Categoria: Responsabilità professionale e d’impresa

Concorrenza sleale, responsabilità per fatto degli ausiliari .

 

Concorrenza sleale, denigrazione, diffusione, per interposta persona,  di opinioni inerenti l’attività dell’impresa concorrente, responsabilità per fatto degli ausiliari .

Corte di Cassazione, I sezione civile, sentenza n. 18691 del 25.09.2015

La Corte di Cassazione con  la sentenza che si segnala  ha preso posizione in materia di concorrenza sleale affermando i seguenti principi:

  1. Ai fini della configurabilità della concorrenza sleale per denigrazione, le notizie e gli apprezzamenti diffusi tra il pubblico non debbono necessariamente riguardare i prodotti dell’impresa concorrente, ma possono avere ad oggetto anche circostanze od opinioni inerenti in generale l’attività di quest’ultima, la sua organizzazione o il modo di agire dell’imprenditore nell’ambito, la cui conoscenza da parte dei terzi risulti comunque idonea a ripercuotersi negativamente sulla considerazione che ha l’impresa presso i consumatori.
  2. Si devono apprezzare, ai fini della potenzialità lesiva delle denigrazioni, l’effettiva “diffusione”, il contenuto fortemente diffamatorio degli apprezzamenti stessi e la potenzialità espansiva della comunicazione per la scelta dei destinatari.
  3. La concorrenza sleale non è ravvisabile ove manchi il presupposto soggettivo del cosiddetto “rapporto di concorrenzialità”; l’illecito, peraltro, non è escluso se l’atto lesivo sia stato posto in essere da un soggetto (il cd. terzo interposto), che agisca per conto di un concorrente del danneggiato poiché, in tal caso, il terzo responsabile risponde in solido con l’imprenditore che si sia giovato della sua condotta, mentre ove il terzo sia un dipendente dell’imprenditore che ne ha tratto vantaggio, quest’ultimo ne risponde ai sensi dell’art. 2049 c.c. ancorché l’atto non sia causalmente riconducibile all’esercizio delle mansioni affidate al dipendente, risultando sufficiente un nesso di “occasionalità necessaria” per aver questi agito nell’ambito dell’incarico affidatogli.
  4. Ai fini della configurabilità della fattispecie di concorrenza sleale per interposta persona, non si richiede l’esistenza di uno specifico accordo ispirato a tali finalità tra l’imprenditore concorrente e il terzo, ma è necessaria e sufficiente una relazione di interessi tra detti soggetti tale da far ritenere che il terzo, con la propria attività, abbia agito in ragione di quegli interessi.

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott.          RORDORF     Renato                                                                                         –

Dott.          NAPPI             Aniello                                                                                        –

Dott. MERCOLINO Guido                                                                                  – rel.

Dott.     LAMORGESE         Antonio    Pietro  –

Dott.    NAZZICONE      Loredana               –

ha pronunciato la seguente:

sentenza sul ricorso proposto da

 ITALCOOP SOC. COOP. A R.L., in persona del presidente p.t.U., elettivamente domiciliata in Roma, alla via Monte Zebio 30, presso l’avv. CAMICI CLAUDIO, dal quale, unitamente all’avv. GIOVANNI del foro di Milano, è rappresentata e difesa in virtù procura speciale a margine del ricorso;      ricorrente –

contro

la Special Coop Italia Soc. coop. a r.l.,  B.G. e R.

 

 
 
 

 

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 30 aprile 2015 dal Consigliere Dott. Guido Mercolino;

  • udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DEL CORE Sergio, il quale ha concluso per il rigetto dei primi due motivi di ricorso e l’accoglimento del terzo motivo.
  • avverso la sentenza della Corte di Appello di Milano pubblicata il 15 maggio 2007.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

  1. – L’Italcoop Soc. coop. a r.l. convenne in giudizio la Special Coop Italia Soc. coop. a r.l., B.G. e R., per sentirli condannare al risarcimento dei danni cagionati da atti di concorrenza sleale consistenti nella costituzione della società convenuta, avente denominazione assonante ed oggetto sociale affine a quello di essa attrice, nell’uso di segni distintivi simili, nello storno di soci lavoratori, nello sviamento di clientela, nell’artificiosa pratica di bassi prezzi e nella sottrazione di documentazione.
    1. – Con sentenza del 6 dicembre 2001, il Tribunale di Milano accolse parzialmente la domanda principale, ritenendo sussistente unicamente la concorrenza sleale per sviamento della clientela, ravvisarle nella diffusione di una lettera circolare sottoscritta dal B., e condannando quest’ultimo e la Special Coop al risarcimento dei danni, da liquidarsi in separato giudizio; dichiarò invece inammissibile la domanda riconvenzionale proposta dai convenuti.
  2. Si costituirono i convenuti, e resistettero alla domanda, chiedendo in via riconvenzionale la condanna dell’attrice al risarcimento dei danni derivanti dalla diffusione di notizie false e denigratorie nei confronti della Special Coop e di B.G..
  3. – L’impugnazione proposta dalla Special Coop e dai B. è stata parzialmente accolta dalla Corte d’Appello di Milano, che con sentenza non definitiva del 28 dicembre 2004 ha dichiarato ammissibile la domanda riconvenzionale, confermando nel resto la sentenza di primo grado, e con sentenza definitiva del 15 maggio 2007 ha ritenuto sussistente la concorrenza sleale anche a carico dell’Ital-coop, condannandola al risarcimento dei danni arrecati agli appellanti, da liquidarsi in separato giudizio.
  4. A fondamento della decisione, la Corte ha ritenuto che dalle deposizioni dei testimoni escussi emergesse effettivamente la diffusione di notizie false ed apprezzamenti idonei a determinare discredito nei confronti della Special Coop e del B., attribuendone la paternità a G.D., il quale, nell’incontestata qualità di fiduciario e mandatario della società appellata, in occasione della riconsegna dei libretti di lavoro a due dipendenti passate alla Special Coop, si era lasciato andare ad affermazioni diffamatorie nei confronti del B., accusandolo di essere mafioso e di essere stato arrestato per aver sottratto denaro alla società; tali affermazioni, volte a scoraggiare il trasferimento, erano state fatte in modo subdolo e tendenzioso e in un contesto tale da indurre nelle lavoratrici un giudizio fortemente negativo in ordine alla persona del B. ed alle loro prospettive di lavoro presso la nuova società.
  5. – Avverso la predetta sentenza l’Italcoop propone ricorso per cassazione, articolato in tre motivi. Gl’intimati non hanno svolto attività difensiva.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

