Categoria: Penale

– COVID-19 – Spostamenti in pieno lockdown e in zona rossa senza valido motivo – Falsa autocertificazione

Tribunale di Reggio Emilia Sentenza n. 54 in data 27/01/2021

Una volta riscontrata l’illegittimità del precetto contenuto nel DPCM recante misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19 applicabili sull’intero territorio nazionale (così come in ogni altro atto amministrativo) per violazione dell’art. 13 Cost., il Giudice ordinario ha il dovere di disapplicare tale DPCM ai sensi dell’art. 5 della legge n. 2248 del 1865 All. E. Di conseguenza, non è configurabile il delitto ex art. 483 c.p. nei confronti chi abbia dichiarato falsamente di trovarsi in una delle condizioni che consentivano gli spostamenti anche all’interno del Comune di residenza in base al DPCM 8 marzo 2020, ………………………………………….(segue)    https://www.ambientediritto.it/giurisprudenza/tribunale-di-reggio-emilia-27-01-2021-sentenza-n-54/

Omesso versamento di ritenute alla fonte, la prova del reato

Cass., Sez. Un., sent. 22 marzo 2018 (dep. 1° giugno 2018) n. 24782

Massima

Attesa la natura innovativa non interpretativa, delle modifiche apportate dal d.leg. 158/15 all’art. 10 bis d.lgs. 74/00 (che attualmente sanziona l’omesso versamento delle ritenute se indicate sia nella dichiarazione del sostituto sia nelle certificazioni rilasciate ai sostituti), ai fini della prova della responsabilità per il reato di omesso versamento delle ritenute, per fatti commessi prima dell’entrata in vigore delle modifiche, non è di per sé sufficiente l’allegazione dell’attestazione (dichiarazione -c.d. modello 770) proveniente dal sostituto d’imposta.

***

Con la sentenza in oggetto le Sezioni Unite della Cassazione hanno composto un contrasto giurisprudenziale insorto in seno alle sezioni semplici della stessa Corte.

La pronuncia ha il pregio di occuparsi anche dell’interpretazione della nuova disciplina sanzionatoria dell’omesso versamento delle ritenute alla fonte, così come modificata dal d.lgs. n. 158/2015.
Nelle motivazioni della sentenza che ripercorre con pregevole analiticità l’iter evolutivo della disciplina sanzionatorie in materia di ritenute, e che per la chiarezza espositiva può essere agevolmente compresa anche dai non addetti ai lavori, viene in sintesi affermato che, nella disciplina ante riforma del 2015:

• è dato condiviso in giurisprudenza che l’avvenuto rilascio delle certificazione relative alle ritenute costituisse inequivocabilmente ab orgine l’elemento discriminante per l’attribuzione di rilevanza penale all’omesso versamento delle stesse, altrimenti comunque sanzionato come illecito amministrativo nell’ipotesi di mera omissione non accompagnata dall’rilascio della detta certificazione;

• per l’accertamento in concreto del fatto reato permane in capo al pubblico ministero l’onere di provare inderogabilmente tutti gli elementi a fondamento della pretesa punitiva;

• non rappresenta prova sufficiente la dichiarazione (denominata anche modello 770) ponendosi come ineludibile la necessità di confermarne o integrarne il contenuto con altre fonti di prova, documentali (ad esempio le certificazioni delle ritenute ai sostituiti) o testimoniali (es. le dichiarazioni rilasciate dagli stessi sostituiti).

Per dare un quadro di sintesi può essere estrapolato un tratto della motivazione che traccia la linea di demarcazione tra vecchia e nuova disciplina: “a parte l’innalzamento della soglia della rilevanza penale (ora elevata a 150.000,00 € per ciascun periodo d’imposta), è dunque evidente l’elemento differenziale nelle due versioni della norma: mentre in quella ante 2015 si faceva riferimento alle sole ‘ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti’ (quindi il CUD o CU) ad oggi la norma, nella formulazione vigente, appare operare anche, ed alternativamente, il riferimento alle ‘ritenute dovute sulla base della stessa dichiarazione’ (cioè quella annuale del sostituto, e, quindi, il mod. 770)”.

Il teso integrale della sentenza:

CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE – SENTENZA 1 giugno 2018, n.24782 – Pres. Carcano – est. Andreazza

Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 26 gennaio 2017 la Corte d’appello di Ancona ha confermato la sentenza del 27 gennaio 2015 del Tribunale di Fermo di condanna di M.E. alla pena di otto mesi di reclusione per il reato di cui all’art. 10-bis del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 per avere omesso, quale legale rappresentante della MRC S.r.l., di versare, nei termini previsti per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto d’imposta, le ritenute relative agli emolumenti erogati nell’anno di imposta 2010 per un ammontare complessivo di Euro 222.602,89.
2. Avverso la suddetta sentenza ha presentato ricorso M.E. .
2.1. Con un primo motivo, ex art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., denuncia violazione ed erronea applicazione dell’art. 10-bis del d.lgs. n. 74 del 2000, nonché dell’art. 4, comma 1 e comma 6-ter del d.P.R. 22 luglio 1998 n. 322, per avere il giudice d’appello ritenuto, in contrasto con il richiamato orientamento giurisprudenziale di legittimità, che l’elemento costitutivo del reato rappresentato dal rilascio ai sostituiti d’imposta delle certificazioni da parte dell’imputato sia stato adeguatamente dimostrato sulla base della sola dichiarazione modello 770/2011, di per sé sola inidonea a tal fine.
2.2. Con un secondo motivo, ex art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., lamenta violazione ed erronea applicazione degli artt. 27 Cost., 6 Convenzione Edu e 533 cod. proc. pen., per avere la Corte territoriale, affermando che l’imputato non avrebbe mai allegato espressamente di non avere rilasciato i certificati, violato la regola per cui la prova della responsabilità penale deve essere fornita dall’accusa.
2.3. Con un terzo motivo, ex art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., denuncia nullità della sentenza ai sensi dell’art. 125, comma 3, cod. proc. pen. per motivazione apparente quanto alla individuazione dell’imputato come autore del presunto reato sulla base del modello 770 dallo stesso sottoscritto e tuttavia, per quanto già detto, non valorizzabile quanto al rilascio delle certificazioni; né la sentenza avrebbe indicato le prove di un concorso materiale o morale nonostante al riguardo fosse stato proposto motivo d’appello.
2.4. Con un quarto motivo denuncia, ex art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., violazione ed erronea applicazione degli artt. 1, comma 143, l. 24 dicembre 2007, n. 244, 322-ter cod. pen., 1, comma 75, lett. o), della l. n. 190 del 2012 e 25, comma 2, Cost. lamentando che il giudice d’appello non avrebbe considerato che l’imputato è stato punito con una pena non prevista all’epoca di commissione del reato: la pena della confisca per equivalente per un valore corrispondente al profitto del reato sarebbe stata infatti introdotta solo con l’art. 1, comma 75, lettera o), della l. n. 190 del 2012, laddove il reato risulta commesso invece nel 2011. Sarebbe stato quindi violato l’art. 25 Cost.; inoltre non sussisterebbero i presupposti per la confisca stante la mancanza di prova di effettiva evasione da parte della società e di incasso da parte del ricorrente della somma non versata, né sussisterebbe prova di concorso ex art. 110 cod. pen..
2.5. Con un quinto motivo denuncia, ex art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., violazione dell’art. 1 Protocollo n. 1 Convenzione Edu e degli artt. 42 e 117 Cost. ‘da parte’ dell’art. 322-ter cod. pen.. Lamenta il ricorrente che il giudice d’appello ha respinto come manifestamente infondate le questioni di illegittimità costituzionale dell’art. 322-ter cit. laddove lo stesso consentirebbe di far luogo alla confisca di beni anche immobili che non hanno alcun vincolo pertinenziale con il reato commesso e la cui confiscabilità risiederebbe unicamente nell’appartenenza dei medesimi al ricorrente, in tal modo violando il necessario equilibrio, imposto dal criterio di ragionevolezza e proporzionalità di cui all’art.1 del Protocollo cit. integrante l’articolo 42 Cost., tra le esigenze di interesse generale della comunità e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali dell’individuo.
3. Con ordinanza in data 23 novembre 2017, la Terza sezione penale di questa Corte, rilevata l’esistenza di difformità di orientamenti interpretativi in ordine alla questione di diritto coinvolta dal primo motivo di ricorso, riguardante la idoneità o meno del solo modello 770 a provare l’avvenuto rilascio delle certificazioni delle ritenute fiscali operate, ha rimesso la trattazione del ricorso alle Sezioni unite. Sul punto, infatti, sulla premessa che il rilascio delle certificazioni è presupposto o elemento costitutivo del reato in oggetto, un primo indirizzo originario ha a suo tempo ritenuto sufficiente, per provare il rilascio delle certificazioni attestanti l’effettuazione delle ritenute, la avvenuta presentazione della dichiarazione modello 770 ad opera del sostituto d’imposta (giacché ‘non avrebbe senso dichiarare quello che non è stato corrisposto e, perciò stesso, certificato’). Un secondo indirizzo, successivamente formatosi, ha invece ritenuto appunto l’inidoneità della sola dichiarazione suddetta, ove non accompagnata da altri elementi, a provare il rilascio delle certificazioni; e ciò perché la stessa è unicamente destinata ad attestare, per il suo contenuto, l’importo delle somme corrisposte dal sostituto e delle ritenute da lui operate nonché il loro versamento, nulla invece contenendo in punto di rilascio delle certificazioni. Di qui la natura di mero indizio della dichiarazione non sufficiente a provare l’elemento del rilascio delle certificazioni. Si è inoltre ritenuto, sempre nell’ambito di tale orientamento, che detta impostazione abbia trovato una conferma nella modifica della norma operata con il d.lgs. n. 158 del 2015 che ha posto, accanto al testuale riferimento delle ritenute ‘risultanti dalle certificazioni rilasciate’, anche quello delle ritenute dovute sulla base della dichiarazione predetta, in tal modo accreditando, per i soli fatti posti in essere successivamente alla novella, di natura innovativa e dunque non retroattiva, l’idoneità della stessa sotto il profilo probatorio richiesto.
4. Il Primo Presidente, preso atto dell’esistenza del contrasto, con decreto del 19 dicembre 2017, ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, fissando per la trattazione del medesimo in pubblica udienza la data odierna.
Considerato in diritto
1. La questione di diritto in ordine alla quale il ricorso, con riferimento essenzialmente al primo motivo, è stato rimesso alle Sezioni Unite, è sinteticamente riassumibile nei seguenti termini:
‘Se, ai fini dell’accertamento del reato di cui all’art. 10-bis del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, nel testo anteriore all’entrata in vigore dell’articolo 7, comma 1, lett. b), del d. lgs. 24 settembre 2015, n. 158, sia sufficiente la sola dichiarazione modello 770 proveniente dal datore di lavoro per integrare la prova dell’avvenuta consegna ai sostituiti delle certificazioni delle ritenute fiscali’.
2. È necessario in primo luogo richiamare i tratti essenziali della disciplina relativa al versamento delle ritenute, operate sulle retribuzioni, da parte del sostituto d’imposta e, subito dopo, soffermarsi sulla regolamentazione, sotto il profilo sanzionatorio, delle relative omissioni.
Va quindi anzitutto ricordato che la sostituzione predetta è uno strumento impositivo con il quale l’Amministrazione finanziaria, in luogo della riscossione dell’imposta direttamente dal percettore del reddito, incassa il tributo da un altro soggetto, ovvero quello che eroga gli emolumenti, il quale assume la qualifica di ‘sostituto’ d’imposta in quanto tenuto al pagamento in luogo dell’altro (normale soggetto passivo, c.d. ‘sostituito’), sotto forma di prelievo di una percentuale (c.d. ‘ritenuta alla fonte’) della somma oggetto di erogazione (costituente reddito) e del suo successivo versamento all’Erario (in genere con cadenza mensile).
L’istituto ha la sua ragion d’essere nell’esigenza pratica di colpire la ricchezza da tassare nel momento della produzione, prima ancora che la stessa giunga nella disponibilità del destinatario e si applica, in base a quanto stabilito dal Titolo III del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, ad una platea di soggetti comprendente gli enti pubblici, gli istituti di credito, i soggetti esercenti attività di impresa, ovvero artistica e professionale, che corrispondono redditi di lavoro dipendente o assimilati, redditi di lavoro autonomo, redditi di capitale, provvigioni inerenti a rapporti di commissione, agenzia, mediazione, rappresentanza di commercio e procacciamento d’affari o redditi diversi. L’operatività del meccanismo di sostituzione d’imposta comporta l’adempimento di determinati obblighi strumentali a carico del sostituto, il quale deve essenzialmente: provvedere, entro scadenze predeterminate (precisamente entro il 16 del mese successivo a quello in cui le somme sono state corrisposte), al versamento in favore dell’Erario degli importi delle ritenute operate alla fonte; rilasciare al sostituito (entro il 31 marzo dell’anno successivo a quello di erogazione delle somme) una ‘certificazione unica’ (CU) attestante l’ammontare complessivo delle somme corrisposte e delle ritenute operate (in modo da permettere al soggetto passivo di documentare e di dimostrare il prelievo subito), delle detrazioni di imposta effettuate e dei contributi previdenziali e assistenziali; trasmettere in via telematica detta certificazione all’Agenzia delle Entrate entro il 7 marzo sempre dell’anno successivo; presentare infine la dichiarazione annuale unica di sostituto d’imposta (mod. 770) dalla quale risultino tutte le somme pagate e le ritenute operate nell’anno precedente.
A loro volta i contribuenti sono obbligati a conservare le certificazioni così rilasciate e ad esibirle a richiesta degli uffici competenti per i dovuti controlli (come previsto dall’art. 3, comma 3, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600).
2.1. Quanto alla disciplina sanzionatoria, va ricordato che inizialmente l’omesso versamento di ritenute da parte del sostituto era previsto dall’art. 2 d.l. 10 luglio 1982, n. 429, convertito dalla l. 7 agosto 1982, n. 516, che, nel suo testo originario, contemplava espressamente come condotta delittuosa il fatto di non versare all’erario le ritenute effettivamente operate, a titolo di acconto o di imposta, sulle retribuzioni corrisposte ai lavoratori’.
La norma veniva successivamente modificata dall’art. 3 d.l. 16 marzo 1991, n. 83, convertito dalla l. 15 maggio 1991, n. 154 che provvedeva, diversificando la risposta sanzionatoria, a contemplare, alla lett. a), il fatto del mero ‘mancato versamento nel termine delle ritenute’ ed invece, alla lett. b), il fatto del ‘mancato versamento nel termine delle ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti’, con ulteriore diversificazione, in tale secondo ambito, della sanzione a seconda del superamento o meno di determinate soglie di punibilità.
Allo stesso tempo, la condotta veniva sanzionata anche in via amministrativa per effetto dell’art. 13, comma 1, del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, attesa l’introduzione di una specifica previsione in tal senso riguardante i versamenti tributari in generale dovuti ‘alle prescritte scadenze’.
La previsione penale veniva tuttavia soppressa dall’art. 25 lett. d) del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, espressamente abrogativo del titolo I del d.l. 10 luglio 1982, n. 429, convertito dalla legge 7 agosto 1982, n. 516, ivi compresi, dunque, anche i reati a carico del sostituto di imposta, senza alcuna contestuale introduzione di fattispecie di reato in continuità normativa rispetto a quella di cui al citato art. 2 della legge n. 516.
Ne derivava, pertanto, che la condotta omissiva più volte indicata, non più prevista come reato, residuava solo come illecito di carattere amministrativo, attesa la scelta del legislatore di eliminare, testualmente, una ‘figura criminosa (…) più di altre (…) al centro di vivaci polemiche’ anche in ragione della sua caratterizzazione, né più né meno, come di mero inadempimento di un debito, sia pure nei confronti dello Stato, non caratterizzato da alcuna componente di tipo fraudolento.
Il fatto tornava però a riacquistare le caratteristiche di illecito penale con l’art. 1, comma 414, della l. 30 dicembre 2004, n. 311 (legge finanziaria per l’anno 2005), che provvedeva ad inserire nell’impianto normativo del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 l’art. 10-bis dal titolo ‘Omesso versamento di ritenute certificate’, venendo questa volta, infatti, sanzionato l’omesso versamento, unicamente ove riguardante ‘ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti’, per un ammontare superiore a cinquantamila Euro per ciascun periodo di imposta.
La norma è stata infine modificata per effetto dell’art. 7 del d.lgs. 24 settembre 2015 n. 158, sì che attualmente è punito ‘chiunque non versa entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta ritenute dovute sulla base della stessa dichiarazione o risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti, per un ammontare superiore a centocinquantamila Euro per ciascun periodo d’imposta’.
2.2. A parte l’innalzamento della soglia della rilevanza penale, appare dunque evidente l’elemento differenziale nelle due versioni della norma: mentre in quella ante 2015 si faceva riferimento alle sole ‘ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti’ (quindi il CUD o CU) ad oggi la norma appare operare anche, ed alternativamente, il riferimento alle ‘ritenute dovute sulla base della stessa dichiarazione’ (cioè quella annuale del sostituto, e, quindi, il mod. 770).
3. Tanto premesso, la questione portata al vaglio delle Sezioni Unite – per vero la stessa questione era stata rimessa nel 2015, ma, in ragione della sopravvenuta estinzione del reato, la Corte, con la sentenza n. 19755 del 24/09/2015 (dep. 2016), Mondello, non è potuta entrare nel merito – affonda le sue radici nel contrasto (che, come si dirà in seguito, è in realtà contrasto non già in ordine all’esegesi della norma bensì, piuttosto, sulle conseguenze, sotto il profilo probatorio, della caratterizzazione normativa delle ritenute, il cui versamento venga omesso, come necessariamente risultanti dalla certificazione rilasciata) che si è formato in seno alla Terza Sezione penale, nella vigenza della formulazione dell’art. 10-bis cit. anteriore alla modifica del 2015, quanto in particolare alla sufficienza della dichiarazione mod. 770 del sostituto a dimostrare l’avvenuto rilascio ai sostituiti delle certificazioni; e ciò a fronte della necessità di considerare tale rilascio, sulla base della formulazione della norma, se non quale elemento costitutivo del reato, quanto meno di suo presupposto.
3.1. Un primo orientamento è stato originato dalla pronuncia di Sez. 3, n.1443 del 15/11/2012 (dep.2013), Salmistrano, Rv. 254152: nell’affermare che nel reato di omesso versamento di ritenute certificate, la prova delle certificazioni attestanti le ritenute operate dal datore di lavoro, quale sostituto d’imposta, sulle retribuzioni effettivamente corrisposte ai sostituiti, può essere fornita dal pubblico ministero mediante documenti, testimoni o indizi, la sentenza riconosce espressamente come sufficiente a tal fine la allegazione dei mod. 770 provenienti dal datore di lavoro. Dopo avere premesso che l’art. 10-bis, pur costituendo ‘una nuova fattispecie criminosa introdotta o reintrodotta dalla novella citata senza alcuna continuità normativa con le disposizioni previgenti’, opera sullo stesso piano della norma abrogata, seguendo una ratio consistente nell’’impedire, attraverso la sanzione penale, che il datore di lavoro ometta di versare le somme trattenute, quale sostituto di imposta, sulle retribuzioni corrisposte al lavoratori’, la pronuncia sottolinea come la norma, mediante il riferimento alle ‘certificazioni rilasciate ai sostituiti’ in luogo della più generica formula che si rinveniva nell’articolo 2 del d.l. 10 luglio 1982 n. 429, convertito in l. 7 agosto 1982 n. 516 (‘le ritenute effettivamente operate, a titolo di acconto o di imposta, sulle somme pagate’) abbia inteso esplicitare in modo assolutamente chiaro che la sanzione penale trova applicazione soltanto sulle ritenute effettivamente operate sulle retribuzioni corrisposte ai dipendenti; non vi sarebbe dunque ragione ‘per ritenere che la prova del rilascio quale elemento costitutivo del reato debba ricavarsi solo dalle ‘certificazioni’ senza possibilità di ricorrere ad ‘equipollenti’ potendo l’onere probatorio essere assolto dal pubblico ministero ‘mediante il ricorso a prove documentali o testimoniali oppure attraverso la prova indiziaria’. Di qui, dunque, l’idoneità a tal fine anche del modello 770 posto che da esso emerge la prova delle ritenute operate e che tali ritenute ‘devono ritenersi per ciò stesso certificate, dal momento che non avrebbe senso dichiarare quello che non è stato corrisposto e, perciò stesso, certificato’.
Tale indirizzo risulta successivamente seguito, tra le altre, da Sez. 3, n. 33187 del 12/06/2013, Buzi, Rv. 256429; Sez. 3, n. 20778, del 06/03/2014, Leucci, Rv. 259182; Sez. 3, n. 19454 del 27/03/2014, Onofrio, Rv. 260376, ove i concetti già enucleati dalla pronuncia Salmistrano vengono ripresi e ribaditi pur nella qualificazione del rilascio delle certificazioni talora come elemento costitutivo del reato (in tal senso Sez. 3, n. 33187 del 12/06/2013, Buzi, cit., e Sez. 3, n. 19454 del 27/03/2014, Onofrio, cit.) e talaltra quale presupposto del reato stesso (in tal senso Sez. 3, n. 20778, del 06/03/2014, Leucci, cit.). La differente valutazione giuridica dell’elemento in oggetto, affidata da tutte le pronunce richiamate ad una mera enunciazione definitoria a ben vedere non supportata dalla manifestazione delle specifiche ragioni determinanti la scelta in un senso oppure nell’altro, non appare infatti rilevare quanto all’esigenza, riconosciuta da tutte le pronunce, che dell’elemento in questione sia comunque necessaria la dimostrazione in giudizio; è la pronuncia Leucci in particolare a chiarire che, pur dovendo il rilascio delle certificazioni essere individuato quale presupposto del reato (la fattispecie penalmente rilevante sarebbe integrata dalla sola condotta omissiva che si realizza con il mancato versamento entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta delle ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti), il rilascio della certificazione è comunque necessario per integrare il reato de quo.
Va anzi constatato che le stesse Sezioni Unite, intervenute sul punto dell’affermata applicabilità della norma, entrata in vigore in data 1 gennaio 2005, anche alle omissioni dei versamenti relativi all’anno 2004, e richiamate dalla sentenza Leucci (S.U., n. 37425 del 28/03/2013, Favellato, Rv. 255760), pur qualificando il reato come ‘omissivo proprio’, non appaiono sottrarsi ad una sostanziale linea di incertezza proprio con riguardo alla qualificazione dell’elemento in questione, definito, dapprima, come ‘presupposto’ del reato (analogamente alla erogazione delle somme al sostituito) e, poco dopo, come ‘elemento costitutivo’, significativamente richiesto per il solo illecito penale e non anche per l’illecito amministrativo e dunque idoneo a rappresentare, insieme alle diverse scadenze temporali previste per il versamento, la linea di demarcazione tra l’uno e l’altro tipo.
In ogni caso, anche le sentenze appena sopra richiamate appaiono ‘sposare’ le impostazioni adottate in via generale dalla sentenza Salmistrano, puntualizzandosi, quanto al modello 770, che nello stesso sono ‘comunicati in via telematica all’Agenzia delle Entrate i dati fiscali relativi alle ritenute operate nell’anno precedente nonché gli altri dati contributivi ed assicurativi richiesti, tra cui i dati relativi alle certificazioni rilasciate ai soggetti cui sono stati corrisposti in tale anno redditi di lavoro dipendente, equiparati ed assimilati o indennità di fine rapporto’ (vedi, testualmente, sul punto, sempre la sentenza Leucci).
3.2. Un secondo orientamento, che ha ben presto assunto, nella giurisprudenza della Corte, le dimensioni di indirizzo largamente maggioritario, è stato inaugurato da Sez. 3, n. 40256 del 08/04/2014, Gagliardi, Rv. 259198.
Dopo avere premesso che anche secondo l’interpretazione fatta propria dalle Sezioni Unite e dalla prevalente dottrina l’elemento specializzante che determina il configurarsi della natura delittuosa della fattispecie è costituito dal rilascio della certificazione al sostituito e che quindi la norma penale non può trovare applicazione, non solo nei casi in cui il sostituto non abbia operato le ritenute, ma anche nei casi in cui non abbia rilasciato la certificazione o la abbia rilasciata in un momento successivo alla scadenza del termine per effettuare il versamento, si afferma che ‘gli elementi costitutivi della fattispecie, necessari per attribuire rilevanza penale alla fattispecie sono costituiti dalle parti di condotta attiva comprendenti sia l’effettuazione della ritenuta e sia la successiva emissione della certificazione’. Si aggiunge che ‘trattandosi (…) di elementi costitutivi del reato (ma le conseguenze non cambierebbero anche se si volesse parlare di presupposti del reato) per ritenere sussistente il delitto è necessario che l’accusa fornisca la prova di tali elementi e, in particolare (…) che il sostituto abbia rilasciato ai sostituiti la certificazione (o le certificazioni) da cui risultino le ritenute il cui versamento è stato poi omesso’, dovendo, peraltro, detta prova non essere necessariamente data dalla produzione delle certificazioni stesse, ma potendo consistere anche in altre prove documentali ovvero anche orali. Tra di esse, tuttavia, si aggiunge, non può essere ricompresa la sola dichiarazione modello 770: da un lato perché la stessa non contiene la dichiarazione di avere tempestivamente emesso le certificazioni ma solo di avere erogato le retribuzioni ed effettuato le ritenute, e dall’altro perché, tra dichiarazione modello 770 e certificazione rilasciata ai sostituiti, disciplinati da fonti distinte, rispondenti a finalità non coincidenti e che non devono essere consegnati o presentati contestualmente, vi sono differenze sostanziali tali da non consentire di ritenere, automaticamente, che l’uno non possa risultare indipendente dall’altro. Di qui, dunque, le diverse conclusioni rispetto al primo indirizzo ricordato.
Gli assunti della pronuncia Gagliardi sono stati successivamente ribaditi da numerose pronunce, tutte nel senso, per le medesime ragioni, della inidoneità della sola dichiarazione modello 770 a provare l’avvenuto rilascio delle certificazioni (Sez. 3, n. 10475/15 del 9/10/2014, Calderone, Rv. 263007; Sez. 3, n. 11335/15 del 15/10/2014, Pareto, Rv. 262855; Sez. 3, n. 6203 del 29/10/2014, Rispoli, Rv. 262365; Sez. 3, n. 37075/15 del 19/12/2014, Ravelli; Sez. 3, n. 5736 del 21/01/2015, Patti; Sez. 3, n. 10104 del 7/1/2016, Grazzini, Rv. 266301; Sez. 3, n. 7884 del 4/2/2016, Bombelli; Sez. 3, n. 41468 del 30/03/2016, Pappalardo; Sez. 3, n. 48591 del 26/4/2016, Pellicani, Rv. 268492; Sez. 3, n. 48302 del 20/09/2016, Donetti; Sez. 7, n. 53249 del 23/09/2016; D’Ambrosi; Sez. 3, n. 51417 del 29/11/2016, Fontanella; Sez. 3, n. 10509/17 del 16/12/2016, Pisu, Rv. 269141; Sez. 3, n. 57104 del 12/4/2017, Polinari; Sez. 3, n. 30139 del 15/6/2017, Fregolent, Rv. 270464; Sez. 3, n. 36057 del 11705/2017, Cerere; Sez. 3 n. 1439/18 del 12/7/2017, Sesana; Sez. 3, n. 46390 del 9/10/2017, Gambardella; Sez. 3, n. 2393 del 22/1/2018, Vecchierelli).
Va anche qui precisato che, in tale ambito, appare essersi riproposta (senza che ciò, come già detto, abbia potuto comportare una differente conclusione quanto, comunque, alla necessità di prova del’elemento) la divergenza circa la qualificazione da dare al rilascio delle certificazioni, se cioè, di presupposto del reato (in tal senso, solo Sez.3, n. 7884 del 2016, Bombelli cit.) ovvero di elemento costitutivo dello stesso (in tal senso, Sez.3, n. 1439 del 2017, Sesana, cit.; Sez. 3, n. 10475 del 2015, Calderone, cit.; Sez. 3, n. 10509 del 2017, Pisu, cit.; Sez.3, n. 11335 del 2015, Pareto, cit.; Sez. 3, n. 30139 del 2017, Fregolent, cit.; Sez. 3, n. 57104 del 2017, Polinari, cit.; Sez. 3, n. 36057 del 2017, Cerere, cit.).
In seno a tale indirizzo, peraltro, una particolare attenzione va assegnata a quelle pronunce che, a cominciare, cronologicamente, da Sez. 3, n. 10104 del 7/1/2016, Grazzini, Rv. 266301, sono giunte a confermare gli approdi ermeneutici della sentenza Gagliardi anche tenendo conto delle modifiche operate dal d.lgs. n. 158 del 2015.
Infatti, dopo avere escluso che alla novella operata, là dove la stessa ha posto, come visto in principio, accanto alle ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituti, anche le ritenute dovute sulla base della dichiarazione di interpretazione autentica, possa assegnarsi, in ragione dell’esigenza di dipanare il contrasto creatosi, natura di norma di interpretazione autentica a fronte della problematica coesistenza di disposizioni di tal fatta con la necessità di rispettare il principio di irretroattività proprio delle norme incriminatrici, la sentenza ha colto la incidenza ‘interpretativa’ della nuova disposizione: se il legislatore, si è affermato, ha inteso estendere la tipicità del reato anche alle ipotesi di omesso versamento delle ritenute dovute sulla base della dichiarazione modello 770, deve ritenersi che non soltanto la precedente formulazione racchiudesse nel proprio perimetro di tipicità soltanto l’omesso versamento di ritenute risultanti dalle certificazioni rilasciate ai sostituiti, ma richiedesse, sotto il profilo probatorio, la necessità di una prova del rilascio delle certificazioni ai sostituiti. Di qui, dunque, l’ulteriore conferma dell’indirizzo negativo quanto alla idoneità probatoria del solo modello 770.
Tali assunti sono stati seguiti anche da Sez.3, n. 48591 del 2016, Pellicani, cit.; Sez. 3, n. 48302 del 2016, Donetti, cit.; Sez. 7, n. 53249 del 2016, D’Ambrosi, cit.; Sez. 3, n. 51417 del 2016, Fontanella, cit.; Sez. 3, n. 10509 del 2017, Pisu, cit.; Sez. 3, n. 57104 del 12/4/2017, Polinari, cit.; Sez. 3, n. 30139 del 2017, Fregolent, cit.; Sez. 3, n. 36057 del 2017, Cerere, cit.; Sez. 3 n. 1439 del 2018, Sesana, cit.; Sez. 3, n. 46390 del 2017, Gambardella, cit.; Sez. 3, n. 2393 del 2018, Vecchierelli, cit.). In particolare, Sez. 3, n. 10509 del 2017, Pisu, cit., ha specificato, quanto alla nuova norma, che la natura innovativa e non meramente interpretativa della stessa non può essere posta in discussione per il solo fatto che, nella relazione illustrativa al d.lgs. n. 158 del 2015, si sia affermato che la modifica ha ‘chiarito’ la portata del precedente modello legale della fattispecie incriminatrice a fronte comunque dell’oggettivo precipitato della norma.
4. Queste Sezioni Unite ritengono che, con riferimento alla normativa previgente alla modifica intervenuta nell’anno 2015 (il reato contestato all’imputato è stato commesso nell’anno 2011, sì che la nuova formulazione, di chiaro stampo innovativo per come si dirà oltre, non può in alcun modo retroagire), debba essere condiviso l’indirizzo, maggioritario, che esclude la idoneità del solo modello 770 (di dichiarazione delle erogazioni effettuate e delle ritenute operate), a provare l’elemento, da considerare presupposto del reato, del rilascio delle certificazioni.
