Categoria: Fallimentare e delle procedure concorsuali

La protezione dei pagamenti da revocatoria fallimentare. I pagamenti effettuati nei termini d’uso

Cass. Civ., Sez. I, 26 aprile 2023, n. 10997, ord.

L’art 67 della Legge Fallimentare ( ora ridefinita Legge della crisi d’impresa) esclude da revocabilità, in caso di insolvenza dichiara dell’impresa ( id est fallimento, concordato, liquidazione coatta amministrativa), il pagamenti operati dall’impresa insolvente anche nell’arco degli ultimi sei mesi che precedono la dichiarazione d’insolvenza, se i pagamenti stessi sono effettuati “nei termini d’uso”. La giurisprudenza si è cimentata, quindi, nel compito di interpretare tale espressione posto che accade sovente che le imprese in difficoltà pagano in modo irregolare.  Accade nella prassi, infatti, che le imprese in difficoltà chiedano di modificare i termini di pagamento, peggio, adempiano in modo irregolare.
L’argomento è stato affrontato con un recentissimo arresto della Suprema Corte di Cassazione, la sentenza n.  10997/2023, con il quale è stato enunciato il seguente principio:
“L’effetto dell’esenzione dell’art. 67, terzo comma, lett. a), l. fall., è quello di rendere non revocabili quei pagamenti i quali, pur avvenuti oltre i tempi contrattualmente prescritti, siano stati di fatto eseguiti ed accettati in termini diversi, nell’ambito di plurimi adempimenti con le nuove caratteristiche, evidenziatesi già in epoca anteriore a quelli de quibus.  Ai fini dell’accertamento, il Giudice dovrà valutare la sussistenza di una prassi invalsa tra le parti in epoca prossima ai pagamenti revocandi.”

IL CASO. La Corte d’Appello di Perugia, ribaltando la sentenza di primo grado resa dal Tribunale di Terni, dichiarava la revocabilità di una serie di pagamenti, escludendo l’applicabilità dell’esenzione di cui alla lett. a) del comma 3, dell’art. 67, l.fall. Per la Corte, infatti, la circostanza che i pagamenti fossero avvenuti con un ritardo sempre maggiore rispetto a quello ritenuto “solito”, portava ad escludere la possibilità di ritenere tali ritardi nei termini d’uso, come ulteriormente comprovato  dai numerosi solleciti inviati dalla Società Alfa, creditrice, alla Società Beta, debitrice.
Sussisteva, inoltre, la scientia decoctionis dell’accipiens ( n.d.r.  la consapevolezza dello stato di decozione da parte del creditore), comprovata da elementi presuntivi quali (i) articoli di stampa; (ii) risultanze di bilancio; (iii) rifiuto del revisore di esprimere il proprio parere sul bilancio; (iv) attivazione della cassa integrazione; (v) sospensione delle forniture e interruzione dell’attività produttiva.
La società Alfa, accipiens condannata alla restituzione degli importi ricevuti, ricorreva in cassazione, chiedendo la riforma della sentenza della Corte perugina, assumendo l’erroneità del decisum del Giudice nella misura in cui aveva escluso l’applicabilità dell’esenzione prevista dall’art. 67, co. 3, lett. a), l.fall.

La Corte di Cassazione, in accoglimento del ricorso della Società Alfa, ha cassato la sentenza impugnata e disposto il rinvio alla Corte d’Appello di Perugia, in diversa composizione.

In particolare, la Corte ha statuito che il giudice d’appello, pur essendo tenuto a verificare l’esistenza di una prassi anteriore, adeguatamente consolidata e stabile, non si è preoccupato di accertare quale fosse la consuetudine negoziale invalsa fra le parti in un’epoca prossima ai pagamenti revocandi, arrestando la propria analisi a condotte risalenti a quattro anni addietro e dunque non significative della “normalità” di un atto di adempimento compiuto in coerenza con la pratica esistente al momento della sua esecuzione. La motivazione del giudice a quo, che risultava contraddittoria e viziata dall’omesso esame della documentazione relativa ai pagamenti avvenuti in epoca più recente, doveva dunque essere riformata.

Il testo della sentenza 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

RILEVATO

che:

  1. Il Tribunale di Terni, con sentenza n. 355/2017, respingeva la domanda proposta D.Lgs. n. 270 del 1999, ex art. 49 e L.Fall., art. 67 da BETA s.p.a. in a.s. nei confronti di ALFA s.p.a., avente ad oggetto la revoca dei pagamenti effettuati dalla società in bonis in favore della convenuta nei sei mesi anteriori alla dichiarazione di insolvenza, ritenendo che gli stessi fossero stati effettuati nei termini d’uso fra le parti e rientrassero così nell’esenzione prevista dalla L.Fall., art. 67, comma 3, lett. a).
  2. La Corte d’appello di Perugia ha accolto l’appello proposto dall’A.S. contro la decisione. Ha rilevato che, benché sin dal 2005 BETA avesse iniziato a pagare le forniture con ritardo, contenuto però entro un termine di venti – trenta giorni, “al 2007, e quindi al semestre antecedente alla dichiarazione dello stato di insolvenza, i ritardi erano sempre aumentati, sino ad arrivare agli ottanta e ai novanta giorni delle fatture relative ai pagamenti oggetto del giudizio” (così, testualmente, la sentenza alla pag. 4, 2 cpv).

Ha quindi ritenuto che simili ritardi non rientrassero nei termini d’uso, come del resto comprovato dai numerosi solleciti (di cui avevano esaustivamente riferito i testi escussi) che ALFA, per il tramite di suoi dipendenti, aveva provveduto a inviare a BETA nell’ultimo periodo.

Ha poi affermato che i medesimi solleciti dimostravano la scientia decoctionis della compagine appellata.

Ha aggiunto che la prova della sussistenza del presupposto soggettivo dell’azione emergeva da ulteriori, plurime circostanze conosciute nel mondo produttivo (articoli di stampa che trattavano della precaria situazione della BETA; pubblicazione del bilancio al 31 dicembre 2008 della società; rifiuto di KPMG di esprimere il proprio parere sul bilancio per l’anno successivo; attivazione della cassa integrazione per i dipendenti; sospensione delle forniture e interruzione dell’attività produttiva).

Ha pertanto dichiarato l’inefficacia dei pagamenti dedotti in giudizio, per l’importo di Euro 41.600, e ha condannato ALFA a restituire alla procedura appellante la somma predetta, maggiorata degli interessi legali dalla data della domanda al saldo.

  1. ALFA s.p.a. ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza, pubblicata il 7 giugno 2019, prospettando sei motivi di doglianza, ai quali ha resistito con controricorso BETA s.p.a. in a.s..

Parte ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c..

 

CONSIDERATO

che:

4.1 Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione della L.Fall., art. 67, commi 2 e 3, lett. a): la corte d’appello, pur riconoscendo che i ritardi nei pagamenti di BETA risalivano al 2005, ed erano arrivati nel 2007 a 80/90 giorni, ha negato che rientrassero nei termini d’uso i pagamenti di cui era stata richiesta la revoca, che erano avvenuti con un ritardo della medesima consistenza; i giudici distrettuali, a dire della ricorrente, non hanno tenuto conto che la sentenza dichiarativa dell’insolvenza di BETA è stata emessa il 18 maggio 2011, e che dunque il cd. periodo sospetto non risaliva al 2007, ma, dovendo essere calcolato a ritroso da tale data, si arrestava al 17 novembre 2010, oppure hanno limitato la valutazione dei termini d’uso esistenti fra le parti al periodo anteriore al 2007.

4.2 Il secondo motivo di ricorso lamenta la violazione e falsa applicazione degli art. 116 c.p.c., L. fall., art. 67, commi 2 e 3, lett. a): la corte d’appello – in tesi – non avrebbe compiuto un prudente apprezzamento delle prove disponibili, omettendo di analizzare compiutamente tutti i pagamenti intervenuti fra le parti dal 2005 al 2010 ai fini della valutazione in concreto dei termini d’uso esistenti e limitando la propria disamina sino al 2007; i giudici distrettuali, inoltre, avrebbero dato indebita prevalenza, nella individuazione dei termini d’uso, alle dichiarazioni testimoniali rese dai soli testi della procedura appellante, escludendo invece la valutazione sia delle prove documentali, sia delle prove testimoniali offerte a tal fine da ALFA.

4.3 Il terzo motivo di ricorso denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omessa valutazione di fatti storici decisivi risultanti dagli atti di causa, costituiti, fra l’altro: i) dalla documentazione relativa a tempi e modalità di pagamento delle fatture adottati dalle parti nel periodo ricompreso fra il 2005 e il 2010; ii) dall’insussistenza di solleciti scritti; iii) dalle dichiarazioni testimoniali dei testi di ALFA.

4.4 Il sesto motivo di ricorso adduce la nullità della sentenza impugnata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per violazione degli art. 116 c.p.c. e L.Fall., art. 67: la sentenza impugnata sarebbe viziata da incoerenza e illogicità nella parte in cui ha ritenuto i pagamenti tardivi come non rientranti nei termini d’uso, pur avendo riconosciuto che fra le parti i pagamenti avvenivano in ritardo sin dal 2005.

  1. I motivi, da esaminarsi congiuntamente e in via prioritaria, in applicazione del principio della ragione più liquida, sono fondati, nei termini che si vanno ad illustrare.

5.1 Questa Corte ha già avuto modo di precisare (cfr. Cass. 27939/2020), in termini che questo collegio condivide appieno, che l’eccezione posta dalla L.Fall., art. 67, comma 3, lett. a), va intesa “nel senso che, pur quando le modalità di pagamento siano estranee alla previsione della relativa clausola contrattuale, il pagamento resta fermo ed efficace tutte le volte che fra le parti si sia instaurata una prassi anteriore – adeguatamente consolidata e stabile, così da potersi definire tale – volta a derogare a quella clausola contrattuale ed introdurre, come nuova regola inter partes, il pagamento nei termini diversi e più lunghi”.

“L’effetto della disposizione di esonero e’, in definitiva, che non sono revocabili quei pagamenti i quali, pur avvenuti oltre i tempi contrattualmente prescritti, siano stati di fatto eseguiti ed accettati in termini diversi, nell’ambito di plurimi adempimenti con le nuove caratteristiche, evidenziatesi già in epoca anteriore a quelli de quibus:

tanto che non possano più, a quel punto, ritenersi pagamenti eseguiti “in ritardo”, ossia inesatti adempimenti, ma siano divenuti per prassi, proprio al contrario, esatti adempimenti: con tutte le conseguenze relative all’inesistenza di un inadempimento dell’altro contraente (in ordine alla mora, all’art. 1460 c.c., all’azione di risoluzione, al risarcimento del danno, ecc.)”.

La norma, quindi, richiede la dimostrazione “della consistenza della quotidianità sotto il profilo delle modalità di adempimento invalse fra le parti, al fine di consentire al giudice di apprezzare se le parti nel caso di specie si fossero scostate dai termini consueti fino ad allora seguiti” (Cass. 9851/2019).

5.2 La corte di merito, chiamata a verificare la revocabilità di due pagamenti effettuati all’interno del periodo sospetto (pacificamente decorrente a ritroso dal 18 maggio 2011), ha sovvertito la decisione di primo grado, che aveva ravvisato l’esistenza dei presupposti dell’esenzione prevista dalla L.Fall., art. 67, comma 3, lett. a), facendo riferimento al fatto che i ritardi invalsi nella prassi negoziale, sempre contenuti tra i venti e i trenta giorni a partire dal 2005, “approssimandosi, invece, al 2007” “erano sempre aumentati fino ad arrivare agli ottanta e ai novanta giorni delle fatture relative ai pagamenti oggetto del presente giudizio”.

Una simile valutazione risulta viziata, innanzitutto, perché il giudice d’appello, pur essendo tenuto a verificare l’esistenza di una prassi anteriore, adeguatamente consolidata e stabile, non si è preoccupato di accertare quale fosse la consuetudine negoziale invalsa fra le parti in un’epoca prossima ai pagamenti revocandi, arrestando la propria analisi a condotte risalenti a quattro anni addietro e dunque non significative della “normalità” di un atto di adempimento compiuto in coerenza con la pratica esistente al momento della sua esecuzione.

Risulta altresì fondata la doglianza concernente l’omesso esame della documentazione relativa ai pagamenti avvenuti in epoca più recente, che doveva essere esaminata dalla corte di merito al fine di verificare se la prassi seguita dalle parti a partire dal 2007 fosse proseguita anche nel periodo successivo o avesse registrato dei significativi mutamenti.

Per di più, la motivazione offerta si prospetta come contraddittoria (o quanto meno apodittica) laddove, da un lato, riconosce che i ritardi erano “sempre” aumentati fino ad arrivare “agli ottanta e ai novanta giorni delle fatture relative ai pagamenti oggetto del presente del giudizio”, dall’altro nega rilevanza a comportamenti coerenti con una simile consuetudine ai fini dell’applicazione dell’esenzione in discorso (senza spiegare perché la lievitazione dei tempi di pagamento riscontrata fin dal 2007 non fosse idonea ad assurgere a prassi consolidata).

Giova precisare, infine, come non assumesse rilievo, al fine di sminuire la rilevanza di un’attuale prassi di dilazione nei pagamenti eventualmente esistente nei rapporti fra le parti, il riferimento ai solleciti effettuati nei confronti della debitrice.

Questa Corte, infatti, ha già avuto modo di precisare che “se il ritardo rispetto alla scadenza pattiziamente convenuta sia divenuto una consuetudine, senza determinare una specifica reazione della controparte, a parte l’intimazione di solleciti, tale prassi deve ritenersi prevalente rispetto al regolamento negoziale” (Cass. 7580/2019).

  1. L’accoglimento dei motivi esaminati nei termini appena illustrati comporta l’assorbimento dei profili di censura riguardanti la scientia decoctionis nonché delle ulteriori doglianze prospettate.
  2. La sentenza impugnata va dunque cassata, con rinvio della causa alla Corte d’appello di Perugia in diversa composizione, la quale, nel procedere a un nuovo esame, si atterrà ai principi sopra illustrati, avendo cura anche di provvedere sulle spese del giudizio di legittimità.

 

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo, il secondo, il terzo e il sesto motivo di ricorso nei termini di cui in motivazione, dichiara assorbiti gli altri, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia la causa alla Corte d’appello di Perugia in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 15 marzo 2023.

Depositato in Cancelleria il 26 aprile 2023

Coopsette – Liquidazione Coatta Amministrativa – Crediti prededucibili – Tribunale di Reggio Emilia – Decreto 14/01/18

Liquidazione coatta amministrativa, opposizione allo stato passivo, crediti derivanti da accordi di ristrutturazione dei debiti , consecuzione delle procedure, sopravvenuto fallimento, prededucibilità, accordi di ristrutturazione dei debiti, crediti derivanti dalla proroga di pretese di natura commerciale, natura di finanziamenti .

T R I B U N A L E D I R E G G I O E M I L I A

Sezione prima civile

riunito in camera di consiglio nelle persone dei magistrati

Francesco Parisoli Presidente

Virgilio Notari giudice rel.

Niccolò StanzaniMaserati giudice

ha emesso il seguente

DECRETO

nella causa di opposizione allo stato passivo iscritta al n. 7873/2016 del R.G.A.C., rimessa al Collegio per la decisione all’udienza del 25/2/2018, vertente

TRA

ALFA S.R.L. (c.f. ***), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata a Modena, in Via Giardini n. 456, presso lo studio dell’avv. Nicola Cantarelli, dal quale è rappresentata e difesa giusta procura a margine del ricorso introduttivo

E

LIQUIDAZIONE COATTA AMMINISTRATIVA COOPSETTE SOC. COOP. (c.f. ***), in persona del commissario liquidatore pro tempore, elettivamente domiciliata a Reggio Emilia, in Via Cadoppi n. 14, presso lo studio degli avv. Federica Bassissi, rappresentata e difesa dagli avv.ti Sido Bonfatti e Fulvia Confetti giusta procura allegata alla memoria difensiva del 15/5/2017.

