa Corte non mancò di segnalare la non confondibilità – concettuale e di regolamento normativo – tra clausole di adeguamento Istat e patti di aumento del canone: in quanto “l’aumentò implica un accrescimento non solo dell’espressione monetaria ma anche del valore reale del corrispettivo, dovuto dal conduttore, mentre l’adeguamento” importa soltanto una variazione della quantità monetaria, fermo rimanendo il suo valore effettivo (cfr. tra le altre Cass. n. 6574 e n. 4958 del 1979 e, segnatamente, Cass. n. 2758 del 1976). Successivamente, introdotta con la legge n. 392 del 1978 la predeterminazione legale del livello massimo del canone di locazione per gli immobili adibiti ad uso abitativo, secondo parametri oggettivi, rimase viva l’esigenza di salvaguardare l’equilibrio economico effettivo tra prestazione e controprestazione a fronte nella sopravvenienza, in pendenza del rapporto a durata vincolata, di elementi influenti su detto equilibrio, e si ebbe cura di distinguere “l’aggiornamento” (art. 24) da l’”adeguamento” del canone (art. 25) a seconda che il mutamento avesse inciso sul potere di acquisto della moneta, e cioè sul valore reale della prestazione del conduttore, oppure su parametri e coefficienti correttivi ex art. 13 e 15, e cioè sul valore reale della prestazione del locatore. In materia di locazione di immobili adibiti ad uso diverso da quello di abitazione, meno pressante si profila l’esigenza di disciplinare “l’aggiornamento” del canone – vale a dire la validità o meno delle c.d. clausole Istat – una volta rimessa all’incontro della libera volontà delle parti, secondo le leggi di mercato, la determinazione convenzionale del canone. Ma sia per amore di simmetria, sia in considerazione dei problemi connaturati alla notevole durata del rapporto locatizio, venne introdotto l’art. 32 – poi sostituito dall’art. 1, co. nove sexies, della legge n. 118 del 1985, di portata assai più liberale. Quale che fosse il grado della sua pratica realizzabilità, la finalità perseguita dalla citata norma, nell’originaria e nella novellata formulazione, sembra potersi individuare in quella di dissuadere i contraenti da una spesso arbitraria previsione a lungo termine circa la flessione del potere di acquisto della moneta nell’arco dell’intera durata del rapporto, neutralizzandone in partenza gli effetti futuri attraverso una lievitazione del livello del corrispettivo preteso per concedere il godimento dell’immobile (ma così anticipando all’attualità l’incidenza negativa sul costo medio della vita di un evento temuto quale l’inflazione nel futuro); dissuasione suggerita concedendo alle parti di convenire (contestualmente alla stipulazione del contratto o successivamente) la variazione del canone secondo una percentuale ancorata all’indice Istat dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati. Si resta comunque e sempre nel campo del vero e proprio “aggiornamento” del canone che, con costante precisione terminologica, il legislatore utilizza per individuare il fenomeno del mantenimento (almeno tendenziale) del valore reale della prestazione del conduttore – incidente sull’equilibrio del sinallagma nonostante la variabilità della sua espressione monetaria in dipendenza della flessione nel tempo del potere di acquisto della lira. Questa revisione riequilibratrice, e i limiti della sua operatività, nulla hanno a vedere con il diverso campo dell’incondizionata facoltà per le parti, secondo la loro libera valutazione espressa al momento della stipulazione del contratto di locazione di immobile adibito ad uso non abitativo, di assicurare al locatore un corrispettivo maggiore, in termini di valore reale e non nominalistica, rispetto a quello goduto in occasione di un precedente rapporto contrattuale (e cioè un aumento del canone in senso proprio); oppure di assicurare al locatore un corrispettivo crescente – sempre in termini di valore reale – durante l’arco di svolgimento dello stesso rapporto, sia prevedendo il pagamento di rate quantitativamente differenziate, sia prevedendo il frazionamento dell’intera