  1. – Con il primo motivo d’impugnazione, la ricorrente denuncia la violazione o la falsa applicazione dell’art. 2598 cod. civ., nonché l’omessa o insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, osservando che la sentenza impugnata ha imputato alla società frasi denigratorie proferite da un suo socio lavoratore, senza accertare se esse fossero state pronunciate per conto della società ovvero in collegamento con la stessa. Premesso che la controversia traeva origine dal recesso del B. dall’Italcoop, a seguito della sua estromissione dalla gestione della filiale di (OMISSIS) e dell’affidamento della stessa al G., afferma che l’incarico conferito a quest’ultimo, limitato a tale aspetto operativo, non consentiva di ascrivere ad essa ricorrente le frasi da lui pronunciate, non essendo stata dimostrata la riconducibilità delle stesse alla volontà della società o la sussistenza di un nesso di occasionalità necessaria con le mansioni affidate al socio lavoratore.
    1. – Il motivo è infondato.Alla stregua di tali principi, costantemente ribaditi dalla giurisprudenza di legittimità, non merita censura la sentenza impugnata, nella parte in cui, pur avendo accertato che le espressioni diffamatorie nei confronti del B. e denigratorie nei confronti della Special Coop erano ascrivibili al G., ne ha addebitato la responsabilità all’Italcoop, in virtù del rapporto di dipendenza intercorrente tra quest’ultima ed il predetto soggetto, nonché della circostanza, concordemente riferita dai testi, che le medesime espressioni erano state pronunciate in occasione della chiusura dei rapporti di lavoro con altri dipendenti. L’affermazione della ricorrente, secondo cui il G. subentrò al B. nella gestione della filiale di (OMISSIS) della Cooperativa, suona d’altronde come un’ulteriore conferma della circostanza, ritenuta pacifica dalla sentenza impugnata e desunta comunque anche dalle deposizioni dei testi, che l’autore dell’illecito agì in qualità di fiduciario o mandatario dell’Italcoop, alla quale pertanto la Corte di merito ha correttamente imputato gli effetti delle sue dichiarazioni.
    2. Com’è noto, il principio secondo cui la concorrenza sleale costituisce una fattispecie tipicamente riconducibile ai soggetti del mercato in concorrenza, pur escludendone la configurabilità in mancanza del presupposto oggettivo rappresentato dal cd. rapporto di concorrenzialità, non impedisce di ravvisare l’illecito in questione anche nel caso in cui l’atto lesivo del diritto del concorrente venga posto in essere da un soggetto (cd. terzo interposto) che, pur non essendo egli stesso in possesso dei necessari requisiti soggettivi, ovverosia della qualità di concorrente del danneggiato, si trovi con il soggetto avvantaggiato in una particolare relazione, tale da far ritenere che l’atto sia stato oggettivamente compiuto nell’interesse di quest’ultimo (cfr. Cass., Sez. 1, 6 giugno 2012, n. 9117; 9 agosto 2007, n. 17459; 8 settembre 2003, n. 13071). Qualora poi, come nella specie, l’autore dell’illecito sia un dipendente dell’imprenditore che ne ha tratto vantaggio, quest’ultimo è tenuto a risponderne ai sensi dell’art. 2049 cod. civ., sulla base del mero rapporto intercorrente con il soggetto agente, anche se l’atto non sia causalmente riconducibile allo esercizio delle mansioni affidate a quest’ultimo, risultando sufficiente che tra le stesse e l’illecito sia configurabile un rapporto di occasionalità necessaria, nel senso che il dipendente abbia agito nell’ambito dell’incarico affidatogli, sia pur eccedendo i limiti delle proprie attribuzioni o all’insaputa del datore di lavoro (cfr. Cass., Sez. 3, 4 aprile 2013, n. 8210; 12 marzo 2008, n. 6632; Cass., Sez. lav., 25 marzo 2013, n. 7403).
  2. – Con il secondo motivo, la ricorrente deduce la violazione o la falsa applicazione dell’art. 2598 c.c., nn. 2 e 3, sostenendo che, nel qualificare come atti di concorrenza sleale le espressioni riferite dai testi, la Corte di merito non ha considerato che le stesse non riguardavano i prodotti o l’attività della Special Coop, ma vicende personali del B., estranee all’attività prestata nell’ambito della Special Coop o al periodo in cui ne era socio, ed attinenti al rapporto intercorso con l’Italcoop; esse, non essendo rivolte ai clienti ma a soci lavoratori già transitati nella Special Coop, non integravano una forma di divulgazione illecita, e non erano quindi idonee a provocare discredito, né potevano cagionare alcun danno all’impresa concorrente.
    1. – Il motivo é infondato.Cass., Sez. 1, 8 marzo 2013, n. 5848; 30 maggio 2007, n. 12681).
    2. Nella specie, tuttavia, la potenzialità lesiva delle dichiarazioni denigratorie é stata affermata in virtù del loro contenuto fortemente diffamatorio e della loro destinazione ai dipendenti dell’Italcoop in procinto di trasferirsi presso la Special Coop, nonché della finalità dissuasiva della divulgazione, che. in quanto volta a scoraggiare l’assunzione di tali iniziative da parte dei lavoratori, é stata correttamente ritenuta sufficiente a dimostrare il carattere non occasionale della condotta e la portata espansiva della comunicazione, rivolta a soggetti determinati ma idonea ad estendere i propri effetti ad una pluralità di persone (cfr. al riguardo, Cass., Sez. 1, 29 luglio 1968, n. 2728).
    3. Ai fini della configurabilità della concorrenza sleale per denigrazione, non é infatti necessario che le notizie e gli apprezzamenti diffusi tra il pubblico riguardino specificamente i prodotti dell’impresa concorrente, potendo gli stessi avere ad oggetto anche circostanze od opinioni inerenti più in generale all’attività di quest’ultima, e quindi anche alla sua organizzazione o al modo di agire dell’imprenditore nell’ambito professionale (con esclusione, quindi, della sua sfera strettamente personale e privata), la cui conoscenza da parte dei terzi risulti comunque idonea a ripercuotersi negativamente sulla considerazione di cui l’impresa gode presso i consumatori. E’ pur vero che la lettera dell’art. 2598 c.c., n. 2, richiedendo la “diffusione” delle notizie e degli apprezzamenti denigratori, fa riferimento ad un’effettiva propalazione di fatti e giudizi tra un numero indeterminato, o quanto meno tra una pluralità di persone, in tal modo escludendo, in linea di principio, la configurabilità della fattispecie in esame nell’ipotesi di esternazioni occasionalmente rivolte a singoli interlocutori nell’ambito di separati e limitati colloqui (cfr.
  3. – Con il terzo ed ultimo motivo, la ricorrente lamenta la violazione o la falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ. e/o dell’art. 2598 cod. civ., rilevando che la condanna al risarcimento dei danni é stata pronunciata anche in favore di B.R., sebbene la relativa domanda fosse stata proposta soltanto dalla Special Coop e da B.G.; aggiunge che, nel riconoscere ai B. il predetto diritto, la Corte di merito non ha considerato che gli stessi non rivestivano la qualità di imprenditori, con la conseguente esclusione della configurabilità di un rapporto di concorrenza con essa ricorrente.
    1. – Il motivo è parzialmente fondato.Mentre peraltro alla Special Coop doveva essere senz’altro riconosciuta la qualità di soggetto passivo dell’illecito concorrenziale, in quanto società commerciale esercente un’attività in concorrenza con quella dell’Italcoop, non poteva dirsi altrettanto per B.G. e R., i quali, come è pacifico tra le parti, rivestono rispettivamente la carica di amministratore e la qualità di socio della società convenuta: la fattispecie prevista dall’art. 2598 cod. civ., presupponendo innanzitutto la sussistenza di un rapporto di concorrenzialità tra soggetti che esercitino contemporaneamente un’attività industriale o commerciale in un ambito territoriale anche solo potenzialmente comune, non è infatti configurabile nell’ipotesi in cui, come accade nella specie, uno di essi non sia in possesso della qualifica di imprenditore, svolgendo la predetta attività non già in proprio, ma attraverso una società. Nei confronti di B.G., che aveva costituito direttamente e personalmente oggetto delle dichiarazioni denigratorie, la mancanza della qualifica d’imprenditore non impediva tuttavia di affermare l’illiceità dell’attività posta in essere dal fiduciario dell’Italcoop, la cui portata diffamatoria, traducendosi nella lesione dell’onore e della reputazione dell’interessato, consentiva ugualmente il riconoscimento della responsabilità della società attrice, ai sensi degli artt. 2043 e 2049 cod. civ., indipendentemente dalla configurabilità dell’illecito concorrenziale. E’ solo nei confronti di B.R., dunque, che il difetto della qualifica d’imprenditore impediva di ravvisare qualsiasi responsabilità a carico della società attrice, non essendo da un lato configurabile rispetto a quest’ultima il rapporto di concorrenzialità richiesto dall’art. 2598 cod. civ., e non potendo la convenuta essere considerata soggetto passivo del reato di cui all’art. 595 cod. pen., in quanto le dichiarazioni diffamatorie del G. si riferivano esclusivamente all’amministratore della Special Coop. 4. – La sentenza impugnata va pertanto cassata, nei limiti segnati dai motivi accolti, e, non risultando necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., u.c., con il rigetto della domanda di risarcimento dei danni proposta da B.R..
    2. 5. – La mancata costituzione della Special Coop e di B. G. esclude la necessità di provvedere al regolamento delle spese del giudizio di legittimità nei rapporti tra gli stessi e la ricorrente. Nei rapporti tra quest’ultima e B.R., la peculiarità delle questioni trattate induce invece a dichiarare integralmente compensate tra le parti le spese dei tre gradi di giudizio.
    3. Come si evince dalle conclusioni rassegnate nel giudizio d’appello e riportate testualmente nell’epigrafe della sentenza impugnata, la domanda proposta in via riconvenzionale, pur trovando fondamento nell’asserita diffusione di notizie ed apprezzamenti idonei a screditare la Special Coop ed il suo presidente B.G., aveva ad oggetto la condanna dell’attrice al risarcimento dei danni in favore di tutti i convenuti: può quindi escludersi che, nel pronunciare la predetta condanna, la Corte territoriale sia incorsa in ultrapetizione, ravvisabile esclusivamente nel caso in cui il giudice di merito, interferendo nel potere dispositivo delle parti, abbia alterato gli elementi obiettivi dell’azione, sostituendo i fatti costitutivi della pretesa (cd. causa petendi) o emettendo un provvedimento diverso da quello richiesto (c.d. petitum immediato), ovvero attribuendo o negando un bene della vita diverso da quello conteso (c.d. petitum mediato) (cfr. ex plurimis, Cass., Sez. lav., 11 gennaio 2011, n. 455; Cass., Sez. 3, 22 marzo 2007, n. 6945; Cass., Sez. 2, 12 luglio 2005, n. 14552).

PQM

La Corte rigetta i primi due motivi di ricorso, accoglie parzialmente il terzo motivo, cassa la sentenza impugnata, e, decidendo nel merito, rigetta la domanda di risarcimento dei danni proposta da B.R.; dichiara interamente compensate le spese dei tre gradi di giudizio tra l’Italcoop Soc. coop. a r.l. e B.R..

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Prima Sezione Civile, il 30 aprile 2015.

Depositato in Cancelleria il 22 settembre 2015

Responsabilità medica. Trib.le di Reggio Emilia. Responsabilità della struttura sanitaria per omessa o inesatta esecuzione di  intervento di sterilizzazione

Tribunale di Reggio Emilia Sent.1298 del 07.10.15

La norma: Art. 1227 c.c : se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l’entità delle conseguenze che ne sono derivate. Il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza. 

Il secondo comma dell’art. 1227 c.c., pone come condizione per il risarcimento dei danni patiti, l’inevitabilità dei danni stessi da parte del creditore- danneggiato.

Impone cioè a quest’ultimo una condotta attiva diretta ad impedire le conseguenze dell’altrui comportamento dannoso, ma nei limiti dell’ordinaria diligenza che, deve intendersi nell’ambito di attività o scelte che non abbiano carattere di eccezionalità o che comportino rischi o sacrifici.

Pertanto, il dovere di usare l’ordinaria diligenza non implica l’obbligo della paziente danneggiata dalla omessa o inesatta esecuzione di un intervento di sterilizzazione di sottoporsi ad interruzione volontaria della gravidanza al fine di evitare i danni conseguenti all’inadempimento, comportando l’intervento abortivo un evidente e rilevante sacrificio alla salute e alla libertà di autodeterminazione della madre.

Occorre precisare, infatti, che in ambito medico, non trova applicazione il principio noto come concorso del fatto colposo del creditore-danneggiato, previsto dal secondo comma dell’art. 1227 c.c..  per il quale la risarcibilità per i danni occorsi al creditore è esclusa qualora questi avrebbe potuto evitarli usando l’ordinaria diligenza, intesa quale condotta non gravosa oltre modo o non eccezionale per il danneggiato-creditore.

Nel caso di specie, è pacifico che il rimedio abortivo esuli dalle attività di ordinaria diligenza afferenti al novero di cui all’art. 1227 c.c. risultando lesivo del diritto di autodeterminazione della gestante.

 Il caso di specie

 Una paziente in occasione di un parto cesareo richiedeva che in tale sede venisse eseguito anche un intervento volto a scongiurare gravidanze future e indesiderate.

Successivamente però, la stessa rimaneva nuovamente incinta e scopriva che non le era stata eseguita alcuna sterilizzazione nonostante ne avesse fatto richiesta scritta. Lamentava, quindi, che la nascita indesiderata le aveva comportato un concreto ed effettivo peggioramento della propria qualità di vita.

Il Giudice preso atto anche che la stessa si era tempestivamente attivata per scongiurare tale evento, ha ritenuto la struttura sanitaria responsabile dei danni patiti dalla gestante.