4.1. Deve anzitutto premettersi come non possa porsi in dubbio la circostanza che il legislatore del 2004, nel reintrodurre (secondo il percorso illustrato sopra) l’illecito penale di omesso versamento delle ritenute, già previsto, anteriormente, dalla l. n. 516 del 1982 e successivamente abrogato dal d.lgs. n. 74 del 2000, abbia condizionato testualmente l’illecito alle sole ritenute, il cui omesso versamento viene sanzionato, ‘risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti’; in altri termini, solo le ritenute che risultino, ovvero siano attestate, dalle certificazioni predette sono quelle idonee ad attingere il grado di disvalore penale considerato dal legislatore.
Né un tale dato, la cui evidenza è tale che nessuna delle pronunce di questa Corte che si sono occupate del tema al vaglio di queste Sezioni Unite, sia se riconducibili al primo sia se riconducibile al secondo degli indirizzi illustrati, ha mai potuto affermare il contrario, appare revocabile in dubbio sulla base di pur plausibili considerazioni di carattere sistematico: la eventuale irrazionalità della scelta di assoggettare a sanzione penale, diversamente dalla originaria impostazione della l. n. 516 del 1982, il mancato versamento delle ritenute solo se accompagnato dal rilascio delle relative certificazioni (sì che una condotta altrimenti penalmente irrilevante verrebbe ad assumere significato penalistico solo là dove ad essa si accosti un comportamento costituente adempimento di un dovere, finalizzato a garantire al sostituito il diritto a detrarre la ritenuta subita, evitando così il prodursi di una doppia imposizione) non potrebbe certo offuscare il chiaro significato della norma, insuscettibile, per il rispetto dovuto al principio di legalità, di interpretazioni in definitiva abrogatrici della locuzione qui in esame. Ed anche restando sul piano di una interpretazione di ordine logico-critico, non potrebbe sottacersi il significato di un elemento (quello, appunto, del rilascio delle certificazioni) che, come a suo tempo già evidenziato da Sez. Un. Favellato, appare svolgere in realtà la funzione di differenziare l’illecito penale dal mero illecito amministrativo: una funzione, dunque, di carattere selettivo, che, sia pure comportando il sacrificio della realtà materiale al fine di privilegiare solo quella ‘contabilizzata’ o ‘certificata’, appare tutt’altro che incomprensibile, ove si rifletta sulla necessità, alla luce del principio del ne bis in idem e della sua portata sempre più cogente, di una precisa demarcazione, a partire soprattutto dal momento della legiferazione, tra il ‘fatto’ intrinsecamente penale (a prescindere dalle denominazioni coniate dal legislatore) e quello solo amministrativo.
Del resto, non è secondario considerare, sempre nell’ambito di una razionale differenziazione dei due campi, la maggiore gravità di una condotta destinata ad incidere, proprio perché accompagnata dal rilascio delle certificazioni, sullo stesso rapporto fiduciario con il sostituito.
4.2. Ne deriva dunque che, ai fini della consumazione del reato in oggetto, occorre il rilascio delle certificazioni, sia che lo stesso venga configurato come elemento costitutivo del reato (come è dato rinvenire nella gran parte delle decisioni sopra segnalate), sia invece che lo stesso venga configurato quale presupposto di esso (come una parte minoritaria della giurisprudenza mostra di ritenere).
Entrambi gli indirizzi segnalati, come già visto, significativamente non uniformi al loro interno proprio su questo punto, convengono su tale postulato, in definitiva implicitamente fatto proprio anche dalle già rammentate Sezioni Unite Favellato che, sia pure restando, come visto, ondivaghe sulla esatta qualificazione di tale elemento, hanno però implicitamente considerato necessario, ai fini della consumazione del reato, il rilascio delle certificazioni.
Così come entrambi gli indirizzi appaiono convenire sul fatto (o comunque appaiono implicitamente muovere dallo stesso, non essendovi affermazioni di segno contrario) che, ai fini di provare il rilascio delle certificazioni, non è necessaria l’acquisizione materiale delle certificazioni stesse, perché ben possono supplire prove documentali anche di altro genere o prove orali (tra cui in primis le dichiarazioni rese dal sostituito), conclusione, questa, del tutto corretta e logicamente discendente, evidentemente, dal principio di atipicità delle prove penali insito nel disposto di cui all’art. 189 cod. proc. pen., dovendo, dunque, anche qui ribadirsi l’incompatibilità, con l’assetto processuale penale, di un sistema di prove tipiche o legali.
Né appare infine in discussione il fatto che l’onere di tale prova incomba, ancora una volta non essendo determinante sul punto la classificazione formale dell’elemento in oggetto quale elemento costitutivo o, piuttosto, quale presupposto del reato, sul pubblico ministero giacché, riprendendo le parole della già citata sentenza Leucci, ‘incombe appunto al pubblico ministero di provare i fatti costitutivi dell’addebito contestato, tra cui, per quanto qui interessa, il rilascio delle certificazioni’ e incombendo invece all’imputato ‘provare i fatti (estintivi o modificativi) che paralizzino la ‘pretesa punitiva”.
4.3. In definitiva, dunque, il contrasto verte, in realtà, su null’altro che su una valutazione di carattere probatorio. Semplificando, si potrebbe affermare che l’unico vero sostanziale effetto differentemente conseguente ai due orientamenti sarebbe quello di esonerare o meno il pubblico ministero dall’onere di ricercare, al fine del raggiungimento della prova richiesta sul punto già sottolineato, elementi ulteriori e diversi (orali, come ad esempio le dichiarazioni dei sostituiti, o documentali) rispetto alla sola dichiarazione modello 770 (nel panorama giurisprudenziale già complessivamente richiamato solo Sez. 3, n. 37075 del 2015, Ravelli, cit., sostiene, con affermazione che parrebbe presentare margini di equivocità rispetto al principio di atipicità delle prove penali, che il giudice deve fornire anche ‘risposte precise e concrete sulle ragioni per le quali non ha percorso la strada diretta dell’acquisizione dei certificati stessi privilegiando una prova pur sempre indiretta del reato ma a rischio di derive analogico sostanzialistiche’).
Ed il pubblico ministero, vale ribadire, non è comunque esonerato da tale prova per il fatto che l’imputato non abbia allegato circostanze ed elementi in senso contrario, non essendo, nell’ordinamento processuale penale, previsto un onere probatorio a carico dell’imputato modellato sui principi propri del processo civile (Sez. 5, n. 32937 del 19/05/2014, Stanciu, Rv. 261657). Infatti, sia norme sovraordinate di carattere generale internazionali (specificamente l’art. 6.2. della Convenzione Edu e l’art. 14 n.2 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, entrambe espressamente indicanti la necessità che la colpevolezza dell’accusato sia provata secondo legge) e interne (art. 25 Cost. in ordine alla presunzione di non colpevolezza sino alla condanna definitiva), sia norme processuali (specificamente l’art. 533 cod. proc. pen. ove si stabilisce che il giudice pronuncia sentenza di condanna solo là dove l’imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio) appaiono indicative della fissazione in senso ‘sostanziale’, a carico di chi sostenga la tesi di accusa nel processo penale, di un preciso onere di prova (in tale ultimo senso, Sez. 3, n. 2393 del 2018, Vecchierelli, cit.).
5. Escluso, dunque, che il contrasto segnalato riguardi l’esegesi della norma, in particolare con riguardo all’elemento oggettivo del reato contemplato, ciò su cui gli indirizzi già illustrati divergono viene, in definitiva, ad essere rappresentato dalla possibilità o meno di includere di per sé solo, tra gli elementi indicativi dell’avvenuto rilascio della certificazione unica attestante le ritenute effettuate, il ‘documento’ rappresentato dal mod. 770 (dichiarazione del sostituto d’imposta).
Appare allora significativo un primo dato oggettivo: il quadro ST del modello 770 non appare, come ben posto in risalto dall’indirizzo maggioritario, recare alcuna specifica indicazione in ordine al rilascio delle certificazioni avendo invece ad oggetto, per quanto qui interessa, unicamente i dati dell’’importo versato’ e delle ‘ritenute operate’. Né alcun valore probatorio potrebbe evidentemente connettersi alle istruzioni per la compilazione del modello 770 semplificato là dove si prescrive che ‘detto modello contiene i dati relativi alle certificazioni rilasciate ai soggetti cui sono stati corrisposti (…) i redditi di lavoro dipendente’ (dizione questa, testualmente ripresa da Sez. 3, n. 20778 del 2014, Leucci, cit. al fine di giungere alla soluzione già vista sopra), essendo chiara in tale dizione la volontà di riferirsi non già al fatto del rilascio, ma a quello della necessità di indicazione, in dichiarazione, delle medesime ritenute di cui alla certificazione unica, ove rilasciata.
Ed infatti, proprio per superare un tale impasse, l’indirizzo più risalente è ricorso sostanzialmente ad un ragionamento di carattere presuntivo, essendosi affermato che ‘non avrebbe senso dichiarare quello che non è stato corrisposto e perciò stesso certificato’ (testualmente, Sez. 3, n. 20778 del 2014, Leucci, cit.). Sennonché, intesa tale affermazione come volta ad affermare che, secondo l’id quod plerumque accidit, ciò che si dichiarerebbe nel mod. 770 sarebbe allo stesso tempo anche ciò che si certifica (il riferimento alla ‘corresponsione’ deve ritenersi improprio perché ciò di cui si tratta non sono gli emolumenti ma le ritenute, che non si corrispondono ma si effettuano), ed equiparati dunque l’indicazione nel modello 770 alla attestazione nelle certificazioni, resta tuttavia, anche in tale assioma, ancora una volta ‘scoperto’, e non colmabile dal punto di vista logico, il dato del rilascio.
Correttamente, pertanto, la sentenza Sez. 3, n. 40256 del 2014, Gagliardi, cit. ha potuto affermare che ‘se davvero la presentazione della dichiarazione di sostituto presupponesse, secondo il criterio dell’id quod plerumque accidit, sempre e comunque la formazione e consegna dei certificati ai sostituiti, il legislatore ne avrebbe certamente tenuto conto ed avrebbe, con notevole semplificazione probatoria, punito unicamente il mancato versamento delle ritenute riportate nella dichiarazione modello 770. Se ciò non ha fatto, ed ha anzi modificato la precedente normativa (che richiedeva soltanto l’omesso versamento delle ritenute), è proprio perché il legislatore era ben consapevole delle differenze strutturali e della radicale autonomia dei due distinti documenti, sicché non era possibile desumere automaticamente dall’esistenza dell’uno la sussistenza dell’altro’.
Anche la questione della natura da attribuire al modello 770, se cioè avente valore di confessione stragiudiziale, come parrebbe adombrato da Sez. 3, n. 10104 del 2016, Grazzini, cit., ma escluso da Sez. 3, n. 11335 del 2015, Pareto, cit., e da Sez. 3, n. 2393 del 2018, Vecchierelli, cit. (nel senso della dichiarazione fiscale quale ‘mera esternazione di scienza’, Sez. U. Civ. n. 13378 del 07/06/2016, Vetro Associati S.r.l. contro Ministero delle Finanze, Rv. 640206) appare fondamentalmente irrilevante proprio perché il modello non contiene alcun riferimento al rilascio delle certificazioni sì che da esso potrebbe dunque eventualmente dedursi la ‘confessione’ di avere operato le ritenute ma non certo quella di avere rilasciato le relative certificazioni.
Infine, anche il riferimento al modello DM 10 di versamento dei contributi previdenziali attestante le retribuzioni corrisposte ai dipendenti e l’ammontare degli obblighi contributivi (la cui accertata presentazione da parte del datore di lavoro è valutabile, in assenza di elementi di segno contrario, secondo questa Corte, come prova della effettiva corresponsione degli emolumenti ai lavoratori: tra le altre, Sez. 3, n. 21619 del 14/04/2015, Moro, Rv. 263665) appare impropriamente evocato ove si tenga conto della diversità di contenuto della prova necessaria (corresponsione degli emolumenti da un lato, appunto, e rilascio delle certificazioni dall’altro).
Di qui, dunque, la condivisibilità della conclusione secondo cui le indicazioni contenute nel modello 770 non sono da sole idonee a provare il fatto del rilascio delle certificazioni, essendo indizio che, se può essere sufficiente in sede cautelare reale a fronte del differente standard dimostrativo richiesto (Sez. 3, n. 46390 del 2017, Gambardella, cit., e Sez. 3, n. 48591 del 2016, Pellicani, cit.), non lo è però in giudizio a fronte del canone, ad esso riferito, dell’accertamento al di là di ogni ragionevole dubbio cristallizzato dall’art. 533 cod. proc. pen.; e ciò, va sottolineato, a prescindere, come già affermato in talune delle pronunce sopra richiamate, dalla attribuibilità, alla circostanza del rilascio delle certificazioni, della veste di presupposto del reato ovvero di elemento costitutivo dello stesso.
Sul punto deve essere anzitutto chiarito, sul piano generale, come una formale distinzione tra ‘presupposti del reato’ ed ‘elementi costitutivi’ dello stesso sia impropriamente posta: si è correttamente puntualizzato in dottrina come i presupposti del reato, tra i quali vengono annoverati, tra gli altri, il soggetto attivo e passivo, la condotta e l’oggetto materiale, altro non siano, logicamente, che quegli stessi requisiti necessari per la qualificazione del fatto come illecito penale ovvero, in altri termini, gli stessi elementi costitutivi, sì che nessuno spazio di reale differenziazione tra i due concetti potrebbe evidentemente sussistere. Dovrebbe allora più correttamente parlarsi di ‘presupposti della condotta’, da intendersi, atteso anche il significato lessicale della locuzione (‘ciò che si pone come precedente ad altro e come sua condizione’), come circostanze, di fatto o di diritto, preesistenti alla realizzazione di essa (in relazione al criterio di anteriorità cronologica necessariamente discendente dal già indicato significato letterale del sostantivo) e necessarie per attribuire un ‘significato criminoso’ alla condotta stessa; ma anche in tal caso, va subito detto, e proprio perché anche tali circostanze sarebbero comunque necessarie ai fini dell’integrazione del reato, sarebbe assai difficile individuare una reale differenza rispetto agli elementi costitutivi del reato, se non in termini di elemento psicologico posto che, essendosi tali circostanze già realizzate, le stesse potrebbero essere unicamente conosciute, ma non volute dal soggetto agente.
Del resto, i(sintomo della difficoltà di attribuire un significato autonomo alla nozione di presupposto rispetto a quella di elemento costitutivo del reato appare nella specie plasticamente dato dalla incertezza in cui, con riferimento alla questione di specie qui trattata, appaiono essere incorse le pronunce già richiamate allorquando si è trattato di inquadrare il rilascio delle certificazioni nell’una o nell’altra delle due categorie. E tale incertezza appare nella specie accentuata dal fatto che il rilascio delle certificazioni è circostanza ordinariamente consistente in una condotta posta in essere dallo stesso soggetto agente che incorra nell’omissione del versamento salvo che, successivamente al rilascio e prima della scadenza del termine annuale prevista per la presentazione della dichiarazione, abbia a mutare la persona fisica del sostituto di imposta; sicché, in tal caso, anche l’eventuale margine di utile significato rinvenibile nel concetto di presupposto della condotta (conosciuto ma non voluto secondo appunto la dottrina sopra richiamata) verrebbe, nella specie, quasi sempre a dissolversi.
Ed allora, ove, come pare necessario, si debba privilegiare il significato letterale del termine, chiaramente volto ad evidenziare la anteriorità cronologica del fatto, il rilascio delle certificazioni, fisiologicamente anteriore alla scadenza del termine per il versamento (anche nella struttura della norma, che significativamente appare impiegare il participio passato ‘rilasciate’), appare più correttamente inquadrabile nella categoria del presupposto della condotta senza che, però, ciò possa portare ad escludere la necessità (su cui, come visto, convengono, infatti, esplicitamente o implicitamente, tutte le pronunce di questa Corte) che di tale circostanza, necessaria per integrare l’illecito penale anche soprattutto per differenziare quest’ultimo, come ricordato in premessa, dall’illecito amministrativo, debba essere data prova.
6. La fondatezza degli approdi raggiunti dalla giurisprudenza di segno più rigoroso appare poi non contraddetta dagli sviluppi normativi già segnalati con riguardo in particolare alle modifiche operate, sul corpus dell’art. 10-bis cit., dall’art. 7 del d. lgs. n. 158 del 2015.
Come già anticipato sopra, la revisione della norma è consistita nella integrazione della rubrica dell’articolo (passata da ‘omesso versamento di ritenute certificate’ a ‘omesso versamento di ritenute dovute o certificate’) e nella apposizione, accanto al periodo ‘risultanti dalla certificazione rilasciata’, del periodo ‘dovute sulla base della stessa dichiarazione’. In tal modo, anziché ricostruire la fattispecie nel senso di un ritorno all’impianto come disciplinato dal d.l. n. 429 del 1982, ove l’obbligo di versamento penalmente presidiato riguardava semplicemente le ritenute ‘effettivamente operate’, si è scelto non solo di mantenere la necessità di una ‘fonte’ di attestazione delle stesse, ma altresì di duplicare la stessa mediante il ricorso anche al contenuto della dichiarazione.
La stessa strada prescelta trova del resto come spiegazione logica quanto esternato dallo stesso legislatore nella relazione illustrativa allo schema del d. lgs. n. 158 cit. ove si è scritto essere stata ‘chiarita, con l’articolo 7, la portata dell’omesso versamento di ritenute dovute sulla base della dichiarazione o risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti di cui all’articolo 10-bis (mediante l’aggiunta del riferimento alle ritenute dovute sulla base della dichiarazione)’.
Ora, una tale necessità di chiarimento del significato della norma non può che essere rapportata, logicamente, all’incertezza determinata dal dibattito giurisprudenziale avutosi appunto con riguardo alle modalità probatorie del fatto del rilascio della certificazione unica essendo la disposizione stata ricostruita quanto al momento ‘attestativo’ delle ritenute, non più confinato solo a quanto risultante dalla certificazione ma esteso anche a quanto dovuto sulla base del contenuto della dichiarazione modello 770 (che riporta l’indicazione delle ritenute operate): in tal modo si è reso dunque non più indispensabile provare il previo rilascio della certificazione unica potendo guardarsi, per l’individuazione delle ritenute il cui omesso versamento deve essere sanzionato, anche al solo modello 770.
Se questo è il significato della modifica, non può allora sussistere dubbio sulla portata innovativa della norma che, prendendo atto del prevalente orientamento di questa Corte, ha obiettivamente inciso sullo stesso oggetto materiale della condotta la cui omissione è sanzionata, la cui individuazione, dapprima limitata a quelle sole ritenute che risultavano dalla certificazione, è oggi estesa alle ritenute emergenti dalla dichiarazione modello 770.
Né in senso contrario, come la stessa ordinanza di rimessione a questa Corte pare invece prospettare, può valorizzarsi la volontà di mero ‘chiarimento’ che avrebbe animato il legislatore nell’effettuare la interpolazione in oggetto: se il chiarimento si è tradotto, come pare indubitabile, nella individuazione di un oggetto dell’omesso versamento alternativo a quello in origine contenuto nella norma e in precedenza in alcun modo ricavabile dal testo (il riferimento alla dichiarazione compare solo nella nuova versione), appare non corretto discorrere di norma di interpretazione autentica; e ciò, tanto più ove si consideri quanto correttamente evidenziato in particolare dalla sentenza Gagliardi in ordine alle differenze e alle diverse finalità di certificazione unica da una parte e dichiarazione del sostituto d’imposta dall’altra; in particolare va ribadito che la certificazione delle ritenute è regolata, per quanto qui interessa, dall’art. 4, comma 6 – ter, del d.P.R. n. 322 del 1998 ed ha la funzione di attestare l’importo delle somme corrisposte dal sostituto di imposta e delle ritenute da lui operate, dovendo essere consegnata entro il 31 marzo di ogni anno.
La dichiarazione mod. 770 è invece disciplinata dall’art. 4, comma 1, e segg. del d.P.R. n. 322 del 1998, ed è destinata ad informare l’Agenzia delle entrate delle somme corrisposte ai sostituiti, delle ritenute operate sulle stesse e del loro versamento all’erario e deve essere inoltrata nella data fissata volta per volta dal legislatore. Infine, mentre le certificazioni devono essere emesse soltanto quando il datore ha provveduto a versare le ritenute, la dichiarazione va invece obbligatoriamente presentata entro il termine stabilito per legge (salva, in caso contrario, l’applicazione di sanzioni amministrative).
Va del resto osservato come nella stessa relazione illustrativa al decreto legislativo si precisi anche, subito dopo il passaggio già ricordato, che la integrazione della rubrica del novellato art. 10-bis è stata imposta dalle ‘modifiche introdotte e, in particolare dell’estensione del comportamento omissivo non più alle sole ritenute ‘certificate’ ma anche a quelle ‘dovute’ sulla base della dichiarazione annuale del sostituto d’imposta’, una tale precisazione finendo quanto meno per neutralizzare la possibile portata del riferimento all’esigenza di ‘chiarimento’ nel senso della natura mera interpretativa del nuovo testo.
6.1. Soccorre, del resto, sul punto, quanto affermato dalla Corte Costituzionale con riferimento al fatto che l’essenza di una norma interpretativa deve essere quella di imporre per legge una scelta nell’interpretazione di una norma che ‘rientri tra le possibili varianti di senso del testo originario, con ciò vincolando un significato ascrivibile alla norma anteriore’ (Corte cost. n. 525 del 2000). Sempre il giudice delle leggi ha poi chiarito che ‘va riconosciuto il carattere interpretativo ad una legge, la quale, fermo restando il testo della norma interpretata, ne chiarisca il significato normativo e privilegi una delle tante interpretazioni possibili, di guisa che il contenuto precettivo sia espresso dalla coesistenza di due norme, quella precedente e quella successiva, che ne esplica il significato e che rimangono entrambe in vigore’ (Corte cost. n. 455 del 1992) e, in altra decisione, ha chiarito essere necessario che ‘la scelta ermeneutica imposta dalla legge interpretativa rientri fra una delle possibili varianti di senso del testo interpretato, cioè stabilisca un significato che ragionevolmente poteva essere ascritto alla legge anteriore’ (Corte cost. n. 480 del 1992).
Ora, come appena evidenziato sopra, la diversità strutturale e funzionale dei due documenti impedisce che, nel testo anteriore della norma, potesse rinvenirsi il significato oggetto del ‘chiarimento’ attuato con la nuova formulazione.
Né può trascurarsi che uno dei limiti all’adozione di norme interpretative è da ravvisarsi proprio nella materia penale (Corte cost. n. 525 del 2000, n. 311 del 1995 e n. 397 del 1994).
6.2. Ne deriva il dato della portata innovativa della modifica legislativa, allo stesso tempo di indiretta ‘conferma’ dell’indirizzo maggioritario della Corte, che esclude qualunque possibilità di sua applicazione retroattiva in ossequio agli artt. 2 cod. pen. e 25 Cost., con la conseguenza che il contrasto devoluto a queste Sezioni Unite, riguardante un’omissione realizzata nell’anno 2011, deve essere sciolto unicamente sulla base del dato previgente.
Allo stesso tempo, e per le stesse ragioni, diviene irrilevante, nella specie, ogni possibile questione di legittimità costituzionale o di violazione del divieto di bis in idem, pur prospettate da attenta dottrina a seguito dell’analisi del nuovo testo.
Va solo ricordato che, quanto al primo punto, si è dubitato della conformità dell’art. 7 del d.lgs. n. 158 del 2015, cit. (modificativo appunto dell’art. 10-bis cit.) ai criteri direttivi della legge delega con conseguente possibile attrito rispetto all’art. 76 Cost. posto che l’art. 8 della l. 11 marzo 2014, n. 23 (di delega di riforma del sistema tributario), con riferimento alle fattispecie meno gravi (cui viene ricondotta l’omissione in questione), prevedeva solo ed esclusivamente di ridurre le sanzioni o di applicare sanzioni amministrative e non autorizzava il Governo in alcun modo ad estendere la portata dell’incriminazione attraverso la previsione di una condotta in precedenza penalmente irrilevante.
Quanto poi al secondo punto, a fronte della precisazione già operata dalle Sez. U. n. 37425/2013, Favellato, cit. con riguardo all’elemento di differenziazione tra illecito amministrativo e reato tributario rappresentato dal rilascio al sostituito della certificazione delle ritenute, previsto solo in quest’ultimo, si è posto in rilievo come, venendo ora sanzionato penalmente l’omesso versamento di ritenute anche solo risultanti dalla dichiarazione, la distinzione in oggetto rischi di venire quanto meno offuscata se non vanificata con conseguente sovrapposizione tra loro delle fattispecie penale ed amministrativa.
E tutto ciò a prescindere dai non trascurabili aspetti critici che la novazione legislativa appare avere comportato, primo fra tutti il fatto che le ritenute risultanti dalla certificazione potrebbero anche, nella variegata realtà dei casi, non coincidere con quelle riportate in dichiarazione (il legislatore parrebbe invece muovere dal presupposto in senso contrario), sì che l’interprete, a fronte della equipollenza, oggi posta dalla norma, dell’una e dell’altra documentazione, resterebbe libero di propendere per la prima ovvero per la seconda pur in presenza della possibile differenza di importi tanto più rilevante attesa la previsione della soglia di punibilità contemplata dalla disposizione in esame.
7. In definitiva, dunque, va affermato il seguente principio: ‘con riferimento all’art. 10-bis nella formulazione anteriore alle modifiche apportate dal d. lgs. n. 158 del 2015, la dichiarazione modello 770 proveniente dal sostituto di imposta non può essere ritenuta di per sé sola sufficiente ad integrare la prova della avvenuta consegna al sostituito della certificazione fiscale’.
8. Tenuto dunque conto di tale principio, la sentenza impugnata deve essere annullata.
Premesso che il terzo motivo, in realtà avente carattere logicamente pregiudiziale, è manifestamente infondato assumendosi, pur a fronte dell’incontestata omissione del versamento e della altrettanto incontestata provenienza dall’imputato, rappresentante legale della ‘MRC S.r.l.’, della dichiarazione modello 770, che la sentenza non avrebbe indicato gli elementi di responsabilità, sono invece fondati i primi due motivi di ricorso, tra loro strettamente connessi.
La Corte dorica, infatti, ha desunto dalla dichiarazione suddetta il solo elemento sulla cui base ritenere dimostrato il rilascio delle certificazioni a fronte del silenzio serbato sul punto dall’imputato, in tal modo ponendosi in contrasto con il principio sopra enunciato e non considerando che è onere del pubblico ministero provare il rilascio delle predette certificazioni.
Si impone pertanto l’annullamento della sentenza con rinvio alla Corte d’Appello di Perugia che procederà a nuovo giudizio nell’osservanza dei criteri di valutazione probatoria posti da questa Corte.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio alla Corte d’appello di Perugia.

