Categoria: Danno

Responsabilità da prodotto. Danni provocati da allergeni. Assenza di indicazioni sulla confezione

Cassazione civile, sez. III, ordinanza 15 febbraio 2018, n. 3692

Con questo recente arresto la Corte di Cassazione ha colto l’occasione di approfondire alcuni aspetti della responsabilità da prodotto.

Nella fattispecie un consumatore aveva convenuto in giudizio un’impresa chiedendone la condanna al risarcimento dei danni sofferti per avere utilizzato, per detergersi il sudore dal viso e da altre parti del corpo, un fazzolettino di carta – tratto da una confezione che evidenziava il marchio ..x….- e che aveva prodotto un’allergia cutanea da metallo, protrattasi per mesi.

I giudici di legittimità hanno ritenuto responsabile l’impresa produttrice dei fazzolettini di carta, prodotto naturalmente destinato a entrare in contatto con la pelle per la presenza di nichel – sostanza che può cagionare un danno a persone, cose o ambiente – non segnalata sulle confezioni.

Nella motivazione dell’ordinanza la Corte ha puntualizzato che non è possibile far discendere la difettosità di un prodotto dal solo fatto che esso abbia arrecato un danno. Elemento fondante della legittimazione della pretesa è stata ritenuto l’anomalia della presenza di un elemento idoneo ad arrecare danno all’uomo e la mancanza delle informazioni “minime” richieste dalla legge. Questo in ossequio al dettato dell’art. 117 del Codice del consumo, che definisce il prodotto difettoso quando non offre la sicurezza che ci si può legittimamente attendere tenuto conto del modo in cui è messo in circolazione, della sua presentazione, delle sue caratteristiche, delle istruzioni, e delle avvertenze, ma non solo, anche dell’uso al quale il prodotto stesso può essere destinato e del tempo in cui è messo in circolazione.

Corte di Cassazione, sez. III Civile, ordinanza 5 dicembre 2017 – 15 febbraio 2018, n. 3692