CONCLUSIONI

All’udienza del 25/2/2018 le parti hanno precisato le conclusioni esposte in motivazione.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con ricorso ex art. 209, c. 2 L.F. depositato il 28/12/2016 la Alfa s.r.l. ha opposto il decreto di esecutività dello stato passivo comunicato il 28/11/2016 dal commissario liquidatore della L.C.A. Coopsette soc. coop.. A sostegno della domanda la società ha riferito di essersi insinuata al passivo della procedura in prededuzione per € 769.039,79 più Iva a titolo di corrispettivo maturato in virtù di contratti di fornitura di materiale edile e posa in opera eseguiti tra il 2014 e il 2015. Ha dedotto, inoltre, che nel provvedimento impugnato il commissario liquidatore ha accolto l’istanza per l’intero importo richiesto, sebbene in chirografo. Secondo la prospettazione di parte opponente si tratta di statuizioni illegittime alla luce delle travagliate vicende che hanno caratterizzato gli ultimi anni di attività della cooperativa. In proposito la Alfa s.r.l. ha osservato che i crediti controversi sono maturati nel biennio compreso tra la proposizione, ad opera di Coopsette, di una richiesta di concordato preventivo rimasta senza esito (febbraio 2013), la sottoscrizione di molteplici accordi di ristrutturazione del debito ex art. 182 bis L.F. con il ceto creditorio e il deposito di una seconda istanza concordataria (3/6/2015), poi seguita dall’apertura, nell’ottobre del 2015, della liquidazione coatta amministrativa. Sul rilievo della necessità di retrodatare lo stato d’insolvenza al primo concordato preventivo in attuazione del principio di consecuzione tra le procedure concorsuali e dell’affidamento maturato circa la riscossione del credito per effetto delle rassicurazioni ricevute dai vertici della cooperativa la Alfa s.r.l. ha insistito per l’insinuazione in prededuzione dell’intero importo rivendicato ai sensi dell’art. 111 L.F., con vittoria di spese, competenze e onorari.

***

Costituita con comparsa del 15/5/2017, la L.C.A. in via preliminare ha eccepito l’inammissibilità dell’opposizione (o, comunque, l’infondatezza nel merito delle sottostanti pretese) per effetto della mancata contestazione, da parte della Alfa s.r.l., dell’ammissione in chirografo comunicata alla società dal commissario liquidatore ex art. 207 L.F.. Ha negato, in ogni caso, la sussistenza di quel nesso di consecuzione tra procedure invocato dall’opponente quale fondamento logico e giuridico della prededuzione, tenuto anche conto del carattere non concorsuale dei molteplici accordi di ristrutturazione del debito stipulati da Coopsette con i propri creditori nell’arco temporale compreso tra il primo e il secondo concordato preventivo. Ad avviso della L.C.A. devono considerarsi irrilevanti anche le presunte rassicurazioni circa la natura prededucibile del credito a cui si allude nell’atto introduttivo. Sulla scorta di tali censure la procedura ha concluso per il rigetto dell’opposizione e la condanna della controparte al pagamento delle spese di lite.

***

Ricostruiti in tal modo i termini del contenzioso, il Collegio reputa che l’opposizione al passivo non sia fondata.

È escluso, innanzi tutto, che il beneficio della prededuzione possa essere accordato facendo applicazione del principio di consecuzione tra procedure concorsuali richiamato a più riprese dalla giurisprudenza di legittimità in tema di rapporti tra concordato preventivo e fallimento, fino alla consacrazione normativa nell’ambito dell’art. 49, c. 2, d.lgs. n. 270/1999 per l’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato d’insolvenza e dell’art. 69 bis, c. 2, L.F. per il fallimento (Cass. 6/10/2010, n. 18437; Cass. 28/5/2012, n. 8439; Cass. 13/4/2016, n. 7324; Cass. 14/12/2016, n. 25728). Si è accennato agli eventi che hanno caratterizzato il biennio anteriore all’avvio della L.C.A. di Coopsette, aperta con decreto del 30/10/2015 dopo il deposito di una prima istanza di concordato preventivo in bianco (febbraio 2013), la sottoscrizione di numerosi accordi di ristrutturazione del debito omologati dal Tribunale di Reggio Emilia e il tentativo, rimasto senza esito per espressa rinuncia, di dare corso a una seconda proposta concordataria (maggio 2015). Ciò posto, nonostante una recente presa di posizione in senso contrario della Corte di Cassazione (Cass. 25/1/2018, n. 1896), il Collegio intende ribadire l’orientamento interpretativo propenso a escludere gli accordi di ristrutturazione del debito dall’ambito delle procedure concorsuali propriamente intese (Trib. Bologna, 17/11/2011; App. Firenze, 07/04/2016; Trib. Forlì, 05/05/2016; Trib. Milano, 10/11/2016; Trib. Modena, 19/11/2014). Rispetto al fallimento, al concordato preventivo e all’amministrazione straordinaria la fattispecie delineata dall’art. 182 bis L.F. non prevede un provvedimento giudiziale di apertura caratterizzato da un vaglio di ammissibilità ad opera del Tribunale e dalla nomina necessaria di un organo di vigilanza o di controllo per le fasi iniziali ed esecutive; non produce effetti universali sul patrimonio del debitore (che dunque potrebbe non essere coinvolto per intero) o verso i creditori, liberi di aderire o meno alla proposta senza subire le decisione delle maggioranze qualificate previste dalla legge; non impone il rispetto del principio della par condicio creditorum o delle cause legittime di prelazione; non contempla una disciplina peculiare in materia di interessi. Non sembra, d’altro canto, che le recenti modifiche approvate nella disciplina dell’istituto – in primis il divieto di iniziare o proseguire, per sessanta giorni dalla pubblicazione della domanda, azioni cautelari o esecutive sul patrimonio del debitore, l’introduzione della prededuzione con l’art. 182 quater L.F. e gli effetti prenotativi derivanti dal deposito di ricorsi per concordato con riserva – possano considerarsi sufficienti ad attrarre l’accordo di ristrutturazione nell’area pubblicistica. È significativo, del resto. che almeno agli effetti della revocatoria l’art. 69 bis L.F. abbia codificato il principio di consecuzione nei rapporti tra concordato preventivo e fallimento senza menzionare gli accordi di ristrutturazione del debito. Resta impregiudicata, in definitiva, la tradizionale natura privatistica delle intese ex art. 182 bis L.F.

***

L’estraneità degli accordi di ristrutturazione del debito alla categoria delle procedure concorsuali fa sì che non vi possa essere alcun rapporto di occasionalità ex art. 111 L.F. tra le prestazioni rese dall’opponente e le intese stipulate tra la cooperativa e il ceto creditorio nel 2013. Per questo motivo l’applicazione del principio di continuità tra procedure richiamato da Alfa s.r.l. deve essere vagliata con esclusivo riferimento alle due istanze di concordato preventivo con riserva depositate da Coopsette (la prima come detto, esaurita senza il deposito della proposta e del piano, la seconda rinunciata il 27/10/2015, in concomitanza con l’avvio della L.C.A.). In questa prospettiva, se non sembrano sussistere dubbi circa l’operatività della regola della consecuzione tra la seconda fase concordataria e l’apertura della L.C.A. (30/10/2015), vista l’assenza di effettivo iato temporale, altrettanto non può dirsi per i ricorsi del febbraio del 2013 e del maggio del 2015. La Corte di Cassazione ha affermato, in effetti, che con il principio di consecuzione «viene individuato un fenomeno caratterizzato dal verificarsi a carico di un imprenditore di una serie di procedure concorsuali, seguenti una all’altra senza soluzione di continuità, a causa dell’incapacità delle prime di conseguire i rispettivi scopi istituzionali. La sequenza delle procedure concorsuali viene intesa, nell’ambito della consecuzione e della conversione di una procedura in altra, non come una semplice successione di procedimenti, ma come la realizzazione di un’unica procedura concorsuale, nell’ambito della quale le procedure progressivamente succedutesi costituiscono delle fasi, prive di autonomia e di separata rilevanza; le varie fasi, quindi, assumono rilievo come conversione, o trasformazione, di un procedimento in un altro (o in altri) senza uscire dall’alveo di quella intesa, nella sua complessa unità, come procedura concorsuale di carattere unitario» (già Cass. 18/7/1990, n. 7339/1990). Detto altrimenti, perché sussista la continuità richiesta per la considerazione unitaria degli istituti rispetto ai quali la questione concretamente si è posta (si pensi, a titolo di esempio, al periodo sospetto nell’azione revocatoria, al computo degli interessi, oltre che alla prededuzione) è indispensabile che la seconda procedura concorsuale sia espressione della stessa crisi economica che connotava la prima. Possono essere individuati quali indici sintomatici della continuità la ridotta distanza temporale tra i procedimenti, la coincidenza in termini quantitativi o qualitativi delle masse passive o la cessazione dell’attività d’impresa nel periodo di riferimento. Non è preclusa la valorizzazione di elementi differenti. Resta il fatto che una simile valutazione non può prescindere dalla considerazione in concreto della singola fattispecie, costituendo la prededuzione non una caratteristica immanente del credito come il privilegio, ma una qualità destinata produrre effetti solo in relazione al concorso quello sia sorto. Per questo motivo sarebbe spettato ad Alfa s.r.l. dare la dimostrazione della sussistenza di uno o più indici sintomatici dell’identità della crisi di Coopsette nel biennio 2013/2015, configurabili in termini di fatti costitutivi del preteso diritto a insinuarsi al passivo con il beneficio della prededuzione. Nelle proprie difese l’opponente si è limitata a predicare il requisito della continuità delle procedure concorsuali sulla base della scansione di queste.

Avvalorano la conclusione opposta il tempo relativamente lungo intercorrente tra le due istanze concordatarie e la prosecuzione dell’attività di impresa di Coopsette, caratterizzata dall’assunzione di oneri assai rilevanti sotto il profilo economico-finanziario in dipendenza di nuovi contratti, tra cui quelli stipulati con la Alfas.r.l.

***

In questo quadro appaiono ininfluenti le modifiche normative in virtù delle quali la prededuzione, stante l’abrogazione dell’art. 11, c. 3 quater d.l. n. 145/2013 da parte dell’art. 22 d.l. n. 91/2014, è ammessa in ipotesi di concordato in bianco non seguito dal deposito della proposta e del piano. Viste le precedenti considerazioni in tema di continuità, la regola desumibile dal mutato assetto normativo sarebbe destinata a operare solo in relazione a crediti maturati in funzione del secondo concordato preventivo. Dalla documentazione allegata al ricorso in opposizione emerge che le prestazioni dell’opponente sono state rese tra il l’ottobre del 2014 e l’aprile/maggio del 2015, allorché non era pendente alcuna procedura concorsuale. L’assenza di elementi probatori nel senso della funzionalità dei lavori rispetto al concordato preventivo del 2015 implica, dunque, che le deduzioni della Alfa s.r.l. debbano ritenersi prive di fondamento anche da questo punto di vista, non essendo a tali scopi sufficiente il richiamo – presente nelle difese della società – all’utilità che il ceto creditorio avrebbe tratto dall’esecuzione delle forniture e dei correlati lavori di posa in opera.

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Contrariamente a quanto opinato nelle difese di parte opponente, a conclusioni differenti non è possibile pervenire valorizzando il presunto affidamento maturato dalla società sulla natura prededucibile dei crediti derivanti dal contratto di appalto. La prededuzione rappresenta un presupposto dell’insinuazione al passivo riscontrabile con criteri oggettivi sulla base del più volte menzionato vincolo funzionale o, in alternativa, del nesso di occasionalità sempre richiesto dalla legge (art. 182 quater ss L.F.). A riprova di ciò è significativo che nell’ambito delle fonti regolatrici della materia nessuna disposizione si riferisca allo stato psicologico del creditore. Per questo motivo è irrilevante stabilire se la Alfa s.r.l. avesse davvero accettato di eseguire i contratti del 2014 e del 2015 in vista del pagamento in prededuzione delle correlate poste creditorie. Anche tale questione è assorbita dalle considerazioni già svolte in tema di continuità.

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In forza delle statuizioni che precedono non vi è luogo per statuire in ordine alle richieste istruttorie formulate nell’atto di opposizione, inerenti a profili della vertenza pacifici (l’esecuzione delle prestazioni dedotte nei contratti del 2014 e del 2015) o privi di rilevanza (l’asserito affidamento circa la prededucibilità dei crediti correlati).

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L’esito del giudizio rende superfluo l’esame delle ulteriori eccezioni di parte opposta, anche preliminari

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Secondo soccombenza, la Alfa s.r.l. è tenuta al pagamento degli oneri di giudizio, stimabili in base ai valori medi del D.M. n. 55/2014, in € 14.914,00 (€ 4388,00 per la fase di studio, € 2.895,00 per la fase introduttiva, € 7631,00 per le fasi di trattazione e di decisione, unificate in virtù dell’assenza di attività istruttoria), oltre a spese generali, accessori fiscali e contributi previdenziali in misura di legge. Ai sensi dell’art. 13, c. 1 quater del DPR n. 115/2002 sussistono, inoltre, le condizioni per la condanna della Alfa s.r.l. al versamento di un importo pari al contributo unificato dovuto per l’atto introduttivo (€ 518,00).

P.Q.M.

Il Tribunale di Reggio Emilia, definitivamente pronunciando nella causa iscritta al n. 7873/2016 del R.G.A.C., disattesa ogni diversa domanda, eccezione o deduzione, così provvede:

– rigetta l’opposizione proposta da Alfa s.r.l. per le ragioni indicate in motivazione;

– condanna Alfa s.r.l. al pagamento in favore della L.C.A. Coopsette soc. coop. degli oneri processuali, stimabili in € 14.914,00, oltre a spese generali, accessori fiscali e contributi previdenziali dovuti per legge.

Ai sensi dell’art. 13, c. 1 quater del DPR n. 115/2002 si dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della Alfa s.r.l., di un importo corrispondente al contributo unificato già versato all’atto dell’iscrizione del procedimento (€ 518,00).

Reggio Emilia, 14/2/2018

Il Presidente

Francesco Parisoli

Il Giudice Estensore

Virgilio Notari

 

 

Liquidazione Coatta Amm. Il caso UNIECO, istruzioni per l’uso. Lo stato d’insolvenza.

Alcune recenti sentenze ci offrono l’occasione per affrontare un altro aspetto della procedura di Liquidazione coatta amministrativa di non secondaria importanza, in quanto destinato a riverberare effetti sugli atti pregiudizievoli ai creditori (vale a dire sugli atti – in prevalenza pagamenti –  che alterano la par condicio, compiuti  dall’impresa sottoposta alla procedura, in un arco di tempo  precedente  la dichiarazione d’insolvenza che,  ad es. ex art. 67 l.f., varia da 6 mesi a 1 anno ) che devono essere resi inefficaci.

In effetti, diversamente da quanto previsto per il fallimento, nella l.c.a. lo stato di insolvenza (così come qualificato dall’art. 5 l.fall.) non è sempre presente, posto che la procedura può aprirsi anche per presupposti diversi, previsti dalle leggi speciali e riconducibili sia alla sussistenza di ragioni di interesse pubblico accertate dall’autorità di vigilanza, sia alla violazione di norme legali, regolamentari o statutari.

Lo stato di insolvenza, dunque, può rappresentare uno dei presupposti per l’apertura della l.c.a., ma non ne costituisce un requisito indefettibile.

Per inciso va osservato che, nella l.c.a., la dichiarazione di insolvenza non è preclusa dalla circostanza che l’ammontare dei debiti scaduti e non pagati sia complessivamente inferiore a trentamila euro, non applicandosi l’ultimo comma dell’art. 15  l.fall., avente carattere eccezionale.

L’accertamento giudiziale dell’insolvenza di un soggetto cui si applica esclusivamente la disciplina della l.c.a. può precedere (eccezion fatta per gli enti pubblici) oppure seguire l’apertura della procedura concorsuale

Si possono presentare quindi due diversi scenari.

1) La dichiarazione di insolvenza è pronunciata anteriormente al provvedimento di l.c.a. (art. 195 l.fall.). L’istanza può essere presentata da: a) uno o più creditori; b) l’autorità governativa che ha la vigilanza sull’impresa; c) l’impresa stessa; d) il commissario giudiziale, quando nel corso di una precedente procedura di concordato preventivo si è verificata la cessazione della procedura e sussiste lo stato di insolvenza; e) il pubblico ministero.

2) La dichiarazione di insolvenza è pronunciata posteriormente al provvedimento di l.c.a. (art.  202 l.fall.). L’istanza può essere presentata da: a) il commissario liquidatore nominato nella procedura di l.c.a.; b) il pubblico ministero.