Testo della sentenza 

R E P U B B L I C A   I T A L I A N A

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE ORDINARIO DI REGGIO EMILIA

SEZIONE SECONDA CIVILE

Il Tribunale, nella persona del Giudice dott.ssa Chiara Zompi

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. 564/2012 promossa

da:

Mu. Iq. (C.F. –omissis–) e Pa. Sa. (C.F. –omissis–), con il

patrocinio dell’avv. INTAGLIATA MAURO e dell’avv. INTAGLIATA DOMENICO

(–omissis–) VIA PANSA, 55/I 42100 REGGIO NELL’EMILIA; elettivamente

domiciliati in VIA PANSA, 55/I 42100 REGGIO NELL’EMILIA presso il

difensore avv. INTAGLIATA MAURO

ATTORI

contro

AZIENDA USL DI REGGIO EMILIA, con il patrocinio dell’avv. MAZZA

FRANCO, elettivamente domiciliata in VIA EMILIA SAN PIETRO 27 42100

REGGIO EMILIA presso il difensore avv. MAZZA FRANCO

CONVENUTA

CONCLUSIONI

Il procuratore di parte attrice chiede e conclude come da fogli

allegati al verbale d’udienza di precisazione delle conclusioni.

Il procuratore di parte convenuta chiede e conclude come da memoria

ex art. 183 co. 6, n. 1, c.p.c..

 Fatto

FATTO E DIRITTO

Con atto di citazione ritualmente notificato, Iq. Mu. e Sa. Pa. convenivano in giudizio, innanzi all’intestato Tribunale, l’Azienda USL di Reggio Emilia, in persona del suo legale rappresentante pro – tempore, per sentirla condannare al risarcimento dei danni, patrimoniali e non patrimoniali, sofferti in conseguenza della nascita indesiderata del loro sesto figlio.

In particolare, gli attori esponevano che Pa. Sa., in occasione del suo quinto parto, programmato col taglio cesareo, aveva comunicato al ginecologo la scelta di procedere al contestuale intervento di sterilizzazione tubarica, a tal fine sottoscrivendo, in data 23.02.2007, l’apposito modulo di manifestazione del consenso c.d. informato.

Proseguivano gli attori esponendo che, in data 08.03.2007, la sig.ra Pa. Sa. si era quindi sottoposta, previa esecuzione di anestesia spinale, all’intervento di “taglio cesareo tradizionale” a seguito del quale era stata dimessa, in data 11.03.2007, con diagnosi di “V gravida alla 39 settimana, precesarizzata, presentazione cefalica”, con prescrizione di terapia medica e controllo dopo 6 settimane.

Fatto sta che, nel mese di dicembre 2008, l’attrice si era accorta di essere restata nuovamente incinta e, avendo deciso di portare a termine anche questa gravidanza, in data 10.08.2009 aveva partorito il suo sesto figlio. Ciò posto, deducevano gli attori che i sanitari dell’Ospedale dl Guastalla avevano del tutto omesso di provvedere, successivamente all’effettuazione del taglio cesareo, alla sterilizzazione tubarica, benché espressamente richiesta e autorizzata dalla paziente.

Lamentavano che la nascita del sesto figlio aveva messo a dura prova la situazione economica ed umana della famiglia e aveva esposto la madre un elevato stress fisico e mentale, certificato dalla comparsa di “evidente edema al dorso delle mani e dei piedi, alla regione orbitaria bilateralmente” e di “orticaria allergica ed edema diffuso sottocutaneo”.

Assumevano, quindi, gli attori che la nascita indesiderata aveva cagionato alla madre un danno biologico, nonché ad entrambi i genitori un grave pregiudizio, patrimoniale e non patrimoniale, danni quantificati in complessivi E. 490.206,50. Si costituiva in giudizio la Azienda USL convenuta, contestando la fondatezza della domanda risarcitoria ex adverso formulata e chiedendone l’integrale reiezione. In particolare, la Azienda convenuta negava che la Parveen, all’atto del “prericovero” avvenuto in data 23.02.2007, avesse formulato la richiesta di essere sottoposta a sterilizzazione tubarica. Eccepiva che, in ogni caso, dalla lettera di dimissioni emergeva chiaramente il fatto che tale intervento non era stato eseguito.

Infine, deduceva che l’attrice, scoperta la gravidanza nel dicembre 2008, ben avrebbe potuto ricorrere all’interruzione volontaria della stessa ai sensi della L. n. 194/78.

Nel corso del giudizio, espletati gli incombenti di cui all’art. 183 c.p.c., il G.I. ammetteva le prove orali richieste dalle parti. Infine, all’udienza del 21.5.2015, il G.I., in funzione di Giudice Unico, sulle conclusioni precisate dai procuratori delle parti, tratteneva la causa in decisione a norma dell’art. 190 c.p.c.

Ritiene questo Giudice che, alla luce delle acquisite risultanze processuali, la domanda risarcitoria così come formulata dagli attori sia, almeno in parte, meritevole di accoglimento.

Giova anzitutto osservare che, nella fattispecie, non si verte nell’ipotesi, più ricorrente nella realtà giudiziaria, in cui il paziente allega di aver patito un danno alla salute in conseguenza di azioni od omissioni del medico ovvero di non avere conseguito alcun miglioramento delle proprie condizioni di salute nonostante il suo intervento, ma si verte invece nell’ipotesi, assolutamente diversa, in cui una paziente, premesso di aver concordato con i medici l’esecuzione, in occasione di un parto cesareo, di un intervento volto a scongiurare gravidanze indesiderate, lamenta di essere restata nuovamente incinta a distanza di pochi mesi, in quanto, come accertato in seguito, il programmato intervento di sterilizzazione tubarica non era stato affatto eseguito dai sanitari operanti.

Ebbene, come di recente chiarito dalla Suprema Corte in relazione ad ipotesi del tutto analoga (Cass. n. 24109/2013), deve trovare anche in questo caso applicazione il consolidato principio giurisprudenziale secondo cui il creditore, ossia il paziente che agisca in giudizio deducendo l’inesatto adempimento dell’obbligazione sanitaria, è tenuto a dimostrare l’esistenza del contratto e ad allegare l’inadempimento del sanitario, incombendo sul sanitario (o sulla struttura ospedaliera) l’onere di provare che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente. Ciò posto, nel caso che occupa tra le parti non vi è alcuna contestazione in ordine alla sussistenza del rapporto professionale – negoziale dedotto in giudizio e ai fatti descritti in citazione, e, segnatamente, in ordine al ricovero dell’attrice presso l’Unità Operativa di Ostetricia dell’Ospedale di Guastalla per l’esecuzione del programmato intervento di parto cesareo e alla mancata esecuzione, a seguito del predetto parto mediante taglio cesareo, dell’ulteriore intervento di sterilizzazione tubarica. La Azienda USL convenuta si è infatti limitata ad eccepire che “nessuna richiesta in tal senso” sarebbe stata formulata dall’odierna attrice in sede di raccolta anamnestica. L’assunto difensivo risulta tuttavia smentito dall’istruttoria.

Ed invero, com’è pacifico e documentato, in data 23.2.2007, all’atto del “prericovero” per fine gravidanza, la Pa. sottoscrisse apposito modulo di consenso cd informato, con cui dichiarava di autorizzare il personale medico del reparto di ostetricia a praticare sulla sua persona l’intervento di sterilizzazione tubarica, inteso a prevenire ulteriori gravidanze (doc. 1 att.). Come è stato riferito dal teste di parte convenuta dott. Be. Cl., medico ginecologo che raccolse il consenso della paziente, “quella di essere sottoposta a sterilizzazione tubarica è una specifica richiesta della paziente che il medico raccoglie e poi inserisce in cartella clinica, come richiesta accessoria a quella di parto cesareo”. Il teste ha altresì precisato che “se ci sono due moduli di consenso, uno relativo al parto cesareo e l’altro relativo alla sterilizzazione, è perché la paziente ha specificamente richiesto la sterilizzazione”. Sulla scorta del chiaro tenore letterale del documento prodotto da parte attrice sub doc. 1 e della sopra riportata deposizione testimoniale, non può seriamente dubitarsi che la Parveen abbia manifestato in modo inequivoco ai sanitari del nosocomio di Guastalla la sua volontà di essere sottoposta a sterilizzazione tubarica.

Ne è riprova la circostanza che anche il diario infermieristico contenuto al foglio 40 della cartella clinica riporta la annotazione “programma taglio cesareo + S.T.” laddove la sigla S.T., come è stato confermato dai testi Ventura Alessandro e Barbara Dallatomasina, sta per “Sterilizzazione Tubarica” (doc. 2 conv.).

Ciò posto, dovendo ritenersi provato che l’attrice abbia espresso, in occasione della visita ginecologica del 23.2.2007, una chiara volontà di essere sottoposta a sterilizzazione tubarica, del tutto irrilevante appare la circostanza che ella non abbia ribadito tale richiesta “contemporaneamente all’esecuzione del programmato taglio cesareo” ai sanitari presenti in sala operatoria.

Neppure può condividersi la difesa di parte convenuta secondo cui gli attori avrebbero dovuto avvedersi del fatto che la sterilizzazione non era stata praticata, in quanto la stessa non era indicata nella lettera di dimissioni dell’11.3.2007 (pag. 48 doc. 2 conv.).

Sul punto basti osservare che la mera circostanza che la lettera di dimissioni riportasse come intervento praticato sulla paziente (solo) il taglio cesareo non può certo ritenersi di per sé sufficiente a mettere gli attori, peraltro stranieri, in condizione di comprendere che il richiesto intervento di sterilizzazione – per ragioni che erano e sono rimaste sconosciute – non era stato eseguito. Sotto altro profilo, eccepisce la Azienda USL che la Parveen, venuta a conoscenza nel dicembre 2008 di essere rimasta nuovamente incinta, “ben avrebbe potuto legittimamente ricorrere, in forza delle disposizioni della Legge n. 194/78, all’interruzione di gravidanza”.

Anche tale eccezione non merita accoglimento. L’esistenza, nel nostro ordinamento, di un diritto all’aborto non comporta che tale diritto debba essere esercitato, ben potendo sussistere ragioni etiche, morali o religiose che impediscono tale scelta.

D’altra parte, altro è la scelta di non procreare, altro è quella di porre termine ad una gravidanza già in corso, decisione quest’ultima che risulta carica di ripercussioni, fisiche e psicologiche, per la donna.