Presidente Travaglino – Relatore Sestini

Fatto e diritto

Rilevato che:
Fu. Co. convenne in giudizio la Soffass s.p.a. chiedendone la condanna al risarcimento dei danni sofferti per avere utilizzato (per detergersi il sudore dal viso, dal collo e dagli avambracci) un fazzolettino di carta -a marchio “Regina”- prodotto dalla convenuta, che aveva determinato una reazione cutanea -imputabile ad allergia da metallo- con una conseguente estesa dermatite protrattasi per oltre tre mesi;
la convenuta resistette alla domanda, che venne rigettata dal Tribunale di Cuneo, con condanna dell’attrice al pagamento delle spese di lite;
la Corte di Appello di Torino ha riformato la sentenza, affermando la responsabilità della convenuta e condannandola al risarcimento dei danni (nell’importo di 4.193,55 Euro), oltre al pagamento delle spese del doppio grado di giudizio;
la Soffass s.p.a. ha proposto ricorso per cassazione affidato a un unico motivo illustrato da memoria; ha resistito l’intimata con controricorso;
il P.M. ha depositato conclusioni scritte, chiedendo il rigetto del ricorso.
Considerato che:
con l’unico motivo, la ricorrente deduce la «falsa applicazione degli artt. 114 e 117 del D.Lgs. 6 settembre 2005 n. 206 […], per avere ritenuto la corte di appello che il danno costituisca prova del difetto del prodotto», nonché «omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio […], per avere la corte di appello attribuito alla c.t.u. chimica una valutazione di pericolosità del prodotto, in quest’ultima del tutto assente»;
assume la ricorrente che, mentre è incontroverso che l’utilizzo del fazzoletto ha prodotto la reazione allergica sfociata nella dermatite, non risulta accertato che tale reazione allergica sia stata prodotta dalla presenza di nichel nel fazzoletto; e ciò in quanto, pur affermando che il nichel è un sensibilizzante da contatto, la c.t.u. aveva chiarito che la percentuale di nichel riscontrata nel fazzoletto era superiore al limite consentito per gli imballaggi a contatto con gli alimenti ed i cosmetici, ma conforme alla direttiva comunitaria CE 2004/96 e al regolamento OEKOTex per i tessili; ha sostenuto dunque che «la c.t.u. non ha accertato in alcun modo che la reazione fosse stata causata da una presenza di nichel superiore ai livelli prescritti dalle norme o dalle discipline precauzionali esistenti»;
ciò premesso e rilevato che la disciplina risultante dagli artt. 114 e 117 del Codice del consumo esclude che l’esistenza del danno dimostri di per sé la natura difettosa del prodotto, ha concluso che la fattispecie concreta e quella astratta “non combaciano” in quanto la Corte «ha ritenuto difettoso il prodotto per il solo fatto che esso ha prodotto un danno, essendo palesemente inesistenti le valutazioni di difettosità del prodotto, che essa attribuisce alla c.t.u.»;
il motivo è inammissibile e, comunque infondato;
inammissibile, in quanto non censura in modo adeguato la ratio della decisione, omettendo di prendere posizione sulla previsione dell’art. 6 D.Lgs. n. 206/2005 (che, alla lett. d, impone al produttore di indicare l’«eventuale presenza di materiali o sostanze che possano arrecare danno all’uomo, alle cose o all’ambiente») e sul rilievo della Corte secondo cui era «pacifica […], in causa, la mancanza assoluta di etichetta o avvertenza circa la presenza dei metalli in questione sulla confezione, avvertenze funzionali ad informare potenziali soggetti allergici del rischio, particolarmente concreto proprio in rapporto alla tipologia del prodotto e alla sua normale destinazione d’uso»; si tratta -all’evidenza- di un rilievo decisivo ai fini della connotazione del prodotto come difettoso (in relazione alla previsione dell’art. 117, lett. a del D.Lgs. cit.) che, in quanto non censurato, rende priva di interesse la contestazione della difettosità del prodotto sotto altri profili;
la censura svolta è comunque infondata, in quanto è basata sulla premessa, non corretta, che il fazzoletto non potesse essere ritenuto difettoso: invero, a prescindere dall’esistenza o meno di un’espressa affermazione della difettosità del prodotto nella relazione di c.t.u., la Corte è pervenuta ad affermare tale difettosità evidenziando elementi (segnatamente, l’anomalia della presenza di un metallo noto come sensibilizzante da contatto e causa di allergie in un fazzolettino di carta «destinato per sua natura a venire a contatto con la pelle, il naso o la bocca degli individui» e «sicuramente idoneo a provocare un danno all’uomo») che rispondono pienamente al paradigma normativo di cui all’art. 117 del Codice del consumo; va escluso pertanto che la Corte abbia fatto discendere la difettosità del prodotto dal solo fatto che esso abbia prodotto un danno, giacché la natura difettosa è stata accertata sotto il duplice profilo della anomalia della presenza di un metallo idoneo ad arrecare danno all’uomo e -come detto sopra- della mancanza delle informazioni “minime” richieste dai citati artt. 6 e 117 lett. a);
le spese di lite seguono la soccombenza;
trattandosi di ricorso proposto successivamente al 30.1.2013, sussistono le condizioni per l’applicazione dell’art. 13, comma 1 quater del D.P.R. n. 115/2002.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite, liquidate in Euro 2.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, al rimborso degli esborsi (liquidati in Euro 200,00) e agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

Paternità dell’opera d’arte: quale il ruolo del giudice?

COMMENTO ALLA SENTENZA DEL TRIB. DI ROMA DEL 15-05-2017 (leggi qui il testo integrale della sentenza)

Il rapporto tra diritto e arte è da sempre terreno di accesi dibatti, sia dottrinali che giurisprudenziali. La sentenza in commento affronta due questioni particolarmente controverse: la prima riguarda la possibilità di chiedere l’accertamento giudiziale della paternità di un’opera d’arte nell’ipostesi in cui l’attribuzione sia controversa, ossia, in altre parole, se sussista un diritto, ed un conseguente potere giudiziale, di accertare con crisma di verità l’autenticità di un’opera; la seconda, invece, verte sulla facoltà del proprietario di un’opera d’arte di chiedere ad un soggetto, cui il mondo dell’arte attribuisce credibilità, il risarcimento dei danni derivanti dal rilascio di un parere che condiziona la commerciabilità del bene.

La controversia origina da una compravendita avente ad oggetto un’opera di un noto pittore (“senza titolo 973/1978 smalto su tela”), conclusa tra una società attiva nel campo dell’intermediazione e commercializzazione di opere d’arte e un collezionista.

L’acquirente, divenuto proprietario, vedeva rifiutata la propria richiesta di far inserire l’opera nell’Archivio generale del pittore, in quanto, a parere della fondazione responsabile, non sussistevano “elementi sufficienti per poter attribuire tale opera alla mano del pittore defunto”. Pertanto, il collezionista otteneva dal venditore la refusione del prezzo pagato, mediante permuta con un’opera certificata di pari valore.