Qualora la dichiarazione di insolvenza sia pronunciata anteriormente al provvedimento di l.c.a. (art. 195 l.fall.) l’istanza può essere presentata da uno o più creditori,  dall’autorità governativa che ha la vigilanza sull’impresa, dall’impresa stessa, dal commissario giudiziale, quando nel corso di una precedente procedura di concordato preventivo si è verificata la cessazione della procedura e sussiste lo stato di insolvenza, dal pubblico ministero, nel caso in cui i beni dell’impresa siano stati sottoposti a sequestro o confisca penali. È dunque da escludere, in ossequio alla disciplina fallimentare generale, il potere dell’autorità giudiziaria di dichiarare lo stato d’insolvenza d’ufficio

Ora, soltanto la dichiarazione di insolvenza da parte del Tribunale, sia essa anteriore o posteriore al provvedimento di l.c.a., legittima  l’applicazione delle norme fallimentari relative agli effetti del fallimento sugli atti pregiudizievoli ai creditori ( art. 203 co. 1, l.fall.). In particolare si applicano le norme in materia di revocatoria fallimentare e ordinaria (artt. 64-70 l.fall.), persino nei confronti dei soci a responsabilità illimitata, anche se la l.c.a. non si estende a detti soggetti.  Le azioni di revoca degli atti compiuti in frode ai creditori sono promosse dal commissario liquidatore (art. 203, co. 2, l.fall.).

Le recenti sentenze – e in particolare e tra le altre quella che pubblichiamo –  hanno affrontato la questione del termine dal quale calcolare a ritroso il periodo sospetto ai fini dell’esercizio dell’azione revocatoria .

E’ stato affermato che se la dichiarazione d’insolvenza precede l’emissione del provvedimento amministrativo detto termine decorre dalla data della sentenza. Va precisato, tuttavia, che nel caso inverso in cui il provvedimento amministrativo preceda la sentenza dichiarativa dell’insolvenza, la decorrenza deve essere fatta risalire al primo, cioè all’atto ministeriale perché è a detta data che la sentenza fa risalire l’insolvenza.

Corte di Cass. 28.02.17 n. 5054

Massima

“Secondo la giurisprudenza consolidata di questa Corte nelle procedure concorsuali di liquidazione coatta amministrativa e di amministrazione straordinaria il decorso del periodo sospetto deve essere fatto risalire alla dichiarazione di insolvenza della società: giacché, diversamente opinando, l’esito delle azioni revocatorie riuscirebbe compromesso dal ritardo nell’emanazione di un provvedimento amministrativo, in una situazione non più di sospetto, ma di già accertata insolvenza (conformi Cass. 19. 01.,n. 803 Cass. 09. 04. 1008 n. 9177)”

Testo della sentenza

Corte di cassazione Sezioni unite civili Sentenza 28 febbraio 2017, n. 5054

Presidente: Rordorf – Estensore: Bernabai

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato il 24 settembre 2000 la Leucci Industriale s.p.a. in amministrazione straordinaria, dichiarata insolvente con sentenza 27 luglio 1995 del Tribunale di Brindisi, conveniva dinanzi al Tribunale di Bologna la Sardelli s.r.l. – più tardi incorporata dalla Trattamenti Superficiali Metalli-T.S.M. s.r.l. – per sentir dichiarare inefficaci ex art. 67, primo comma, n. 2, e secondo comma, della legge fallimentare pagamenti e cessioni di credito a scopo solutorio eseguiti nel periodo sospetto, per complessivi euro 258.391,83.

Costituitasi ritualmente, la Sardelli s.r.l. eccepiva, in via pregiudiziale, l’incompetenza territoriale e la carenza di legittimazione passiva, quale mera conferitaria dell’azienda dell’imprenditore individuale Tommaso Sardelli, in ordine ad un preteso debito eventualmente derivato da rapporti contrattuali da questo antecedentemente intrattenuti, non desumibile dalle scritture contabili, ex art. 2560, secondo comma, c.c.

Eccepiva altresì, in via gradata, la prescrizione del credito e l’improponibilità della domanda, ai sensi dell’art. 49 del d.lgs. 8 luglio 1999, n. 270 (Nuova disciplina dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza), in carenza di autorizzazione del programma di cessione dei complessi aziendali; e nel merito chiedeva il rigetto per infondatezza della domanda.

Dopo l’interruzione del processo, per intervenuta fusione per incorporazione della Sardelli s.r.l. nella T.S.M. s.r.l. e la successiva riassunzione, veniva espletata prova per interrogatorio formale e testi.

Con sentenza 10 settembre 2009, il Tribunale di Bologna accoglieva la domanda di revoca, con la conseguente condanna alla rifusione delle spese di lite.

Il successivo gravame della T.S.M. s.r.l. era rigettato dalla Corte d’appello di Bologna, con sentenza 25 giugno 2014; mentre, veniva accolta l’impugnazione incidentale della Leucci Industriale s.p.a. in amministrazione straordinaria, volta ad ottenere anche la condanna alla restituzione delle somme pagate.

La corte territoriale motivava:

– che l’imprenditore individuale Tommaso Sardelli, originario accipiens dei pagamenti revocati, aveva conferito con atto pubblico 31 dicembre 1996 la propria azienda, in Brindisi, con tutti i relativi rapporti attivi e passivi, nella Sardelli s.r.l.;

– che andava affermata, quindi, la legittimazione passiva di quest’ultima, succeduta anche nel debito restitutorio derivante dall’azione revocatoria;

– che sussisteva la prova presuntiva che gli atti solutori fossero stati annotati nelle scritture contabili obbligatorie, a fronte di fatture regolarmente emesse;

– che, in ordine ai mezzi anomali di pagamento, tramite cessioni di credito, la creditrice non aveva offerto la prova della propria inscientia decoctionis; mentre, per quanto riguardava i pagamenti eseguiti in contanti e mediante bonifici bancari, si doveva ritenere conosciuta dal Sardelli l’appartenenza della società debitrice al cd. gruppo Fochi, la cui insolvenza era stata resa nota dalla stampa, non solo locale e comunque emergeva, nei rapporti diretti con il creditore, da ritardi nei pagamenti di fatture di ammontare considerevole e dalla concessione di plurime proroghe dei termini di pagamento;

– che, in particolare, premessa l’irrilevanza della data di scadenza del debito della Leucci Industriale s.p.a., il relativo pagamento, seppur andasse riportato – come pretendeva la T.S.M. s.r.l. – alla data dell’addebito della valuta (31 agosto 1994), anziché a quella dell’operazione bancaria (5 settembre 1994), non esulava dal periodo sospetto annuale, decorrente, a ritroso, dalla dichiarazione giudiziale dello stato di insolvenza della Leucci industriale S.p.A. (27 luglio 1995).

Avverso la sentenza, non notificata, la Trattamenti Superficiali Metalli s.r.l. proponeva ricorso per cassazione, articolato in tre motivi e notificato il 18 settembre 2014.

Deduceva:

1) la violazione degli artt. 1346, 1362-1366, 1371 e 2560, secondo comma, 2697, 2727 e 2729 c.c., e 41, primo comma, Cost., nella ritenuta legittimazione passiva in ordine alla domanda di ripetizione di una somma pagata, nel periodo sospetto, non a sé o alla propria incorporata Sardelli s.r.l., bensì all’imprenditore individuale Tommaso Sardelli, autore del conferimento di azienda;

2) la violazione degli artt. 2697, 2727, 2729 c.c., 115 e 116 c.p.c., 67, primo comma, n. 2, e secondo comma, l. fall., nonché la carenza di motivazione nell’accertamento dell’elemento psicologico della fattispecie revocatoria;

3) la violazione dell’art. 1, ultimo comma, l. 95/1979 e degli artt. 67 e 203 l. fall., ed inoltre il vizio di motivazione, per l’erronea collocazione temporale dei termini di decorrenza del cd. periodo sospetto.

Resisteva, con controricorso, la Leucci industriale s.p.a. in amministrazione straordinaria.

La causa, assegnata alla prima sezione civile, veniva rimessa dal collegio al Primo Presidente, ai fini dell’eventuale assegnazione alle sezioni unite, considerata la particolare importanza delle questioni di diritto sollevate e l’esigenza di prevenire un possibile contrasto giurisprudenziale, in ordine all’applicazione dell’art. 2560 c.c. ai debiti restitutori da accoglimento di azione revocatoria fallimentare.

Dopo il conforme provvedimento presidenziale, la causa passava in decisione all’udienza del 22 novembre 2016, sulle conclusioni in epigrafe riportate.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il thema decidendum consta di una questione di massima di particolare importanza, concernente l’interpretazione dell’art. 2560 c.c. (art. 374, secondo comma, c.p.c.); cui fa seguito, nella motivazione della sentenza impugnata, un accertamento di fatto, in ordine all’oggetto del conferimento, sindacabile in questa sede entro i ristretti limiti di cui all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c.

Sotto il primo profilo, la premessa maggiore del ragionamento sillogistico seguito dalla corte territoriale è che la legittimazione passiva in tema di azione revocatoria fallimentare avente ad oggetto pagamenti eseguiti in favore di un imprenditore che abbia poi conferito la propria azienda in una società – ma il problema si porrebbe negli stessi termini in caso di cessione – vada riconosciuta alla stessa società conferitaria (o cessionaria) dell’azienda: essendo sufficiente, ai fini dell’insorgere della responsabilità solidale prevista dalla norma, la conoscibilità, tramite i libri contabili obbligatori, del precedente rapporto contrattuale intrattenuto dal dante causa con un imprenditore, divenuto poi insolvente alla data del pagamento: pur se il concreto debito restitutorio maturi solo all’esito dell’accoglimento della domanda di revoca, in epoca successiva al trasferimento aziendale (Cass., sez. 1, 28 luglio 20101, n. 17668).

Tale tesi interpretativa non può essere seguita.

Essa, infatti, dilata a dismisura l’ambito di applicazione dell’art. 2560, secondo comma, c.c., includendo nella previsione di solidarietà obbligazioni non ancora venute alla luce, sulla sola base di un documentato fatto genetico mediato: e dunque, un mero rischio di sopravvenienza passiva, anziché un debito già maturato ed annotato nei libri contabili, come testualmente previsto dalla norma.

In contrario, si deve ricondurre la responsabilità dell’avente causa nell’alveo dell’evidenza diretta, risultante dai libri contabili obbligatori dell’impresa, a tutela del suo legittimo affidamento, essenziale per il corretto svolgimento della circolazione di beni di particolare rilievo commerciale.

La chiara dizione della rubrica (Debiti relativi all’azienda ceduta) e del testo dell’art. 2560 c.c. non consente, infatti, di ritenere estensivamente inclusa nel trasferimento dell’azienda commerciale anche una situazione non già di debito, bensì di soggezione ad una successiva azione revocatoria promossa dal curatore del fallimento del solvens.

A questi rilievi – che valorizzano non solo il dato letterale della norma (parametro ermeneutico prioritario e poziore: art. 12 disposizioni sulla legge in generale), ma pure la ratio protettiva summenzionata – piuttosto che ad implicazioni legate alla natura costitutiva dell’azione, va ricondotto il principio di diritto testé enunciato. La natura costitutiva (e non dichiarativa) dell’azione revocatoria – lungamente dibattuta in giurisprudenza e dottrina ed affermatasi infine nella giurisprudenza di legittimità (Cass., sez. 1, 21 marzo 2013, n. 7182; Cass., sez. 1, 30 luglio 2012, n. 13560, sulla scia di Cass., Sez. un., 15 giugno 2000, n. 437), soprattutto in considerazione della sua irriducibilità all’illecito aquiliano (il che non eccettua, peraltro, il carattere antidoveroso del comportamento dell’accipiens: rivelato, già prima facie, dal requisito psicologico del consilium fraudis, o scientia fraudis) – non escluderebbe, infatti, di per sé sola, la possibile retroattività ex tunc degli effetti: normale, anzi, in talune azioni costitutive tipiche, quali quelle di risoluzione (art. 1458 c.c.) o di annullamento di un contratto (Cass., sez. 2, 11 febbraio 1998, n. 1395).

La ricostruzione ermeneutica così delineata dell’ambito applicativo dell’art. 2560, cpv., c.c. incontra un limite – del resto, evidente – solo nella carenza di un’effettiva alterità soggettiva delle parti titolari dell’azienda: come nell’ipotesi di trasformazione, anche eterogenea, della forma giuridica del soggetto (artt. 2498 e segg. c.c.) – stante la continuità dei rapporti giuridici pendenti – ed in quella di conferimento dell’azienda di un’impresa individuale in una società unipersonale (che non costituisce una trasformazione in senso tecnico): in cui, pure, è ravvisabile una perdurante identità soggettiva – sostanziale, se non formale – significativa di una conoscenza diretta dei rapporti giuridici in fieri, estranea alla ratio protettiva del successore a titolo particolare nell’azienda, sottesa all’art. 2560 c.c.

Così corretto il principio di diritto enunciato dalla Corte d’appello di Bologna, si osserva però che ad esso ha fatto seguito, nella sentenza impugnata, l’accertamento di fatto, congruamente motivato, e come tale sottratto a riesame nel merito, che con la dichiarazione resa nel corso dell’assemblea straordinaria della Sardelli s.r.l. e raccolta nel verbale steso a ministero del notaio Vincenzo Ianaro, in data 31 dicembre 1996, l’imprenditore Tommaso Sardelli (che aveva ricevuto i pagamenti, in parte con mezzi anomali, oggetto dell’azione revocatoria svolta in seguito dalla Leucci Industriale s.p.a. in amministrazione straordinaria) aveva inteso conferire nel capitale della predetta società la totalità dei rapporti attivi e passivi rientranti nell’universitas juris aziendale (“considerata nella complessità dei beni che della stessa fanno parte, materiali ed immateriali, nessuno escluso o eccettuato”): e cioè, anche i debiti futuri, derivanti dall’esercizio dell’azione revocatoria di pagamenti risultanti dalla contabilità aziendale.

A tal fine, la corte territoriale ha valorizzato espressioni testuali dell’atto pubblico, senza incorrere in violazioni di norme sull’interpretazione dei contratti (artt. 1362 e segg. c.c.).

La diversa ricostruzione ermeneutica operata dalla ricorrente si risolve, dunque, in un sindacato di merito, che non può trovare ingresso in questa sede.

Eguale, ed ancor più evidente, ragione di inammissibilità si ravvisa nel secondo motivo; nel quale, richiamando perfino deposizioni testimoniali sottoposte ad una lettura diretta di questa Corte, si riafferma la tesi della inscientia decoctionis del Sardelli alla data dei pagamenti ricevuti dalla Leucci Industriale s.p.a, facente parte del gruppo insolvente Fochi.

Il terzo motivo ripropone, con argomentazioni promiscue, la questione dell’anteriorità dell’atto solutorio, oggetto di revoca, al periodo sospetto: sotto il duplice profilo che la sua data andrebbe identificata con quella di scadenza del debito (31 agosto 1994), piuttosto che con quella dell’operazione bancaria di pagamento (5 settembre 1994), e che il dies a quo del computo a ritroso decorrerebbe dal decreto di ammissione alla procedura concorsuale, e non dalla precedente sentenza dichiarativa dell’insolvenza.

La duplice censura è inammissibile.

La prima, per irrilevanza: dal momento che la corte felsinea ha statuito che, anche a voler considerare corretta la data del 31 agosto 1994, prospettata dalla T.M.S. s.r.l., egualmente l’operazione sarebbe rientrata nel periodo sospetto annuale decorrente dalla sentenza 27 luglio 1995 del Tribunale di Brindisi, dichiarativa dello stato di insolvenza della Leucci Industriale s.p.a.: identificata dal Tribunale di Bologna come termine iniziale del relativo decorso retrospettivo, con statuizione non impugnata in parte qua (cfr. sent. Corte d’appello di Bologna, pag. 9).

È pertanto preclusa, ob rem judicatam, la seconda doglianza con cui si contesta tale ultima statuizione in punto di diritto, assumendo che il dies a quo andrebbe ricondotto, piuttosto, alla data di apertura della procedura concorsuale (d.m. 5 settembre 1995).

È appena il caso di aggiungere, peraltro, che la tesi difensiva appare anche infondata, alla luce della giurisprudenza consolidata di questa Corte, che nelle procedure concorsuali di liquidazione coatta amministrativa ed amministrazione straordinaria àncora il decorso del periodo sospetto alla dichiarazione di insolvenza della società: giacché, diversamente opinando, l’esito delle azioni revocatorie riuscirebbe compromesso dal ritardo nell’emanazione di un provvedimento amministrativo, in una situazione non più di sospetta, ma di già accertata insolvenza (Cass., sez. 1, 19 gennaio 2016, n. 803; Cass., sez. 1, 9 aprile 2008, n. 9177).

Tale principio di diritto, appare in linea, del resto, con il requisito psicologico della scientia decoctionis del creditore, che non può non correlarsi, temporalmente, alla data in cui l’insolvenza è giudizialmente accertata; e trova ulteriore conferma sistematica nel tenore dell’art. 49 (Azioni revocatorie) del d.lgs. 8 luglio 1999, n. 270 (Nuova disciplina dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza, a norma dell’articolo 1 della legge 30 luglio 1998, n. 274 – Prodi-bis), che, al secondo comma, recita: “I termini stabiliti dalle disposizioni indicate nel comma 1 (e cioè, per l’esercizio delle azioni per la dichiarazione di inefficacia e la revoca degli atti pregiudizievoli ai creditori previste dalle disposizioni della sezione III del capo III del titolo II della legge fallimentare) si computano a decorrere dalla dichiarazione dello stato di insolvenza. Tale disposizione si applica anche in tutti i casi in cui alla dichiarazione dello stato di insolvenza segua la dichiarazione di fallimento”.