Ciò detto, deve rammentarsi che, secondo consolidata giurisprudenza, il secondo comma dell’art. 1227 cod. civ., nel porre come condizione per il risarcimento dei danni l’inevitabilità degli stessi da parte del creditore, impone a quest’ultimo una condotta attiva o positiva diretta ad impedire le conseguenze dell’altrui comportamento dannoso ma nei limiti dell’ordinaria diligenza, laddove si intendono comprese nell’ambito dell’ordinaria diligenza, all’uopo richiesta, soltanto quelle attività che non siano gravose o eccezionali o tali da comportare notevoli rischi o rilevanti sacrifici.

Nella fattispecie, non può certo richiedersi alla danneggiata di sottoporsi ad intervento di interruzione volontaria della gravidanza al fine di evitare i danni conseguenti alla mancata esecuzione della sterilizzazione, comportando l’intervento abortivo un evidente e rilevante sacrificio alla salute e alla libertà di autodeterminazione della madre. Sulla scorta delle predette considerazioni, ritenuti sussistenti i dedotti profili di colpa nell’operato dei sanitari del nosocomio di Guastalla, i quali hanno totalmente omesso l’esecuzione dell’intervento di sterilizzazione tubarica richiesto dalla Parveen, va pertanto affermata la responsabilità dell’Azienda USL convenuta, e, per l’effetto, quest’ultima deve essere condannata al risarcimento dei danni sofferti dagli attori. Venendo alla quantificazione dei predetti danni, deve in primo luogo essere rigettata la domanda di risarcimento del danno biologico asseritamente sofferto dalla Parveen. Sul punto occorre infatti rilevare che, com’è pacifico e come emerge dalla cartella clinica prodotta dalla convenuta sub doc. 3, la gravidanza indesiderata ebbe un decorso regolare e si concluse con un intervento di parto cesareo (e sterilizzazione tubarica, richiesta e questa volta eseguita) privo di complicanze, tant’è che nessun profilo di danno alla salute viene dedotto con riferimento al periodo di gestazione.

Piuttosto, lamenta l’attrice che, successivamente al parto, avvenuto in data 10.8.2009, ella aveva sofferto di edema al volto e alle mani e di orticaria, sintomi di uno stato di “elevato stress psicologico”. Tuttavia, è la stessa attrice a riferire che, sottopostasi a visita psichiatrica per i predetti disturbi somatici, non emersero patologie psichiatriche, “ma soltanto un elevato stress psicologico, dovuto allo stravolgimento della qualità della vita” (doc. 3 att.).

Date tali risultanze, non può darsi ingresso alla C.T.U. medico-legale su cui parte attrice ha insistito anche in sede di precisazione delle conclusioni, trattandosi di indagine del tutto esplorativa.

Sotto altro profilo, lamentano gli attori di aver sofferto un danno non patrimoniale conseguente alla lesione del diritto di “autodeterminazione della propria esistenza” da quantificarsi, in via equitativa, in E 110.000,00 in favore della madre Pa. Sa. e in E.70.000,00 in favore del padre Mu. Iq..

Sul punto si osserva che può dirsi ormai acquisito nel nostro ordinamento il riconoscimento della posizione di tutela conseguente alla lesione del diritto all’autodeterminazione della coppia nella scelta di procreare in modo “cosciente e responsabile” (art. 1 L. n. 194 del 1978) che, se frustrato, costituisce un danno ingiusto meritevole di risarcimento, trattandosi di un diritto di libertà che trova tutela nel testo costituzionale (artt. 2 e 13 Cost.).

Come più volte riconosciuto dalla giurisprudenza di merito (Trib. Milano 20.10.1997; Trib. Tolmezzo 7.6.2011, Trib. Latina 21.7.2011; Trib. Busto Arsizio 17.7.2001), se dall’inadempimento del sanitario agli obblighi di diligenza a suo carico consegue la lesione del diritto della paziente di decidere liberamente se procreare o meno, tale inadempimento genera un danno che deve essere risarcito anche nella sua componente non patrimoniale e ciò malgrado il fatto non costituisca reato, trattandosi della lesione di diritti inviolabili della persona riconosciuti dalla Costituzione ed essendosi in presenza di una grave lesione dell’interesse tutelato e di un danno certamente non futile (cfr Cass. S.U. n. 26972/2008).

Inoltre, come chiarito dalla Suprema Corte in fattispecie analoghe, deve ritenersi che entrambi i genitori, e non solo la madre, siano legittimati a richiedere il risarcimento del danno non patrimoniale, essendo anche il padre tra i soggetti protetti dal contratto col medico (cfr. Cass. n. 6735/2002, secondo cui, in tema di responsabilità del medico per omessa diagnosi di malformazioni del feto e conseguente nascita indesiderata, il risarcimento dei danni che costituiscono conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento del ginecologo spetta non solo alla madre, ma anche al padre, “atteso il complesso di diritti e doveri che, secondo l’ordinamento, si incentrano sul fatto della procreazione, non rilevando, in contrario, che sia consentito solo alla madre (e non al padre) la scelta in ordine all’interruzione della gravidanza, atteso che, sottratta alla madre la possibilità di scegliere a causa dell’inesatta prestazione del medico, agli effetti negativi del comportamento di quest’ultimo non può ritenersi estraneo il padre, che deve perciò ritenersi tra i soggetti protetti dal contratto col medico e quindi tra coloro rispetto ai quali la prestazione mancata o inesatta può qualificarsi come inadempimento, con tutte le relative conseguenze sul piano risarcitorio”). Sennonché non è l’inadempimento del sanitario che è di per sé oggetto di risarcimento, ma il danno consequenziale, secondo i principi di cui all’art. 1223 c.c..

Tali principi trovano applicazione anche nel caso di danno non patrimoniale che deve sempre essere provato, trattandosi di danno – conseguenza e non di danno – evento, giacché, come più volte chiarito dalla Suprema Corte, “il danno non patrimoniale, anche nel caso di lesione di diritti inviolabili, non può mai ritenersi in re ipsa, ma va debitamente allegato e provato da chi lo invoca, anche attraverso il ricorso a presunzioni semplici” (tra le tante, Cass. 10527/2011; Cass. 13614/2011; Cass. 7471/2012). Venendo al caso che occupa, ritiene questo giudice che l’onere di allegazione e prova posto a carico del danneggiato dalla giurisprudenza sopra richiamata sia stato adeguatamente assolto soltanto dall’attrice Pa. Sa..

Ed invero, quest’ultima ha domandato il risarcimento del danno cd da nascita indesiderata dedotto con riferimento allo stress ed al disagio conseguente allo stravolgimento delle proprie aspettative e della “qualità” della propria vita a seguito e per l’effetto della nascita del sesto figlio allegando, in particolare, di aver vissuto un periodo di elevato stress fisico e mentale cagionato dalla difficoltà di accudire tre bambini in tenera età “che riposano pochissimo la notte”.

Tale circostanza, non fatta oggetto di specifica contestazione da parte della convenuta, appare altresì comprovata dalla documentazione prodotta in atti dalla attrice, da cui risultano, nel periodo immediatamente successivo al sesto parto, ben due accessi al Pronto Soccorso per disturbi tipicamente psicosomatici (edema ed orticaria). Sulla scorta di tali elementi può ragionevolmente presumersi che la Parveen, già madre di cinque figli, abbia subito un concreto ed effettivo peggioramento della propria qualità di vita per effetto della nascita “indesiderata” del suo sesto figlio, anche ove si consideri che la stessa si era tempestivamente attivata proprio per evitare tale evento.

Si ravvisano pertanto i presupposti richiesti dalla citata giurisprudenza di legittimità per riconoscere la risarcibilità del danno non patrimoniale. Considerati tutti gli acquisiti elementi di giudizio, appare equo riconoscere a tale titolo all’attrice la somma di E. 20.000 liquidata all’attualità comprensiva, cioè, di rivalutazione ed interessi. A diverse conclusioni deve invece pervenirsi con riferimento alla analoga domanda promossa dall’attore Iqbal Muhammad.

Ed invero, quest’ultimo non ha specificamente allegato né provato quali siano stati i concreti riflessi della nascita del suo sesto figlio sulle sue abitudini e su i suoi ritmi di vita.

La difesa dell’attore si è infatti limitata ad argomentare, in modo del tutto generico, che la violazione del diritto alla procreazione si traduce in un danno evento “che si ritiene presuntivamente esistente e consiste nello stravolgimento della vita di più persone, con abitudini, passatempi, ritmi biologici, forzatamente mutati, nella perdita di chance lavorative, nella modifica della vita di relazione, insomma nel totale cambiamento della abitudini di vita”.

Sennonché tali considerazioni di carattere generale, oltre che contrastare con i principi enunciati dalla prevalente giurisprudenza di legittimità la quale, come già si è detto, esclude la configurabilità danno – evento anche nell’ipotesi di danno non patrimoniale, mal si attagliano alla fattispecie concreta ove si consideri che l’attore era già padre di cinque figli, di tal che appare inverosimile ritenere che la nascita del sesto possa aver comportato un radicale mutamento delle sue abitudini di vita. Sulla scorta delle predette considerazioni, la domanda dell’Iqbal di risarcimento del danno non patrimoniale non può trovare accoglimento, non avendo l’attore fornito alcun concreto elemento che consenta di ritenere provato il lamentato pregiudizio, neppure mediante il ricorso a presunzioni.

Resta da esaminare la domanda di risarcimento del danno patrimoniale proposta da entrambi gli attori. Superando un orientamento più risalente che limitava il danno risarcibile solo a quello dipendente dal pregiudizio alla salute fisio – psichica della donna specificamente tutelata dalla legge 194/1978 (Cass. 6464/1994), la recente giurisprudenza di legittimità ha più volte affermato la risarcibilità anche del danno patrimoniale che sia conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento del sanitario, in termini di causalità adeguata (Cass. n. 12195/1998; Cass. n. 14488/2004; Cass. n. 13/2010).