Alimenti. Frode in commercio. Porre in vendita prodotti dolciari da forno congelati o surgelati all’ origine senza tale indicazione integra il reato di tentativo di frode commerciale.

“Ciò che rileva ai fini della sussistenza del reato di frode in commercio, è la consegna dell’aliud pro alio, che si concreta certamente di per sé, allorché, come nel caso di specie, vengano consegnati prodotti sfusi, in quanto la condotta di averli previamente rimossi dalla confezione del produttore e posti in vendita senza alcuna indicazione di origine e provenienza induce il potenziale acquirente a ignorare tale caratteristica e concreta l’aliud pro alio, analogamente a quanto accade allorché si pongano in vendita prodotti all’origine congelati o surgelati senza tale indicazione, restando del tutto irrilevante il valore del bene , le sue caratteristiche di utilizzabilità e qualità.

” La circostanza che tali condotte integrino anche violazioni amministrative dal momento che il reato di frode nell’esercizio del commercio può concorrere con la normativa che disciplina e sanziona gli illeciti amministrativi atteso che quest’ultima opera su un piano e risponde ad una “ratio” diversi rispetto a quelli della fattispecie penale“.

(Corte di Cassazione 1 marzo 2017 avente numero 10015)

Pe la lettura della sentenza integrale vedansi:

http://www.italgiure.giustizia.it/xway/application/nif/clean/hc.dll?verbo=attach&db=snpen&id=./20170301/snpen@s30@a2017@n10015@tS.clean.pdf

Frode commerciale: etichetta attestante il prodotti “Nichel free”

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 7 marzo – 31 luglio 2017, n. 37983 Presidente Cavallo – Relatore Mengoni

Ritenuto in fatto

  1. Con sentenza del 6/5/2015, il Tribunale di Macerata assolveva Wu. Li. dall’imputazione di cui all’art. 515 cod. pen., perché il fatto non sussiste; pur accertata la messa in vendita – con etichetta “Nickel free” o “senza nichel” – di 587 monili vari in realtà contenenti tale metallo, peraltro in concentrazione superiore al consentito, il Giudice riscontrava che gli stessi oggetti non risultavano ceduti ad alcuno, e che non poteva esser configurato neppure il tentativo del reato, non ravvisandosi nessuna contrattazione in atto. 2. Propone ricorso per cassazione il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Ancona, deducendo – con unico motivo -l’inosservanza o erronea applicazione della legge penale. Il Giudice non avrebbe considerato che il tentativo del delitto in esame è ben configurabile a fronte della destinazione alla vendita del prodotto diverso, per origine, provenienza, qualità o quantità, da quello dichiarato o pattuito, come nel caso di specie.

Considerato in diritto

Preliminarmente si osserva che la presente motivazione è redatta in forma semplificata, ai sensi del decreto n. 68 del 28/4/2016 del Primo Presidente di questa Corte. 3. Il ricorso è fondato. Premesso che risulta pacifica la condotta della Wu. come accertata nei termini indicati, osserva il Collegio che – giusta costante e condiviso indirizzo di legittimità – la messa in vendita di prodotti non regolamentari integra il tentativo del reato di frode in commercio, poiché costituisce un aspetto della condotta che non è estraneo allo stadio della trattativa negoziale, risolvendosi, per il luogo di esposizione della merce, in un’offerta al pubblico e perciò configurandosi concretamente come una proposta contrattuale; sicché, non costituendo il contatto con la clientela un elemento necessario per integrare il tentativo del delitto in oggetto (Sez. 3, n. 9276 del 19/01/2011, Fa., Rv. 249784), la stessa messa/esposizione in vendita è condotta pienamente idonea e diretta in modo non equivoco alla conclusione dell’accordo finale, e quindi alla consumazione della frode commerciale di cui all’art. 515 cod. pen., se di questa ricorrono gli elementi oggettivi e soggettivi (Sez. U, n. 28 del 25/10/2000, Mo., Rv. 217295; successivamente, tra le altre, Sez. 3, n. 44340 del 30/9/2015, Ol., Rv. 265237; Sez. 3, n. 42953 del 9/7/2014, Hu., Rv. 265567). Il Tribunale, pertanto, ha errato nel negare la configurabilità del tentativo del reato in esame, assumendo che – al momento del controllo – nessuno stesse acquistando la merce di cui trattasi; tale circostanza di fatto, invero, non costituisce elemento essenziale della fattispecie. La sentenza, pertanto, deve essere annullata con rinvio, affinché il Giudice si adegui al principio di diritto indicato.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio al Tribunale di Macerata in diversa composizione, Così deciso in Roma, il 7 marzo 2017

Reati edilizi. Omessa denuncia, reati antisismici, circolari amministrative

 Cassazione penale, sezione III, sentenza 18 maggio 2017, n. 24585

<< In tema di reati antisismici, la contravvenzione di cui agli artt. 93 e 95 del D.P.R. n. 380 del 2001 è applicabile a tutte le opere realizzate in zona sismica, indipendentemente dalla funzione statica dalle stesse svolte; né può rilevare un’eventuale buona fede dell’imputato per essersi uniformato ad una circolare amministrativa, occorrendo la dimostrazione che questi versasse in una situazione di errore scusabile, tenuto conto del consolidato indirizzo interpretativo della giurisprudenza di legittimità in materia di obblighi di informazione sulla normativa settoriale >>

Agli imputati era stato contestato di avere omesso di presentare allo Sportello unico per l’edilizia la denuncia delle opere strutturali, realizzate in zona sismica, consistenti in un muro di confine, in piloni di sostegno di un cancello, in un muretto di recinzione su strada prima di procedere al loro inizio. Era emerso che i manufatti, costruiti in cemento armato, non erano destinati ad assolvere alcuna funzione statica e che, per tale motivo, gli imputati avevano ritenuto di non dovere presentare preventivamente la denuncia prevista dall’art. 65 del d.p.r. n. 380/2001. Il Tribunale di Asti aveva assolto gli imputati ritenendo l’errore scusabile.

Il primo giudice ha ritenuto , che gli stessi sarebbero incorsi in errore scusabile per avere deciso di non presentare la denuncia allo Sportello unico sulla base della Circolare del Ministero dei lavori pubblici 14/02/1974, n. 11951, non essendo gli stessi tenuti a conoscere il contrario indirizzo della giurisprudenza di legittimità, che affermerebbe, in siffatte ipotesi, la rilevanza penale dell’omissione della denuncia e, per converso, l’irrilevanza delle eventuali previsioni difformi da parte delle circolari amministrative.

La corte di Cassazione, in riforma dell’impugnata sentenza è giunta alla conclusione che deve escludersi qualunque rilevanza, sotto il profilo scusante, a quanto stabilito dalla Circolare del Ministero dei lavori pubblici 14/02/1974, n. 11951 (che, secondo la Corte, riguardava tutt’altro oggetto rispetto alla problematica qui, in rilievo: ovvero l’obbligatorietà della preventiva denuncia di opere in cemento armato inidonee ad assolvere una funzione statica e non, come invece sarebbe stato necessario, l’obbligatorietà della comunicazione connessa alla sismicità dell’area interessata dall’intervento edificatorio.).

Gli ermellini hanno tenuto a ribadire che, se per un verso non può in assoluto escludersi che la presenza di determinate circolari amministrative possa contribuire a delineare un quadro regolativo confuso e scarsamente idoneo a orientare il comportamento dei consociati, occorre pur sempre affermarsi che nelle fattispecie contravvenzionali la buona fede può acquistare rilevanza giuridica solo a condizione che essa si traduca nella mancanza di consapevolezza dell’illiceità del fatto e che derivi da un elemento positivo estraneo all’agente, consistente in una circostanza che induca alla convinzione della liceità del comportamento tenuto, la prova della sussistenza del quale deve essere fornita dall’imputato, unitamente alla dimostrazione di avere compiuto tutto quanto poteva per osservare la norma violata.

Testo integrale della sentenza

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 7 febbraio – 18 maggio 2017, n. 24585
Ritenuto in fatto

  1. Con sentenza in data 4/07/2016 il Tribunale di Asti aveva assolto, con la formula “perché il fatto non costituisce reato”, M.N. , S.G. e Ma.Sa. in relazione ai reati di cui agli artt. 71 (capo a) e 93 e 95 (capo b) del d.p.r. n. 380 del 2001, per avere: la prima in qualità di committente, il secondo di esecutore ed il terzo di direttore dei lavori, eseguito opere in conglomerato cementizio armato – consistenti in un muro di confine, in piloni di sostegno del cancello, in un muretto di recinzione su strada – in violazione dell’art. 64, commi 2, 3 e 4, nonché per avere omesso di presentare allo Sportello unico per l’edilizia la denuncia delle predette opere strutturali prima del loro inizio; fatti accertati in (omissis) .

1.1. Secondo il primo giudice, infatti, pur essendo stata pacificamente dimostrata la realizzazione delle opere sopra menzionate, dall’istruttoria dibattimentale era, altresì, emerso che i manufatti, costruiti in cemento armato, non erano destinati ad assolvere alcuna funzione statica e che, per tale motivo, gli imputati avevano ritenuto di non dovere presentare preventivamente la denuncia prevista dall’art. 65 del d.p.r. n. 380/2001 per le opere in conglomerato cementizio armato, che l’art. 53, comma 1 considera come tali, appunto, solo quando assolvano ad una funzione statica. Sulla base della riportata interpretazione della normativa di riferimento, avallata dalla Circolare del Ministero dei lavori pubblici 14/02/1974, n. 11951, gli imputati si erano, dunque, consapevolmente determinati a non presentare la denuncia in questione, incorrendo in un errore scusabile, siccome indotto da una normativa suscettibile di differenti opzioni esegetiche e non potendo attribuirsi rilievo dirimente al contrario indirizzo della giurisprudenza di legittimità, che gli imputati non sarebbero stati tenuti a conoscere. 2. Avverso la predetta sentenza ha presentato ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Asti, deducendo, con un unico motivo di impugnazione proposto ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b) cod. proc. pen., l’inosservanza o erronea applicazione della legge penale in relazione alla sola contravvenzione di cui agli artt. 93 e 95 del d.p.r. n. 380 del 2001 contestata al capo b). Ciò sul presupposto che tale figura di reato sia applicabile a tutte le opere realizzate in zona sismica, indipendentemente dalla funzione statica dalle stesse svolte; e non essendo stato, per altro verso, dimostrato che gli imputati versassero, nella specie, in una situazione di errore scusabile, anche tenuto conto del consolidato indirizzo interpretativo della giurisprudenza di legittimità in materia di obblighi di informazione sulla normativa settoriale.