Cosa diversa, poi, è che le azioni revocatorie degli atti compiuti in frode dei creditori divengano esperibili, in concreto, solo con la nomina del commissario liquidatore, cui compete il loro esercizio (art. 203, secondo comma, l. fall.).

Il ricorso è dunque infondato e va respinto; con la conseguente condanna alla rifusione delle spese di giudizio, liquidate come in dispositivo, sulla base del valore della causa e del numero e complessità delle questioni svolte.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente alla rifusione delle spese di giudizio, liquidate in complessivi Euro 6.200,00, di cui Euro 6.000,00 per compenso, oltre le spese forfettarie e gli accessori di legge.

Si dà atto della sussistenza dei presupposti di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia – t.u. spese di giustizia), art. 13 (Importi), comma 1-quater, introdotto dall’art. 1, comma 17, l. 24 dicembre 2012, n. 228 (Legge di stabilità 2013).

L.c.a. il caso UNIECO, ma anche Pop. Vicenza e Veneto Banca. Formazione dello stato passivo. Istruzioni per l’uso 2

Data l’importanza che per la gran parte del ceto creditorio riveste la fase della formazione dello stato passivo riteniamo di fare cosa utile compiendo un balzo in avanti nell’analisi dell’istituto della L.c.a.( Liquid. Coatta amministrativa), affrontando il tema della presentazione delle istanze dei creditori, salvo poi ritornare su  temi ai quali dovrebbe essere riservata priorità logica.

Con la recente pubblicazione del decreto che ha disposto la Liquidazione coatta amministrative delle note banche venete, l’istituto ha assunto un ruolo di  grande attualità, anche se occorre puntualizzare che  per il comparto  creditizio occorre fare riferimento alla disciplina speciale contenuta nel Testo Unico Bancario .

Dopo alcune nozioni per inquadrare la materia daremo conto di una sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione che ha composto un contrasto giurisprudenziale a proposito del silenzio serbato da Commissario Giudiziale e della proposizione tardiva di crediti.

Il procedimento di formazione dello stato passivo nella l.c.a., disciplinato in via generale dalla legge fallimentare (art. 207, 208 e 209  con salvezza delle diverse disposizioni contenute in leggi speciali), si struttura in una duplice fase: la prima, necessaria, di carattere amministrativo, condotta dal commissario liquidatore e informata a un principio di officialità; la seconda, astrattamente soltanto eventuale, di natura giudiziale, da svolgersi davanti all’A.g.o. (Autorità giudiziaria ordinaria). L’operato amministrativo precede quindi l’intervento giudiziale meramente potenziale che trova la propria sede naturale nel giudizio di impugnazione dello stato passivo ex art 98 e 99  L.fall. e in quello di accertamento delle domande di insinuazione tardiva ex art. 101  L. fall.. Il che conferma la qualifica della l.c.a. come procedimento amministrativo in tutte le sue parti, in cui si innestano fasi di natura giurisdizionale   ( Cass. 10.06.11 n. 12729) .

La verifica dello stato passivo nella l.c.a. è regolamentata unicamente con riguardo alla fase giudiziale, mentre invece con riguardo all’accertamento compiuto dal commissario liquidatore, a parte l’indicazione dell’asse temporale in cui questo è scandito, resta priva di regolazione. Trattasi in particolare di una verifica ispirata dal fine di concretare una celerità di ricognizione di tutte le pretese creditorie.

Tuttavia, come ha efficacemente sottolineato un autore: “detto carattere di scopo viene a perdere di effettività a causa sia della natura “ordinaria” dei termini che cadenzano la fase amministrativa, sia della fisiologica procastinazione del momento di definitività dello stato passivo all’esaurimento della possibilità di presentare domande di insinuazione tardiva davanti all’A.g.o”.

Entro un mese dalla nomina, il commissario liquidatore comunica ai creditori le somme risultanti a credito di ciascuno secondo le scritture contabili e i documenti dell’impresa, seppur con riserva ex lege di eventuali contestazioni in sede di elaborazione dello stato passivo. Analoga comunicazione è rivolta a coloro che possono far valere domande di rivendicazione, restituzione e separazione su cose mobili possedute dall’impresa. In entrambi i casi la comunicazione deve essere effettuata, ove possibile, a mezzo posta elettronica certificata, altrimenti, a mezzo raccomandata o fax.

Entro quindici giorni dal ricevimento della comunicazione, i creditori e i titolari di diritti possono far pervenire al commissario le loro osservazioni o istanze (art. 207, co. 3, l.fall.). Si tratterà di contestazioni inerenti, ad esempio, l’entità della somma comunicata, l’omissione di interessi maturati, il disconoscimento della prelazione. I soggetti che invece non hanno ricevuto la comunicazione commissariale possono chiedere, a mezzo raccomandata e con indicazione dell’indirizzo pec personale, il riconoscimento dei propri crediti e la restituzione dei loro beni entro sessanta giorni dalla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del provvedimento di liquidazione (art. 208), senza tuttavia incorrere in preclusioni. In entrambi i casi, infatti, stante sempre la non perentorietà dei termini, la presentazione di osservazioni, istanze o richieste non rappresenta un onere, né tantomeno un obbligo, per il creditore quantunque interessato, potendo quest’ultimo sopperire all’inerzia iniziale, non solo fino al deposito dello stato passivo (Cass., 12 febbraio 2008, n. 3380), ma altresì con un proprio intervento nella fase giurisdizionale di accertamento, nella forma delle opposizioni (potendo anche modificare o integrare l’istanza eventualmente già presentata ex art. 208 l.fall.: Cass 15.02.2016 n. 2917)  o dell’insinuazione tardiva, a seconda dei casi.

Nell’indicativo termine di novanta giorni dall’apertura della procedura, il commissario liquidatore, sulla base delle informazioni raccolte d’ufficio e delle eventuali osservazioni, istanze e richieste pervenute, forma poi l’elenco dei crediti, ammessi o respinti, e delle domande di rivendicazione, restituzione e separazione, accolte o rigettateL’elenco è depositato nella cancelleria del tribunale del luogo dove l’impresa ha sede principale, divenendo per legge esecutivo (art 209, co. 1, L.fall.).

Con la sentenza infra  pubblicata vengono enucleati alcuni importanti principi, che hanno contribuito a dissipare dubbi alimentati anche, nel recente passato,  da pronunce del Tribunale di Reggio Emilia. Questi,in sintesi, i principi espressi dalla sentenza  infra riportata per esteso:   << Nella procedura di liquidazione coatta amministrativa, la partecipazione del creditore al procedimento di formazione dello stato passivo, attraverso la formulazione di domande ai sensi dell’art. 208 legge fall. ovvero di osservazioni o istanze ex art. 207 legge fall., è solo eventuale ma, ove esperita, comporta l’obbligo del commissario liquidatore di provvedere su di esse. Ne consegue che il silenzio mantenuto dal commissario liquidatore in ordine alle richieste formulate dal creditore e il mancato inserimento del credito nell’elenco previsto dall’art. 209, primo comma, legge fall. assume valore implicito di rigetto, contro il quale, per evitare il formarsi di una preclusione, il creditore deve proporre opposizione allo stato passivo ai sensi dell’art. 98 legge fall., mentre, ove sia mancata ogni specifica domanda od osservazione alla comunicazione del commissario liquidatore, resta proponibile la domanda tardiva del credito che non sia stato inserito nel suddetto elenco.>>

Suprema Corte di Cassazione

sezioni unite

sentenza 26 marzo 2015, n. 6060

REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SENTENZA

sul ricorso 15066-2010 proposto da:

(OMISSIS) (OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo 48 studio dell’avvocato (OMISSIS), che lo rappresenta e difende, per delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

(OMISSIS) S.P.A. IN LIQUIDAZIONE COATTA AMMINISTRATIVA, in persona del Commissario Liquidatore pro-tempore, elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che la rappresenta e difende, per delega a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4729/2009 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 30/11/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 27/01/2015 dal Consigliere Dott. RENATO BERNABAI;

uditi gli avvocati (OMISSIS) per delega dell’avvocato (OMISSIS), (OMISSIS);

udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. APICE Umberto, che ha concluso per l’accoglimento, p.q.r., del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con istanza ex articolo 101 L.F. depositata presso il Tribunale di Roma il 30 giugno 2003 l’avv. (OMISSIS) chiedeva l’ammissione al passivo della (OMISSIS) s.p.a. in liquidazione coatta amministrativa, al rango privilegiato, del proprio credito da interessi sulla somma di euro 429.889,54, gia’ riconosciuta con pari grado all’udienza fissata per la verifica dello stato passivo a titolo di compenso per l’attivita’ professionale svolta in favore della compagnia.

La (OMISSIS) s.p.a. si costituiva eccependo la preclusione da giudicato per effetto della intervenuta ammissione al passivo della sorte capitale.

Con sentenza 20 maggio 2005 il Tribunale di Roma accoglieva la domanda e per l’effetto ammetteva allo stato passivo gli interessi con il medesimo privilegio riconosciuto al credito principale e con decorrenza dal giorno della maturazione del diritto fino alla data di definitivita’ dello stato passivo.

In accoglimento del gravame proposto in via principale dalla (OMISSIS), la Corte d’appello di Roma con sentenza 30 novembre 2009, respinta l’eccezione pregiudiziale di inammissibilita’ per genericita’ dei motivi, ex articolo 342 cod. proc. civ., dichiarava inammissibile la domanda.

Motivava:

– che sussisteva la preclusione pro judicato in ordine al credito accessorio per interessi, dal momento che la verifica dello stato passivo ed il successivo procedimento ex articolo 101 legge fallimentare erano fasi del medesimo accertamento giurisdizionale riguardante un credito da lavoro professionale, frazionato dal ricorrente nella sorte-capitale e negli interessi nonostante l’identica causa petendi.

Avverso la sentenza, non notificata, l’avv. (OMISSIS) proponeva ricorso per cassazione, articolato in tre motivi e notificato il 5 giugno 2010.

Deduceva:

1) la violazione dell’articolo 342 cod. proc. civ. nel rigetto dell’eccezione di inammissibilita’ dell’appello proposto dalla (OMISSIS) in liquidazione coatta amministrativa, nonostante la genericita’ dei motivi dedotti, privi di un supporto argomentativo idoneo a contrastare la motivazione della sentenza impugnata;

2) la violazione l’articolo 2909 cod. civ. e articolo 97 L.F. in ordine al ritenuto giudicato interno per effetto dell’ammissione al passivo del credito per sorte-capitale, da ritenere preclusivo della pretesa degli interessi, successivamente azionata ex articolo 101 L.F.;

3) la violazione dell’articolo 54 L.F., per non aver tenuto conto della sentenza della Corte costituzionale 28 maggio 2001 n. 162 che implicitamente consentiva la proposizione di una nuova domanda per interessi precedentemente non proposta.

Resisteva con controricorso la (OMISSIS) S.p.A. in liquidazione coatta amministrativa.

La sezione 6-1 della Corte di cassazione, cui la causa era stata assegnata in base ai criteri tabellari, sull’ordinanza del giudice relatore ex articolo 380 bis cod. proc. civ. che proponeva l’accoglimento del secondo motivo, con ordinanza interlocutoria 4 luglio 2012, rimetteva la causa alla pubblica udienza dell’11 luglio 2013.

All’esito della discussione il collegio, ravvisata una questione di particolare importanza, con ordinanza 8 agosto 2013, rimetteva la causa al Primo Presidente, che la assegnava alle sezioni unite.

Entrambe le parti depositavano memoria illustrativa ex articolo 378 cod. proc. civ..

All’udienza del 27 gennaio 2015 il Procuratore generale precisava le conclusioni come da verbale, in epigrafe riportate.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il primo motivo e’ inammissibile per difetto di autosufficienza.

Il ricorrente lamenta, infatti, la carenza di specificita’ dei motivi dell’appello della (OMISSIS), poi accolto: motivi, che si sarebbero risolti nella ripetizione pedissequa degli argomenti trattati in primo grado, senza confutazione analitica delle ragioni di diritto addotte dal Tribunale di Roma a sostegno della decisione. Sennonche’, la censura appare svolta in forma meramente assertiva, senza riproduzione dei predetti motivi di appello: quanto meno, nella parte essenziale da porre in relazione con la ratio decidendi della sentenza di prime cure.

La genericita’ della doglianza non consente neppure di valutare se, trattandosi di questioni di diritto non bisognose di specifica motivazione (secondo la formula tradizionale “il giudice dice il diritto”), la prospettazione di una tesi interpretativa diversa da quella del tribunale, seppur in ipotesi gia’ illustrata in primo grado, fosse idonea, o no, a sollecitarne il riesame da parte del giudice del gravame.

Con il secondo motivo si deduce la violazione dell’articolo 2909 cod. civ. e articolo 97 L.F..

Il problema della proponibilita’ tardiva, ex articolo 101 L.F., della domanda relativa al credito accessorio da interessi, quando gia’ si sia proposta istanza tempestiva per la sorte-capitale (nella specie, a titolo di compenso di attivita’ professionale) – accolta in sede di verifica dello stato passivo -presenta diverse sfaccettature, in parte riconducibili a profili di diritto processuale ordinario, in parte propri del rito speciale fallimentare.

Il primo aspetto da prendere in considerazione e’ l’identificazione stessa della domanda, ai fini della sua distinguibilita’ da quella gia’ ammessa al passivo. Si tratta di attivita’ interpretativa che deve muovere dall’ordinaria disamina degli elementi costitutivi della fattispecie: persone, causa petendi e petitum.

Pacifica, nella specie, l’identita’ della componente soggettiva, non appare revocabile in dubbio, invece, contrariamente all’avviso della corte territoriale, la diversita’ della causa petendi.

Vertendosi in tema di diritto di credito eterodeterminato, la pretesa al compenso professionale trae origine, infatti, da un contratto di opera intellettuale; laddove, la domanda accessoria relativa agli interessi moratori ha natura risarcitoria, fondata com’e’ sul ritardo nell’adempimento.

Ne consegue anche la difforme modalita’ di determinazione del quantum: in misura fissa, con riferimento alla sorte-capitale, in conformita’ con il parametro in concreto applicabile, in tema di compenso dell’opera intellettuale (articolo 2233 cod. civ.); soggetta, invece, ad incremento progressivo, ratione temporis acti, in ordine all’obbligazione accessoria per interessi.

Tale inquadramento concettuale, con la distinzione netta tra le due causae petendi, vale a risolvere in senso affermativo la questione della separata proponibilita’ delle relative domande, per compenso e per interessi, rispettivamente in sede di verifica dello stato passivo ed in via tardiva ex articolo 101 L.F.: fuori delle ipotesi, estranee al presente thema decidendum, in cui il debito per interessi resti, per contro, inscindibilmente legato alla sorte-capitale, al punto da poter essere anche liquidato d’ufficio, senza vizio di ultrapetizione: come nel caso di credito da lavoro subordinato o di credito risarcitorio da illecito aquiliano.

La preclusione della domanda tardiva di insinuazione al passivo fallimentare degli interessi maturati, ex articolo 101 L.F., dopo l’avvenuta ammissione tempestiva del credito principale (articolo 96 legge fallimentare) e’ gia’ stata esclusa, del resto, dalla giurisprudenza di questa Corte (Cass., sez. 1, 22 marzo 2012, n. 4554). Si pone allora il problema se la medesima soluzione valga anche nella procedura di liquidazione coatta amministrativa, connotata da profili di specialita’ nell’officiosita’ nell’iter formativo dello stato passivo.

Al riguardo, si osserva che l’impulso d’ufficio sia temperato, peraltro, dalla facolta’ del creditore di presentare osservazioni alla comunicazione delle somme risultanti a suo credito secondo le scritture contabili e i documenti dell’impresa (articolo 207, commi 1 e 3 L.F.). Alternativamente, i creditori che non abbiano ricevuto la predetta comunicazione possono chiedere, mediante raccomandata entro il termine di 60 giorni dalla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale del provvedimento di liquidazione, il riconoscimento dei propri crediti (articolo 208 L.F.).