A seguito di tali avvenimenti il venditore citava in giudizio la fondazione e il legale rappresentante della stessa, avanzando una duplice richiesta:
– che venisse accertata giudizialmente la paternità dell’opera il cui inserimento nell’archivio generale era stato negato;
– che i responsabili del rifiuto venissero condannati al risarcimento del danno extracontrattuale derivante dalla potenziale incommerciabilità dell’opera. Parte attrice, infatti, sosteneva che il mancato riconoscimento dell’autenticità dell’opera da parte della fondazione e il conseguente rifiuto di inserire la stessa nell’Archivio generale dell’artista, circostanze queste che di fatto rendevano il bene incommerciabile, fossero dipese da un parere rilasciato in violazione dei più basilari principi di diligenza professionale.

Il giudice, per le ragiono di cui si dirà, seppur in modo conciso, di seguito, respingeva in toto la domanda attorea.

In merito alla prima domanda, l’estensore ha rigettato la stessa fondando il proprio giudizio su due ragioni, una di diritto, l’altra di fatto.

Quanto alla prima, nella sentenza viene, innanzitutto, posto in evidenza come la funzione propria dell’azione di cognizione sia quella di determinare la certezza o meno sull’esistenza di un diritto.
Ebbene, nel caso di specie, parte attrice, nel domandare giudizialmente l’accertamento della paternità dell’opera, chiede “non l’accertamento di un diritto, bensì la verifica dell’esistenza di tutta una serie di qualità del bene, quali il tratto, i colori, l’uso di una determinata tela o di un certo soggetto, i quali, se insieme considerati, possono condurre e concorrere ad un giudizio di probabilità in relazione all’esecuzione da parte di un determinato artista, che operava secondo schemi noti. Ma l’azione giudiziale non può che arrestarsi di fronte alla percezione delle caratteristiche dell’opera. Il giudizio di sintesi sulla riconducibilità dell’opera pittorica all’artista non può essere demandato al giudice, poiché, come si è detto, l’azione di accertamento, anche mero, è comunque finalizzata alla sussistenza di diritti, non di dati fattuali”.

Dal punto di vista fattuale, poi, il giudice argomenta che il giudizio sull’autenticità di un opera, essendo quello degli esperti d’arte un settore di nicchia, dove sono pochissimi coloro che si occupano di un determinato artista, si risolverebbe in un giudizio di maggiore credibilità di un esperto piuttosto che di un altro. Infatti, al fine di verificare l’autenticità di un’opera d’arte “le corti si limiterebbero a disporre una consulenza tecnica di ufficio e ad operare un giudizio di credibilità di tale c.t.u.; l’accertamento giudiziale sull’autenticità dell’opera sarebbe quindi un’expertise validata dalle corti, trasportando in tribunale la dialettica tra diversi pareri che regna nel mondo dell’arte”.

Infine, quanto alle ragioni che hanno portato alla reiezione della domanda risarcitoria di parte attrice, è stato rilevato come, pur potendosi ammettere che un parere proveniente da soggetti cui il mondo dell’arte attribuisce credibilità sia potenzialmente foriero di un danno risarcibile, tale parere dovrebbe “essere di marchiana grossolanità e dovrebbe strutturarsi ex se come atto illecito”. Nella specie, per contro, “non è stata data prova del fatto che la perizia della convenuta fosse caratterizzata dalla dolosa volontà di pregiudicare l’attrice. E d’altronde l’expertise era formulata con caratteri dubitativi che escludono alla radice un’ipotesi di dolo”.

Riccardo Orlandi


Diritto d’autore, opere d’arte, paternità | Trib. Roma, 15.05.17

TRIBUNALE DI ROMA; sezione specializzata in materia di impresa; sentenza, 15-05-2017