Considerato in diritto

  1. Il ricorso è fondato. 2. Con la fattispecie descritta al capo b) della rubrica è stato contestato agli imputati di avere omesso di presentare allo Sportello unico per l’edilizia la denuncia delle opere strutturali indicate al capo a) – consistenti di un muro di confine, dei piloni di sostegno di un cancello, di un muretto di recinzione su strada – prima di procedere al loro inizio. Come correttamente posto in luce dal ricorrente, la contravvenzione de qua sanziona, al comma 1, l’omesso preavviso scritto allo sportello unico delle “costruzioni, riparazioni e sopraelevazioni” alla cui presentazione è tenuto chiunque intenda procedervi “nelle zone sismiche di cui all’articolo 83”. Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di questa Corte il reato in contestazione resta integrato indipendentemente sia dalle caratteristiche dell’opera edilizia, che può consistere in qualsiasi intervento edilizio – con la sola eccezione di quelli di semplice manutenzione ordinaria – effettuato in zona sismica, comportante o meno l’esecuzione di opere in conglomerato cementizio armato (Sez. 3, n. 48005 del 17/09/2014, dep. 20/11/2014, Gulizzi e altro, Rv. 261155), sia dal grado di sismicità dell’area, essendo il reato de quo configurabile anche in caso di esecuzione di lavori in zona inclusa tra quelle a basso indice sismico (v. Sez. 3, n. 22312 del 15/02/2011, dep. 6/06/2011, Morini, Rv. 250369). Ne consegue che, già sotto il profilo dell’elemento oggettivo, la sentenza impugnata si mostra gravemente carente, essendosi la stessa soffermata unicamente sulle caratteristiche dell’opera in rapporto alla sua funzione statica ed ai conseguente obbligo di denuncia, senza in alcun modo affrontare il concorrente profilo della sismicità dell’area interessata dall’intervento, la quale avrebbe, dunque, imposto di ottemperare agli obblighi comunicativi. 3. Sotto altro aspetto, si è opinato, da parte della difesa degli imputati, e il primo giudice ha condiviso tale prospettazione, che gli stessi sarebbero incorsi in errore scusabile per avere deciso di non presentare la denuncia allo Sportello unico sulla base della Circolare del Ministero dei lavori pubblici 14/02/1974, n. 11951, non essendo gli stessi tenuti a conoscere il contrario indirizzo della giurisprudenza di legittimità, che affermerebbe, in siffatte ipotesi, la rilevanza penale dell’omissione della denuncia e, per converso, l’irrilevanza delle eventuali previsioni difformi da parte delle circolari amministrative. 3.1. Sul punto, osserva il Collegio che la consolidata produzione giurisdizionale di questa Corte è ormai pervenuta ad affermare, sulla scia della fondamentale sentenza n. 368/88 della Corte costituzionale, che nelle fattispecie contravvenzionali la buona fede può acquistare rilevanza giuridica solo a condizione che essa si traduca nella mancanza di consapevolezza dell’illiceità del fatto e che derivi da un elemento positivo estraneo all’agente, consistente in una circostanza che induca alla convinzione della liceità del comportamento tenuto, la prova della sussistenza del quale deve essere fornita dall’imputato, unitamente alla dimostrazione di avere compiuto tutto quanto poteva per osservare la norma violata (Sez. 3, n. 35314 del 20/05/2016, dep. 23/08/2016, P.M. in proc. Oggero, Rv. 268000; Sez. 4, n. 9165 del 5/02/2015, dep. 2/03/2015, Felli, Rv. 262443; Sez. 3, n. 42021 del 18/07/2014, dep. 9/10/2014, Paris, Rv. 260657; Sez. 3, n. 49910 del 4/11/2009, dep. 30/12/2009, Cangialosi e altri, Rv. 245863; Sez. 3, n. 46671 del 5/10/2004, dep. 1/12/2004, Sferlazzo, Rv. 230889; Sez. 3, n. 12710 del 29/11/1994, dep. 21/12/1994, D’Alessandro, Rv. 200950). Ciò sul presupposto che gli inderogabili doveri di solidarietà sociale stabiliti dall’art. 2 Cost. impongono al destinatario di una determinata normativa di adempiere a stringenti oneri informativi, i quali richiedono che, prima di porre in essere l’attività disciplinata da specifiche disposizioni, egli si adoperi per sciogliere i dubbi che eventualmente concernano il lecito svolgimento di essa o le particolari modalità previste per la sua esecuzione. Ora, se per un verso non può in assoluto escludersi che la presenza di determinate circolari amministrative possa contribuire a delineare un quadro regolativo confuso e scarsamente idoneo a orientare il comportamento dei consociati (rientrando, l’ipotesi delle circolari, tra gli esempi offerti dalla citata sentenza n. 364/88 per configurare una situazione di scarsa perspicuità dell’assetto normativo, tale eventualmente determinare un errore scusabile), deve nondimeno rilevarsi che, nel caso di specie, le circolari invocate riguardavano, come già osservato (v. supra § 2), tutt’altro oggetto rispetto alla problematica che viene, qui, in rilievo: ovvero l’obbligatorietà della preventiva denuncia di opere in cemento armato inidonee ad assolvere una funzione statica e non, come invece sarebbe stato necessario, l’obbligatorietà della comunicazione connessa alla sismicità dell’area interessata dall’intervento edificatorio. Consegue a quanto appena rilevato che, in ogni caso, anche sotto questo dirimente profilo, deve escludersi qualunque rilevanza, sotto il profilo scusante, a quanto stabilito dalla cennata circolare e, corrispondentemente, al convincimento maturato dagli imputati alla stregua delle sue disposizioni. 4. Alla luce delle considerazioni che precedono, il ricorso deve essere accolto, sicché la sentenza impugnata deve essere annullata limitatamente al reato di cui al capo b), con rinvio ai Tribunale di Asti.

P.Q.M.

annulla la sentenza impugnata limitatamente al reato di cui al capo b) e rinvia al Tribunale di Asti.

 

Reati tributari – Omesso versamento di IVA – Confisca del profitto

Reati tributari – Omesso versamento Iva (art. 10 ter D.Lgs. n. 74 del 2000) – Sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente verso organi della persona giuridica non estranea al reato

La pronuncia in commento si inserisce nel solco della controversa vicenda relativa alla distinzione tra sequestro diretto e sequestro per equivalente, aventi entrambi finalità di confisca. La tematica è da qualche anno a questa parte una tra le più dibattute da dottrina e giurisprudenza, stanti le importanti ricadute anche e soprattutto sul piano del diritto quotidianamente praticato nelle aule giudiziarie.

In particolare, i giudici della Terza sezione di Cassazione hanno ricostruito – anche alla luce del recente arresto delle Sezioni Unite nel caso Gubert – i rapporti tra sequestro preventivo per equivalente nei confronti dell’indagato e sequestro sul patrimonio dell’Ente in tema di reati tributari.

La problematica non è di poco conto atteso che, nella maggior parte dei casi di illecito fiscale, la persona fisica-autore del reato non coincide con il reale beneficiario dell’evasione delle imposte sui redditi o dell’Iva.  Allorché il contribuente sia una persona giuridica, infatti, l’Ente rappresentato dall’autore del reato, pur essendo soggetto ontologicamente differente, trae giovamento dai benefici fiscali derivanti dalla commissione dell’illecito.

La domanda che ne consegue, pertanto, è se, ed in quali circostanze, la divergenza soggettiva nello schema di commissione del reato testé delineato possa riflettersi sull’individuazione del soggetto su cui far ricadere gli effetti della misura cautelare reale finalizzata alla confisca del profitto.

Ebbene, nelle ipotesi tipicamente ricorrenti in materia di reati tributari – come nel caso di omesso versamento d’Iva previsto dall’art. 10 ter D.Lgs. 74/2000 – la Terza Sezione della Cassazione è ormai decisamente propensa a ritenere possibile la confisca diretta del profitto nei confronti della persona giuridica per reati commessi dal legale rappresentante della stessa; confisca da intendere non già per equivalente bensì in via diretta e, dunque, legittima, laddove avente ad oggetto beni fungibili come le somme di denaro.

Dott. Matteo Gambarati

Testo della sentenza

Cassazione penale, Sez. III, 19 novembre 2015, n. 50054 – Pres. Amoresano – Rel. Manzon – P.M. Gaeta (diff.) – Ric. P.P. (Avv. di Santo)Annulla con rinvio Trib. Foggia 24 luglio 2015

 

Omissis. – Ritenuto in fatto: 1. Con ordinanza in data 24/07/2015 il Tribunale di Foggia rigettava la richiesta di riesame proposta da P.P. avverso il decreto di sequestro preventivo del GIP presso il Tribunale stesso in data 11/05/2015 avente ad oggetto beni dell’indagato.

Rilevava il Tribunale che, essendo sufficiente ai fini cautelari l’astratta configurabilità di un reato (nel caso di specie quello di cui al D.L. n. 74 del 2000, art. 10 ter, anno di imposta 2011, Euro 340.429,00 IVA non versata), la mancata escussione preventiva del patrimonio dell’Ente rappresentato dall’indagato (effettivo contribuente) non potevasi considerare condizione di validità del disposto sequestro. Soggiungeva che l’estraneità al reato del P. avrebbe dovuto essere oggetto del giudizio meritale, non potendosene comunque escludere il dolo. Infine affermava la non revocabilità del sequestro essendo finalizzato, ancorché “per equivalente”, alla confisca obbligatoria né la sostituibilità dei beni sequestrati, stante il disposto dell’art. 324 c.p.p., comma 7.

  1. Avverso tale decisione, tramite il difensore fiduciario, propone ricorso per cassazione il P. deducendo un unico motivo articolato in diversi profili di violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), in relazione al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 ter e art. 322 ter c.p.

2.1 Anzitutto censura l’ordinanza impugnata, affermando di non essere l’autore del reato in quanto non firmatario della correlativa dichiarazione annuale IVA, a suo dire non bastando a tal fine la qualifica rivestita di legale rappresentante pro tempore dell’Ente societario soggetto passivo di tale imposta. Il ricorrente si duole della non adeguatezza sul punto della motivazione del Tribunale, a suo dire limitatosi ad un recepimento acritico della tesi accusatoria, senza adeguata ponderazione dei contrari elementi addotti difensivamente.

2.2 Il P. poi lamenta la mancata preventiva escussione del patrimonio dell’Ente rappresentato, affermando la sequestrabilità del patrimonio dello stesso. – Omissis. Considerato in diritto: 1. Il ricorso è fondato.

1.1 Il complesso motivo di ricorso proposto, pur essendo inammissibile per il profilo articolato in ordine agli aspetti inerenti il merito dell’imputazione provvisoria, pacificamente non sindacabili da questa Corte, risulta dirimentemente accoglibile per gli altri profili dedotti.

1.2 Si deve rilevare in premessa che avverso le ordinanze emesse dal Tribunale in sede di riesame ex art. 324 c.p.p., è prevista dall’art. 325, stesso codice, la possibilità del ricorso per cassazione, ma soltanto per violazione di legge. Peraltro la giurisprudenza consolidata di questa Corte ravvisa tale vizio anche nella mancanza assoluta di motivazione o per la presenza di motivazione meramente apparente, in quanto correlate all’inosservanza di precise norme processuali, quali ad esempio l’art. 125 c.p.p. – che impone la motivazione anche per le ordinanze – ma non la manifesta illogicità della motivazione, la quale può denunciarsi nel giudizio di legittimità soltanto tramite lo specifico ed autonomo motivo di ricorso dall’art. 606 c.p.p., lett. e) (cfr. Cass., S.U., n. 5876 del 28.1.2004, P.C. Ferazzi in proc. Bevilacqua, Rv.226710). Sempre le S.U. di questa Corte hanno anche specificato che nella violazione di legge debbono intendersi compresi sia gli “errores in iudicando” o “in procedendo“, sia quei vizi della motivazione così radicali da rendere l’apparato argomentativo posto a sostegno del provvedimento o del tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza, quindi inidoneo a rendere comprensibile l’itinerario logico seguito dal giudice (sentenza n. 25932 del 29.5.2008, Ivanov, Rv. 25932).

Nel caso concreto la motivazione dell’ordinanza impugnata risulta affetta dalle carenze suindicate e deve quindi affermarsi non conforme allo standard previsto dalle norme processuali correlative ed in particolare da quella di cui all’art. 125 c.p.p., comma 3, apparendo tale radicale vizio motivazionale sussistente rispetto ad entrambi i primi due profili della censura articolata dal ricorrente.

1.3 Ciò anzitutto deve essere rilevato rispetto al punto motivazionale inerente la sussistenza del fumus commissi delicti.

Il Tribunale ha in merito evocato risalenti ed ormai superati precedenti giurisprudenziali di questa Corte, essendosene evoluto il correlativo indirizzo ermeneutico nel senso che «Nel sequestro preventivo la verifica del giudice del riesame, ancorché non debba tradursi nel sindacato sulla concreta fondatezza dell’accusa, deve, tuttavia, accertare la possibilità di sussumere il fatto in una determinata ipotesi di reato; pertanto, ai fini dell’individuazione del “fumus commissi delicti“, non è sufficiente la mera “postulazione” dell’esistenza del reato, da parte del pubblico ministero, in quanto il giudice, nella motivazione dell’ordinanza, deve rappresentare le concrete risultanze processuali e la situazione emergente dagli elementi forniti dalle parti, che dimostra indiziariamente la congruenza dell’ipotesi di reato prospettata rispetto ai fatti cui si riferisce la misura cautelare reale» (così, ex multis, Cass., sezione quinta, n. 28515 del 21/05/2014, Ciampani e altri, Rv. 260921).

La difesa del P. aveva posto delle questioni in ordine alla ascrivibilità del reato fiscale de quo all’indagato/sequestrato. Si tratta di specifiche argomentazioni difensive, concernenti i tempi e le modalità di assunzione da parte del P. del mandato rappresentativo dell’Unione Sportiva Foggia spa, il fatto che egli non abbia firmato la dichiarazione IVA relativa al 2011, l’assenza dell’elemento soggettivo. Su tali questioni il Tribunale del riesame foggiano non ha risposto (limitandosi alla mera presa d’atto della tesi accusatoria ovvero adducendo una motivazione postergatoria e comunque meramente apparente) mentre, alla luce di detto orientamento della giurisprudenza di questa Corte, doveva farlo.

1.4 Ancor più inconsistente risulta essere la motivazione dell’ordinanza impugnata sul secondo profilo dedotto dal ricorrente, incentrato sulla mancata previa escussione del patrimonio della società rappresentata dall’indagato, limitandosi a citare un unico precedente di legittimità, anch’esso ampiamente superato nell’evoluzione giurisprudenziale di questa Corte in tema di sequestro preventivo “diretto” e per “equivalente”.

Per vero, tuttavia nemmeno il ricorrente pone la questione nei suoi esatti termini giuridici.

Non si tratta infatti di affermare un insussistente beneficium excussionis in favore delle persone fisiche che, agendo quali rappresentanti legali di persone giuridiche, siano autori di reati fiscali del cui profitto si implementi il patrimonio degli Enti rappresentati, quanto piuttosto, ai fini della rispettiva operatività, di distinguere le due tipologie di sequestro preventivo previste dagli artt. 321 c.p.p., comma 2 bis, in riferimento all’art. 322 ter c.p., commi 1 e 2, ossia, a detti fini, di distinguere tra sequestro preventivo “diretto” del profitto del reato fiscale e sequestro preventivo “per equivalente”.

In questo senso ha fatto definitiva chiarezza la sentenza delle S.U. penali di questa Corte n. 10561 del 30/01/2014, Gubert, sia in termini generali sia, per ciò che appunto rileva nel caso in oggetto, relativamente alla corretta consecuzione giuridico- procedimentale tra le due tipologie di sequestro finalizzato alla confisca.

Tale arresto nomofilattico in particolare (punto 2.10 del Considerato in diritto) ha statuito che “È consentito nei confronti di una persona giuridica il sequestro preventivo finalizzato alla confisca di denaro o di altri beni fungibili o di beni direttamente riconducibili al profitto di reato tributario commesso dagli organi della persona giuridica stessa, quando tale profitto (o beni direttamente riconducibili al profitto) sia nella disponibilità di tale persona giuridica”.

“Non è consentito il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente nei confronti di una persona giuridica qualora non sia stato reperito il profitto di reato tributario compiuto dagli organi della persona giuridica stessa, salvo che la persona giuridica sia uno schermo fittizio”.

“Non è consentito il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente nei confronti degli organi della persona giuridica per reati tributari da costoro commessi, quando sia possibile il sequestro finalizzato alla confisca di denaro o di altri beni fungibili o di beni direttamente riconducibili al profitto di reato tributario compiuto dagli organi della persona giuridica stessa in capo a costoro o a persona (compresa quella giuridica) non estranea al reato”.

“La impossibilità del sequestro del profitto di reato può essere anche solo transitoria, senza che sia necessaria la preventiva ricerca generalizzata dei beni costituenti il profitto di reato”.

Risulta dunque evidente che nel caso di specie tali principi di diritto siano stati violati, essendosi fatta applicazione erronea delle norme processuali e sostanziali evocate dal ricorrente. Il Tribunale di Foggia infatti, come detto richiamando un precedente nemmeno effettivamente pertinente, non ha minimamente considerata la possibilità, pure concretamente prospettata dal ricorrente stesso, che la misura cautelare reale preventiva potesse e possa essere attuata “direttamente” sul patrimonio dell’Ente rappresentato, quale percettore/detentore del profitto del reato fiscale ossia della somma pari a quella non versata per l’Iva dovuta in relazione all’anno d’imposta 2011. Ma questa carenza motivazionale è chiara conseguenza delle violazioni di legge che sono state sopra rilevate.