Anche se si debba condividere l’orientamento prevalente, secondo cui non si tratta, in tal caso, di vera domanda giudiziale – perche’ diretta al commissario liquidatore, che e’ organo amministrativo – resta comunque che di essa, come delle osservazioni, il commissario debba tenere conto: cosicche’ il silenzio mantenuto sulle richieste formulate e l’omesso inserimento del credito nell’elenco di cui all’articolo 209 L.F., comma 1, assumono valore implicito di rigetto: contro il quale il creditore deve attivarsi mediante opposizione allo stato passivo, ex articolo 98 L.F., per evitare il formarsi di una preclusione (Cass., sez. 1, 11 novembre 2013 n. 25.301; Cass., sez. 1, 19 febbraio 2003 n. 2476).

Simmetricamente, il mancato esercizio del potere di proporre specifica domanda o di presentare osservazioni alla comunicazione del commissario liquidatore – iniziative, previste solo come eventuali dalle norme citate – non preclude la proponibilita’ della domanda di ammissione tardiva del credito accessorio da interessi, non pregiudicata da alcun silenzio-rigetto.

Da ultimo, appare inconferente il richiamo argomentativo al principio di ragionevole durata, pure addotto dalla (OMISSIS) s.p.a. in funzione preclusiva della domanda tardiva ex articolo 101 L.F..

Al riguardo, si osserva che il canone in questione, sancito innanzitutto dalla Convenzione Europea dei diritti dell’uomo (articolo 6, paragrafo 1), poi recepito dalla legislazione nazionale costituzionale (articolo 111 Cost., emendato, in parte qua, in forza della Legge Cost. 23 novembre 1999, n. 2) e ordinaria (Legge 24 marzo 2001, n. 89) e’ rivolto allo stesso legislatore; e cioe’, allo Stato-amministrazione affinche’ realizzi l’obiettivo della definizione del giudizio entro un termine ragionevole: onde, non puo’ essere distorto al fine di penalizzare proprio la parte privata, che di tale principio dovrebbe invece beneficiare, riducendone le possibilita’ di iniziativa giudiziaria, pur se conformi alla disciplina speciale del rito fallimentare: nella specie, inibendo domande di ammissione al passivo fallimentare tardive, e financo “ultratardive”, pur se rispettose dei limiti temporali fissati dall’articolo 101 L.F., u.c., nel testo novellato.

Resta assorbito il terzo motivo, relativo alla violazione dell’articolo 54 L.F.; cosi’ come impregiudicata l’ulteriore questione della individuazione del termine finale degli interessi, successiva, in via gradata, alla decisione rimessa al giudice del rinvio sulla domanda principale.

La sentenza dev’essere dunque cassata in relazione alla censura accolta, con rinvio alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, per un nuovo giudizio ed anche per il regolamento delle spese della fase di legittimita’.

P.Q.M.

– Rigetta il primo motivo di ricorso, accoglie il secondo, assorbito il terzo;

– cassa la sentenza impugnata nei limiti di cui in motivazione, con rinvio alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, anche per il regolamento delle spese della fase di legittimita’.

 

 

UNIECO in Liquidazione coatta amministrativa, istruzioni per l’uso

 Liquidazione coatta amministrativa, formazione dello stato passivo – Domande di ammissione al passivo, rivendicazione, restituzione e separazione, termini       

(segue) ………………..a particolari tipologie di imprese  (per l’interesse pubblico della loro natura o dell’attività che esercitano) quali a mero titolo esemplificativo: le banche, le assicurazioni, le società di intermediazione finanziaria (ecc.), le società fiduciarie e di revisione (art.1, 2 d.l. 233/1986) gli enti pubblici, gli imprese sociali, gli istituti autonomi di case popolari,  le società cooperative ecc…

Si tratta di una procedura concorsuale finalizzata alla liquidazione dei beni – per il soddisfacimento delle ragioni creditorie prima di determinare l’estinzione dell’impresa – mediante la quale la pubblica amministrazione interviene direttamente nella gestione della crisi d’impresa

Fatta questa breve premessa di carattere generale alla quale faranno seguito poi altri capitoli per consentire un’inquadratura di carattere  generale, gioverà intercalare la trattazione con il richiamo di pronunce giurisprudenziali che hanno affrontato aspetti controversi della disciplina giuridica in materia di LCA.

Sembra utile, in chiave pragmatica, prendere spunto da pronunce che contribuiscono a fare chiarezza in punto a ammissione al passivo dei crediti e a rivendicazione, restituzione e separazione su cose mobili possedute dall’impresa.

Tra le sentenze di legittimità  va menzionata una pronuncia non recentissima, ma pur sempre attuale, che ha il merito di avere risolto un dubbio che può assalire chi si  accinge ad affrontare gli adempimenti   riguardanti  la presentazione delle domande di ammissione al passivo. Pare utile puntualizzare che secondo il disposto dell’art. 207 Legge Fall. Entro quindici giorni dal ricevimento della comunicazione i creditori e le altre persone indicate dal comma precedente possono far pervenire al commissario mediante posta elettronica certificata le loro osservazioni o istanze”.

Il termine di 15 gg. previsto dalla norma potrebbe legittimare qualche legittima preoccupazione per i non addetti ai lavori o a chi si dovesse cimentare nel reperimento dei documenti da allegare alla domanda (che, come avremo modo di osservare, non è una semplice formalità e non va sottovalutata). Ebbene, può considerarsi principio ormai acquisito che detto termine (decorrente dal ricevimento della comunicazione mediante la quale il Commissario comunica le somme risultanti a credito di ciascuno secondo le scritture contabili e i documenti dell’impresa) non è perentorio.

Secondo la Corte di Cassazione, infatti: “Nella procedura di liquidazione coatta amministrativa, l’inosservanza dei termini previsti dagli artt. 207 e 208 della legge fall. Non comporta l’improponibilità delle domande di ammissione al passivo e di rivendicazione, restituzione e separazione di beni mobili, verificandosi la relativa preclusione esclusivamente a seguito del deposito in cancelleria dell’elenco dei creditori, il quale determina il passaggio dalla fase preliminare di accertamento del passivo, che si svolge davanti al commissario liquidatore ed ha natura amministrativa, alla seconda fase eventuale, avente carattere giurisdizionale, nel cui ambito trovano collocazione le opposizioni e le impugnazioni, nonché le insinuazioni tardive.” (Cassazione civile, sez. I, 12/02/2008,  n. 3380).

Testo della sentenza

  LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE                                           SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:                           Dott. PROTO     Vincenzo                         –  Presidente   –  Dott. PLENTEDA   Donato                           –  Consigliere  –  Dott. RORDORF   Renato                           –  Consigliere  –  Dott. CECCHERINI Aldo                             –  Consigliere  –  Dott. PANZANI   Luciano                     –  rel. Consigliere  –  ha pronunciato la seguente:                                                             sentenza                                        sul ricorso proposto da:                                             COMPAGNIA TIRRENA  DI  ASSICURAZIONI S.P.A. in  liquidazione  coatta amministrativa, in persona del commissario liquidatore                                                        – ricorrente – contro                                                               CASSA DI  PREVIDENZA AGENTI del Gruppo Tirrena in  liquidazione,  in persona del  liquidatore  Dott.               F.S avverso la  sentenza della Corte d’appello di  Roma  n.  799/05  del 21.2.2005;

Fatto SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Cassa di Previdenza Agenti del Gruppo Tirrena proponeva opposizione allo stato passivo della Compagnia Tirrena s.p.a. in liquidazione coatta amministrativa chiedendo l’immediata restituzione di tutte le somme dei conti individuali che componevano il patrimonio della Cassa di Previdenza stessa, per l’importo di L. 13.279.305.000, oltre a L. 450.433.000. In suberdine domandava la restituzione almeno del 70% degli importi ora detti. Domandava inoltre gli interessi e la rivalutazione monetaria sulle somme in parola a far tempo dal 1.1.1992. In ulteriore subordine la Cassa chiedeva l’ammissione al passivo della liquidazione coatta in via privilegiata dei crediti relativi alle somme ora dette, ai sensi degli artt. 2753 – 2754 c.c., e/o art. 2751 bis c.c., n. 3, oltre interessi e rivalutazione.

Osservava in sintesi la Cassa che sino al 31.12.1991 essa aveva investito le attività rappresentate dai conti individuali degli agenti ad essa iscritti mediante deposito in conti correnti fruttiferi aperti presso la Compagnia Tirrena; che tale forma di investimento era cessata nel 1992 quando la compagnia era stata sottoposta ad amministrazione straordinaria; che essa aveva invano domandato la restituzione delle somme versate e che neppure la richiesta di conversione del 70% delle somme investite in titoli azionari della compagnia era stata accolta; che dal 1.1.1992 la Compagnia aveva anche cessato di versare alla Cassa la quota di contribuzione a proprio carico, quota che al 31.5.1993 ammontava a L. 450.433.000; che tale ultimo importo non era stato neppure inserito nello stato passivo della procedura di liquidazione coatta.

Ad avviso della Cassa il commissario liquidatore aveva illegittimamente ammesso le somme dovute al passivo della procedura di liquidazione coatta, anzichè provvedere alla loro restituzione, trattandosi di patrimonio distinto da quello della compagnia assoggettata a procedura concorsuale. E l’ammissione era avvenuta in via chirografaria, senza riconoscimento del privilegio invece dovuto.

Costituendosi in giudizio la liquidazione coatta eccepiva l’inammissibilità della domanda di rivendicazione trattandosi di credito relativo ad una somma di denaro confusasi nel patrimonio della compagnia e la decadenza della Cassa dall’azione di rivendicazione L. Fall., ex art. 207. Eccepiva ancora la non spettanza del privilegio.

Il Tribunale di Roma accoglieva l’opposizione, condannando la liquidazione coatta all’immediato pagamento della somma di L. 13.279.305.000, pari ad Euro 6.858,190,00, oltre agli interessi legali dal 1.1.1992 sino al soddisfo, somma da imputarsi sulle immediate disponibilità attive della gestione liquidatoria con priorità anche rispetto ai crediti di cui alla L. Fall., art. 116, ed occorrendo anche previa revocazione dei pagamenti già effettuati fino a concorrenza della somma dovuta. Il Tribunale ammetteva inoltre la Cassa al passivo della procedura di liquidazione coatta in privilegio ex art. 2751 bis c.c., n. 3, per L. 450.433.000, pari ad Euro 232.630,00.

La Corte d’appello di Roma con sentenza 21.2.2005, n. 799, rigettava l’appello principale della liquidazione coatta.

Osservava che questa Corte con la sentenza 10131/97 aveva affermato la rivendicabilità di somme di denaro nel caso di deposito in cui le cose fungibili depositate – tra cui anche il denaro – non fossero state individuate al momento della consegna, qualora il rivendicante fosse in grado di dimostrare che si era determinata una situazione idonea ad escludere che i beni rivendicati si fossero confusi nel patrimonio del fallito, nella specie della liquidazione coatta amministrativa.

Nel caso in esame dalla prova testimoniale era risultato che la Compagnia Tirrena accantonava le quote di contributo dovute alla Cassa, maggiorate degli interessi maturati di anno in anno, contabilizzandole separatamente, si che quella liquidità era altro rispetto al patrimonio della Compagnia. Tale situazione era ancor più netta a far tempo dal 31.12.1991, quando era venuto meno il riconoscimento degli interessi sulle somme versate dagli agenti. La giacenza delle somme presso la Compagnia non rappresentava un investimento attuato dalla Cassa, ma era conseguenza della funzione di supporto amministrativo-contabile svolto dall’impresa di assicurazioni in favore della Cassa ai sensi dell’art. 19 della Convenzione Nazionale delle Casse di Previdenza Agenti del 1953, resa efficace erga omnes in virtù del D.P.R. 18 marzo 1961, n. 387, in forza della L. n. 741 del 1959.

Se era vero che un teste aveva dichiarato che i fondi della Cassa erano finanza di cui la compagnia si serviva, non vi era prova che da ciò fosse derivata confusione delle somme nel patrimonio dell’impresa assicurativa e non risultava che ciò fosse avvenuto dopo il 31.12.1991. In ogni caso, ai sensi degli artt. 15 e 16 della Convenzione, la Compagnia doveva mettere le somme nell’immediata disponibilità della Cassa quando si verificassero gli eventi previsti dagli artt. 15 e 16 della Convenzione stessa (trasferimento dell’agente ad altra Cassa o definitiva cessazione dell’attività agenziale). Lo stesso teste aveva dichiarato che in bilancio la posta relativa alle somme di pertinenza della Cassa era perfettamente individuabile.

Le somme in questione pertanto, pur essendo presso la Compagnia, non erano nella sua disponibilità ed erano sempre ben determinabili nel loro ammontare.

La Corte d’appello riteneva inoltre che sulle somme in linea capitale fossero dovuti gli interessi non potendo trovare applicazione la L. Fall., art. 55, trattandosi di credito che non concorreva alla formazione del passivo concorsuale. Per questo stesso motivo il credito non soggiaceva al divieto di azioni ordinarie di condanna ed esecutive nei confronti della procedura.

Infine la Corte d’appello affermava che non vi era stata decadenza della Cassa dall’azione di rivendicazione delle somme, che non era stata chiesta per la prima volta, come sostenuto dall’appellante, con l’opposizione a stato passivo e quindi con un’inammissibile mutatio libelli. Il commissario liquidatore nella scheda allegata alla comunicazione di rigetto della domanda, aveva dato atto di ciò.

I contributi relativi al periodo dal 31.12.1991 al 30.5.1993 andavano ammessi al passivo in via privilegiata ex art. 2751 bis c.c., n. 3, trattandosi di quote di contribuzione dovute dal datore di lavoro, consistenti in quote di retribuzione dovute agli agenti, aventi finalità previdenziale e costituenti salario differito. Tali contributi rappresentavano una forma di trattamento di fine rapporto e quindi un’indennità dovuta per la cessazione del rapporto di lavoro, come previsto dalla norma citata.

Avverso la sentenza ricorre per cassazione la Compagnia Tirrena Assicurazioni in liquidazione coatta amministrativa articolando cinque motivi. Resiste con controricorso la Cassa di previdenza, che ha anche proposto ricorso incidentale condizionato con unico motivo.

La Compagnia ha replicato con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memorie.

Diritto MOTIVI DELLA DECISIONE

  1. Con il primo motivo del ricorso principale la Compagnia Tirrena Assicurazioni in liquidazione coatta deduce violazione degli artt. 1362, 1363 c.c. e segg., artt. 1762, 1782, 1813, 1834, 2741 c.c., degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonchè della L. Fall., artt. 103, 207, 208, 209, difetto e contraddittorietà di motivazione.

Il richiamo alla sentenza 10131/97 di questa Corte sarebbe errato, perchè tale pronuncia avrebbe ammesso la rivendica di cose fungibili individuate soltanto nel genere, ove risultasse che il depositario non ne poteva disporre e che esse erano rimaste separate dal suo patrimonio, ma non avrebbe esteso tale principio al denaro.

Nel ritenere che le somme versate dalla Cassa fossero separate dal patrimonio della Compagnia la Corte Territoriale avrebbe mal motivato, non considerando che la pretesa separazione non era altro che la mera indicazione di una posta debitoria nel bilancio della società assicuratrice, senza che ad essa corrispondesse una specifica modalità di gestione idonea ad escludere la confusione. La Corte d’appello nel richiamare la deposizione del teste D., aveva riportato il passo della deposizione in cui questi dava atto che la Compagnia anche dal punto di vista contabile non distingueva tra i singoli conti intestati agli agenti. La mera indicazione della somma complessiva non era altro che l’indicazione del debito nei confronti della Cassa. Negli stessi termini si erano espressi i testi D’. e F..

Ancora la Corte territoriale avrebbe mal motivato nel ritenere che la Compagnia avesse il divieto di utilizzare le somme investite dalla Cassa, perchè non avrebbe accertato l’esistenza di un divieto legale o contrattuale in capo alla compagnia all’utilizzo delle somme ed anzi la stessa Corte d’appello aveva riconosciuto che la Tirrena Assicurazioni aveva utilizzato le somme in parola, come risultava evidente anche dal fatto che essa riconosceva un interesse alla Cassa sulle stesse.

Osserva inoltre la ricorrente principale che la Corte d’appello avrebbe travisato la natura dell’operazione posta in essere dalla Cassa, che non aveva ad oggetto, come ritenuto, le quote di contributo che la Compagnia era tenuta a versare alla Cassa in misura pari ad una percentuale delle provvigioni spettanti agli agenti, ma le somme che la Cassa investiva presso la Compagnia, come aveva dichiarato il teste D..

Le somme depositate presso la Compagnia erano vincolate e la Cassa non ne aveva la disponibilità, come risulterebbe sia dalla deposizione della teste F. sia dal verbale 23.4.1983 del Comitato Amministratore della Cassa degli Agenti e dal successivo verbale del 5.5.1984.