durata del contratto in periodi temporali più brevi a ciascuno dei quali corrisponda un canone passibile di maggiorazione, in difetto dell’incidenza di elementi o di fatti (diversi dalla svalutazione monetaria) predeterminati e influenti, secondo la comune visione dei paciscenti, sull’equilibrio economico del sinallagma (ipotesi dicanone differenziato). È invero di agevole intuizione che il valore locativo dello stesso immobile urbano adibito ad uso commerciale possa – data la non breve e non riducibile durata legale minima del rapporto locatizio – subire variazione in dipendenza dello sviluppo urbano, della dotazione di maggiori servizi nella zona, della concentrazione di immobili destinabili ad uso concorrenziale, o di altri infiniti fattori estrinseci. Di essi non può essere interdetto ai contraenti di tenere il debito conto ai fini dell’accordo sul corrispettivo, nel senso di rendere compartecipe il locatore dell’incremento nel tempo della redditività da posizione dell’immobile locato, attraverso meccanismi o formule di accrescimento del valore reale del canone ancorati a parametri certi e determinati (non escluso quello rappresentato dal volume degli affari del commerciante conduttore). Controindicazioni a quanto ora affermato non possono essere desunte dall’art. 32; e ciò, non tanto perché nel testo originario di quella norma la previsione che il canone fosse dovuto secondo “misure” (al plurale) contrattualmente stabilite lasciasse sottintendere che le misure stesse fossero anche differenziate nel loro importo; quanto e soprattutto perché il principio generale e immanente della libera determinazione convenzionale del canone locatizio (per immobili destinati ad uso non abitativo) soffre, attraverso quella disposizione, di una deroga eccezionale limitatamente alla valenza delle clausole di aggiornamento per eventuali variazioni del potere di acquisto della moneta, o clausole Istat, la quale mai potrebbe essere estesa, per via di interpretazione analogica, al di fuori del predetto settore e con riferimento ad altre clausole contrattuali volte a incrementare – giusta la comune intenzione delle parti – il valore reale del corrispettivo per diverse e successive frazioni di durata del medesimo rapporto. Precisato ciò, non può peraltro essere elusa la considerazione che, ragionando in termini di realismo economico, un accrescimento del valore effettivo del corrispettivo mai potrebbe essere conseguito dal locatore se non previa depurazione dal suo importo monetario di una quota corrispondente alla compensazione del decremento, nel tempo, del potere di acquisto della moneta. Si pone pertanto, in sede di interpretazione del contratto, il problema di stabilire se mediante la formula adottata a determinazioni di canoni differenziati e crescenti per frazioni di tempo, le parti abbiano in realtà perseguito lo scopo di neutralizzare soltanto gli effetti negativi della svalutazione monetaria (con eventuale surrettizia elusione, sanzionabile ai sensi dell’art. 79, dei limiti quantitativi posti dall’art. 32 in esame) oppure abbiano di comune accordo inteso riconoscere al locatore, in misura dinamica, una maggiore fruttuosità in termini reali del ceduto godimento dell’immobile. Ma trattasi di problema di accertamento della volontà delle parti contraenti e dello scopo comune verso cui esse dirigono, affidato al potere discrezionale del giudice del merito e non sindacabile in sede di legittimità se non sotto il profilo dell’inadeguatezza della motivazione o della violazione delle regole di ermeneutica. 