Ciò posto, è indubbio che la nascita di un figlio comporti delle spese, necessarie per il suo mantenimento e la sua educazione fino a raggiungimento della sua indipendenza economica, le quali costituiscono conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento medico e soddisfano l’ulteriore requisito della prevedibilità del danno ai sensi dell’art. 1225 c.c.. Deve pertanto ritenersi che, come allegato dagli attori, il danno economico risarcibile sia costituito dalle spese che i due genitori dovranno sostenere per il mantenimento del figlio fino alla sua indipendenza economica, che può presuntivamente farsi coincidere con il compimento del 23 esimo anno di età (Trib. Cagliari 23 febbraio 1995; Trib. Tolmezzo 7 giugno 2011). Venendo alla quantificazione del predetto pregiudizio, la stessa non può che essere effettuata in via equitativa, data l’oggettiva difficoltà di fornire la prova del danno.

Non avendo gli attori fornito alcuna informazione circa la loro situazione reddituale o l’attività lavorativa svolta, alla liquidazione dovrà procedersi con riferimento al criterio generale ed astratto del costo minimo per il mantenimento di un figlio che può essere individuato nell’importo di E. 300,00 mensili (comprensivo d’interessi legali e rivalutazione monetaria).

Tale importo appare congruo anche ove si consideri che il sesto figlio, normalmente, può utilizzare il vestiario, le attrezzature e i libri già acquistati per i fratelli maggiori, consentendo ai genitori di giovarsi, in qualche misura, di “economie di scala”. Moltiplicando la suddetta somma di E.300,00 per 12 mesi e per 23 anni, agli attori deve essere riconosciuto, a titolo di risarcimento del danno patrimoniale, il complessivo importo di E. 82.800,00.

Quanto invece alle spese anticipate nel corso del tentativo di mediazione obbligatoria (E. 1.293,00 doc. 9 att.), le stesse non possono essere considerate come autonoma voce di danno risarcibile, dovendo invece essere liquidate tra le spese di lite (per tutte, Cass. n. 3523 del 27/10/1969). Sulle somme come sopra liquidate a titolo di danni patrimoniali e non patrimoniali sono dovuti gli ulteriori interessi di legge dalla decisione al saldo.

Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo, sulla base dei parametri di cui al DM 55/2014, avuto riguardo alla somma attribuita alla parte vincitrice piuttosto che a quella domandata.

PQM

P.Q.M.

Il Tribunale, definitivamente pronunciando, reietta o assorbita ogni altra domanda, eccezione o conclusione:

1) – dichiara la convenuta Azienda Unità Sanitaria Locale di Reggio Emilia responsabile dei danni sofferti dagli attori in conseguenza dei fatti oggetto di causa e, per l’effetto

2) – condanna la convenuta al pagamento, in favore dell’attrice Sa. Pa., a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale, della somma, liquidata all’attualità, di E 20.000,00, nonché al pagamento in favore di entrambi gli attori, a titolo di risarcimento del danno patrimoniale, dell’ulteriore somma, sempre all’attualità, di E. 82.800,00, oltre interessi di legge dalla decisione al saldo;

3) – condanna la AUSL convenuta al rimborso in favore degli attori delle spese di lite liquidate in E. 2357,00 per esborsi (di cui E.1.293,00 per spese di tentativo obbligatorio di conciliazione) e in E. 13.430,00 per compensi di avvocato, oltre rimborso spese generali, IVA e CPA come per legge.

REGGIO EMILIA, 7 ottobre 2015

 

 

Il Direttore dei lavori risponde anche dell’errato calcolo delle strutture ?

Corte di Cassazione sentenza  13 aprile 2015 n. 7370

Con questo arresto la Corte di Cassazione  giunge ad affermare  che il direttore dei lavori, nell’accettare l’incarico, deve poter garantire al committente quanto meno una capacità di supervisione e di controllo anche sulla corretta esecuzione degli elementi portanti. Qualora una tale capacità non abbia o non possa esercitare, è tenuto ad astenersi dall’accettare l’incarico o a delimitare specificamente fin dall’origine le prestazioni promesse e le sue conseguenti responsabilità, in relazione alle sue effettive competenze.”.

Nel contesto della motivazione il giudice di legittimità afferma che  “Il direttore dei lavori è la persona di fiducia del committente, incaricata di sorvegliare che le opere vengano correttamente eseguite dall’appaltatore e dal personale di cui questi si avvalga (cfr. fra le tante Cass. civ. Sez. 2, 29 agosto 2013 n. 198 95), intervenendo per tempo anche solo a fermarne l’esecuzione, qualora questa manifesti vizi o difetti“.

Le competenze del Direttore dei Lavori  implicherebbero  un suo coinvolgimento anche nei calcoli strutturali, cosiddetti calcoli dei cementi armati:  “… il geometra direttore dei lavori, pur se non competente per l’esecuzione dei calcoli in cemento armato, fosse o dovesse essere competente a valutare in corso d’opera come l’appaltatore ed i suoi ausiliari, ivi incluso l’ingegnere progettista delle strutture, eseguissero il loro lavoro, sì da rilevare per tempo i gravi difetti delle opere, prima che esse venissero completate in termini talmente difettosi da avere addirittura sollecitato un ordine di sgombero da parte dell’autorità, a causa del pericolo di crollo.”.

 

Testo della sentenza

Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 27 gennaio – 13 aprile 2015, n. 7370
Presidente Russo – Relatore Lanzillo

Svolgimento del processo

Vi.Si. ha proposto opposizione al decreto ingiuntivo n. 51/2002, emesso dal Tribunale di Forlì su ricorso dell’impresa edile di v.g. , recante condanna al pagamento di Euro 28.380,54, a saldo del corrispettivo dei lavori di costruzione di una villetta, dati in appalto all’impresa ricorrente.
A fondamento dell’opposizione la Vi. ha dedotto di avere sospeso il pagamento del saldo dei lavori, essendosi evidenziati gravi vizi nella costruzione, in relazione ai quali aveva proposto ricorso per accertamento tecnico preventivo, ed ha chiesto in via riconvenzionale la condanna dell’impresa al risarcimento dei danni.
L’impresa v. ha resistito, negando ogni sua responsabilità per avere eseguito quanto richiestogli dal direttore dei lavori e progettista, geom. V.L. , di cui ha chiesto ed ottenuto la chiamata in causa.
Il V. si è costituito, chiedendo a sua volta che il Tribunale autorizzasse la chiamata in causa ai sensi dell’art. 107 cod. proc. civ. dell’ing. L.A. , progettista e direttore dei lavori strutturali, e del Dott. A.P.L. , geologo.
I chiamati in causa si sono costituiti resistendo alle domande Esperita l’istruttoria anche tramite CTU, con sentenza n. 122/2006 il Tribunale ha revocato il decreto ingiuntivo e ha condannato l’impresa v. , V.L. e L.A. al pagamento di Euro 430.615,60 in risarcimento dei danni, disponendo – quanto ai rapporti interni fra i corresponsabili che il V. e il L. fossero tenuti a manlevare l’impresa nella misura di un terzo ciascuno.
Proposto appello principale dal V. e appelli incidentali dall’impresa v. , dal L. e dalla Vi. – quest’ultima limitatamente al mancato rimborso delle spese di ATP – la Corte di appello ha confermato la decisione di primo grado, accogliendo solo l’appello incidentale della Vi. . Il V. propone quattro motivi di ricorso per cassazione, con atto notificato il 20 luglio 2011.
Resistono con separati controricorsi la Vi. e A.P.L. .
Con atto in data 5.5.2012, designato come comparsa di costituzione di nuovo difensore, la Vi. ha integrato le proprie difese e ha dichiarato di avere sostituito l’avv. Guido Maria Pottino, già nominato codifensore e domiciliatario in Roma, con l’avv. Aldo Seminaroti, quale mero domiciliatario in Roma.
Il ricorrente e la Vi. hanno depositato memoria.