La Corte d’appello avrebbe errato nell’argomentare la disponibilità delle somme da parte della Cassa con riferimento alle somme dovute agli agenti ai sensi degli artt. 15 e 16 della Convenzione, perchè il vincolo riguardava le somme che non dovevano essere smobilitate a seguito del trasferimento degli agenti ad altra Cassa o della definitiva cessazione del rapporto di agenzia, somme il cui ammontare poteva essere facilmente calcolato con i metodi attuariali.

Nell’argomentare la disponibilità delle somme da parte della Cassa dall’art. 19 della Convenzione che attribuiva alla Compagnia il servizio amministrativo della gestione, oltre a porre a fondamento dei rapporti tra le parti un titolo giuridico non invocato dalle stesse, la Corte avrebbe errato, perchè la norma individuerebbe soltanto il soggetto tenuto al servizio amministrativo per la gestione, senza nulla dire in ordine al titolo in virtù del quale avviene la gestione stessa.

Scaduta l’ultima convenzione, dopo il 31 dicembre 1991 la Compagnia aveva continuato a detenere le somme non in virtù degli obblighi derivanti dal servizio amministrativo, ma perchè non era in grado di adempiere all’obbligazione di restituzione delle somme, come riferito dal teste D’..

  1. Con il secondo motivo la ricorrente liquidazione coatta deduce violazione dell’art. 2697 c.c., L. Fall., artt. 55, 103, 207, 208, 209, nonchè difetto e contraddittorietà della motivazione.

La Cassa non avrebbe mai rivendicato gli importi richiesti, se non in sede di opposizione a stato passivo e ciò risulterebbe dalla scheda del commissario liquidatore, da cui risulta che l’ammissione al passivo era stata disposta come da domanda.

La rivendica costituirebbe una mutatio libelli non consentita. La Corte non avrebbe considerato che a pag. 22 della comparsa di costituzione in appello la Cassa aveva dato atto di aver richiesto per la prima volta al commissario liquidatore la restituzione delle somme soltanto dopo il 14.2.1995 e quindi 21 mesi dopo l’apertura della liquidazione, con conseguente decadenza L. Fall., ex artt. 207 e 208.

Nel ritenere sufficiente il dato che la rivendicazione risultava dalla scheda del commissario liquidatore, la Corte romana non avrebbe considerato che la rivendica era comunque intervenuta oltre il termine di 15 giorni previsto dalla L. Fall., art. 207. Ed in difetto di comunicazione da parte del commissario, la domanda doveva essere proposta, ai sensi dell’art. 208, entro 60 giorni dalla pubblicazione sulla G.U. del provvedimento di liquidazione.

Era onere della Cassa provare il rispetto di uno dei due termini.

3 – Con il terzo motivo, la ricorrente principale deduce, in via subordinata violazione della L. Fall., artt. 103, 207 e 209 e del D.L. 30 gennaio 1979, n. 26, convertito in L. n. 95 del 1979, nonchè difetto di motivazione.

La condanna pronunciata dalla Corte d’appello alla restituzione delle somme violerebbe il divieto, sancito dalle norme testè citate, di pronunciare condanna al pagamento di somme di denaro nei confronti di una procedura concorsuale, massime nel procedimento di opposizione a stato passivo, ostandovi il divieto di formazione di titoli di esecuzione individuale.

Nell’invocare una pronuncia di questa Corte (Cass. 2362/97) che aveva ammesso tale azione nei confronti di una procedura di amministrazione straordinaria per crediti di lavoro prededucibili contratti dagli organi della procedura e sorti dopo la dichiarazione dello stato d’insolvenza, la Corte territoriale non avrebbe considerato che la fattispecie in esame era completamente diversa e che la giurisprudenza maggioritaria di Cassazione era in senso contrario, non essendo comunque concepibile un’esecuzione nei confronti di una procedura di esecuzione collettiva.

  1. Con il quarto motivo del ricorso principale la ricorrente liquidazione coatta deduce violazione dell’art. 1224 c.c. L. Fall., artt. 55, 103, 203, L. n. 95 del 1979, art. 1, u.c., nonchè difetto di motivazione.

Nel riconoscere gli interessi sulle somme rivendicate la Corte d’appello non avrebbe considerato che gli interessi erano sospesi ai sensi della L. Fall., art. 55, e della L. n. 95 del 1979, art. 1, dal giorno di apertura della procedura di amministrazione straordinaria e comunque dall’assoggettamento a liquidazione coatta.

Nel ritenere che gli interessi fossero dovuti perchè si trattava di somme sottratte al concorso dei creditori, la Corte territoriale non avrebbe considerato che la res da restituire era pur sempre una somma di denaro e che quindi l’esigenza di tutela dei creditori comportava la sospensione del corso degli interessi. Per l’ipotesi di diversa interpretazione, la ricorrente solleva questione di legittimità costituzionale della L. Fall., art. 55, nella parte in cui non prevede la sospensione del decorso degli interessi quando sia questione di restituzione di somme rivendicate, per disparità di trattamento con le ulteriori fattispecie disciplinate.

  1. Con il quinto motivo la ricorrente principale deduce violazione degli artt. 1362, 1363 c.c., art. 2751 bis c.c., n. 3, nonchè difetto di motivazione.

Nel riconoscere il privilegio sul credito relativo alla somma di Euro 232.630 relativa alla contribuzione omessa nel periodo dal 31.12.1991 al 27.5.1993 la Corte d’appello non avrebbe considerato che le prestazioni erogate dalla Cassa degli agenti e quindi le contribuzioni ad essa dovute sono diverse dalle indennità di fine rapporto cui è accordato il privilegio, posto che vengono riconosciute soltanto al termine della carriera lavorativa dell’agente e non già ad ogni cessazione del rapporto di agenzia. Si trattava inoltre di omessa contribuzione alla Cassa e non di indennità di fine rapporto. La norma di cui all’art. 2751 bis c.c., n. 3, è norma eccezionale, che non può essere oggetto di interpretazione estensiva al di là dei casi espressamente considerati.

  1. Con l’unico motivo del ricorso incidentale condizionato la Cassa di Previdenza deduce che, se non rivendicabile come patrimonio separato, il credito della Cassa stessa dovrebbe essere ammesso al passivo della liquidazione coatta in via privilegiata ai sensi dell’art. 2751 bis c.c., n. 3, e, in subordine, ai sensi degli artt. 2753 e 2754 c.c.. Formula pertanto domanda in tal senso.
  2. Va disposta la riunione dei ricorsi ai sensi dell’art. 335 c.p.c..

E’ preliminare l’esame del secondo motivo del ricorso principale, con cui la ricorrente ha dedotto l’inammissibilità della domanda di rivendica perchè tardiva, in quanto proposta per la prima volta in sede di opposizione a stato passivo con inammissibile mutatio libelli rispetto all’originaria domanda di insinuazione al passivo del credito poi oggetto di rivendica.

In proposito la Corte d’appello ha osservato che la domanda era già stata proposta al commissario liquidatore prima che questi formasse lo stato passivo della liquidazione coatta il 22.1.2001. Ha desunto tale circostanza da un passaggio della motivazione dell’ammissione del credito al passivo in via chirografaria contenuto nella scheda redatta dal commissario liquidatore, allegata alla comunicazione di ammissione diretta al creditore, in cui si da atto che la “Cassa Previdenza Agenti del gruppo Tirrena ..ebbe a versare la somma rivendicata nelle casse della compagnia a titolo di investimento”.

Osserva la Corte d’appello che il riferimento alla rivendicazione rende palese che tale domanda era già stata proposta.

Obietta ora la ricorrente che non era sufficiente per ritenere la domanda tempestivamente proposta verificare che essa fosse anteriore alla chiusura dello stato passivo, perchè dovevano essere stati alternativamente rispettati i termini all’uopo previsti dalla L. Fall., artt. 207 e 208.L’art. 207, prevede che a seguito della comunicazione da parte del commissario a ciascun creditore delle somme risultanti a credito secondo le scritture contabili e i documenti dell’impresa (comunicazione che va fatta anche a coloro che possono presentare domande di rivendicazione, restituzione, separazione), il creditore e gli altri legittimati possano far pervenire al commissario le loro osservazioni o istanze entro quindici giorni dal ricevimento della raccomandata. L’art. 208 stabilisce che coloro che non hanno ricevuto la comunicazione in parola, possono chiedere con raccomandata entro sessanta giorni dalla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale del provvedimento di liquidazione, il riconoscimento dei propri crediti e la restituzione dei loro beni.

Va osservato che, come è stato più volte affermato dalla dottrina, il procedimento di accertamento del passivo nella fase preliminare che si svolge davanti al commissario liquidatore è contrassegnato dalla previsione di termini che hanno carattere ordinatorio, come si evince dal fatto che non è prevista alcuna sanzione per la loro inosservanza anche alla luce del disposto dell’art. 152 c.p.c., comma 2.

Nella procedura della liquidazione coatta amministrativa l’elenco dei creditori compilato dal commissario per la formazione dello stato passivo ha natura di atto amministrativo. Soltanto con il deposito in cancelleria si determinano una serie di preclusioni (l’elenco non può più essere variato nè revocato, i creditori non possono più proporre le domande di cui alla L. Fall., art. 208, i creditori ed i terzi non possono più presentare le osservazioni e le istanze di cui alla L. Fall., art. 207) ed inizia una seconda fase eventuale, a carattere giurisdizionale, nel cui ambito trovano collocazione le opposizioni e le impugnazioni di cui alla L. Fall., artt. 98 e 100 (L. Fall., art. 209, comma 2), oltre che le insinuazioni tardive (Cass. 15.9.2004, n. 18579).

Di conseguenza soltanto il deposito dello stato passivo in cancelleria impedisce al creditore ed al terzo rivendicante di proporre le domande rispettivamente di ammissione al passivo e di rivendicazione, restituzione e separazione dei beni mobili.

Correttamente pertanto la Corte d’appello ha ritenuto tempestiva la domanda di rivendicazione proposta dalla Cassa di Previdenza, una volta accertato in fatto che tale domanda era stata proposta prima del deposito dello stato passivo in cancelleria da parte del commissario liquidatore.

  1. Venendo ora all’esame del primo motivo del ricorso principale, con cui la ricorrente contesta le conclusioni cui è pervenuto il giudice d’appello in ordine alla separazione dal patrimonio della compagnia assicuratrice delle somme riferibili ai conti individuali degli agenti iscritti alla Cassa di previdenza, occorre muovere dai principi affermati in proposito dalla giurisprudenza di questa Corte, che ha avuto occasione di pronunciarsi principalmente con riferimento alla rivendicazione dei valori mobiliari affidati da un privato ad una fiduciaria, sia prima che successivamente all’entrata in vigore della L. n. 1 del 1991, materia poi ampiamente regolata dalla normativa successiva con riferimento alle SIM, alle società di gestione del risparmio e alle SICAV (D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, art. 57; D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385, artt. 86, 91).

Con riferimento ai soggetti incaricati di operazioni di investimento per conto terzi in strumenti finanziari il D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 22, stabilisce il principio della c.d. doppia separazione patrimoniale in quanto il patrimonio dell’intermediario (impresa di investimento, società di gestione del risparmio, società di gestione armonizzata, intermediario finanziario D.Lgs. n. 58 del 1998, ex art. 107, banca) va tenuto distinto da quello dei singoli clienti ed il patrimonio di ogni cliente va tenuto distinto da quello degli altri. La violazione del divieto è sanzionata penalmente (art. 168 T.U.).

Dalla disciplina dettata dal R.D.L. 12 marzo 1936, n. 375, art. 91, richiamato dal D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 57, si ricava che il principio della separazione trova piena attuazione anche in caso di procedura concorsuale. Nel caso in cui il principio di separazione sia stato rispettato dall’intermediario, i commissari liquidatori dovranno procedere alla restituzione a ciascun cliente degli strumenti finanziari di sua competenza. Nel caso invece che l’obbligo di separazione sia stato completamente violato e vi sia stata totale confusione tra i mezzi amministrati della clientela e quelli dell’intermediario finanziario, gli investitori non potranno che concorrere con gli altri creditori sul patrimonio indifferenziato, trasformandosi il diritto alla restituzione in via specifica nel credito dell’equivalente da far valere al passivo chirografario.

Più complesso è il caso che sia stato mantenuto distinto il patrimonio dell’intermediario da quello della clientela, ma non sia invece possibile distinguere, in tutto od in parte, tra il patrimonio di spettanza dei singoli clienti. Per questa ipotesi, ove la massa patrimoniale indistinta sia sufficiente a soddisfare in forma specifica i diritti vantati da tutti i clienti, i commissari dovranno procedere alle restituzioni. Ove invece gli strumenti finanziari non risultino sufficienti per l’effettuazione di tutte le restituzioni, i commissari procedono, ove possibile, alle restituzioni ai sensi del comma 1 in proporzione dei diritti per i quali ciascuno dei clienti è stato ammesso alla sezione separata dello stato passivo, ovvero alla liquidazione degli strumenti finanziari di pertinenza della clientela ed alla ripartizione del ricavato secondo la medesima proporzione (art. 91, comma 2, citato T.U. bancario).

Questa disciplina non può trovare applicazione al di fuori dei casi espressamente considerati. In passato la giurisprudenza di questa Corte (Case. 20.2.1984, n. 1200; Cass. 16 maggio 1990, n. 4262; 20 febbraio 1984, n. 2633; Cass. 18.10.2001, n. 12718) aveva in più occasioni affermato che le domande di rivendicazione, restituzione o separazione, previste dalla L. Fall., art. 103, sono ammissibili soltanto se la cosa è stata determinata nella sua specifica e precisa individualità e che, in caso contrario, è configurabile (solo) un diritto di credito (alla restituzione del tantundem) azionabile nei confronti della curatela del fallimento secondo le modalità e con gli effetti previsti dalla L. Fall., art. 93 e segg..

Ciò sulla premessa che, in linea di massima, le cose fungibili che non siano state individuate al momento della consegna, entrano nella disponibilità di chi le riceve, il quale acquista il diritto di servirsene e, appunto per questo, ne diventa proprietario, pur essendo tenuto a restituirne altrettante della stessa specie e qualità. Ciò deriva dalla disciplina dettata dall’art. 1782 c.c., il quale tuttavia precisa che il passaggio della proprietà dal depositante al depositario non costituisce una conseguenza indefettibile della fungibilità delle cose depositate, poichè tale effetto si realizza solo se al depositario è concessa (anche) la facoltà di servirsi di tali beni nel proprio interesse: in tal caso il deposito viene ad assolvere anche una funzione di credito nell’interesse del depositario e questo spiega perchè a tale contratto si applichino, in quanto compatibili, le norme sul mutuo (art. 1782 c.c., comma 2).

Pertanto quando sia questione di una somma di denaro, bene fungibile per eccellenza, deve ritenersi che in linea di principio colui che la riceve ne acquisti la proprietà per confusione, con la conseguenza che il depositante sarà titolare soltanto del diritto di credito alla restituzione del tantundem da far valere, nel caso di procedura concorsuale, secondo le regole del concorso con gli altri creditori.

Tuttavia Cass. 14.10.1997, n. 10031, ha affermato che anche per il periodo precedente all’entrata in vigore della citata L. n. 1 del 1991, al fiduciante va riconosciuto il diritto di far valere, nei confronti degli organi della eventuale procedura concorsuale “medio tempore” instauratasi nei confronti della società, il diritto alla restituzione dei beni in precedenza ad essa affidati, dovendo ritenersi, all’uopo, sufficiente la dimostrazione di una situazione idonea ad impedire che la cosa della quale si reclami la restituzione si sia confusa con il patrimonio del fallito, (“rectius”, del sottoposto a liquidazione coatta) per essere entrata a far parte dei beni di sua proprietà: pur occorrendo, perchè si realizzi una situazione siffatta, in linea di principio, che la “res” sia “determinata” nella sua specifica e precisa individualità (L. Fall., art. 103). Si è aggiunto che, per l’acquisto della proprietà da parte di chi riceve in deposito una quantità di denaro o di altre cose fungibili, è pur sempre necessario che, alla semplice detenzione, si aggiunga (quantomeno implicitamente) la facoltà di servirsi del bene, non essendo la sua natura fungibile sufficiente, di per sè sola, a determinare il prodursi di tale effetto, mentre le società fiduciarie, non potendo disporre o, comunque, utilizzare nel proprio interesse i beni loro affidati, risultano, in concreto, mere depositarle di beni costituenti una massa patrimoniale distinta, a tutti gli effetti, dal loro personale patrimonio e, come tale, sottratta alle azioni esecutive degli eventuali creditori. Ancora si è osservato che la eventuale commistione dei conti tra più fiducianti non è idonea, di per sè, ad impedire il riconoscimento della separatezza dei beni intestati alla società nell’interesse di tali soggetti, perchè detta commistione non coinvolge i rapporti tra fiducianti e fiduciaria, ma è limitata a quelli che intercorrono tra i singoli fiducianti nell’ambito di una massa patrimoniale composta da beni dei quali questi ultimi sono i proprietari “effettivi”.