Esposizioni delle ragioni in fatto ed in diritto.
— La società Alfa (attrice), attiva nel campo dell’intermediazione e commercializzazione di opere d’arte, agiva in giudizio nei confronti dell’Archivio Beta (convenuto) e della sua legale rappresentante M. B., per l’accertamento giudiziale dell’autenticità dell’opera attribuita al maestro Beta «senza titolo 1973/1978 smalto su tela», già munito del parere di autenticità rilasciato dalla fondazione Beta multistudio, nonché per il risarcimento del danno, che valutava in complessivi euro 40.000, derivante dall’emissione da parte della convenuta di un parere relativo all’autenticità dell’opera non corrispondente ai necessari obblighi di diligenza e perizia. Rappresentava in punto di fatto che l’opera precedentemente menzionata era stata da lei venduta a G. C., noto collezionista, al prezzo di euro 40.000 e che il collezionista, il 18 luglio 2014, aveva ricevuto notizia dell’impossibilità di inserire il dipinto nell’archivio generale dell’opera Beta su parere sfavorevole della fondazione «Archivio Beta» a fronte dell’«insussistenza di elementi sufficienti per poter attribuire tale opera alla mano del pittore defunto»; in conseguenza di ciò il collezionista si era rivolto al venditore, odierna parte attrice, restituendo l’opera ed ottenendo la rifusione del prezzo pagato mediante permuta con un’opera certificata di pari valore. Parte attrice, oltre a domandare l’accertamento dell’originalità dell’opera, contestava in sé il parere rilasciato, contrario all’inserimento dell’opera nell’Archivio Beta, in quanto imperito e superficiale e rappresentava di avere commissionato una perizia grafologica sulla sottoscrizione apposta sul dipinto, che aveva concluso per la genuinità della sottoscrizione del maestro; lamentava quindi la superficialità del parere della convenuta ed evidenziava inoltre come l’attribuzione di una determinata opera d’arte ad un artista non poteva essere attribuita come prerogativa di unico soggetto, giacché chiunque può rilasciare, come da costante giurisprudenza, un parere di autenticità sulle opere d’arte. Dal momento, però, che il parere dell’Archivio convenuto era particolarmente significativo nella commercializzazione dell’opera ed era stato rilasciato in violazione dei più elementari principî di diligenza professionale, tale illecito aveva determinato nel patrimonio dell’attrice — a suo dire — un danno aquiliano pari al valore dell’opera venduta, la quale, senza il parere di autenticità rilasciato dall’Archivio convenuto, risultava di fatto incommerciabile. Si costituiva in giudizio l’Archivio Beta e la signora M.B., eccependo preliminarmente il difetto di legittimazione ad agire da parte dell’attrice, non avendo questa precisato a quale titolo fosse nella disponibilità dell’opera (originariamente l’attrice ha semplicemente asserito di essere nella disponibilità dell’opera e soltanto in corso di causa ha precisato che l’opera d’arte  de qua le è stata restituita da parte del compratore), denunciando un fumus persecutionis nei confronti dell’Archivio convenuto, avendo parte attrice già introdotto numerose azioni civili nei confronti della convenuta per l’accertamento dell’autenticità di rispettive opere d’arte e rappresentando, nel merito, che l’autenticazione dell’opera d’arte non può che essere effettuata ai sensi dell’art. 20 l.d.a. dallo stesso autore dell’opera e che residua agli eredi non tanto il potere di autenticare l’opera quanto quello di rivendicarla ai sensi dell’art. 20 l.d.a., fattispecie diversa dall’autentica che può provenire esclusivamente da colui che materialmente ha realizzato un’opera d’arte. Precisava inoltre di non avere mai affermato la falsità dell’opera, ma esclusivamente «che la stessa non era in possesso dei requisiti necessari anche nell’esecuzione della firma» affinché l’opera potesse essere inserita nell’archivio generale dell’opera di Beta; quello rilasciato quindi da parte convenuta era esclusivamente un parere, come altri potevano essere emessi nell’ambito dell’arte, che poteva essere anche superato da diversi contrari pareri e che ciò nulla aveva a che vedere con la commerciabilità dell’opera; la circostanza poi che il mondo dell’arte riteneva non commerciabili le opere d’arte prive della necessaria attestazione da parte dell’Archivio era circostanza a lei ignota e comunque non imputabile. Si opponeva anche ad ogni profilo risarcitorio, non ravvisando alcuna condotta illecita nell’avere emanato un parere, che, come tale, non assume alcuna funzione vincolante nei confronti dell’ipotetico compratore. 