15.5. Questo essendo il piano della lineare argomentazione della Corte di cassazione (Sez. 3, Sentenza n. 6695 del 03/08/1987, cit.), la sentenza de qua trovò una corrispettiva segnalazione nella massimazione, da parte dell’Ufficio competente, del seguente principio di diritto (Rv. 454914): “Alla stregua del principio generale della libera determinazione convenzionale del canone locativo per gli immobili destinati ad uso non abitativo, deve ritenersi legittima la clausola in cui venga pattuita la determinazione del canone in misura differenziata e crescente per frazioni successive di tempo nell’arco del rapporto, ancorandola ad elementi predeterminati ed idonei ad influire sull’equilibrio economico del sinallagma contrattuale, del tutto indipendenti dalle variazioni annue del potere di acquisto della lira (nella specie, con riguardo alla locazione di un immobile ad uso di sala cinematografica, al costo unitario del biglietto d’ingresso ed al numero dei biglietti venduti annualmente), salvo che risulti – a seguito di un accertamento di fatto devoluto esclusivamente al giudice del merito ed insindacabile in sede di legittimità ove congruamente motivato – che le parti abbiano in realtà perseguito surrettiziamente lo scopo di neutralizzare soltanto gli effetti della svalutazione monetaria, eludendo i limiti quantitativi posti dall’art. 32 della legge n. 392 del 1978 (nella formulazione originaria ed in quella novel-lata dall’art. 1, comma nono – sexies, della legge n. 118 del 1985) ed incorrendo così nella sanzione di nullità prevista dal successivo art. 79, primo comma, della stessa legge”. 15.6. Converrà segnalare come il riferimento, risultante dalla massima appena trascritta, al c.d. ancoramento della pattuizione del canone ad “elementi predeterminati ed idonei ad influire sull’equilibrio economico del sinallagma contrattuale, del tutto indipendenti dalle variazioni annue del potere di acquisto della lira” sembrerebbe indurre (come, in effetti, ha talora indotto) una lettura del principio sancito dalla Corte nel senso che, in tanto la libertà di determinazione convenzionale del canone locativo per gli immobili destinati ad uso non abitativo potrà esprimersi nella previsione di un canone in misura differenziata e crescente per frazioni successive di tempo nell’arco del rapporto, in quanto le parti abbiano cura di ancorare la misura del canone “ad elementi predeterminati ed idonei ad influire sull’equilibrio economico del sinallagma contrattuale, del tutto indipendenti dalle variazioni annue del potere di acquisto della moneta” (salvo poi che non risulti che le parti “abbiano in realtà perseguito surrettiziamente lo scopo di neutralizzare soltanto gli effetti della svalutazione monetaria, eludendo i limiti quantitativi posti dall’art. 32 della legge n. 392 del 1978). In breve, assecondando questa (errata) lettura della massima, si arriverebbe alla conclusione secondo cui le parti di un contratto di locazione a uso diverso da abitazione, là dove vogliano liberamente determinare l’entità del canone in misure differenziate e crescenti per frazioni di tempo, avrebbero l’onere (anche in termini probatori) di allegare necessariamente l’avvenuto ancoramento degli aumenti del canone ai richiamati “elementi predeterminati ed idonei ad influire sull’equilibrio economico del sinallagma contrattuale, del tutto indipendenti dalle variazioni annue del potere di acquisto della moneta”. Tale preliminare condizionamento dell’autonomia contrattuale, tuttavia, non appare desumibile da nessuno dei passaggi argomentativi della sentenza richiamata, avendo la Corte viceversa affermato la piena e incondizionata libertà delle parti di assicurare al locatore un corrispettivo crescente – sempre in termini di valore reale – durante l’arco di svolgimento dello stesso rapporto, sia prevedendo il pagamento di rate quantitativamente differenziate, sia prevedendo il frazionamento dell’intera durata del contratto in periodi temporali più brevi a ciascuno dei quali corrisponda un canone passibile di maggiorazione; sia prevedendo l’ancoraggio del canone a elementi o di fatti (diversi dalla svalutazione monetaria) predeterminati e influenti, secondo la comune visione dei contraenti, sull’equilibrio economico del sinallagma (ipotesi di canone differenziato). In breve, secondo la Corte, là dove non emergano elementi o fatti (diversi dalla svalutazione monetaria) predeterminati e influenti, secondo la comune visione dei paciscenti, sull’equilibrio economico del sinallagma, tali da consentire l’ancoramento automatico ad essi della misura dell’aumento