  1. In conclusione l’ordinanza impugnata deve essere annullata con rinvio al Tribunale di Foggia affinché, considerati i principi di diritto enunciati, proceda a nuovo riesame della misura cautelare in oggetto. – Omissis.

Le registrazioni audio e video fatte col cellulare tra i presenti costituiscono prova documentale lecita e perfettamente utilizzabile nel processo

Registrazioni audio e video effettuate tra presenti, valore di prova nel processo (Corte di Cassazione III Sezione Penale Sentenza n. 5421/2017)

Testo della sentenza

Corte di Cassazione, sez. III Penale Sentenza 12 maggio 2016 – 3 febbraio 2017, n. 5241  Presidente Ramacci – Relatore Socci

Ritenuto in fatto  1. Il Tribunale di Perugia, sezione per il riesame, con ordinanza del 23 febbraio 2016, confermava l’ordinanza, del Giudice per le indagini preliminari di Perugia del 4 febbraio 2016, di applicazione nei confronti di T.S. , degli arresti domiciliari, per i reati di cui agli art. 319 quater cod. pen. (capo A) e 609 bis comma 2, n. 1 e 609 septies, comma 4, n. 3 e 4 cod. pen. (capo B),per aver indotto la prostituta P.A.A. ad avere rapporti sessuali, e abusando della sua inferiorità psichica per aver indotto indebitamente M.M. ad avere con lui in due circostanze rapporti sessuali; in (omissis) ; il T. era Brigadiere dei C.C. addetto alla stazione di (omissis) .

  1. Ricorre in Cassazione T.S. , tramite il suo difensore, deducendo i motivi di seguito enunciati, nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’art. 173, comma 1, disp. att., c.p.p..  2.1. Violazione di legge, art. 319 quater del cod. pen.; vizio di motivazione per manifesta illogicità, mancanza e contraddittorietà. T. a dire dell’ordinanza impugnata si sarebbe adoperato in favore della P. ove ci fossero stati problemi con i clienti della prostituta (prospettazione abusiva per l’induzione indebita). L’attività di controllo e di protezione, invece, è un’attività doverosa delle forze dell’ordine e il reato di cui all’art. 319 quater cod. pen. si verifica solo nelle ipotesi di prospettazione di disattendere i propri doveri con indebito vantaggio. La mera rappresentazione da parte del ricorrente di impiegare le sue prerogative di carabiniere a salvaguardia della P. non poteva essere inserita nel paradigma punitivo dell’art. 319 quater del cod. pen.. Manca inoltre un vantaggio indebito per la P. , in vista del quale ella avrebbe concesso i suoi favori sessuali. La maggiore tranquillità e sicurezza nell’esercizio dell’attività meretricio – costituiva una legittima pretesa della P. . Nessuna risorsa appetibile avrebbe costituito la condotta del ricorrente per la P. , e la stessa quindi non sarebbe stata minimamente condizionata dalla prospettazione di generica protezione e tranquillità. Non è spiegato nell’ordinanza impugnata come la condotta del ricorrente avesse espresso efficacia condizionante della condotta della P. . Dagli atti emerge la condizione di assoluta regolarità amministrativa della P. , regolarmente soggiornante in Italia.

2.2. Violazione di legge, art. 609 bis comma 2, n. 1 del cod. pen. sulla conoscenza da parte del ricorrente delle condizioni di inferiorità psichica della parte offesa. Vizio di motivazione. La conoscenza dello stato di inferiorità è il presupposto logico giuridico della norma. Lo stesso deve essere conosciuto e utilizzato dal soggetto per la realizzazione del delitto. L’ordinanza impugnata nella motivazione ritiene la conoscenza dello stato di minorazione psichica della vittima, con un ragionamento circolare, ovvero “conosceva perché non poteva ignorare”. Gli accertamenti medici sulla M. sono successivi ai fatti dell’imputazione (disfunzionalità emotive). Da immagini estratte da Facebook la M. non  appariva affatto gravata da disturbi relazionali.

2.3. Difetto assoluto di motivazione sul concreto ed attuale pericolo di recidivanza criminosa ex art. 274, lettera C del cod. proc. pen.. T. era già sospeso dal servizio e quindi nell’impossibilità di godere della funzione per commettere reati della stessa specie. La motivazione dell’ordinanza che afferma la mancata produzione della sospensione dal servizio è errata poiché normativamente (art. 915 del d. lgs. n. 66 del 2010 – codice dell’ordinamento militare-) la sospensione precauzionale dall’impiego è sempre disposta nei confronti del militare sottoposto a misure cautelari limitative della libertà personale. Ha chiesto quindi l’annullamento del provvedimento impugnato.

Considerato in diritto

  1. Il ricorso è infondato e deve respingersi con condanna del ricorrente alle spese del procedimento. Deve premettersi che le valutazioni compiute dal giudice ai fini dell’adozione di una misura cautelare personale devono essere fondate, secondo le linee direttive della Costituzione, con il massimo di prudenza su un incisivo giudizio prognostico di “elevata probabilità di colpevolezza”, tanto lontano da una sommaria delibazione e tanto prossimo a un giudizio di colpevolezza, sia pure presuntivo, poiché di tipo “statico” e condotto, allo stato degli atti, sui soli elementi già acquisiti dal pubblico ministero, e non su prove, ma su indizi (Corte Cost., sent. n. 121 del 2009, ord. n. 314 del 1996, sent. n. 131 del 1996, sent. n. 71 del 1996, sent. n. 432 del 1995). La specifica valutazione prevista in merito all’elevata valenza indiziante degli elementi a carico dell’accusato, che devono tradursi in un giudizio probabilistico di segno positivo in ordine alla sua colpevolezza, mira, infatti, a offrire maggiori garanzie per la libertà personale e a sottolineare l’eccezionalità delle misure restrittive della stessa. Il contenuto del giudizio da farsi da parte del giudice della cautela è evidenziato anche dagli adempimenti previsti per l’adozione dell’ordinanza cautelare. L’art. 292 c.p.p., come modificato dalla L. n. 332 del 1995, prevedendo per detta ordinanza uno schema di motivazione vicino a quello prescritto per la sentenza di merito dall’art. 546 c.p.p., comma 1, lett. e), impone, invero, al giudice della cautela sia di esporre gli indizi che giustificano in concreto la misura disposta, di indicare gli elementi di fatto da cui sono desunti e di giustificare l’esito positivo della valutazione compiuta sugli stessi elementi a carico, sia di esporre le ragioni per le quali ritiene non rilevanti i dati conoscitivi forniti dalla difesa, e comunque a favore dell’accusato (comma 2, lett. c) e c bis).

3.1. Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, in tema di misure cautelari personali, per gravi indizi di colpevolezza devono intendersi tutti quegli elementi a carico, di natura logica o rappresentativa, che – contenendo in nuce tutti o soltanto alcuni degli elementi strutturali della corrispondente prova – non valgono di per sé a dimostrare, oltre ogni dubbio, la responsabilità dell’indagato e tuttavia consentono, per la loro consistenza, di prevedere che, attraverso la futura acquisizione di ulteriori elementi, saranno idonei a dimostrare tale responsabilità, fondando nel frattempo una qualificata probabilità di colpevolezza (Sez. U, n. 11 del 21/04/1995, dep. 01/08/1995, Costantino e altro, Rv. 202002, e, tra le successive conformi, Sez. 2, n. 3777 del 10/09/1995, dep. 22/11/1995, Tomasello, Rv. 203118; Sez. 6, n. 863 del 10/03/1999, dep. 15/04/1999, Capriati e altro, Rv. 212998; Sez. 6, n. 2641 del 07/06/2000, dep. 03/07/2000, Dascola, Rv. 217541; Sez. 2, n. 5043 del 15/01/2004, dep. 09/02/2004, Acanfora, Rv. 227511). A norma dell’art. 273 c.p.p., comma 1 bis, nella valutazione dei gravi indizi di colpevolezza per l’adozione di una misura cautelare personale si applicano, tra le altre, le disposizioni contenute nell’art. 192 c.p.p., commi 3 e 4, (Sez. F, n. 31992 del 28/08/2002, dep. 26/09/2002, Desogus, Rv. 222377; Sez. 1, n. 29403 del 24/04/2003, dep. 11/07/2003, Esposito, Rv. 226191; Sez. 6, n. 36767 del 04/06/2003, dep. 25/09/2003, Grasso Rv. 226799; Sez. 6, n. 45441 del 07/10/2004, dep. 24/11/2004, Fanara, Rv. 230755; Sez. 1, n. 19867 del 04/05/2005, dep. 25/05/2005, Cricchio, Rv. 232601). Si è, al riguardo, affermato che, se la qualifica di gravità che deve caratterizzare gli indizi di colpevolezza attiene al quantum di “prova” idoneo a integrare la condizione minima per l’esercizio, sulla base di un giudizio prognostico di responsabilità, del potere cautelare, e si riferisce al grado di conferma, allo stato degli atti, dell’ipotesi accusatoria, è problema diverso quello delle regole da seguire, in sede di apprezzamento della gravità indiziaria ex art. 273 c.p.p., per la valutazione dei dati conoscitivi e, in particolare, della chiamata di correo (Sez. U, n. 36267 del 30/05/2006, dep. 31/10/2006, P.G. in proc. Spennato, Rv. 234598). Relativamente alle regole da seguire, questo Collegio ritiene che, alla stregua del condivisibile orientamento espresso da questa Corte, l’art. 273 c.p.p., comma 1 bis, nel delineare i confini del libero convincimento del giudice cautelare con il richiamo alle regole di valutazione di cui all’art. 192 c.p.p., commi 3 e 4, pone un espresso limite legale alla valutazione dei “gravi indizi”.

3.1. Si è, inoltre, osservato che, in tema di misure cautelari personali, quando sia denunciato, con ricorso per Cassazione, vizio di motivazione del provvedimento emesso dal Tribunale del riesame riguardo alla consistenza dei gravi indizi di colpevolezza, il controllo di legittimità è limitato, in relazione alla peculiare natura del giudizio e ai limiti che ad esso ineriscono, all’esame del contenuto dell’atto impugnato e alla verifica dell’adeguatezza e della congruenza del tessuto argomentativo riguardante la valutazione degli elementi indizianti rispetto ai canoni della logica e ai principi di diritto che governano l’apprezzamento delle risultanze probatorie (tra le altre, Sez. 4, n. 2050 del 17/08/1996, dep. 24/10/1996, Marseglia, Rv. 206104; Sez. 6, n. 3529 del 12/11/1998, dep. 01/02/1999, Sabatini G., Rv. 212565; Sez. U, n. 11 del 22/03/2000, dep. 02/05/2000, Audino, Rv. 215828; Sez. 2, n. 9532 del 22/01/2002, dep. 08/03/2002, Borragine e altri, Rv. 221001; Sez. 4, n. 22500 del 03/05/2007, dep. 08/06/2007, Terranova, Rv. 237012), senza che possa integrare vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa e, per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze delle indagini (tra le altre, Sez. U, n. 19 del 25/10/1994, dep. 12/12/1994, De Lorenzo, Rv. 199391; Sez. 1, n. 1496 del 11/03/1998, dep. 04/07/1998, Marrazzo, Rv. 211027; Sez. 1, n. 6972 del 07/12/1999, dep. 08/02/2000, Alberti, Rv. 215331). Il detto limite del sindacato di legittimità in ordine alla gravità degli indizi riguarda anche il quadro delle esigenze cautelari, essendo compito primario ed esclusivo del giudice della cautela valutare “in concreto” la sussistenza delle stesse e rendere un’adeguata e logica motivazione (Sez. 1, n. 1083 del 20/02/1998, dep. 14/03/1998, Martorana, Rv. 210019). Peraltro, secondo l’orientamento di questa Corte, che il Collegio condivide, in tema di misure cautelari, “l’ordinanza del tribunale del riesame che conferma il provvedimento impositivo recepisce, in tutto o in parte, il contenuto di tale provvedimento, di tal che l’ordinanza cautelare e il provvedimento confermativo di essa si integrano reciprocamente, con la conseguenza che eventuali carenze motivazionali di un provvedimento possono essere sanate con le argomentazioni addotte a sostegno dell’altro” (Sez. 2, n. 774 del 28/11/2007, dep. 09/01/2008, Beato, Rv. 238903; Sez. 6, n. 3678 del 17/11/1998, dep. 15/12/1998, Panebianco R., Rv. 212685; Sez. 3, n. 8669 del 15/12/2015 – dep. 03/03/2016, Berlingeri, Rv. 266765).

3.2. Dall’analisi della motivazione dei due provvedimenti (quello impugnato del tribunale e quello del Giudice delle indagini preliminari) non si rinvengono carenze motivazionali e la tesi prospettata dal ricorrente (carenza di gravi indizi di colpevolezza ex art. 273 del cod. proc. pen.) non trova elementi certi negli atti, e né gli stessi, del resto, sono indicati nell’atto di impugnazione, e quindi sono solo ipotesi teoriche, non valutabili in sede di legittimità. Gli elementi indicati dai due provvedimenti, sono gravi, univoci e convergenti nell’indicare il ricorrente autore dei fatti, e di altri fatti anche più gravi ancora in accertamento, descritti nell’imputazione.