All’udienza del 17 dicembre 2015, il giudice, ottenuta ogni precisazione sull’azione intrapresa dalla società attrice, ordinava l’integrazione del contraddittorio nei confronti dell’originario acquirente dell’opera G. C., posto che dalle allegazioni di parte attrice non era chiaro se lo stesso fosse ancora proprietario dell’opera. Nella medesima udienza parte attrice chiariva che l’azione era finalizzata principalmente all’ac-certamento della paternità dell’opera ed in secondo luogo alla liquidazione del danno extracontrattuale derivante dalla potenziale incommerciabilità dell’opera stessa. Il giudice ordinava inoltre l’estensione del contraddittorio nei confronti del co-titolare del diritto d’autore del defunto maestro Mario Schifano: M. G. Il chiamato G.C. si costituiva in giudizio con comparsa di costituzione del 2 maggio 2016, chiarendo che non era più proprietario dell’opera e chiedendo quindi che venisse pronunciato il suo difetto di legittimazione passiva. Si costituiva anche M. G., aderendo alle difese di parte convenuta. Le istanze istruttorie delle parti venivano successivamente disattese, avendo il giudice istruttore ritenuto ininfluente ai fini del decidere l’accertamento del fatto che i colori utilizzati per la realizzazione dell’opera  sub iudice erano i colori tradizionalmente utilizzati dal maestro Mario Schifano per la realizzazione delle proprie opere e ritenuta pacifica fra le parti l’ulteriore circostanza che la casa d’aste Christie’s International vendeva le opere del maestro solo se accompagnate dalla dichiarazione di autenticità resa dall’Archivio Beta. Sulla base quindi degli elementi acquisiti al fascicolo, la causa veniva rimessa al collegio con assegnazione dei termini di legge. 
La domanda non può essere accolta. Così come precisato dalla stessa parte attrice all’udienza del 17 dicembre 2015, l’oggetto principale dell’azione è l’accertamento della paternità dell’opera di cui la società attrice è attualmente proprietaria. Non è in discussione fra le parti il principio, ripetutamente affermato dalle corti, per cui ciascun esperto possa rilasciare un parere (expertise) in ordine all’autenticità di un’opera d’arte e che conseguentemente non vi può essere un soggetto che si possa arrogare in via esclusiva il diritto di rilasciare pareri sull’autenticità di un’opera. Oggetto, quindi, del presente giudizio è eminentemente se, nell’ipotesi di discordanza fra pareri, ovvero nella loro incertezza, l’autenticità dell’opera possa essere ottenuta giudizialmente, ovverosia se sussista un diritto, ed un conseguente potere, giudiziale, di accertare con carisma di verità l’autenticità di un’opera d’arte. La questione non è nuova: già in passato le corti si sono occupate del problema dell’accertamento giudiziale dell’autenticità dell’opera d’arte (v. Cass. 2765/82,  Foro it., 1982, I, 2864), escludendo che lo stesso potesse essere effettuato mediante riferimento all’art. 72 l. not. (autentica di sottoscrizione), ma ammettendo che si potesse accertare la falsità dell’autentica rilasciata dall’artista, giungendo ad ipotizzare anche un’ipotesi di danno all’integrità del patrimonio del potenziale acquirente nell’ipotesi di autentica non corrispondente all’effettiva paternità dell’opera (ipotesi, questa, non coltivata dalla successiva giurisprudenza di merito).L’autentica dell’artista non è quindi  ex se un dato inoppugnabile sull’autenticità dell’opera, potendosi ben verificare l’ipotesi di artista che, anche per esigenze di denaro, o per altri interessi, autentichi opere non originali, così come la parallela ipotesi di un artista che si rifiuti di autenticare opere proprie, ma costituisce piuttosto un dato oggettivo dotato di speciale autorevolezza, credibilità e pregnanza (una presunzione iuris tantum, come si direbbe in linguaggio giuridico), che può comunque essere disattesa da un parere di segno diverso.Il riportare l’«autentica» nell’alveo dei pareri, expertise, seppure in considerazione del valore che assume sul mercato l’autentica da parte dello stesso esecutore, consente di risolvere, con un certo agio, le questioni giuridiche portate all’attenzione di questo collegio e di potere affermare i seguenti principî: ciascuno, compreso naturalmente l’artista esecutore, può rilasciare pareri sull’autenticità di un’opera d’arte; — l’autentica è un’opinione «privilegiata» di un artista che si assume la paternità di un’opera d’arte; — ogni parere, nella diversa valenza, a seconda che promani dall’autore ovvero da soggetti che abbiano maturato credibilità nel mondo accademico e dell’arte, può essere messo in discussione da un parere di segno diverso, fatto questo che spesso non consente di pervenire