del canone al fine di mantenere costante l’equilibrio economico del sinallagma voluto dai contraenti (come peraltro accaduto nella fattispecie concretamente affrontata dalla Corte, là dove le parti avevano vincolato, la misura del canone di locazione di una sala cinematografica, al costo unitario del biglietto d’ingresso e al numero dei biglietti venduti annualmente), le parti conservano in ogni caso la libertà di assicurare al locatore un corrispettivo crescente – sempre in termini di valore reale – durante l’arco di svolgimento dello stesso rapporto, sia prevedendo il pagamento di rate quantitativamente differenziate, sia prevedendo il frazionamento dell’intera durata del contratto in periodi temporali più brevi a ciascuno dei quali corrisponda un canone passibile di maggiorazione; e ciò, salvo che le stesse parti non abbiano in realtà perseguito surrettiziamente lo scopo di neutralizzare soltanto gli effetti della svalutazione monetaria, eludendo i limiti quantitativi posti dall’art. 32 della legge n. 392 del 1978. Dunque, diversamente da quanto potrebbe equivocarsi dalla lettura della massima riportata (Rv. 454914), la Corte – lungi dall’imporre ai contraenti l’onere preliminare (anche in termini probatori) di allegare necessariamente l’avvenuto ancoramento degli aumenti del canone ai richiamati “elementi predeterminati e idonei” ad influire sull’equilibrio economico del sinallagma contrattuale, del tutto indipendenti dalle variazioni annue del potere di acquisto della moneta – ha piuttosto riaffermato il contrario principio della piena e incondizionata libertà delle parti di assicurare al locatore un corrispettivo crescente sempre in termini di valore reale – durante l’arco di svolgimento dello stesso rapporto (ciò che costituisce la regola); e ciò, salvo che le stesse parti non abbiano in realtà perseguito surrettiziamente lo scopo di neutralizzare soltanto gli effetti della svalutazione monetaria (ciò che costituisce l’eccezione): in tal caso, costituisce onere del conduttore (che invoca l’eventuale nullità del patto per violazione del combinato disposto degli artt. 32 e 75 della legge n. 392/78) allegare gli elementi, eventualmente desumibili dal testo del contratto o da elementi extratestuali, idonei a rivelare l’effettivo intento delle parti di eludere il divieto di cui agli artt. 32 e 75 citt.. In difetto di una simile allegazione – o della prova dell’intento elusivo delle parti – il patto di determinazione differenziata del canone per frazioni di tempo successive deve ritenersi comunque valido. 15.7. È appena il caso di rilevare come nessuna incidenza spiega, ai fini della risoluzione della questione in esame, l’analisi delle pronunce in forza delle quali “In tema di locazione di immobili adibiti ad uso diverso da abitazione, ogni pattuizione avente ad oggetto, non già l’aggiornamento del corrispettivo ai sensi dell’art. 32 della legge n. 392 del 1978, ma veri e propri aumenti del canone, deve ritenersi nulla ex art. 79, primo comma, della stessa legge, in quanto diretta ad attribuire al locatore un canone più elevato rispetto a quello previsto dalla norma, senza che il conduttore possa, neanche nel corso del rapporto, e non soltanto in sede di conclusione del contratto, rinunziare al proprio diritto di non corrispondere aumenti non dovuti. Il diritto del conduttore a non erogare somme eccedenti il canone legalmente dovuto (corrispondente a quello pattuito, maggiorato degli aumenti c.d. Istat, se previsti) sorge nel momento della conclusione del contratto, persiste durante l’intero corso del rapporto e può essere fatto valere, in virtù di espressa disposizione di legge, dopo la riconsegna dell’immobile, entro il termine di decadenza di sei mesi (Sez. 3, Sentenza n. 2932 del 07/02/2008, Rv. 601329, cit., cui corrispondono Sez. 3, Sentenza n. 24433 del 19/11/2009, Rv. 610334; Sez. 3, Sentenza n. 13826 del 09/06/2010, Rv. 613271, ma anche Sez. 3, Sentenza n. 2902 del 09/02/2007, Rv. 595536; Sez. 3, Sentenza n. 2961 del 07/02/2013, Rv. 625373; Sez. 3, Sentenza n. 8410 del 11/04/2006, Rv. 