  1. L’ordinanza impugnata evidenzia con motivazione adeguata, non contraddittoria e senza manifeste illogicità che il ricorrente aveva anche filmato integralmente gli incontri sessuali con le donne (oltre a quelle di cui all’imputazione anche per altre donne), e dalla visione del filmato e dal contenuto del colloquio emergevano in maniera inconfutabile (documentati dallo stesso indagato con i video) i gravi indizi dei reati in contestazione. Per il capo A, art. 319 quater cod. pen. il Tribunale analizza tutto il colloquio con la prostituta e nello stesso la P. stessa usava esplicitamente il termine “abuso”, di fronte alle richieste di prestazioni sessuali senza il pagamento, e senza protezione, che la P. invece pretendeva (sia il pagamento e sia la protezione). La stessa del resto non si era recata in caserma per offrire i suoi favori sessuali, ma per denunciare una vicenda di persecuzione. Il Tribunale poi correttamente qualifica la condotta come induzione indebita, art. 319 quater cod. pen., come chiarito da questa Corte di Cassazione: “Il delitto di concussione, di cui all’art. 317 cod. pen. nel testo modificato dalla l. n. 190 del 2012, è caratterizzato, dal punto di vista oggettivo, da un abuso costrittivo del pubblico agente che si attua mediante violenza o minaccia, esplicita o implicita, di un danno “contra ius” da cui deriva una grave limitazione della libertà di determinazione del destinatario che, senza alcun vantaggio indebito per sé, viene posto di fronte all’alternativa di subire un danno o di evitarlo con la dazione o la promessa di una utilità indebita e si distingue dal delitto di induzione indebita, previsto dall’art. 319 quater cod. pen. introdotto dalla medesima l. n. 190, la cui condotta si configura come persuasione, suggestione, inganno (sempre che quest’ultimo non si risolva in un’induzione in errore), di pressione morale con più tenue valore condizionante della libertà di autodeterminazione del destinatario il quale, disponendo di più ampi margini decisionali, finisce col prestare acquiescenza alla richiesta della prestazione non dovuta, perché motivata dalla prospettiva di conseguire un tornaconto personale, che giustifica la previsione di una sanzione a suo carico. (In motivazione, la Corte ha precisato che, nei casi ambigui, l’indicato criterio distintivo del danno antigiuridico e del vantaggio indebito va utilizzato, all’esito di un’approfondita ed equilibrata valutazione del fatto, cogliendo di quest’ultimo i dati più qualificanti idonei a contraddistinguere la vicenda concreta)”. (Sez. U, n. 12228 del 24/10/2013 – dep. 14/03/2014, Maldera e altri, Rv. 258470). I vantaggi della prostituta sono correttamente individuati dal Tribunale “…sia in relazione ai controlli che ella avrebbe potuto subire ad opera dei militari dell’Arma, sia in relazione ai pericoli che sarebbero potuti provenire da clienti molesti e pericolosi”. Inoltre in altro video il ricorrente ottiene prestazioni sessuali da una sudamericana che doveva eleggere domicilio per un procedimento a suo carico per furto (rapporto orale).
  2. Per il capo B, art. 609 bis, comma 2, n. 1, e 609 septies, comma 4, n. 3 e 4 del cod. pen., il Tribunale con motivazione adeguata, non contraddittoria e non manifestamente illogica, anche qui con la visione del filmato realizzato dallo stesso indagato, ritiene che “… era impossibile per un uomo adulto non comprendere che la M. era una donna estremamente debole e suggestionabile”; inoltre la M. e l’indagato si conoscevano da molto perché collaboravano ad una manifestazione, “festa dei giochi delle porte”. La stessa poi sentita riferiva di essere stata “esplicitamente minacciata dal Brigadiere che le ricordava che lui era il Maresciallo capo e che avrebbe potuto farle avere dei problemi con la legge ed anche con i suoi genitori”. Il collegio infatti ritiene configurabile il delitto di cui all’art. 609 bis, comma 1, cod. pen. ma si rimette al P.M. per le sue determinazioni nell’esercizio dell’azione penale.
  3. Alcune considerazioni devono necessariamente svolgersi sull’uso delle registrazioni video e sonore nei casi di violenza sessuale. Nel nostro caso le stesse sono state effettuate dall’indagato, ma possono ben essere realizzate dalla stessa vittima di violenze. Le registrazioni, video e/o sonore, tra presenti, o anche di una conversazione telefonica, effettuata da uno dei partecipi al colloquio, o da persona autorizzata ad assistervi – che non commette il reato di cui agli art. 617 e 623 cod. pen., perché autorizzato, Sez. 6, n. 15003 del 27/02/2013 – dep. 02/04/2013, P.C. in proc. B, Rv. 256235 -, costituisce prova documentale valida e particolarmente attendibile, perché cristallizza in via definitiva ed oggettiva un fatto storico – il colloquio tra presenti (e tutto l’incontro, se con video) o la telefonata -; la persona che registra (o, come nel nostro caso, che viene filmata dallo stesso autore del fatto) infatti è pienamente legittimata a rendere testimonianza, e quindi la documentazione del colloquio esclude qualsiasi contestazione sul contenuto dello stesso, anche se la registrazione fosse avvenuta su consiglio o su incarico della Polizia Giudiziaria (Sez. U, n. 36747 del 28/05/2003 – dep. 24/09/2003, Torcasio e altro, Rv. 225466; Sez. 6, n. 12189 del 09/02/2005 – dep. 29/03/2005, Rosi, Rv. 231049; Sez. 5, n. 4287 del 29/09/2015 – dep. 02/02/2016, Pepi, Rv. 265624; Sez. 6, n. 16986 del 24/02/2009 – dep. 22/04/2009, Abis, Rv. 243256; Sez. 2, n. 24288 del 10 giugno 2016). Nel caso di specie non solo la vittima – La M. , sentita – è attendibile quando riferisce delle minacce, ma esiste la registrazione video del rapporto, con la M. , e anche con l’altra vittima, provvidamente effettuati dallo stesso indagato. Nel particolare caso di violenza sessuale in giudizio, le video registrazioni risultano particolarmente valide, per la ricostruzione oggettiva delle violenze. Le moderne tecniche di registrazione, alla portata di tutti, per l’uso massiccio dei telefonini smart, che hanno sempre incorporati registratori vocali e video, e l’uso di app dedicate per la registrazione di chiamate e di suoni, consentono una documentazione inconfutabile ed oggettiva del contenuto di colloqui e/o di telefonate, tra il violentatore e la vittima. La ripresa video copre a 360 gradi tutto il fatto. Nel nostro caso, come sopra visto, la registrazione è stata effettuata dallo stesso ricorrente, ma la stessa potrebbe avvenire legittimamente anche da parte della vittima. Infatti le registrazioni di conversazioni – e di video – tra presenti, compiute di propria iniziativa da uno degli interlocutori, non necessitano dell’autorizzazione del giudice per le indagini preliminari, ai sensi dell’art. 267 del cod. proc. pen. in quanto non rientrano nel concetto di intercettazione in senso tecnico, ma si risolvono, come sopra visto, in una particolare forma di documentazione, non sottoposta ai limiti ed alle formalità delle intercettazioni. Infine va ricordata l’interpretazione della Suprema Corte di Cassazione, consolidata in materia, diritto vivente. Cassazione, Sez. 6, n. 49511 del 01/12/2009 – dep. 23/12/2009, Ticchiati, Rv. 245774, che ha ritenuto: “infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 266, comma secondo, 268, comma terzo e 271, comma primo, cod. proc. pen., per violazione degli artt. 2, 13, 15, comma secondo, 13 e 24, Cost., nella parte in cui non prevedono l’estensione dei limiti di applicabilità della normativa codicistica in materia di intercettazioni telefoniche e ambientali anche alle intercettazioni di conversazioni tra presenti o al telefono svolte non solo da un estraneo, ma anche da uno degli interlocutori della conversazione medesima, trattandosi di situazioni del tutto diverse fra loro e non potendosi in alcun modo equiparare la registrazione effettuata, sia pure occultamente, da uno dei protagonisti della conversazione, all’ingerenza esterna sulla vita privata costituita dall’intercettazione svolta per opera di un terzo”).
  4. Relativamente al pericolo di recidivanza criminosa, terzo motivo del ricorso, si deve osservare che il provvedimento impugnato contiene adeguata e non contraddittoria motivazione, senza vizi di manifesta illogicità, e individua il pericolo di reiterazione dei gravi reati non solo quale appartenente ai carabinieri, ma anche “allorché agisce al di fuori di tale contesto, come nella vicenda della M. e della minore Ma. … anche se non rivestisse più la formale qualifica di Brigadiere dei Carabinieri”. Pertanto ininfluente è la sospensione dal servizio del ricorrente.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati significativi, a norma dell’art. 52 del d. lgs 196/03 in quanto imposto dalla legge.

 

Reati tributari. Sussiste il reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti se

“Il reato di emissione di fatture od altri documenti per operazioni inesistenti […] ricorra, da un lato, ove i beni o i servizi siano effettivamente entrati nella sfera giuridico-patrimoniale dell’impresa utilizzatrice delle fatture e, dall’altro lato, ove sussista l’elemento della simulazione soggettiva, ossia la rappresentazione documentale della provenienza della prestazione oggetto dell’imposizione, da un soggetto giuridico differente da quello indicato in fattura il quale, dunque, l’abbia effettivamente erogata”.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza n. 24307/17; depositata il 17 maggio

Testo della sentenza

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 19 gennaio – 17 maggio 2017, n. 24037
Presidente Amoroso – Relatore Renoldi