ad un giudizio di assoluta certezza sulla paternità dell’opera; — in assenza di dati inoppugnabili, quali la documentazione fotografica dell’artista mentre realizza l’opera, non è possibile quindi accertare se un’opera pittorica sia veramente attribuibile ad un certo autore sulla sola base del tratto ovvero della firma, se non in termini probabilistici. — non esiste quindi un diritto, giudizialmente tutelabile, all’accertamento dell’autenticità di un’opera. — Quest’ultima affermazione merita un chiarimento. Al di là delle difficoltà oggettive e fattuali per la riconduzione di un dipinto ad un artista, questo collegio dubita che possa essere garantito dall’ordinamento giuridico un diritto all’accertamento  pro veritate dell’appartenenza di un’opera d’arte ad uno specifico artista, per due ragioni principali, la prima in diritto, la seconda in fatto. Va premesso che, in punto di diritto, se è vero che l’azione di accertamento giudiziale o cognizione ha per obiettivo l’enunciare l’esistenza di un diritto come volontà prescrittiva della legge nel dirimere un caso concreto, allora verrebbe qui in considerazione esclusivamente l’attività di «mero accertamento», ovvero la diversa esigenza di determinare la certezza o meno sull’esistenza di un diritto. L’accertamento infatti qui non appare finalizzato a conferire verità processuale ed a rendere effettiva una norma applicabile nel caso concreto, bensì solo ad accertare un diritto in sé astrattamente considerato. L’attenzione deve essere quindi focalizzata su quale sia il diritto che parte attrice ritiene dover essere oggetto dell’accertamento giudiziale. Tale diritto non può riguardare naturalmente la proprietà dell’opera, essendo pacifico ed indiscusso che l’opera d’arte pittorica sub iudice appartiene a parte attrice, né può riguardare il diritto morale d’autore, che pacificamente, per stessa ammissione di parte attrice, appartiene ai sensi dell’art. 20 l.d.a., agli eredi dell’autore defunto, ovvero — in astratto — allo stesso materiale artefice dell’opera d’arte e che comunque, come si dirà in seguito, nulla ha a che fare con l’autentica dell’opera.In assenza di diritto oggetto di mero accertamento non vi può essere azione esperibile. Non vi è infatti un diritto processualmente accertabile. Nel domandare giudizialmente l’accertamento della paternità dell’opera, parte attrice domanda quindi, in sostanza, non l’accertamento di un diritto, bensì la verifica dell’esistenza di tutta una serie di qualità del bene, quali il tratto, i colori, l’uso di una determinata tela o di un certo soggetto, i quali, se insieme considerati, possono condurre e concorrere ad un giudizio di probabilità in relazione all’esecuzione da parte di un determinato artista, che operava secondo schemi noti. Ma l’azione giudiziale non può che arrestarsi di fronte alla percezione delle caratteristiche dell’opera. Il giudizio di sintesi sulla riconducibilità dell’opera pittorica all’artista non può essere demandato al giudice, poiché, come si è detto, l’azione di accertamento, anche mero, è comunque finalizzata alla sussistenza di diritti, non di dati fattuali. Non ignora questo giudicante, così come peraltro ripetutamente sottolineato da parte attrice nei propri atti, che la Corte d’appello di Milano, in ipotesi analoga (ma non identica, poiché in tale fattispecie una galleria si era pronunciata per la non genuinità dell’opera, mentre nell’ipotesi odierna la convenuta si è semplicemente limitata ad affermare di non avere elementi sufficienti per potersi pronunciare sull’opera), ha affermato il principio della possibilità di accertare giudizialmente la paternità dell’opera d’arte. La pronuncia della Corte d’appello di Milano — in cui il principio  de quo è peraltro concentrato in poche e assiomatiche righe motivazionali — non può però essere condivisa.Il giudice meneghino, infatti, è partito dal presupposto — corretto — che oggetto dell’azione di accertamento è esclusivamente «una situazione giuridica di natura sostanziale» e quindi non una situazione di mero fatto, ma ha di seguito affermato l’equivalenza tra la paternità artistica dell’opera e la natura stessa del bene. La paternità dell’opera non sarebbe quindi un fatto estraneo al bene stesso, ma si integrerebbe nel bene fino a diventare parte essenziale «del contenuto del diritto di proprietà», sovrapponendo quindi la proprietà quale signoria sul bene, con le qualità estrinseche del bene. Quest’ultima affermazione non può essere condivisa. Non è qui infatti in contestazione il diritto di proprietà di un’opera (il dipinto è incontestatamente di proprietà della società Alfa), bensì le