Motivi della decisione

1.- Con il primo motivo il ricorrente V. denuncia violazione di varie norme del codice di procedura civile, ed in particolare dell’art. 112, nonché omessa od insufficiente motivazione su “fatti decisivi” (non meglio specificati), per il fatto che la Corte di appello – emettendo condanna a suo carico, in solido con l’impresa v. – avrebbe accolto una domanda nuova, incorrendo in ultrapetizione.
Assume che l’impresa – unica convenuta – si è limitata a contestare la propria responsabilità nei confronti della committente e a proporre domanda di manleva contro esso V. e che la committente ha proposto la domanda di condanna del V. e degli altri chiamati in causa solo all’udienza di precisazione delle conclusioni.
Né sussisterebbe identità o connessione obiettiva fra i titoli in base ai quali l’impresa v. ed esso V. sono chiamati a rispondere, presupposto per poter estendere la domanda al terzo chiamato (richiama Cass. n. 25559/2008).
2.- Vanno preliminarmente respinte le eccezioni di inammissibilità delle censure, sollevate dalla resistente Vi. .
L’esposizione in fatto del ricorso è sufficientemente chiara e la denuncia di violazione di molteplici norme di diritto di cui non è specificata la pertinenza con le censure sollevate, pur se non encomiabile, non è tale da impedire alla Corte di comprendere agevolmente – dalle argomentazioni difensive l’essenza delle censure rilevanti ai fini della decisione. Neppure è fondata l’eccezione di inammissibilità per difetto di autosufficienza e per la mancata trascrizione degli atti difensivi poiché – avendo le censure carattere processuale – è consentito alla Corte di cassazione di valutarne la fondatezza o meno, mediante diretto accesso agli atti.
2.2.- Nel merito, il motivo non è fondato.
La Corte di appello si è uniformata al principio, più volte affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, per cui la domanda dell’attore si estende automaticamente al terzo chiamato in causa in tutti i casi in cui la chiamata del terzo sia effettuata al fine di ottenere la liberazione dello stesso convenuto dalla pretesa dell’attore, in ragione del fatto che il terzo deve essere individuato come unico obbligato nei confronti dell’attore, in vece e luogo dello stesso convenuto. In tal caso si realizza un ampliamento della controversia in senso soggettivo (divenendo il chiamato parte del giudizio in posizione alternativa con il convenuto) ed in senso oggettivo (inserendosi l’obbligazione del terzo, dedotta dal convenuto verso l’attore, in alternativa rispetto a quella individuata dall’attore), ma resta ferma, in ragione di detta duplice alternatività, l’unicità del complessivo rapporto controverso (Cass. civ. Sez. 3, 28 gennaio 2005 n. 1748; Idem, 21 ottobre 2008 n. 25559; Idem, 7 ottobre 2011 n. 20610). La Corte di appello ha accertato che il tenore letterale ed il contenuto sostanziale sia della comparsa di costituzione dell’impresa v. , con la richiesta di chiamata in causa del terzo, sia della conseguente citazione del V. , esprimono inequivocabilmente la volontà di ricondurre a quest’ultimo la responsabilità dei vizi denunciati dalla committente; che pertanto la chiamata in causa è stata effettuata non al solo scopo di garanzia, ma affinché il terzo chiamato rispondesse direttamente e per intero della pretesa dell’attore. Trattasi di interpretazione degli atti di parte, rimessa alla valutazione discrezionale del giudice di merito e non censurabile in sede di legittimità se non sotto il profilo dei vizi di motivazione, che nella specie non sono stati prospettati ed obiettivamente non sussistono.
Neppure va ravvisata l’asserita diversità del titolo in base al quale il convenuto ed il V. sono stati chiamati a rispondere, essendo in entrambi i casi la responsabilità fondata sul contratto di appalto, a cui si ricollega sia la nomina dell’impresa appaltatrice, sia la nomina del direttore dei lavori; sia il rapporto interno di cooperazione e di corresponsabilità fra l’impresa e il direttore dei lavori. Va soggiunto che la più recente giurisprudenza ha esteso l’applicazione del principio sopra enunciato ai casi in cui la chiamata del terzo si fondi su di un rapporto diverso da quello fatto valere in giudizio dall’attore, sul rilievo che si deve avere riguardo all’effettiva volontà del chiamante di attribuire al terzo la responsabilità della cattiva esecuzione delle opere, più che all’identità del rapporto giuridico da cui la responsabilità deriva: ed ha ritenuto che, ove una tale volontà sussista, il giudice può emettere condanna direttamente a carico del terzo, anche se l’attore non ne abbia fatto richiesta, senza incorrere nel vizio di extrapetizione (Cass. civ. 20610/2011 cit.).
3.- Il secondo ed il terzo motivo di ricorso attengono alla questione di merito circa la sussistenza della responsabilità del ricorrente e possono essere congiuntamente esaminati.
Il secondo motivo denuncia violazione del regolamento della professione di geometra (art. 16 r.d. 11 febbraio 1929 n. 274) ed il terzo motivo violazione degli art. 1218, 1292, 1294, 2055, 2230 e 2236 cod. civ., 41 cod. pen., nonché omessa od insufficiente motivazione, sul rilievo che i difetti di costruzione accertati dalla CTU attengono a patologie strutturali della costruzione, la cui esecuzione era affidata al progettista delle strutture ing. L. , ed attiene a calcoli in cemento armato che egli – nella sua qualità di geometra – non ha eseguito e per legge non avrebbe potuto eseguire, trattandosi di competenze riservate agli ingegneri. Ribadisce che egli aveva l’incarico di direttore dei lavori architettonici ed era tenuto a sovrintendere alla mera conformità della costruzione al disegno progettuale, in relazione alla quale i vizi e le difformità denunciate, attinenti alla pavimentazione, al caminetto, alla posa delle luci, a difetti degli intonaci e delle murature e simili, non hanno nulla a che fare con le gravi patologie rilevate; sì che è da ritenere che egli – avendo fatto sospendere il pagamento dell’ultima rata del prezzo (Euro 28.830,54), che non è stata mai corrisposta dalla committente – ha riparato a tutti i danni a lui personalmente imputabili.
3.1.- I motivi non sono fondati.
In primo luogo non vi è violazione delle norme sulla competenza dei geometri, né di quelle generali in tema di inadempimento e di contratto d’opera professionale poiché la Corte di appello ha addebitato al geometra non di avere male eseguito opere di competenza altrui, ma in parte di essere incorso in negligenze ed imperfezioni anche in relazione ai lavori che egli definisce di conformità al progetto architettonico e che attengono al controllo sulla corretta esecuzione da parte dell’impresa delle opere non strutturali e di finitura, quali quelle attinenti alle tubazioni, agli intonaci, ecc.; in parte e soprattutto di non avere svolto diligentemente le mansioni di sua specifica competenza quale direttore dei lavori, considerati nella loro globalità, cioè di non avere esercitato adeguato controllo sull’operato altrui, sì da rilevare in corso d’opera l’inadeguatezza della costruzione degli elementi strutturali – ancorché non di sua competenza – segnalandone per tempo imperfezioni ed errori, pur se ad altri ascrivibili.
Il direttore dei lavori è la persona di fiducia del committente, incaricata di sorvegliare che le opere vengano correttamente eseguite dall’appaltatore e dal personale di cui questi si avvalga (cfr. fra le tante Cass. civ. Sez. 2, 29 agosto 2013 n. 198 95), intervenendo per tempo anche solo a fermarne l’esecuzione, qualora questa manifesti vizi o difetti.
La Corte di appello ha ritenuto – nel suo potere discrezionale di valutazione del comportamento delle parti – che il geometra direttore dei lavori, pur se non competente per l’esecuzione dei calcoli in cemento armato, fosse o dovesse essere competente a valutare in corso d’opera come l’appaltatore ed i suoi ausiliari, ivi incluso l’ingegnere progettista delle strutture, eseguissero il loro lavoro, sì da rilevare per tempo i gravi difetti delle opere, prima che esse venissero completate in termini talmente difettosi da avere addirittura sollecitato un ordine di sgombero da parte dell’autorità, a causa del pericolo di crollo.
Il direttore dei lavori, nell’accettare l’incarico, deve poter garantire al committente quanto meno una tale capacità di supervisione e di controllo anche sulla corretta esecuzione degli elementi portanti. Qualora una tale capacità non abbia o non possa esercitare, è tenuto ad astenersi dall’accettare l’incarico o a delimitare specificamente fin dall’origine le prestazioni promesse e le sue conseguenti responsabilità, in relazione alle sue effettive competenze.
In mancanza, deve quanto meno fornire la prova che i vizi verificatisi non potevano essere obiettivamente rilevati se non a costruzione ultimata: circostanza che nella specie il ricorrente non solo non dichiara di avere dimostrato, ma neppure ha dedotto.
Va condivisa, quindi, la sua affermazione di non essere direttamente responsabile dei vizi strutturali della costruzione, ma non è suscettibile di censura la sentenza impugnata, nella parte in cui gli ha addebitato di non avere saputo esercitare il controllo sull’esecuzione dei lavori anche strutturali, sì da rilevarne per tempo i gravi difetti.
4.- Il quarto motivo denuncia ancora violazione delle norme di cui sopra ed omesso esame di fatti decisivi, ai sensi dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., nel capo in cui la Corte di appello ha ripartito le colpe fra i responsabili attenendosi all’immotivato giudizio del CTU circa l’uguale responsabilità di tutti, senza valutare criticamente la situazione, né tenere conto della diversa efficienza causale, anche in ordine all’entità dei danni, delle imperfezioni addebitabili al geometra e di quelle strutturali, che hanno compromesso la stabilità del fabbricato, richiedendone l’intero rifacimento.
4.1.- Il motivo non è fondato.
La Corte di appello ha affrontato la questione ed ha accertato (al punto 1.3) che dai punti B e C della relazione peritale si desume che “anche i soli difetti degli elementi architettonici, o comunque direttamente legati alle carenze della direzione generale dei lavori, nel caso concreto sono apparsi tali, per numero e natura, da compromettere in modo considerevole le possibilità di godimento e conservazione dell’edificio. La presenza di un progetto e di una direzione strutturale non poteva certo esonerare il geom. V. o l’impresa costruttrice, ciascuno nell’ambito delle proprie competenze, dall’affrontare e risolvere problemi quali – per citarne solo alcuni – a) la presenza di un grado di vincolamento dell’edificio non idoneo, sia in fondazione, sia in copertura; b) la insufficiente cura di essenziali dettagli costruttivi, primo fra tutti il nodo palo-trave-pilastro che rappresenta uno degli elementi principali per la corretta stabilità del fabbricato; c) la mancanza di idoneo coordinamento fra progettisti, direttori dei lavori ed impresa, per sopperire alle mancanze di cui sopra; d) l’introduzione di modifiche in corso d’opera…”, ecc..
Trattasi di motivazione attinente ad accertamenti in fatto circa la specifica rilevanza causale dei vari comportamenti in ordine al danno che si è verificato, alla quale non possono essere mossi addebiti di illogicità o di insufficienza tali da giustificare l’annullamento della decisione.
5.- Il ricorso non può che essere respinto.
6.- Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e vanno rimborsate solo alla Vi. , essendo risultato ininfluente ai fini della decisione il controricorso dell’A. .

P.Q.M.

La Corte di Cassazione rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a rimborsare alla resistente Vi. le spese del giudizio di cassazione, liquidate complessivamente in Euro 4.000,00, di cui Euro 200,00 per esborsi ed Euro 3.800,00 per onorari, oltre al rimborso delle spese generali ed agli accessori di legge.

 

 

 

Responsabilità civile-danno da prodotti difettosi- Oneri probatori- Responsabilità del produttore- protesi mammaria- svuotamento

Corte di Cassazione   29 maggio 2013, n.13458

Secondo il principio di diritto affermato dalla Cassazione con la sentenza in oggetto, l’ordinamento  pone a carico del produttore l’onere  di provare l’inesistenza del difetto del prodotto ab origine e, in ogni caso, dal momento in cui lo stesso è stato messo in circolazione. Continue reading “Responsabilità civile-danno da prodotti difettosi- Oneri probatori- Responsabilità del produttore- protesi mammaria- svuotamento”

Responsabilità da prodotto difettoso, onere della prova

Corte di Cassazione Sez. III, 8 ottobre 2007, n. 20985

Con il seguente arresto la Corte di Cassazione ha affermato il seguente principio: << Nell’ipotesi di responsabilità civile da prodotti difettosi, disciplinata dal d. P.R. 24 maggio1988, n. 224, il primo comma dell’art. 8 del citato d.p.r. (“Il danneggiato deve provare il danno, il difetto e la connessione causale tra difetto e danno …”) va interpretato nel senso che detto danneggiato deve provare (oltre al danno ed alla connessione causale predetti) che l’uso del prodotto ha comportato risultati anomali rispetto alle normali aspettative e tali da evidenziare la sussistenza di un difetto ai sensi di cui all’art. 5 D.P.R. cit.; invece il produttore deve provare (ex artt. 6 ed 8 D.P.R. cit.), che è probabile che il difetto non esistesse ancora nel momento in cui il prodotto è stato messo in circolazione. >>

Ha altresì puntualizzato che il Giudice del rinvio dovrà tenere presente – a proposito dell’onere probatorio in questione – la norma dell’art. 12 del d.P.R. 24 maggio1988, n. 224. “Clausole di esonero da responsabilità” : “1. È nullo qualsiasi patto che escluda o limiti preventivamente, nei confronti del danneggiato, la responsabilità prevista dal presente decreto”, articolo la cui applicazione è era stata invocata dal ricorrente nell’ambito di argomentazioni strettamente connesse con l’accolta censura.