Nel caso esaminato questa Corte argomentò la separatezza delle somme di denaro versate dai fiducianti alla fiduciaria perchè le investisse nel loro interesse, acquistando titoli ed altri valori mobiliari che rimanevano nella titolarità formale della società, ma effettiva dei fiducianti, dal complesso della disciplina di legge che, già prima dell’entrata in vigore della L. n. 1 del 1991, escludeva che tali società potessero liberamente disporre dei beni ricevuti in consegna. Tale disciplina regolava l’attività di tali società – qualificando, da un lato, i fiducianti quali “effettivi proprietari” dei beni affidati in amministrazione fiduciaria e avendo cura, dall’altro, di prescrivere che le disponibilità liquide e i valori mobiliari “dei fiducianti” dovessero essere depositati presso terzi “in conti rubricati come di amministrazione fiduciaria” – sì che tali beni costituivano una massa patrimoniale “distinta”, a tutti gli effetti dal patrimonio della fiduciaria e, come tale, sottratta alle azioni esecutive dei suoi creditori.

Con riferimento al regime giuridico introdotto dalla L. n. 1 del 1991, poi confermato dalla disciplina successivamente entrata in vigore, questa Corte ha affermato che tale legge ha stabilito il principio della cosiddetta doppia separazione patrimoniale (poi ripreso, come s’è detto dalla successiva disciplina in materia di intermediazione finanziaria), che implica separazione del patrimonio della società da quello gestito per conto e nell’interesse dei clienti, nonchè, all’interno di quest’ultimo, reciproca separazione dei beni e dei valori riferibili individualmente a ciascun cliente.

Tale principio è ispirato dallo scopo di garantire un’efficace tutela degli investitori, soprattutto nel caso di crisi dell’intermediario, realizzata mediante la sottrazione dei beni alla liquidazione concorsuale, permettendo all’investitore l’immediato e completo recupero di quelli riconducibili al proprio patrimonio.

Tuttavia, questa tutela è garantita appieno soltanto nel caso in cui il regime di separazione sia stato effettivamente rispettato, con la conseguenza che, qualora ciò non sia accaduto – sia in quanto la società abbia confuso, in tutto o in parte, il proprio patrimonio con quello dei clienti, sia in quanto abbia violato la regola della reciproca separazione dei patrimoni dei singoli clienti l’investitore è titolare esclusivamente di un diritto di credito nei confronti dell’intermediario, che concorre con gli altri crediti vantati dai terzi nei confronti di quest’ultimo, in virtù di una regola ricavabile anche dal D.Lgs. n. 415 del 1996, art. 34, comma 3 (poi sostituito dal D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 57, comma 3), e dal rinvio ivi contenuto al D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 91 (Cass. 11.3.2005, n. 5383; Cass. 5.4.2006, n. 7878).

Nel caso in esame la Corte d’appello ha ritenuto che le somme in questione rimanessero separate dal patrimonio della compagnia assicuratrice perchè:

  1. a) tali somme erano contabilizzate separatamente e corrispondevano ad un’autonoma posta di bilancio;
  2. b) dopo il 31.12.1991, data a far tempo dalla quale essendo scaduta la Convenzione tra la compagnia e la Cassa di previdenza era venuto meno il diritto di quest’ultima di pretendere gli interessi sulle somme depositate, la giacenza del denaro presso la compagnia non costituiva una forma di investimento, come si sarebbe potuto argomentare dal fatto che veniva corrisposto un interesse, ma rappresentava attuazione della funzione di supporto amministrativo- contabile che la compagnia assicuratrice doveva svolgere per conto della Cassa ai sensi dell’art. 19 della Convenzione tra la compagnia stessa e la Cassa;
  3. c) se anche era emerso che il denaro in questione era finanza di cui la compagnia si serviva (così il teste D’., secondo la sentenza impugnata), non era stato provato che ne derivasse confusione dei patrimoni nè che, se confusione vi era stata, essa fosse stata autorizzata dalla Cassa;
  4. d) in ogni caso non era dato sapere se tale situazione si fosse realizzata anche dopo il 31.12.1991;
  5. e) in ogni caso la compagnia doveva tenere a disposizione della Cassa, ai sensi degli artt. 15 e 16 della Convenzione, le somme necessarie per far fronte ai rimborsi nei confronti degli agenti che cambiavano compagnia e quindi Cassa di previdenza o cessavano definitivamente il loro rapporto di agenzia.

E’ evidente la violazione di legge ed il vizio di motivazione in cui è incorsa la sentenza impugnata nel far applicazione dei principi sanciti dalla giurisprudenza di questa Corte.

Come s’è detto, in tanto può affermarsi che vi sia separazione tra il patrimonio del depositante e quello del depositario, pur in presenza di un deposito di cose fungibili, in quanto non ricorrano le condizioni previste dall’art. 1782 c.c., che danno luogo ad un deposito irregolare, con acquisto della proprietà dei beni da parte del depositario, tenuto alla restituzione del tantumdem eiusdem generis et qualitatis, secondo la disciplina del mutuo. Occorre a tal fine che si verifichino alcune condizioni. In primo luogo che il depositario non abbia facoltà di servirsi della cosa; in secondo luogo che non si sia comunque determinata confusione tra il patrimonio del depositario ed il denaro o i beni fungibili affidati dal depositante.

Il difetto di tali condizioni comporta che trovi applicazione la regola generale sancita dall’art. 1782 c.c., in forza della quale il depositario acquista la proprietà del bene fungibile ed il depositante acquista la titolarità del corrispondente diritto di credito, da far valere nelle forme dell’insinuazione al passivo.

La Corte d’appello ha affermato che la compagnia assicuratrice non aveva facoltà di servirsi delle somme versate dalla Cassa, ma nel contempo ha riconosciuto che le somme depositate dalla Cassa erano fruttifere e che un teste aveva dichiarato che si trattava di finanza che la compagnia utilizzava. Ciò implica all’evidenza confusione tra il patrimonio della compagnia e le somme depositate dalla Cassa, non risultando dalla sentenza impugnata che la compagnia fosse vincolata a forme di investimento “dedicate”, idonee cioè a mantenere le sorti del capitale della Cassa investito autonome dalle sorti del restante capitale della compagnia.

Nè evidentemente vale a dimostrare la sussistenza della separazione la mera circostanza che alle somme depositate corrispondesse un’autonoma posta nel bilancio della compagnia, perchè tale posta di per se stessa non indicava se tali somme fossero individuate e gestite come un patrimonio separato ovvero se si trattasse di un semplice credito della Cassa nei confronti della compagnia, che ovviamente doveva essere iscritto in bilancio.

La Corte d’appello ha aggiunto che dopo il 31.12.1991, essendo scaduta la Convenzione tra la compagnia e la Cassa, non erano più dovuti interessi ed ha ritenuto che di conseguenza il titolo in virtù del quale la compagnia gestiva le somme fosse l’obbligo derivante dalla Convenzione (art. 19) di esperire il servizio amministrativo-contabile per conto della Cassa. Nel pervenire a tale conclusione, peraltro, la Corte non sembra aver considerato che la gestione del servizio amministrativo – contabile per conto della Cassa non dimostra ancora che tale gestione avvenisse in regime di separazione patrimoniale rispetto al patrimonio della compagnia.

Va sottolineato a questo proposito che l’art. 19 della Convenzione (che la Corte può esaminare direttamente in base al principio iura novit curia, in quanto atto a contenuto normativo, reso efficace erga omnes con D.P.R. 18 marzo 1961, n. 387) si limita a stabilire che il servizio amministrativo per la gestione della Cassa viene svolto da personale dipendente dalla Compagnia, messo gratuitamente a disposizione della Cassa, aggiungendo che ogni altro onere fa carico agli iscritti alla Cassa. La norma non contiene alcuna disposizione da cui si possa ricavare l’esistenza di una separazione delle somme gestite dal patrimonio dell’impresa assicuratrice.

La Corte di merito non da conto della deposizione del teste D’., così come riportata dalla ricorrente a pag. 47 del ricorso. Il teste ha dichiarato di aver respinto le richieste di restituzione avanzate dalla Cassa, dopo il 31.12.1991 e quindi quando non erano più dovuti interessi, perchè un esborso di oltre venti miliardi avrebbe provocato un depauperamento troppo ingente.

La Corte d’appello non ha considerato che tale dichiarazione sembra implicare che vi fosse piena confusione tra il patrimonio della compagnia e le somme ad essa affidate dalla Cassa, tanto che la compagnia, essendo insorte le difficoltà che avrebbero dato luogo all’apertura della procedura concorsuale, non era in condizioni di restituire le somme perchè ciò avrebbe inciso in maniera rilevante sulla sua liquidità.

Infine anche il ricorso all’argomento che vi fosse separazione perchè la compagnia doveva comunque tenere a disposizione le somme necessarie per liquidare gli agenti ai sensi degli artt. 15 e 16 della Convenzione (passaggio di agenti ad altra Cassa di previdenza e cessazione definitiva dell’attività di agente) cela un evidente vizio logico. La circostanza che la compagnia dovesse garantirsi una certa liquidità per far fronte agli obblighi correnti nei confronti della Cassa, peraltro quantificabili con il ricorso al metodo attuariale come osserva la ricorrente principale, non dice ancora nulla sul regime giuridico delle somme depositate. Tale esigenza di liquidità, infatti, poteva anche derivare dall’esistenza di un diritto di credito della Cassa nei confronti della compagnia, in difetto di ogni separazione di patrimoni nè più nè meno di come accade ogni giorno nei rapporti tra banca e clienti. Come questa Corte ha già osservato (Cass. 11.3.2005, n. 5383; Cass. 5.4.2006, n. 7878), il diritto del depositante a rivendicare le cose fungibili depositate sussiste soltanto in quanto l’obbligo di separazione dei patrimoni sia stato rispettato. Tale principio, affermato espressamente dal legislatore con riferimento alla disciplina delle società fiduciarie e di investimento finanziario, è in realtà espressione di una regola di carattere più generale. Posto infatti che il patrimonio del debitore costituisce la garanzia dei suoi creditori secondo il fondamentale dettato dell’art. 2740 c.c., in tanto tale principio è derogabile in quanto i beni che si pretende di sottrarre alla garanzia dei creditori siano esattamente individuati o, ove si tratti di beni fungibili, come tali non specificamente individuabili, siano sottratti alla regola della confusione nel patrimonio del debitore in forza del divieto di disporne stabilito per legge o per convenzione in capo al debitore stesso, purchè tale regola sia stata in concreto rispettata.

Va sottolineato che la disciplina speciale dettata dapprima per le società fiduciarie e poi per gli intermediari finanziari, ha segnato un mutamento nell’atteggiamento tradizionale del legislatore diretto in passato a ripartire il danno derivante dall’insolvenza su una più vasta cerchia di soggetti, sì da limitarne l’incidenza unitaria. Il concorso, è stato osservato, è figura che esige da un lato una massa di creditori aventi diritti omogenei e, almeno tendenzialmente, paritetici; dall’altro lato, una massa patrimoniale costituente la garanzia generica e comune di quei crediti. La disciplina speciale crea invece delle masse separate, evitando che ai soggetti titolari di diritti su tali masse possano estendersi i tradizionali principi propri del concorso.

La giurisprudenza di questa Corte ha individuato i casi ed i limiti per cui le regole dettate dalla legislazione speciale possono essere estese ad altre ipotesi. Ove non ricorrano tali condizioni, non resta che applicare la regola generale del concorso, che esclude la rivendica di una somma di denaro, riconoscendo un mero diritto di credito, sottoposto a quella regola generale.

Il terzo ed il quarto motivo del ricorso principale, proposti in via subordinata, rimangono assorbiti.

  1. Con il quinto motivo del ricorso la ricorrente principale si duole che la Corte d’appello abbia ritenuto sussistente il diritto della Cassa ad essere ammessa al passivo per il credito relativo ai contributi maturati dal 1.1.1992 al 27.5.1993 in via privilegiata ai sensi dell’art. 2751 bis c.c., n. 3. La Corte d’appello ha ritenuto che tale credito corrisponda a quote di contribuzione previste a carico del datore di lavoro – compagnia assicuratrice, consistenti in una parte delle provvigioni dovute agli agenti, quote che hanno natura e finalità previdenziale e costituiscono salario differito.

Spetterebbe il privilegio di cui all’art. 2751 bis c.c., n. 3, perchè tali somme sarebbero destinate “ad alimentare presso la Cassa le disponibilità destinate ad erogare ai singoli agenti una forma integrativa del trattamento di fine rapporto”. Si tratterebbe quindi di indennità dovute per la cessazione del rapporto di lavoro cui fa riferimento la norma citata.

Obietta la ricorrente che i contributi in parola sono dovuti alla Cassa e non rappresentano quindi una prestazione retributiva differita dovuta agli agenti di assicurazione ed, inoltre, che le prestazioni dovute agli agenti dalla Cassa, ai sensi dell’art. 16 della Convenzione Nazionale del 24.6.1953, resa efficace erga omnes, sono dovute soltanto nel caso di definitiva cessazione dell’attività di agente e non in ogni caso di cessazione del rapporto di agenzia, sì che non possono essere equiparate alle indennità previste dall’art. 2751 bis c.c., n. 3, norma di stretta interpretazione.

Replica la controricorrente osservando che il credito trae la sua origine dal rapporto di agenzia e pertanto è irrilevante che le somme siano dovute ad una Cassa di previdenza, anzichè agli agenti direttamente. Non si tratterebbe di contributi relativi a prestazioni previdenziali erogate dalla Cassa, ma di prestazioni che hanno carattere retributivo.

Il motivo è fondato.

Va premesso che ai sensi dell’art. 2751 bis c.c., n. 3, è riconosciuto il privilegio generale mobiliare sulle provvigioni derivanti dal rapporto di agenzia, dovute per l’ultimo anno di prestazione, e sulle indennità dovute per la cessazione del rapporto medesimo. Con tale ultima espressione il legislatore ha chiaramente inteso far riferimento all’indennità di cessazione del rapporto dovuta dal preponente all’agente stabilita dall’art. 1751 c.c., applicabile agli agenti di assicurazione in virtù del disposto dell’art. 1753 c.c., in quanto non derogato dalla disciplina collettiva e dagli usi, nei limiti della compatibilità con la natura dell’attività assicurativa.

Alla luce di tale disciplina può essere oggetto di discussione ( ma la questione non è rilevante ai fini del decidere) se il privilegio spetti soltanto sulle indennità di fine rapporto dovute in base alla disciplina di legge o anche sulle indennità stabilite dagli accordi economici collettivi.

Nel caso in esame, peraltro, non è questione delle somme dovute dalla preponente compagnia di assicurazioni agli agenti, ma di contributi che debbono essere versati in virtù della Convenzione nazionale del 24.6.1953, resa efficace erga omnes con D.P.R. 18 marzo 1961, n. 387, dalla compagnia alla Cassa di Previdenza degli agenti.

A fronte di tali contributi si forma un capitale destinato ad alimentare un’assicurazione sulla vita ovvero un contratto di capitalizzazione ovvero ancora all’incremento del conto individuale intestato all’agente che, alla definitiva cessazione dell’attività agenziale, sarà corrisposto all’agente dalla Cassa (cfr. art. 11 e segg. della Convenzione, nel testo approvato con D.P.R. n. 387 del 1961, pubblicato sul supplemento ordinario G.U. n. 128 del 25.5.1961, come già detto direttamente conoscibile da questa Corte trattandosi di atto normativo cui si applica il principio iura novit curia).

Va aggiunto che ai sensi dell’art. 16 della Convenzione “nel caso di scioglimento del contratto di agenzia con abbandono dell’attività agenziale” vengono consegnati all’agente la polizza di assicurazione o il contratto di assicurazione nonchè l’importo della liquidazione del conto individuale”.

E’ dunque evidente che altro è il credito dell’agente nei confronti della Cassa di Previdenza alla cessazione definitiva del rapporto di agenzia, altro è il credito per i contributi dovuti alla Cassa da parte dell’impresa di assicurazioni ai sensi dell’art. 6 della Convenzione, commisurato all’ammontare delle provvigioni maturate nell’anno in favore dell’agente, contribuzione cui si aggiunge quella a carico dell’agente ai sensi del successivo art. 8 della Convenzione.