caratteristiche che potrebbero orientare il compratore al suo acquisto e, in sostanza, il valore di mercato che le viene attribuito sulla base dell’apprezzamento del mondo dell’arte. Ad avviso di questo collegio debbono invece sempre essere tenuti distinti il contenuto proprio del diritto assoluto di proprietà, che equivale all’uso esclusivo del bene e dal diritto di escludere i terzi dal godimento dell’opera, dall’accertamento delle qualità e del valore dell’opera mediante certo riferimento ad un determinato soggetto esecutore, che non può avvenire se non in termini probabilistici. Se il primo diritto è tutelabile dall’ordinamento sotto le forme del diritto soggettivo, il secondo può essere tutelato solo nelle forme dell’accertamento tecnico, lasciando poi spazio a opinioni, tra le quali svolgono un ruolo fondamentale le expertise, tra cui la stessa autentica dell’autore. Solo l’artista, infatti, sa con certezza se l’opera gli appartenga o meno (ma non è detto che tale certezza si riverberi nel contenuto dell’autentica). Il problema dell’attendibilità del-l’expertise può essere quindi traslato, tal quale, anche all’autentica fatta dall’esecutore (o presunto tale). Una volta deceduto l’esecutore, la certezza sulla paternità dell’opera diventa ancora più labile e maggiore rilievo assumono i pareri degli esperti. Non è quindi irragionevole pensare, come ha fatto parte attrice, che un parere, se superficiale e grossolano, e se proveniente da soggetto cui il mondo dell’arte attribuisce credibilità, sia potenzialmente foriero di un danno contrattuale risarcibile, secondo i tradizionali schemi dell’esecuzione imperita di un incarico. Ma tale parere deve essere di marchiana grossolanità e deve strutturarsi  ex se come atto illecito (quale l’affermare la falsità di ciò che si sa essere autentico al solo fine di danneggiare un terzo). Appare quindi difficile configurare un illecito risarcibile sulla sola base di un cauto parere, come quello oggetto del presente procedimento, che si limita a sospendere ogni giudizio («non sussistono elementi sufficienti per poter attribuire tale opera alla mano del pittore defunto») e, nel dubbio sull’autenticità, non consenta l’inserimento dell’opera in un archivio. Si entra quindi in un discorso di puro apprezzamento delle caratteristiche dell’opera, il quale non è di pertinenza del giudice per mezzo dell’azione di accertamento, ma che eventualmente, come si è accennato, può trovare un limitato riconoscimento esclusivamente nelle forme dell’accertamento descrittivo (che trovano spazio nel nostro ordinamento nelle forme di cui all’art. 696 c.p.c. ovvero per il ricorso per descrizione ex 129 cod. proprietà industriale previsto dal codice della proprietà industriale). Del bene, quindi, possono essere solo cristallizzati i dati evidenti dell’opera, ma mai il giudizio sulla sua autenticità, stante anche, e qui viene in considerazione l’elemento fattuale di cui si accennava in precedenza, l’esistenza di un settore di nicchia dove pochissimi sono gli esperti relativi ad un determinato artista. 
È opportuno, a questo punto, effettuare una significativa distinzione tra la cognizione relativa alla paternità dell’opera ed il diritto morale di autore, che è stato ripetutamente evocato, impropriamente, nel presente procedimento, e che invece si sostanzia nel diritto dell’autore di ottenere verso altri il riconoscimento dell’opera come propria rispetto a possibili usurpazioni, di opporsi alla sua modifica e di ritirarla dal mercato. Il diritto morale di autore non corrisponde, a ben guardare, al diritto di autentica, ben potendo, come si è detto, l’autore anche autenticare quadri non propri (fattispecie, queste, già venute alla ribalta in passato in pronunce di carattere giurisdizionale). Il diritto morale d’autore ha un contenuto sostanzialmente oppositivo, che mira quindi a tutelare l’opera d’arte da possibili interferenze che possano essere esercitate dall’esterno, sia in relazione alla paternità dell’opera, quando altri se ne appropri, sia in relazione al suo uso, sia relativamente ad eventuali manipolazioni.