 

CORTE DI CASSAZIONE CIVILE

Sez. III, 8 ottobre 2007, n. 20985

Pres. Nicastro – Est. Talevi – P.M. (conf.) – D. B. c. Mentor Corporation spa ed altra

Svolgimento del processo. – Nell’impugnata decisione lo svolgimento del processo è esposto come segue.

“Con citazione affidata alla notifica mediante servizio postale il 21 giugno 1995 D. B. conveniva avanti al Tribunale di Mantova la Mentor Corporation e la spa Comesa per sentirle condannare in solido al risarcimento dei danni da lei patiti per la rottura di una protesi mammaria di fabbricazione della prima e distribuita dalla seconda.

Precisava che, sottopostasi ad intervento di mastectomia radicale per neoplasia mammaria presso l’ospedale di Mantova, le era stata applicata, in data 1 febbraio 1992, una protesi mammaria di fabbricazione della Mentor.

Purtroppo, in data 14 maggio 1994 ella aveva notato una certa asimmetria e, sottopostasi a visita, era stato accertato che la protesi, costituita in sostanza da un involucro contenente soluzione salina, si era inspiegabilmente svuotata e la soluzione si era diffusa nei tessuti circostanti. Si era imposto, pertanto, altro intervento, praticato il 9 giugno 1994 presso l’ospedale di Verona per la rimozione dell’involucro e il drenaggio dei tessuti, operazione cui erano seguite altre terapie e previsione di altra operazione di alta specializzazione e di corrispondente costo.

Lamentava gravi danni sia materiali, sia di comprensibile riverbero psichico e precisava che la protesi rimossa era tuttora custodita “…presso il reparto di 2^ divisione chirurgia plastica presso gli istituti ospedalieri di Verona di Borgo Trenta…”.

Resisteva la Comesa spa, negando proprie responsabilità contrattuali o extracontrattuali quanto meno per assoluto difetto dell’elemento psicologico. Precisava, infatti, di essere stata semplice fornitrice della protesi in questione, pervenutale dal fabbricante in confezione sterile e sigillata destinata all’apertura e al controllo da parte del chirurgo in sede di applicazione, così che nulla poteva a lei essere imputato, non senza considerare la propria carenza di legittimazione passiva inammissibile essendo l’azione nei di lei confronti nella ipotesi, qui ricorrente, che il produttore della cosa asseritamente difettosa fosse noto. Infine contestava, difettando al riguardo ogni prova, che la protesi avesse avuto effettivamente vizi.

Resisteva anche la Mentor osservando che la disciplina codicistica era stata integrata dalla legge n. 224 del 1988 che aveva introdotto una particolare figura di responsabilità extracontrattuale di tipo “oggettivo”, vale a dire svincolata dalla colpa del produttore e basata, invece, sul mero rapporto di causalità tra il difetto del prodotto e il danno. La legge stabilisce, infatti, che “il produttore è responsabile del danno cagionato da difetti del suo prodotto” (art..), ma precisa che”un prodotto è difettoso quando non offre la sicurezza che ci si può legittimamente attendere” alla luce di una serie di fattori fra cui “…il modo in cui il prodotto è stato messo in circolazione, la sua presentazione, le istruzioni e le avvertenze fornite..”(art.5).

Premesso ciò, sottolineava la convenuta come la protesi in questione fosse messa in commercio corredata di dettagliate istruzioni che senza mezzi termini ammonivano il consumatore sulle possibilità di rischio del suo impiego, sui limiti di affidabilità, sulle controindicazioni, sulle situazioni in cui era addirittura sconsigliato l’impiego e, in particolare, sulla possibilità, espressamente prevista, di sgonfiamento legata ad una lunga serie di fattori possibili e individuati, nonché ad una serie ulteriore di fattori inconoscibili.

Sottolineava anche la Mentor che non si trattava affatto di un prodotto in libero commercio, bensì di un prodotto non reclamizzato, né offerto direttamente al pubblico, ma fornito su espressa richiesta del medico a propria volta tenuto ad informare il paziente di tutti i rischi e le controindicazioni di esso, così che l’attrice doveva essere pienamente consapevole di tutto ciò nel momento in cui aveva accettato di lasciarsi impiantare la protesi de qua, con conseguente assenza di ogni responsabilità a carico della deducente anche alla luce del disposto dell’articolo 10 della legge secondo cui “…il risarcimento non è dovuto quando il danneggiato sia stato consapevole del difetto del prodotto e del pericolo che ne derivava e nondimeno vi si sia volontariamente sottoposto …”.

Osservava, poi, che, sempre secondo la legge, “…la responsabilità è esclusa…se il difetto che ha cagionato il danno non esisteva quando il produttore ha messo in circolazione il prodotto…”. Precisava che, prima di uscire dalla fabbrica, ciascuna protesi viene sottoposta ad accurati controlli qualitativi e a sterilizzazione e, in ogni caso, le informazioni allegate prevedevano ben specifici test che il chirurgo avrebbe dovuto effettuare sulla protesi prima di impiantarla. Orbene, se il chirurgo impiantò la protesi, ciò vuol dire che i test avevano dato risultati soddisfacenti e, se così fu se ne trae necessariamente che non esistevano difetti al momento della messa in circolazione del prodotto. Se, viceversa, il giudizio implicito (di assenza di difetti) era stato determinato dalla non corretta esecuzione dei test nonostante le raccomandazioni di essa produttrice, di certo della cattiva riuscita dell’impianto l’attrice non aveva titolo per dolersi nei confronti del produttore. Inoltre, le protesi venivano consegnate vuote, essendo compito del chirurgo provvedere al loro riempimento, al momento dell’impiego, con una soluzione salina e secondo specifiche istruzioni fornite dalla Mentor, così che se tutto ciò era stato fatto ne conseguiva necessariamente che la protesi era apparsa integra al chirurgo che aveva deciso, quindi di impiantarla. Non senza considerare che l’articolo 8 secondo comma della Legge stabilisce che “…ai fini dell’esclusione da responsabilità prevista nell’articolo 6 lettera b, è sufficiente dimostrare che, tenuto conto delle circostanze, è probabile che il difetto non esistesse ancora nel momento in cui il prodotto è stato messo in circolazione…”. Contestava, infine, il nesso causale fra le voci di danno indicate dall’attrice e l’episodio contestato, ribadendo, in ogni caso, l’assenza di propria responsabilità.

Alla causa era riunita altra causa nel frattempo instaurata dalla Mentor nei confronti di F. B. e dell’ospedale Carlo Poma di Mantova dai quali, nella rispettiva qualità di chirurgo che aveva proceduto all’impianto della protesi e di ospedale presso cui l’operazione era stata eseguita, la Mentor chiedeva essere manlevata nell’ipotesi di accoglimento della domanda attrice.

Entrambi si erano costituiti con unico patrocinio respingendo ogni addebito.

Si procedeva a tentativo di conciliazione che non riusciva, quindi a consulenza tecnica medica e, infine, dopo alcune deduzioni e controdeduzioni e l’assunzione di prova testimoniale, la causa era decisa con sentenza 13 giugno 2001 che accoglieva la domanda svolta nei confronti della Mentor e della spa Comesa, nonché la domanda di manleva svolta da quest’ultima nei confronti della Mentor, che condannava alle spese nei confronti di B. e dell’ospedale Carlo Poma e, in solido con la Comesa, nei confronti dell’attrice.

Appellava la Mentor con citazione notificata il 16 ottobre 2001 e, nel contraddittorio della B., che resisteva al gravame proponendo impugnazione incidentale, della spa Comesa e di F. B., il quale avanzava domanda di condanna della spa Mentor per lite temeraria e dell’ospedale Carlo Poma, la causa era trattenuta in decisione sulle sopra trascritte conclusioni.

Con sentenza 8.1 -20.5.2003 la Corte d’Appello di Brescia decideva come segue: “1n riforma della sentenza 13 giugno 2001 del giudice unico del Tribunale di Mantova, respinge la domanda di D. B. e ne compensa le spese con Mentor Corporation e spa Co.Me.Sa.. Condanna la Mentor Corporation a rifondere a F. B. e all’ospedale Carlo Poma di Mantova le spese dei due gradi liquidate in complessivi € 3,000,00 quanto al primo ed € 3.500,00 quanto al presente”.

Contro questa decisione ha proposto ricorso per tassazione D. B..

Ha resistito con controricorso la Mentor Corporation.