Tale credito sorge in capo alla Cassa per effetto della disciplina dettata dalla Convenzione nei confronti dell’impresa assicuratrice ed è del tutto differente dall’indennità di fine rapporto prevista dall’art. 1751 c.c., e dalle forme sostitutive previste dalla contrattazione collettiva. Queste ultime indennità sorgono infatti in capo all’agente nei confronti del preponente e presuppongono la cessazione del contratto di agenzia tra preponente ed agente; il credito contributivo invece sorge in capo alla Cassa di Previdenza nei confronti dell’impresa di assicurazione per effetto del maturare delle provvigioni in favore dell’agente ed è destinato ad alimentare le varie forme di previdenza (in senso lato) previste dalla Convenzione a favore dell’agente in una con la contribuzione a carico dell’agente.

Tanto basta per affermare che non spetta il privilegio previsto dall’art. 2751 bis c.c., n. 3, che si riferisce alle indennità di fine rapporto spettanti agli agenti e non può essere esteso, anche in ragione del principio di stretta interpretazione delle norme in materia di privilegio, ad un credito che ha natura diversa e sorge nei confronti di un soggetto che non è l’agente. Altra e diversa questione, che non deve essere ora affrontata, è se tale credito possa essere assistito da altra forma di privilegio ed in particolare da quello previsto dall’art. 2754 c.c..

  1. Resta da esaminare il motivo di ricorso incidentale con cui la Cassa di Previdenza per l’ipotesi di accoglimento del ricorso principale, ripropone i motivi dell’appello incidentale con cui aveva domandato il riconoscimento del privilegio per il credito relativo alle somme rivendicate, credito ammesso invece al passivo della procedura di liquidazione coatta da parte del commissario liquidatore in via chirografaria.

Tale motivo è inammissibile.

Va infatti richiamato il principio più volte affermato da questa Corte, secondo il quale è inammissibile, per difetto di interesse, il ricorso incidentale, della parte vittoriosa in secondo grado per le questioni, domande o eccezioni, rilevanti per la decisione, da essa prospettate e non decise, neppure implicitamente, in quanto assorbite da quelle accolte (Cass. 23.5.2006, n. 12153; Cass. 16.5.2006, n. 11371; Cass. 18.5.2005, n. 10420; Cass. 18.10.2006, n. 22346). Tali questioni debbono essere riproposte al giudice di rinvio.

In conclusione in accoglimento del primo e del quinto motivo di ricorso la sentenza impugnata va cassata con rinvio alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione, che pronuncerà anche sulle spese del giudizio di Cassazione.

PQM P.Q.M.

La. Corte riunisce i ricorsi; accoglie il primo ed il quinto motivo del ricorso principale, rigetta il secondo, assorbiti gli altri;

dichiara inammissibile il ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione, anche per le spese.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 13 dicembre 2007.

Depositato in Cancelleria il 12 febbraio 2008

 

 

 

 

 

 

Tutela del credito. La data certa del credito nell’ammissione al passivo del fallimento. Cassazione Sez.Un. 20 febbraio 2013, n. 4213

Come si evince dalla massima riportata in apertura, con l’importante arresto giurisprudenziale in commento gli ermellini hanno affermato i seguenti principi:

  1. il curatore del fallimento è terzo in quanto svolge una funzione di gestione del patrimonio del fallito rappresentando anche e soprattutto gli interessi della massa creditoria nella sua veste di incaricato istituzionalmente alla formazione dello stato passivo (il che implica che nei suoi confronti non può essere invocata la norma dell’art 2710 cc secondo la quale i libri contabili fanno prova tra imprenditori ed i rapporti inerenti l’esercizio dell’impresa);
  2. il requisito della data certa di scritture è configurabile come elemento impeditivo (e non costitutivo) del riconoscimento del diritto perché altrimenti si renderebbe impossibile o estremamente difficoltoso l’esercizio del diritto stesso da parte del creditore istante tanti caratteri peculiari dei rapporti commerciali in relazione ai quali il legislatore ha previsto agevolazioni probatorie per agevolare gli scambi;
  3. le riconoscimento del carattere impeditivo delle riconoscimento del diritto di credito implica che sollevata l’eccezione (sull’ammissibilità del credito) da parte del curatore (o del Giudice delegato) occorrer instaurare il contraddittorio tra le parti sul punto.

Alla luce dei principi sopra riferiti, il problema dell’ammissione del credito commerciale al passivo del fallimento può presentare non poche difficoltà ove si consideri che se ben vero che le fatture fiscali i documenti di accompagnamento sono equiparate le scritture contabili, secondo la giurisprudenza detti documenti pur se regolarmente tenuti, “non hanno valore di prova legale a favore dell’imprenditore che le ha redatte, spettando sempre la loro valutazione al libero apprezzamento del giudice, ai sensi dell’art. 116, primo comma, cod. proc. civ. . Non solo. Sovente, dalla stessa giurisprudenza, è stata ritenuta irrilevante ai fini dell’art. 2704 c.c. l’autenticazione notarile apposta alle fatture prodotte dal creditore poiché successiva alla data di dichiarazione di fallimento.

La sentenza in commento, pertanto, richiamando un principio già espresso in precedenza da altra pronuncia delle Sezioni Unite conclude affermando che il creditore, interessato all’insinuazione del proprio credito sulla base di documenti relativi a un rapporto commerciale sorto prima della dichiarazione di fallimento, deve agire rispettando la cd. “regola della certezza e computabilità” della data ex art. 2704 c.c.

Per mitigare il rigore di tale considerazione giova tuttavia sottolineare che la norma in oggetto non contiene una elencazione tassativa dei fatti in base ai quali la data di un atto tra privati non autenticato ( come una scrittura privata, un contratto o un credito) debba ritenersi certa rispetto a terzi, e molteplicii pronunce hanno ritenuto che debba essere demandata al giudice del merito la valutazione, caso per caso, della sussistenza di un fatto diverso dalla registrazione, idoneo, secondo l’allegazione della parte, a dimostrare la certezza della data (ex multis Cassazione Civile, Sezione I, 22 Ottobre 2009 n. 22430) .

Così si è ritenuto che in assenza delle situazioni tipiche di certezza previste dall’articolo 2704 del Codice Civile, il fatto idoneo a stabilire in modo egualmente certo l’anteriorità della formazione del documento in sede di contenzioso, potesse essere oggetto di prova per testi o anche per presunzioni, purchè, ha affermato la Suprema Corte in un recente arresto ( Cass. n. 19656 del 1 Ottobre 2015 ), il fatto dedotto in giudizio per integrare la prova sia munito di una certa attitudine probatoria, il che non succede quando le prove allegate siano rivolte, in via indiziaria e induttiva, a provocare un giudizio di mera verosimiglianza della data apposta sul documento.

 

Riforma della legge sulla crisi d’impresa e insolvenza

La Camera dei Deputati ha recentemente approvato il DDL. “Delega al governo per la riforma delle discipline della crisi di impresa e dell’insolvenza (relatori: Bazoli e Ermini) che fìssa principi e criteri direttivi e delega al governo la riforma delle procedure concorsuali. Il provvedimento è ora all’esame del Senato.

Riassumiamo le principali novità.

Meccanismi di allerta per impedire alle crisi aziendali di diventare irreversibili, ampio spazio agli strumenti di composizione stragiudiziale per favorire le mediazioni ira debitori e creditori, sostituzione del termine ‘fallimento’ con l’espressione ‘liquidazione giudiziale’. Una riforma ampia della crisi di impresa e dell’insolvenza che riscrive radicalmente la legge fallimentare del 1942.

Non più fallimento ma liquidazione giudiziale. La procedura di liquidazione giudiziale sostituisce l’attuale disciplina del fallimento. Dominus sarà il curatore, con poteri decisamente rafforzati: accederà più facilmente alle banche dati della PA, potrà promuovere le azioni giudiziali spettanti ai soci o ai creditori sociali, sarà affidata a lui (anziché al giudice delegato, cui si può eventualmente proporre opposizione) la fase di riparto detrattivo tra i creditori. Ci sarà però una stretta sulle incompatibilità. La procedura di liquidazione viene potenziata escludendo l’operatività di esecuzioni speciali e di privilegi processuali e limitando la possibilità di azioni di inefficacia e revocatorie. Infine, accertamento del passivo improntato a criteri di snellezza e concentrazione; massima trasparenza ed efficienza quanto alla liquidazione dell’attivo; misure acceleratorie per la rapida chiusura della procedura.

Allerta per prevenire la crisi. Per anticipare l’emersione della crisi d’impresa e facilitare una composizione assistita, viene introdotta una fase preventiva di allerta che può essere attivata direttamente dal debitore o d’ufficio dal tribunale su segnalazione (obbligatoria per fisco e Inps) dei creditori pubblici. In caso di procedura su base volontaria, il debitore sarà assistito da un apposito organismo istituito presso le Camere di commercio e avrà 6 mesi di tempo per raggiungere una soluzione concordata con i creditori. Se la procedura è d’ufficio, il giudice

convocherà immediatamente, in via riservata e confidenziale, il debitore e affiderà a un esperto l’incarico di risolvere la crisi trovando un accordo entro 6 mesi con i creditori. L’esito negativo della fase di allerta è pubblicato nel registro delle imprese. L’imprenditore che attiva tempestivamente l’allerta o si avvale di altri istituti per la risoluzione concordata della crisi godrà di misure premiali (non punibilità dei delitti fallimentari se il danno patrimoniale è di speciale tenuità, attenuanti per gli altri reati e riduzione di interessi e sanzioni per debiti fiscali). Dalla procedura d’allerta sono escluse le società quotate in borsa e le grandi imprese.

Regole processuali semplificate. In caso di sbocco giudiziario, si adotta un unico modello processuale per l’accertamento dello stato di crisi o di insolvenza: dopo una prima fase comune, la procedura potrà, secondo i diversi casi, evolvere verso soluzioni conservative o liquidatorie. Nel trattare le proposte, priorità viene comunque data a quelle che assicurano la continuità aziendale, purché funzionali al miglior soddisfacimento dei creditori, considerando la liquidazione giudiziale come extrema ratio. Si punta poi a ridurre durata e costi delle procedure concorsuali (responsabilizzando gli organi di gestione e contenendo i crediti prededucibili). Quanto al tribunale competente, il giudice sarà individuato in base alle dimensioni e alla tipologia delle procedure concorsuali, assegnando in particolare quelle relative alle grandi imprese al tribunale delle imprese a livello di distretto di corte d’appello.

Incentivi a ristrutturazione debiti. Il limite del 60 per cento dei crediti per l’omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti dovrà essere eliminato o quantomeno ridotto. L’abbassamento della soglia implica però l’esclusione della moratoria del pagamento dei creditori estranei e l’esclusione delle misure protettive (blocco procedure esecutive). Più in generale, si punta a incentivare tutti gli strumenti di composizione stragiudiziale della crisi, estendendo per esempio le convenzioni di moratoria anche a creditori diversi da banche e intermediari finanziari.

Concordato di natura liquidatoria. Il concordato preventivo viene ridisegnato ammettendo, accanto a quello in continuità, anche il concordato che mira alla liquidazione dell’azienda se in grado di assicurare il pagamento di almeno il 20 per cento dei crediti chirografari. Nel caso di concordato in continuità, il piano potrà prevedere una moratoria per il pagamento dei creditori privilegiati di durata anche superiore all’anno. L’adunanza dei creditori viene eliminata ricorrendo a modalità telematiche e le maggioranze saranno calcolate ‘per teste’ quando titolare di crediti pari alla maggioranza degli ammessi al voto sia un solo creditore. Al concordato preventivo delle società, infine, si applicherà una disciplina specifica.

Insolvenza gruppo di imprese. Viene prefigurata una procedura unitaria per la trattazione della crisi e dell’insolvenza delle società del gruppo e, anche in caso di procedure distinte, vi saranno comunque obblighi di collaborazione e reciproca informazione a carico degli organi procedenti. In pratica, se più imprese del gruppo si trovano in cnsi, sarà possibile presentare una sola domanda per l’omologazione di un accordo unitario di ristrutturazione dei debiti, 1* ammissione al concordato preventivo o la liquidazione giudiziale. Il ricorso unitario non esclude però l’autonomia delle masse attive e passive di ciascuna impresa. In sede di rimborso i finanziamenti all’impresa in crisi che giungono da altre società del gruppo saranno posposti di grado.

Norme salva-famiglie più ampie. Si riordina la disciplina del sovraindebitamento comprendendo nella procedura di composizione anche i soci illimitatamente responsabili e assicurando una gestione coordinata delle procedure riguardanti più familiari. Andranno poi disciplinate soluzioni che consentano la prosecuzione dell’attività svolta dal debitore o la sua eventuale liquidazione, anche ad istanza del debitore La vendita dei beni è però obbligatoria per il debitore-consumatore se la crisi deriva da malafede, frode o colpa grave ed è altresì esclusa l’esdebitazione (la liberazione dei debiti). Il debitore meritevole, solo per una volta e con l’obbligo di pagare se entro 4 anni sopravvengono utilità, può invece accedere all’esdebitazione anche quando non sia in grado di soddisfare i creditori. Nelle insolvenze di minor portata, salvo opposizione dei creditori, varrà l’esdebitazione di diritto (non dichiarata, quindi, dal giudice).

Concordato preventivo: anche i creditori non dissenzienti possono fare opposizione nel giudizio di omologazione.

Cassazione civile sent.   n. 20040 del 24 settembre 2014

 Recentemente, la Corte di Cassazione ha dovuto affrontare un’interessante questione legata al giudizio di omologazione del concordato preventivo. Prima di questa importante decisione c’era grande incertezza su chi fosse o meno legittimato ad opporsi al giudizio di omologazione del concordato. La sentenza della Corte Suprema  può essere di grande importanza per chiunque eserciti un’attività imprenditoriale o di libero professionista e debba fare i conti con un partner d’affari in concordato preventivo. Continue reading “Concordato preventivo: anche i creditori non dissenzienti possono fare opposizione nel giudizio di omologazione.”

Fallimento, società in liquidazione, insolvenza

Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza n. 16752/13

Con la sentenza annotata gli ermellini confermano un orientamento ormai consolidato in giurisprudenza (tra le altre Cass.  14.10.2009 n. 21834), nonostante si registri qualche dissonanza in dottrina. Secondo il principio peraltro  già fatto proprio dalla sentenza impugnata (che aveva ritenuto irrilevanti le cessioni di beni mobili ed immobili della società e le critiche svolte sul punto dal collegio sindacale in presenza di un attivo ritenuto sufficiente a soddisfare tutto il passivo),   laddove si debba valutare l’esistenza dello stato di insolvenza di una società in liquidazione,  occorre dare rilievo all’accertamento della sufficienza o meno dell’attivo a soddisfare in via di liquidazione tutti i debiti della società, sicché il giudice deve valutare  “ai fini dell’applicazione dell’articolo 5 Legge Fallimentare, se gli elementi attivi del patrimonio sociale consentano di assicurare uguale e integrale soddisfacimento dei creditori sociali”. Continue reading “Fallimento, società in liquidazione, insolvenza”

FALLIMENTO – PEGNO DI CREDITO

                                                                                                  Cass. civ., Sez. Un., 2 ottobre 2012, n. 16725

L’automatica trasformazione del pegno di credito alla consegna in pegno di titoli per effetto di un’apposita convenzione tra le parti, determina una sostituzione dell’oggetto del pegno equivalente ad una nuova garanzia. Nella descritta circostanza, inoltre, la convenzione sarebbe posta in essere in violazione del divieto di patto commissorio, perché l’appropriazione dei titoli da parte della banca, successivamente alla consegna, realizza un effetto sostanzialmente analogo al patto commissorio, in quanto la banca finirebbe in tal modo per appropriarsi dell’oggetto del credito del cliente

Non è assistita da prelazione ai fini dell’ammissione al passivo fallimentare la convenzione di pegno avente ad oggetto non titoli di stato, ma il credito del cliente nei confronti della banca all’acquisto ed alla consegna di una determinata quantità di titoli per un controvalore altrettanto determinato, senza che tali titoli risultino ancora materialmente formati al momento della convenzione, né successivamente. In merito deve rilevarsi che il pegno di credito all’acquisto ed alla consegna di titoli non ancora emessi ha natura di pegno di credito futuro, avente effetti obbligatori fino a quando non si verifica la consegna, pertanto inidoneo ad attribuire prelazione, che sorge solo dopo la specificazione e la consegna. A differenza del pegno di credito alla consegna di denaro o altra cosa fungibile (art. 2803 c.c.), già esistenti al momento della convenzione, i titoli di Stato, in regime di materializzazione, non possono dirsi ancora esistenti fino a quando non viene formato il documento che li incorpora e, dunque, fino a quando non ha luogo la individuazione, non può ritenersi sussistente alcuna prelazione.