«Rivendicare la paternità dell’opera» (art. 20 l.d.a.) non significa quindi autenticare opere d’arte, ma un’attività di opposizione ad atti usurpativi che altri possano commettere. Tipico è il caso dell’artista che veda la sua opera erroneamente attribuita a terzi. La rivendica quindi dà per presupposta l’attribuzione dell’opera ad un artista o l’acquiescenza del destinatario della rivendica, tanto è vero che, se più artisti rivendichino contemporaneamente un’opera d’arte, nessuno di loro potrebbe qualificarsi come autore sulla sola base della rivendica. La tutela del diritto morale di autore è quindi più agevole di quella relativa all’accertamento della paternità dell’opera, perché generalmente ha per presupposto pacifico tra le parti l’attribuzione dell’opera originaria ad un determinato soggetto-autore. Più complessa è la fattispecie nella quale il diritto morale di autore venga esercitato dagli eredi ex art. 20 l.d.a., poiché effettivamente possono insorgere dubbi sull’effettiva riferibilità dell’opera al dante causa di coloro che agiscono per la tutela del diritto d’autore. Anche qui la prova della non genuinità dell’opera è però astrattamente più agevole di quella sull’autenticità: possono concorrere all’accertamento della non autenticità dell’opera elementi oggettivi come l’uso di determinati colori inesistenti all’epoca della realizzazione dell’opera, ovvero la rappresentazione di eventi non ancora verificatisi al momento della realizzazione dell’opera, ovvero la rappresentazione di oggetti non ancora conosciuti al momento della presunta realizzazione dell’opera. Come si è detto, radicalmente diversa è la fattispecie dell’autentica. Le abilità dei falsari si possono estendere sia all’uso dei medesimi colori, delle medesime tele, dei medesimi materiali e possono estendersi anche (nell’ipotesi in cui il falsario sia egli stesso un artista di pregio) all’uso dei medesimi tratti e alla realizzazione di una firma sostanzialmente analoga a quella dell’artista. Non può affermarsi, quindi, che spetti agli eredi un diritto esclusivo ad attestare l’autenticità dell’opera. Gli eredi, come altri soggetti qualificati, possono esclusivamente dare un parere significativo e autorevole sull’autenticità dell’opera d’arte per aver condiviso con l’artista defunto momenti di vita, esperienze ideali e per avere potuto, più di altre persone, osservare l’artista mentre realizzava un’opera d’arte, ma non possono attestare  pro veritate l’appartenenza dell’opera all’artista. E, d’altronde, si è anche chiarito che anche lo stesso artista non può attribuire pro veritate l’opera a sé stesso.
In conclusione, un accertamento giudiziale mirato alla verifica che una determinata opera d’arte presenta dei tratti analoghi a quelli di un noto artista ovvero dei colori compatibili con quelli utilizzati dall’artista, ovvero una firma verosimilmente compatibile con quella dell’artista, si può tradurre solo in un giudizio di verosimiglianza e, conseguentemente, in un ulteriore parere. Si tenga poi ulteriormente presente come, in punto di fatto, le corti si limiterebbero a disporre una consulenza tecnica di ufficio e ad operare un giudizio di credibilità di tale c.t.u.; l’accertamento giudiziale sull’autenticità dell’opera sarebbe quindi un’expertise validata dalle corti, trasportando in tribunale la dialettica tra diversi pareri che regna nel mondo dell’arte. Ed è quanto esattamente successo nella sentenza della Corte d’appello di Milano dell’11 dicembre del 2002 ( id., Rep. 2003, voceConsulente tecnico, n. 14), dove il giudizio di autenticità dell’opera si è sostanzialmente fondato su una maggiore credibilità di una perizia rispetto ad un’altra, ribaltando quanto in precedenza affermato dal tribunale di primo grado, che aveva invece ritenuto maggiormente convincente il parere poi disatteso dal giudice di secondo grado. Venendo poi alla domanda risarcitoria avanzata da parte attrice relativa ad una superficialità da parte della convenuta nel rilascio della perizia, si osserva come la stessa sia infondata. Non è stata data prova del fatto che la perizia della convenuta fosse caratterizzata dalla dolosa volontà di pregiudicare l’attrice. E d’altronde l’expertise era formulata con caratteri dubitativi che escludono alla radice un’ipotesi di dolo. Parte attrice lamenta poi una situazione di carattere fattuale: ovverosia la circostanza per cui il mercato dell’arte ed i grandi mediatori internazionali come le case d’asta attribuiscano particolare significato al parere dell’Archivio Beta. Anche qui questo collegio non dispone dei mezzi giuridici necessari per intervenire. Ne consegue la reiezione della domanda di parte attrice. 

Furto in cassetta di sicurezza

FURTO IN CASSETTA DI SICUREZZA

Cassazione, sez. I, 4 giugno 2012, n. 8945

A proposito di un furto di oggetti depositati in una cassetta di sicurezza, la Suprema Corte, con la annotata sentenza, ha affermato che  generalmente si tratta di una circostanza di fatto che non è di comune dominio, stante la ovvia necessità di mantenere la riservatezza che orienta la scelta di questo servizio offerto dalle banche. Continue reading “Furto in cassetta di sicurezza”