591347). In relazione a tali pronunce, converrà infatti tener conto della circostanza per cui i principi di diritto formulati risultano tratti da decisioni emesse in relazione a fattispecie concrete in cui si è trattato di “aumenti di canoni in senso proprio” (ossia di aumenti di canoni di locazione dello stesso immobile, in corso di rapporto, secondo contratti succedentesi nel tempo, anche per via di rinnovazione), e non già di iniziali “predeterminazioni differenziate” del canone (correlativamente a periodi compresi nella durata del medesimo rapporto contrattuale). In particolare, Sez. 3, Sentenza n. 2932 del 07/02/2008, Rv. 601329 – largamente richiamata in altri arresti successivi – evoca espressamente in motivazione il punto concernente l’avvenuto superamento della questione relativa alla liceità del patto di maggiorazione del canone convenuto – non già inizialmente, una volta per tutte (secondo l’ipotesi della predeterminazione differenziata per frazioni tempo), bensì – nel corso del rapporto (secondo l’ipotesi dell’aumento in senso proprio): aumento in senso proprio ritenuto legittimo da Sez. 3, Sentenza n. 11402 del 19/11/1993 (Rv. 484377) e in seguito illegittimo da Sez. 3, Sentenza n. 10286 del 27/07/2001 (Rv. 548558) che (consapevole del contrasto) incidentalmente sostiene la Irrinunciabilità’ del “diritto di non corrispondere aumenti non dovuti” nel corso del rapporto, come si desumerebbe dal principio della reclamabilità di quanto indebitamente corrisposto solo successivamente alla riconsegna dell’immobile. Ciò posto, trattandosi di fattispecie estranee a quella qui in esame (relativa, occorre ripetere, alla sola ipotesi della “predeterminazione differenziata” del canone per frazioni di tempo nell’arco del medesimo rapporto), le stesse appaiono tali da non incidere in alcun modo sul discorso che si conduce. 15.8. Questo collegio – nel ritenere che il riferimento (talora contenuto in talune decisioni della Corte di cassazione) al significato “condizionante” (in senso, per così dire, “sospensivo” del pieno esercizio della libertà contrattuale) dei c.d. “elementi predeterminati e idonei ad influire sull’equilibrio economico del sinallagma contrattuale, del tutto indipendenti dalle variazioni annue del potere di acquisto della moneta” sia da ascrivere a un’incongrua e impropria trasmissione della corretta e lineare ratio interpretativa originariamente fatta propria da Sez. 3, Sentenza n. 6695 del 03/08/1987 (come in precedenza descritta) all’insegnamento di tale ultimo arresto intende tornare a riferirsi, sì come lettura più corretta e coerente del testo legislativo oggetto d’esame; intendendo altresì allo stesso insegnamento assicurare continuità, attraverso l’affermazione dei seguenti principi di diritto: “Alla stregua del principio generale della libera determinazione convenzionale del canone locativo per gli immobili destinati ad uso non abitativo, deve ritenersi legittima la clausola in cui venga pattuita l’iniziale predeterminazione del canone in misura differenziata e crescente per frazioni successive di tempo nell’arco del rapporto; e ciò, sia mediante la previsione del pagamento di rate quantitativamente differenziate e predeterminate per ciascuna frazione di tempo; sia mediante il frazionamento dell’intera durata del contratto in periodi temporali più brevi a ciascuno dei quali corrisponda un canone passibile di maggiorazione; sia correlando l’entità del canone all’incidenza di elementi o di fatti (diversi dalla svalutazione monetaria) predeterminati e influenti, secondo la comune visione dei paciscenti, sull’equilibrio economico del sinallagma. La legittimità di tale clausola dev’essere peraltro esclusa là dove risulti – dal testo del contratto o da elementi extratestuali della cui allegazione deve ritenersi onerata la parte che invoca la nullità della clausola – che le parti abbiano in realtà perseguito surrettiziamente lo scopo di neutralizzare soltanto gli effetti della svalutazione monetaria, eludendo i limiti quantitativi posti dall’art. 32 della legge n. 392 del 1978 (nella formulazione originaria ed in quella novellata dall’art. 1, comma nono – sexies, della legge n. 118 del 1985), così incorrendo nella sanzione di nullità prevista dal successivo art. 79, primo comma, della stessa legge“. 