  1. B. ha depositato memoria.

Motivi della decisione. – Con il primo motivo di ricorso D. B. denuncia “Violazione e falsa applicazione della norma di diritto in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c. violazione dpr 224/88 e agli artt. 1490-1494-2043 c.c.” esponendo varie dog1ianze; le prime di queste vanno riassunte come segue. Accogliendo in toto le tesi difensive dell’appellante Mentor Corporation il Giudice dell’Appello, omettendo qualsiasi considerazione sulle opposte tesi difensive dell’appellata B., ha violato il fondamento della normativa posta a tutela del consumatore, stravolgendone, con un ragionamento incompleto, incoerente ed illogico, lo spirito e il contenuto. Orbene in base al d.p.r. 24 maggio 1988 n. 224 il produttore è responsabile per i danni causati da difetti dei suoi prodotti. Il giudice d’appello ha ritenuto che dopo due anni e quattro mesi (lasso temporale assolutamente inaccettabile) dalla installazione lo svuotamento della protesi non concreta difetto quanto piuttosto manifestazione della possibile esistenza di un difetto. L’onere della prova dell’assenza di difetti incombe in ogni caso sul produttore non sul consumatore come ha erroneamente ritenuto, stravolgendo lo spirito della norma, il Giudice d’Appello (“incombeva all’attrice dimostrare:. . . il difetto e il nesso causale tra questo e il danno”; v. a pag. 10 sentenza Corte D’Appello) né può essere soppressa o limitata la responsabilità del produttore con clausole esonerative o limitative della responsabilità come erroneamente ritenuto dallo stesso giudice. Il tribunale di Mantova, correttamente e conformemente allo spirito della norma, con sentenza 597/01 ha sottolineato che “il fatto che il produttore non garantisca la durata illimitata della protesi non può portare ad escludere la sua responsabilità in tutti quei casi in cui la protesi ha avuto una durata tanto limitata nel tempo (nella fattispecie poco più di due anni) da deludere le aspettative, anche le più pessimistiche, di un paziente che decide di sottoporsi ad un intervento chirurgico”. L’art. 12 del DPR 224/88 stabilisce il divieto assoluto di clausole di esonero della responsabilità.. Nel caso in esame, dalla copiosa documentazione prodotta in atti dalla dr.ssa B. relativa al contenzioso dei consumatori portatori di protesi di produzione Mentor Corporation in essere negli USA, ingiustificatamente trascurata dal giudice d’appello, appare più che evidente la responsabilità del produttore per quella tipologia di protesi. La Mentor Corporation non ha superato l’onere della prova dell’assenza di difetti, né ha superato il principio del neminem laedere che implica l’onere di vigilare affinché i beni non presentino difetti di sicurezza tali da arrecare danno alle persone.

Il primo punto essenziale affrontato dalla parte ricorrente riguarda dunque il sopra citato onere della prova.

La Corte d’Appello basa il suo assunto sul seguente rilievo:

“. . . Pur se il d.p.r. 24 maggio 1988 n.224 ha reso più accessibile la tutela extracontrattuale avendo sollevato il danneggiato dall’onere di dimostrare la colpa del produttore, per altro verso ha ribadito la necessità che egli dimostri “…il danno, il difetto e la connessione causale tra difetto e danno…”(art. 8). Che nella specie danno vi sia stato, a parte le distinzioni proposte dall’odierna appellante fra conseguenze dirette dello svuotamento e affezioni meglio ricollegabili alla morbilità pregressa, è, sostanzialmente, fuori discussione. Ciò che incombeva all’attrice dimostrare erano quindi gli altri due requisiti, vale a dire il difetto e il nesso causale fra questo e il danno ….”.

Da tale brano e dal contesto della motivazione si evince: che secondo detta Corte il danneggiato ha l’onere di provare tra l’altro che il produttore ha messo in circolazione un prodotto con il difetto che ha cagionato il danno.

Se ci si limita a considerare il primo comma dell’art. 8 cit. (avente il contenuto citato nella sentenza) tale tesi interpretativa può apparire a prima vista fondata.

Ma la questione va in realtà affrontata considerando il complesso di norme in questione.

In particolare il secondo comma di detto art. 8 recita: “… Il produttore deve provare i fatti che possono escludere la responsabilità secondo le disposizioni dell’art. 6. ai fini dell’esclusione da responsabilità prevista nell’art. 6, lettera b), è sufficiente dimostrare che, tenuto conto delle circostanze, è probabile che il difetto non esistesse ancora nel momento in cui il prodotto è stato messo in circolazione.”.

L’articolo 6 (“Esclusione della responsabilità”) citato da detta norma stabilisce quanto segue: “1. La responsabilità e esclusa: a) se il produttore non ha messo il prodotto in circolazione; b) se il difetto che ha cagionato il danno non esisteva quando il produttore ha messo il prodotto in circolazione….”.

La circostanza che il legislatore abbia incluso nell’onere probatorio a carico del produttore la circostanza di cui al punto b) ora citato, e cioè abbia previsto che sia detto produttore a dover provare che “… Il difetto che ha cagionato il danno non esisteva quando il produttore ha messo il prodotto in circolazione….”, rende impossibile sostenere che un onere siffatto gravi sul danneggiato. In altri termini esclude che il danneggiato debba dimostrare la sussistenza del difetto fin dal momento in cui il produttore ha messo il prodotto in circolazione.

A questo punto l’unica interpretazione logicamente possibile e coerente con la ratio del D.P.R. in esame (chiaramente volta ad assicurare una maggiore tutela del danneggiato) consiste nell’interpretare il primo coma dell’art. 8 cit. (art. 8. Prova 1. “Il danneggiato deve provare il danno, il difetto e la connessione causale tra difetto e danno …”) nel senso che detto danneggiato deve dimostrare (oltre al danno ed alla connessione causale predetta) che l’uso del prodotto ha comportato risultati anomali rispetto alle normali aspettative; e cioè ha l’onere di provare (secondo le specifiche previsioni del legislatore contenute nell’art. 5: “… Art. 5. Prodotto difettoso. 1. Un prodotto è difettoso quando non offre la sicurezza che ci si può legittimamente attendere tenuto conto di tutte le circostanze, tra cui: …”) che il prodotto (durante detto uso) si è dimostrato “… Difettoso …” non offrendo “… La sicurezza che ci si …” poteva “… Legittimamente attendere tenuto conto di tutte le circostanze …” di cui al prosieguo dell’art. 5 cit.

Una volta che il danneggiato ha dimostrato che il prodotto ha evidenziato il difetto durante l’uso, che ha subito un danno e che quest’ultimo è in connessione causale con detto difetto, è il produttore che ha l’onere di provare che quest’ultimo (il difetto riscontrato) non esisteva quando ha posto il prodotto in circolazione.

Nella fattispecie in esame D. B. aveva dunque l’onere di dimostrare che nel corso dell’uso (entro un congruo periodo di tempo dall’impianto) la protesi aveva manifestato il difetto (si era vuotata), che vi era stato un danno e che sussisteva il suddetto nesso eziologico.

La Mentor Corporation doveva a questo punto adempiere l’onere probatorio previsto dall’art. 6 ed 8 cit. dimostrando, in particolare, che era probabile che il difetto non esistesse ancora nel momento in cui il prodotto era stato emesso in circolazione (in altre parole la problematica dei traumatismi dopo l’impianto rientrava – in linea generale – nell’ambito dell’onere probatorio incombente su detta società).

In conclusione va enunciato il seguente principio di diritto: “il primo comma dell’art. 8 del D. P. R. 24 maggio 1988, n. 224 (“Il danneggiato deve provare il danno, il difetto e la connessione causale tra difetto e danno …”) va interpretato nel senso che detto danneggiato deve provare (oltre al danno ed alla connessione causale predetti) che l’uso del prodotto ha comportato risultati anomali rispetto alle normali aspettative e tali da evidenziare la sussistenza di un difetto ai sensi di cui all’art. 5 D.P.R. cit.; invece il produttore deve provare (ex artt. 6 ed 8 D.P.R. cit.), che è probabile che il difetto non esistesse ancora nel momento in cui il prodotto è stato emesso in circolazione.”.

La corte di merito non ha applicato tale principio di diritto.

L’impugnata sentenza va dunque cassata.

Le ulteriori doglianze debbono ritenersi assorbite (e potranno essere riproposte nel giudizio di rinvio) in quanto tutte le risultanze probatorie dovranno essere riprese in esame dal Giudici del rinvio alla luce del principio ora enunciato (tenendo peraltro anche presente l’art. 12. Clausole di esonero da responsabilità: “1. È nullo qualsiasi patto che escluda o limiti preventivamente, nei confronti del danneggiato, la responsabilità prevista dal presente decreto”, articolo la cui applicazione è giustamente invocata dal ricorrente nell’ambito di argomentazioni strettamente connesse con la censura – sopra accolta – circa l’onere probatorio in questione).

I1 Giudice del rinvio va individuato nella medesima Cotte di Appello di Brescia in diversa composizione.

A detto Giudice va rimessa anche la decisione sulle spese del giudizio di c.

Responsabilità da prodotto e onere della prova

I danni da responsabilità civile per prodotto difettoso sono in aumento per le aziende europee ed extraeuropee. In particolare in Italia è notevolmente aumentato il numero delle azioni di richiamo di prodotti difettosi dal mercato e delle sentenze a sfavore dei produttori, anche per effetto della entrata in vigore del Codice del Consumo (D. Lgs. n. 2 del 6 settembre 2005) che ha agevolato l’azione dei consumatori contro i produttori.

Alcuni casi recenti hanno evidenziato come una scorretta gestione di tali rischi possa risultare dannosa per l’azienda, sia in termini di danni economici diretti, relativi a costi d’intervento e richieste di risarcimento, sia in termini di danni indiretti quali il pregiudizio dell’immagine aziendale.

In un’ ottica di prevenzione dei rischi derivanti da prodotto difettoso gioverà segnalare i più recenti casi giurisprudenziali.

Casistica giurisprudenziale nazionale. Responsabilità da prodotto e onere della prova

Tribunale di Pontedera del 28/02/2011

 Questa pronuncia si segnala perché ha delineato in modo puntuale le regole in tema di ripartizione dell’onere probatorio, tra il consumatore e il produttore, nel caso in cui il primo lamenti un danno cagionatogli dal bene acquistato. Il caso è quello di un motociclista rimasto gravemente ustionato a seguito all’esplosione del serbatoio del proprio scooter in occasione di un sinistro stradale. Il motociclista sosteneva che l’intrinseca insicurezza e difettosità del prodotto (nella fattispecie il serbatoio) sarebbe stata l’unica causa dell’incidente e diretta conseguenza di un difetto di progettazione del medesimo. La casa produttrice convenuta, dal canto suo, nel tentativo di offrire la prova liberatoria contestava essenzialmente la condotta del conducente al momento del sinistro, indicandola quale causa esclusiva dell’evento dannoso occorso. Il giudice pisano in conformità alle recenti pronunce dei Tribunali nazionali in tema di product liability ha disposto che “…Quando il danneggiato ha dato prova dell’insicurezza del prodotto, si presume iuris tantum la responsabilità del produttore e spetta a quest’ultimo la prova della scorrettezza o dell’anomalia del comportamento del consumatore nell’utilizzazione del prodotto al fine di escludere il carattere originario del difetto”. Pertanto, non avendo il produttore fornito adeguata prova liberatoria, dimostrando l’anomalia del comportamento del consumatore, è stato condannato al risarcimento dei danni subìti dal motociclista.