15.9. Nel caso di specie, avendo la corte territoriale testualmente escluso il ricorso di alcuna volontà delle parti destinata a eludere i limiti normativamente imposti dall’art. 32 della legge n. 392/78 (in ogni caso né allegata, né comprovata dall’odierna società ricorrente), dev’essere altresì escluso il ricorso di alcuna violazione o falsa applicazione di norme di diritto da parte della stessa (tanto sul punto relativo alla validità del patto di “predeterminazione differenziata” del canone per frazioni di tempo nell’arco del medesimo rapporto, quanto in relazione alla corretta distribuzione degli oneri di allegazione probatoria tra le parti in conflitto circa eventuali finalità elusive delle stesse), così come il ricorso di alcun rilevante omesso esame di fatti decisivi controversi, con il conseguente rilievo della radicale infondatezza di ciascuno dei motivi d’impugnazione oggetto dell’odierna analisi. 16. L’unico motivo del ricorso incidentale è inammissibile. Osserva il collegio come, attraverso l’argomentazione critica articolata dal ricorrente incidentale, quest’ultimo si sia inammissibilmente spinto a prospettare la rinnovazione, in questa sede di legittimità, del riesame nel merito della vicenda oggetto di lite, precluso a questo giudice di legittimità. Deve qui, infatti, ribadirsi il principio secondo cui il ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità, non già il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (cfr., ex plurimis, Sez. 5, Sentenza n. 27197 del 16/12/2011, Rv. 620709). Nella specie, la Corte d’appello di Bologna ha espressamente sottolineato come il complesso degli elementi di prova acquisiti nel corso del giudizio avesse evidenziato il ricorso dei presupposti per il riconoscimento di una manifesta tolleranza del locatore rispetto ai molteplici ritardi in cui la società conduttrice era già ripetutamente incorsa nel corso del rapporto nel pagamento dei canoni di locazione: tolleranza di fatto ritenuta, dai giudici d’appello, idonea a giustificare la rinuncia del locatore ad avvalersi della clausola risolutiva espressa originariamente convenuta tra le parti, al punto da ingenerare l’obiettivo corrispondente convincimento della società debitrice, con la conseguente necessità di procedere alla valutazione nel merito dell’importanza dell’inadempimento della società debitrice (ai sensi dell’art. 1455 c.c.): importanza nella specie recisamente esclusa dalla corte territoriale, sulla base delle argomentazioni di merito diffusamente esposte nella motivazione della sentenza impugnata. Si tratta di considerazioni che il giudice d’appello ha elaborato nel pieno rispetto dei canoni di correttezza giuridica dell’interpretazione e di coerenza logico-formale dell’argomentazione, immuni da vizi d’indole logica o giuridica e, come tali, del tutto idonee a sottrarsi alle censure in questa sede illustrate dalla ricorrente; censure, peraltro, inammissibilmente inclini a dissentire rispetto all’interpretazione nel merito del rapporto intercorso tra le parti e non già all’eventuale erronea ricognizione del significato delle norme di legge – e dunque delle fattispecie astratte – asseritamente violate. 17. Le argomentazioni che precedono impongono la pronuncia del rigetto del ricorso principale e la dichiarazione d’inammissibilità del ricorso incidentale. La reciproca soccombenza delle parti giustifica l’integrale compensazione tra le stesse delle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso principale e dichiara inammissibile il ricorso incidentale. Dichiara integralmente compensate tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità. Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente principale e del ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale e per il ricorso incidentale, a norma dell’art. i-bis, dello stesso articolo 13.