Ritenuto in fatto

1. A seguito di una verifica fiscale effettuata dall’Agenzia Entrate – Direzione Regionale della Liguria nei confronti della società E.R.M. S.p.A. era emerso che in occasione della cessione, da parte della predetta società, del 49% delle quote della partecipata I. S.r.l. a favore di una società olandese del gruppo russo L., era stata indicato, quale onere accessorio, il versamento della somma di 3.368.750 euro di imponibile quale corrispettivo dell’attività di mediazione svolta da F.C., legale rappresentante della F. S.r.I., la quale svolgeva attività di commercio al dettaglio di articoli di cancelleria e che in data 3/12/2008 aveva emesso, in relazione a tale operazione, la fattura n. 111 (per un importo di 4.042.500 euro, pari alla somma di 3.368.750 euro di imponibile maggiorata del 20% a titolo di IVA da corrispondere).
Il successivo controllo, eseguito nei confronti della società F. S.r.l., aveva consentito di appurare che sul conto corrente bancario alla stessa intestato era stata effettivamente accreditata, in data 18/12/2008, la somma di 3.655.093,75 euro (divergente dalla somma indicata in fattura in quanto comprensiva anche di una ritenuta di acconto a favore della F.); e che i risultati dell’operazione non erano stati, però, riportati nella dichiarazione IVA, presentata dalla società di capitali di cui era legale rappresentante l’odierno imputato.
Inoltre, da ulteriori accertamenti eseguiti dalla Guardia di Finanza era, altresì, emerso che le somme corrisposte per la ricordata provvigione erano successivamente affluite, nell’arco di circa un trimestre, sui conti personali di C., il quale aveva successivamente eseguito una serie di prelievi da tali conti. E tuttavia, lo stesso C. non aveva indicato, nella propria dichiarazione dei redditi, le somme percepite per la mediazione svolta, sicché la Guardia di finanza aveva calcolato in 1.732.661 euro l’imposta da costui evasa a titolo di IRPEF.
1.1. A seguito di tali accertamenti, la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Genova aveva, quindi, chiesto il rinvio a giudizio di F.C., ipotizzando, nei suoi confronti, i delitti di cui agli artt. 81 cpv. cod. pen., 4 del D.Igs. n. 74/2000 (capo 1), 8 comma 1 del D.Igs. n. 74/2000 (capo 2), 4 del D.Igs. n. 74/2000 (capo 3). Secondo l’ipotesi accusatoria, infatti, C., in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, nella sua qualità di legale rappresentante della F. S.r.l. ed al fine di evadere le imposte sui redditi e l’IVA, aveva per un verso omesso di indicare, nella dichiarazione annuale della società relativa all’anno 2008, le somme dalla stessa percepite ed attestate dalla fattura n. 111 del 3/12/2008 per 3.678.750,00 euro, con Iva non versata pari a 673.750,00 euro e IRES a 926.406,25 euro, e, dunque, elementi attivi per un ammontare superiore al 10% di quelli dichiarati, realizzando così un’evasione dell’imposta superiore a 103.291,38 euro (capo 1); e, per altro verso, egli aveva omesso di indicare, nella propria dichiarazione dei redditi relativa all’anno 2008, al fine di evadere le imposte Irpef, le somme percepite a titolo di provvigione per la ricordata attività di mediazione (costituenti elementi attivi di ammontare superiore 103.91,38 euro ed al 10% di quelli dichiarati), realizzando così un’evasione Irpef pari a 1.732.661 euro (capo 3). Inoltre, secondo la tesi accusatoria, al fine di realizzare quest’ultima attività illecita a proprio personale vantaggio, C. aveva fittiziamente emesso, nella sua qualità di legale rappresentante della Fin cor S.r.I., la fattura n. 111 del 3/12/2008 per 3.678.750 euro in relazione ad un’operazione soggettivamente inesistente (capo 2).
1.2. Con sentenza in data 15/01/2015, emessa all’esito di giudizio abbreviato, il Giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale di Genova aveva, quindi, condannato F.C., con la diminuente del rito e con la recidiva reiterata infraquinquennale, alla pena di quattro anni e sei mesi di reclusione, riconoscendolo colpevole dei reati, unificati dal vincolo della continuazione, contestati ai capi 2) e 3) dell’imputazione; e disponendo, altresì, la confisca per equivalente degli immobili e delle somme di denaro in sequestro fino alla concorrenza del valore di € 1.732.661,00. Con lo stesso provvedimento C. era stato, invece, assolto, con la formula “perché il fatto non sussiste”, in relazione al delitto di cui all’art. 4 del D.Igs. n. 74/2000, contestato al capo 1);
ciò sul presupposto che l’attività di mediazione, dal lato della società, configurasse un’operazione inesistente e che, di conseguenza, la F. S.r.l. non avesse, in realtà, percepito alcun reddito da tale attività.
2. Con sentenza in data 10/12/2015 la Corte di appello di Genova riformò, solo in parte, la pronuncia di primo grado, ritenendo che la E.R.M. S.p.A. avesse versato una somma pari a 387.406,25 euro a titolo di ritenuta d’acconto e che, pertanto, la somma evasa a titolo di IRPEF fosse pari a soli 1.345.254,75 euro, per l’effetto riducendo la confisca all’importo corrispondente.
3. Avverso la sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione lo stesso C., a mezzo del proprio difensore, sollecitando il suo proscioglimento in relazione al reato di cui al n. 2) del capo di imputazione, nonché l’accoglimento delle doglianze relative al trattamento sanzionatorio e la limitazione dell’ammontare dell’imposta evasa a soli 1.055.542,30 euro.
A sostegno dell’impugnazione C. ha dedotto sei motivi di censura.
3.1. Con il primo di essi, il ricorrente denuncia, ex art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen., la mancanza di motivazione in relazione al fatto che l’attività di mediazione svolta dalla E. dissimulasse, fin dall’inizio, un meccanismo volto a consentire a C. di non pagare le imposte sul reddito delle persone fisiche.
3.2. Con il secondo motivo deduce, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen., la contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione per avere la sentenza affermato che l’intera operazione sarebbe stata realizzata da C. attraverso lo schermo costituito dalla società di capitali F. S.r.l. in modo da garantire il patrimonio personale dell’imputato ed in quanto la sanzione prevista per l’omessa dichiarazione era più lieve rispetto a quella per la frode fiscale. In realtà ove C. avesse agito, fin dal principio, con il proposito di evadere le imposte sui futuri emolumenti, avrebbe operato come persona fisica e non per il tramite della società, atteso che in caso di accertamento fiscale egli sarebbe incorso soltanto nella violazione dell’art. 4 D.Igs. n. 74/2000, laddove operando, invece, come amministratore della F. sarebbe incorso, come poi avvenuto, anche nella violazione dell’art. 8 del predetto decreto.
3.3. Con il terzo motivo, il ricorrente deduce, ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e) cod. proc. pen., l’erronea interpretazione dell’art. 530 cod. proc. pen. nonché l’illogicità della motivazione con riferimento al principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio. Dopo avere ribadito le ragioni per le quali la condotta di C., quale legale rappresentante della F., avrebbe configurato una violazione della normativa fiscale IVA ed IRES e non una evasione IRPEF dello stesso imputato, realizzata quale persona fisica, il ricorso argomenta in ordine al fatto che la fattura n. 111 non sarebbe riferibile ad una operazione soggettivamente inesistente; ciò sul presupposto che tale situazione ricorrerebbe quando “uno dei soggetti dell’operazione sia rimasto del tutto estraneo alla stessa”, laddove, nel caso di specie, la F. avrebbe realmente percepito le somme pattuite per l’attività di mediazione, la quale ovviamente non avrebbe potuto che essere svolta, concretamente, da una persona fisica, individuata proprio in F.C.. Il fatto che, poi, quest’ultimo avesse effettuato una serie di prelievi dai conti correnti della società, avrebbe potuto, al più, rilevare come inadempienza ai doveri impostigli dalla sua qualità di Amministratore Unico della F. S.r.l..
3.4. Con il quarto motivo, il ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b) cod. proc. pen., l’inosservanza e/o erronea applicazione degli artt. 220 disp. att. cod. proc. pen., 191 cod. proc. pen., 234 cod. proc. pen. in relazione alla prova della sussistenza del reato di cui all’art. 8, comma 1, d.lgs. n. 74/2000. Ciò in quanto l’Agenzia delle Entrate – Direzione Regionale della Liguria, dopo che era emersa l’esistenza di indizi di reità aveva, comunque, proseguito nell’attività amministrativa di indagine ed accertamento, laddove il citato art. 220 dispone che, in tal caso, le operazioni debbano proseguire con l’osservanza delle disposizioni del codice di procedura penale. Per tale motivo, le risultanze contenute nella nota in data 6/07/2011, inviata dalla Agenzia delle Entrate, acquisite dopo la data del 16/05/2011 e fino a quella dell’inoltro della stessa, sarebbero state inutilizzabili ex art. 234, comma 2 cod. proc. pen..
3.5. Con il quinto motivo il ricorrente censura, ex art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen., la manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata in ordine alla eccesiva severità del trattamento sanzionatorio, fondata sul presupposto che l’imputato non avesse riparato l’illecito, senza però tenere conto sia del suo precedente stato detentivo, sia della sottoposizione dei suoi beni a sequestro preventivo, sia della brevità dei tempi processuali, che non gli avrebbero permesso, suo malgrado, di attivare alcuna iniziativa riparatoria.
3.6. Con il sesto motivo si lamenta, ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e) cod. proc. pen., la erronea applicazione dell’art. 4 d.lgs. n. 74/2000 e la contraddittorietà e/o manifesta illogicità della motivazione per avere la sentenza impugnata ritenuto che, quale base imponibile, sia stata correttamente indicata (ai fini delle imposte dirette), la somma di 4.042.500,00 euro comprensiva di IVA, avendo C. introitato tutto quanto aveva percepito. In realtà, dal momento che all’imputato era stata contestata la sola evasione IRPEF, non si sarebbe dovuto tenere conto dell’IVA, pari a 673.750,00 euro.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è manifestamente infondato.
2. Occorre muovere, secondo l’ordine logico, dal quarto motivo di impugnazione, con il quale si censura la violazione dell’art. 220 disp. att. cod. proc. pen..
2.1. Sul punto, rileva preliminarmente il Collegio come la nota in data 6/07/2011 dell’Agenzia Entrate – Direzione Regionale della Liguria sia stata trasmessa, secondo quanto ammesso dalla stessa difesa dell’imputato, ex art. 331 cod. proc. pen., sicché è innanzitutto infondata la tesi secondo cui essa configuri un documento extraprocessuale ricognitivo di natura amministrativa, dovendo essa essere qualificata, ai sensi del comma 4 del citato art. 331, quale denuncia, presentata dall’autorità amministrativa, di un reato perseguibile di ufficio.
Nondimeno, è invece corretto il richiamo difensivo alla previsione dell’art. 220 disp. att. cod. proc. pen., secondo cui quando nel corso di attività ispettive o di vigilanza previste da leggi o decreti emergono indizi di reato e non meri sospetti, “gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant’altro possa servire per l’applicazione della legge penale sono compiuti con l’osservanza delle disposizioni del codice”.
Pertanto, come riconosciuto dallo stesso ricorrente, la parte di documento, compilata prima dell’insorgere degli indizi, ha sempre efficacia probatoria ed è come tale utilizzabile, mentre non può assumere una siffatta valenza quella redatta successivamente, qualora non siano state rispettate le disposizioni del codice di procedura penale (v. Sez. 3, n. 7930 del 30/01/2015, Marchetti e altro, Rv. 262518).
A tale proposito questa Corte ha pure osservato come, dalla semplice lettura della norma, emerga che la stessa presuppone, per la sua applicazione, la sussistenza della mera possibilità di attribuire rilevanza penale al fatto riscontrato nel corso dell’inchiesta amministrativa e, nel momento in cui esso viene rilevato, a prescindere dalla circostanza che esso possa essere riferito ad una persona determinata (Sez. 2, n. 2601 del 13/12/2005, Cacace, Rv. 233330;
Sez. U, n. 45477 del 28/11/2001, Raineri, Rv. 220291).
Ove le richiamate condizioni si verifichino, è dunque necessario che, a pena di inutilizzabilità, vengano osservate le disposizioni del codice di rito, ma soltanto per il compimento degli atti necessari all’assicurazione delle fonti di prova ed alla raccolta di quant’altro necessario per l’applicazione della legge penale (Sez. 3, n. 7930 del 30/01/2015, Marchetti e altro, Rv. 262518; Sez. 3, n. 27682 del 17/06/2014, Palmieri, Rv. 259948). Epperaltro, se le forme del codice di procedura penale devono essere osservate soltanto ove si faccia luogo al compimento degli atti necessari alla raccolta ed all’assicurazione delle fonti di prova, ciò significa che ogni qual volta non si debba fare luogo all’espletamento di atti garantiti, non è necessario osservare le norme del codice di rito.
Al fine di stabilire quando tale condizione sussista, l’art. 114 disp. att. cod. proc. pen. prevede che “nel procedere al compimento degli atti indicati nell’art. 356 [cod. proc. pen.], la polizia giudiziaria avverte la persona sottoposta alle indagini, se presente, che ha facoltà di farsi assistere dal difensore di fiducia”.
Ciò posto, dal contenuto testuale della norma in esame emerge con chiarezza che le attività ispettive fiscali non rientrano tra quelle indicate dall’art. 356 cod. proc. pen., che l’art. 114 disp. att. cod. proc. pen., espressamente richiama. In altre parole, la disposizione in esame impone l’avviso del diritto all’assistenza del difensore solo ed esclusivamente nel caso in cui si proceda al compimento di uno degli atti indicati dall’art. 356 cod. proc. pen., il quale, a sua volta, stabilisce che il difensore della persona nei cui confronti vengono svolte le indagini ha facoltà di assistere, senza diritto di essere preventivamente avvisato, agli atti previsti dagli artt. 352 (perquisizioni) e 354 (accertamenti urgenti sui luoghi, sulle cose e sulle persone e sequestro) oltre che all’immediata apertura del plico autorizzata dal pubblico ministero a norma dell’art. 353, comma 2, cod. proc. pen.. E’ questa una elencazione tassativa, come si desume dal puntuale richiamo ai singoli atti elencati.
Consegue alle considerazioni fin qui svolte che non avendo la Corte di legittimità la possibilità di un accesso indiscriminato agli atti del procedimento penale, al fine di verificare la utilizzabilità del risultato di singole attività di acquisizione di elementi indiziari è indispensabile che il ricorso specifichi quali risultati dell’attività investigativa debbano ritenersi, per le ragioni più sopra esposte, inutilizzabili.
2.2. Orbene, nel caso di specie, la difesa di C. si è limitata a censurare tutte le attività di accertamento e di acquisizione di documenti compiute successivamente alla data del 16/05/2011, allorché l’Agenzia delle entrate aveva instaurato il contraddittorio con la Società E.R.M. allo scopo di ottenere chiarimenti in merito alla natura ed al contenuto delle mediazioni oggetto di fatturazione, ritenendosi che da tale momento potesse ritenersi acclarata l’esistenza di reati tributari quali quelli previsti dagli artt. 4 e 8, comma 1 del D.Lgs. n. 74/2000. Sotto altro profilo, poi, il ricorso non contiene alcuna indicazione in ordine alla rilevanza della dedotta inutilizzabilità del materiale probatorio, non specificando quali conseguenze deriverebbero sotto il profilo della complessiva inidoneità del materiale probatorio residuo a dimostrare la responsabilità dell’imputato per i reati a lui ascritti.
Del resto, come osservato dalla sentenza impugnata, successivamente all’inoltro della notizia di reato, il Pubblico ministero aveva conferito una delega di indagini, ai sensi dell’art. 370 cod. proc. pen., alla Guardia di Finanza, sicché i riscontri rispetto all’originaria segnalazione era provenuti, soprattutto, dall’attività investigativa successivamente posta in essere; a nulla rilevando che detta delega, come osservato dalla difesa, fosse stata rilasciata in data 27/09/2011, non essendo tale circostanza indicativa, come invece opina il ricorrente, di un’affermazione di responsabilità basata su atti d’indagine inutilizza bili.
A fronte di doglianze formulate, in sede di ricorso, in maniera del tutto generica e non essendo, dunque, possibile, alla stregua di censure assolutamente aspecifiche verificare l’incidenza, sul materiale probatorio raccolto, dei lamentati vizi di inutilizzabilità di alcuni atti (cd. prova di resistenza), deve conclusivamente rilevarsi la manifesta infondatezza della questione dedotta con il quarto motivo di impugnazione.
3. Venendo, quindi, al terzo motivo di ricorso, giova in premessa ricordare che al giudice di legittimità non è consentito ipotizzare alternative opzioni ricostruttive della vicenda fattuale, sovrapponendo la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi, saggiando la tenuta logica della pronuncia portata alla sua cognizione mediante un raffronto tra l’apparato argomentativo che la sorregge ed eventuali altri modelli di ragionamento mutuati dall’esterno (Sez. Un., n. 12 del 31/05/2000, Jakani, Rv. 216260; in termini v. Sez. 2, n. 20806 del 5/05/2011, Tosto, Rv. 250362). Ne consegue che, quando i giudici di merito abbiano motivato, alla stregua di un percorso argornentativo scevro da profili di illogicità, le ragioni di fatto poste a fondamento della propria decisione, al giudice di legittimità non è consentito censurarne, sul piano della ricostruzione dei fatti, le scelte compiute accedendo ad ipotesi alternative, ove anche dotate di un maggiore grado di persuasività.
3.1. Tanto premesso, osserva il Collegio che, nel caso di specie, i giudici di merito hanno offerto una spiegazione perfettamente logica e plausibile del complesso delle ragioni per cui si è ritenuto che C. avesse svolto l’attività di intermediazione tra la ERG e la L. non come legale rappresentante della F. S.r.I., sottolineando, in primo luogo, come le due società non avrebbero potuto certo rivolgersi, per lo svolgimento di un’attività così peculiare, che certamente richiedeva competenze anche specialistiche, ad una società costituita per commerciare, al dettaglio, articoli di cancelleria; come le somme percepite da F. fossero successivamente confluite su conti riconducibili a C. o, comunque, fatte oggetto di prelievi in contanti da parte dell’imputato; come un altro degli intermediari coinvolti nell’operazione avesse avviato una causa civile nei confronti della persona fisica di C. in relazione ad una quota della provvigione pagata da E. S.p.A. e come lo stesso C. avesse avviato, personalmente e non nella qualità di amministratore unico della F. S.r.l., un’analoga iniziativa giudiziaria nei confronti della società L.. Elementi dai quali i giudici di merito hanno tratto, in maniera del tutto logica, il convincimento, criticato genericamente con il primo motivo di ricorso, secondo cui “il meccanismo ideato nascondeva ab initio un interesse di C. a non pagare le imposte come persona fisica”, sicché la F. S.r.l. fosse servita a realizzare un’operazione fraudolenta per il fisco venendo, non a caso, subito posta in liquidazione, il 31/12/2009, una volta esaurito l’affare.
3.2. A fronte di tale ricostruzione dei fatti, attraverso cui la sentenza impugnata ha adeguatamente esplicato, con percorso motivazionale coerente ed immune da censure logiche, le ragioni per le quali ha ritenuto che C. avesse agito in proprio e non nella qualità di legale rappresentante della società formalmente investita dell’attività di mediazione, il ricorso per un verso articola delle mere censure in fatto e, per altro verso, si limita a prospettare una ipotesi alternativa e, dunque, una differente lettura del materiale probatorio, sottolineando come fosse lecito che la società avesse compiuto atti giuridici esulanti dal suo oggetto sociale (circostanza mai messa in dubbio dai giudici di merito, i quali avevano, invece, rilevato come fosse del tutto inverosimile che una società che commerciava in articoli di cancelleria fosse stata incaricata di gestire una delicata operazione di mediazione, per svariati milioni di euro, tra società operanti nel settore petrolifero) o come potessero darsi altre possibili spiegazioni della condotta tenuta da C., il quale aveva effettuato ripetuti prelievi dai conti della società.
Ne consegue, dunque, sotto il profilo illustrato, la declaratoria di manifesta infondatezza della censura, atteso che il ricorso finisce per sollecitare un controllo da parte del giudice di legittimità che pacificamente esorbita, per le ragioni già illustrate, dagli stretti confini assegnati alla sua cognizione.
3.3. Sotto altro e concorrente profilo, è manifestamente infondata l’ulteriore questione, dedotta dal ricorrente, in relazione alla non configurabilità, nel caso di specie, di operazioni soggettivamente inesistenti.
In proposito, infatti, la difesa di C., dopo avere premesso che l’operazione di mediazione nella compravendita Erg-L. era stata prevista contrattualmente, atteso che F. S.r.l. era stata incaricata con il Mediation and Service Agreement del 21/06/2008, ha sottolineato altresì come fosse destituita di fondamento l’affermazione secondo cui la stessa F. non avesse percepito alcun effettivo reddito dall’operazione, avendo la E. effettivamente versato, in data 19/12/2008, l’importo dovuto sul c/c 437380 intestato a F. S.r.I., acceso presso la Banca C.. E per tale motivo, dal momento che nessuno dei soggetti dell’operazione era rimasto del tutto estraneo alla stessa, avrebbe fatto difetto il presupposto indispensabile per configurare una operazione soggettivamente inesistente, così come richiesto dalla giurisprudenza di legittimità.
3.3.1. Tale ricostruzione è, però, giuridicamente infondata.
Ritiene, infatti, il Collegio che il reato di emissione di fatture od altri documenti per operazioni inesistenti, previsto dall’art. 8 del D.Lgs. n. 74 del 2000, pacificamente configurabile anche in caso di fatturazione solo soggettivamente falsa, ricorra, da un lato, ove i beni o i servizi siano effettivamente entrati nella sfera giuridico-patrimoniale dell’impresa utilizzatrice delle fatture (in questo caso la Erg) e, dall’altro lato, ove sussista l’elemento della simulazione soggettiva, ossia la rappresentazione documentale della provenienza della prestazione oggetto dell’imposizione, da un soggetto giuridico differente da quello indicato in fattura, il quale, dunque, l’abbia effettivamente erogata.
Tale interpretazione, infatti, è consentita, innanzitutto, sia dall’argomento testuale, fondato sull’ampiezza della previsione normativa, la quale si riferisce genericamente ad “operazioni inesistenti”; sia dall’argomento teleologico, fondato sulla considerazione per cui, anche in tali casi, è possibile conseguire il fine illecito indicato dalla norma in esame, ovvero consentire ai terzi l’evasione delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto (cfr. Sez. 3, n. 20353 del 17/03/2010, dep. 28/05/2010, Bizzozzero e altro, Rv. 247110; Sez. 3, n. 14707 del 14/11/2007, dep. 09/04/2008, Rossi e altri, Rv. 239658). Inoltre, lo stesso art. 1, comma 1, lett. a) del d.lgs. n. 74 del 2000 stabilisce che “per “fatture o altri documenti per operazioni inesistenti” si intendono le fatture o gli altri documenti aventi rilievo probatorio analogo in base alle norme tributarie, emessi a fronte di operazioni non realmente effettuate in tutto o in parte o che indicano i corrispettivi o l’imposta sul valore aggiunto in misura superiore a quella reale, ovvero che riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi”.
Ne consegue che le operazioni soggettivamente inesistenti devono ritenersi configurabili anche quando, come nel caso di specie, la fattura rechi l’indicazione di un soggetto erogatore della prestazione imponibile (nel caso di specie la F.) diverso da quello effettivo (individuato nello stesso C.). Anche in una siffatta ipotesi, del resto, il documento esprime una chiara capacità decettiva, idonea a impedire la identificazione degli attori effettivi delle operazioni commerciali, precludendo o comunque ostacolando la possibilità dell’accertamento tributario e palesando, in questo modo, un nucleo di disvalore che ne giustifica pienamente la riconducibilità all’area del penalmente rilevante.
Sulla base delle considerazioni che precedono, il terzo motivo deve ritenersi manifestamente infondato, così come i primi due motivi di ricorso, i quali attengono a profili di ricostruzione della complessiva vicenda, con particolare riguardo al carattere fraudolento dell’intera operazione, secondo il ricorrente rimasto indimostrato; sicché gli stessi debbono ritenersi confutati alla stregua delle considerazioni svolte nell’analisi del terzo motivo.
3.4. Quanto, poi, al sesto motivo di ricorso, con il quale C. lamenta l’indebito computo, ai fini della evasione Irpef contestata al capo 3) dell’imputazione, delle somme dovute a titolo di IVA, ritiene il Collegio che le censure difensive siano totalmente inconferenti.
Infatti, nel caso di specie all’imputato non è stato contestato, al predetto capo di imputazione, il mancato versamento dell’IVA, quanto piuttosto, come ben evidenziato dai giudici di merito, il fatto che l’intera somma, comprensiva anche dell’IVA al 20%, fosse stata interamente introitata dall’imputato, sicché correttamente il calcolo dell’evasione dell’imposta sui redditi delle persone fisiche ha tenuto conto anche dell’ulteriore somma percepita e non dichiarata.
Ne consegue la manifesta infondatezza del relativo motivo di censura.
3.5. Venendo, infine, al quinto motivo di impugnazione, relativo alle questioni poste con riferimento al trattamento sanzionatorio, con l’atto di appello il ricorrente ne aveva chiesto il sensibile contenimento, sollecitando una rideterminazione della pena base a partire dal minimo edittale nonché il riconoscimento delle attenuanti generiche, da considerare equivalenti alla recidiva contestata. Ed a tal fine aveva sottolineato l’illogicità della decisione del giudice di prime cure, il quale aveva attribuito rilevanza al fatto che C. non avesse attivato alcuna iniziativa riparatoria, ciò che, tuttavia, l’imputato non sarebbe stato nelle condizioni di fare, dal momento che egli era stato dapprima detenuto in Svizzera, quindi aveva patito il sequestro preventivo dei beni e, infine, si era trovato, a seguito della rapida chiusura delle indagini preliminari ed alla immediata instaurazione del giudizio abbreviato, di fronte a cadenze processuali contratte e, comunque, assai ravvicinate.
Nel rispondere a tali doglianze, la sentenza impugnata aveva affermato che C. aveva chiesto di essere giustificato dalla predetta condizione, laddove “dalle proprie colpe non si può trarre un beneficio”; ciò che, si duole oggi il ricorrente, non sarebbe stato in realtà mai sostenuto in sede di impugnazione.
Similmente, il ricorso opina che il primo gravame non abbia mai affermato, diversamente da quanto riportato nella sentenza di secondo grado, che la condizione di contumacia dell’imputato non potesse giustificare l’asserito atteggiamento “di disinteresse del C. alle conseguenze del reato”.
3.5.1. In proposito, rileva nondimeno il Collegio che la Corte territoriale ha sviluppato, a partire dalla prima censura dell’imputato, una più articolata valutazione, fondata sul fatto che, da un lato, non possa invocarsi una situazione di asserita inesigibilità di condotte riparatorie da parte di chi vi abbia dato causa e che, dall’altro lato, C. non si fosse comunque attivato, sul piano riparatorio, successivamente alla sua liberazione. Tale apprezzamento deve ritenersi del tutto immune da vizi di natura logica e, come tale, non censurabile in questa sede, essendo la valutazione compiuta dai giudici genovesi sostanzialmente incentrata sull’assenza di qualunque manifestazione di disponibilità a farsi carico, anche parzialmente, delle conseguenze delle proprie condotte illecite, con ciò essendosi fatta corretta applicazione degli indici dettati dall’art. 133 cod. pen., con particolare riguardo al n. 3 del comma 2, relativo alla rilevanza da attribuire, sul piano dosimetrico, alla condotta susseguente al reato.
3.5.2. Analogamente, il ricorso censura il passaggio motivazionale con cui la Corte aveva rigettato la parte del motivo di appello sul trattamento sanzionatorio con cui si chiedeva la determinazione di una pena base inferiore, sul presupposto che le precedenti condotte di rilevanza penale dell’imputato venissero valutate due volte: in primis al momento della determinazione della pena base e, in un momento successivo, in sede di aumento per la recidiva.
Anche in relazione a tale profilo va, nondimeno, rilevato che le censure mosse al provvedimento si fondano sulla estrapolazione di una parte della più articolata motivazione resa dalla Corte d’appello, la quale ha, invece, sottolineato come l’entità della pena base, determinata in misura pari a tre anni di reclusione, trovasse giustificazione “più ancora che nella personalità negativa del C., nell’elevato importo dell’evasione fiscale, molto superiore al milione di euro”, con ciò palesandosi la sostanziale inconferenza delle deduzioni difensive espresse sul punto nel ricorso, avendo i giudici di merito fatto buon governo dei criteri enunciati negli artt. 132 e 133 cod. pen. che orientano l’esercizio della discrezionalità nella commisurazione del trattamento sanzionatorio; esercizio non censurabile in questa sede attraverso doglianze dirette a determinare una nuova valutazione della congruità della pena, la cui commisurazione non sia frutto, come in questo caso, di mero arbitrio o di ragionamento illogico (Sez. 5, n. 5582 del 30/09/2013, dep. 4/02/2014, Ferrario, Rv. 259142).
Pertanto, anche le doglianze sviluppate con il quinto motivo di impugnazione sono manifestamente infondate.
4. Alla stregua delle considerazioni che precedono il ricorso deve essere, dunque, dichiarato inammissibile.
Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in 2.000,00 euro.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di euro 2.000 (duemila) in favore della Cassa delle Ammende.

Reati edilizi . Se v’è buona fede l’ignoranza può escludere la colpa

“Nelle fattispecie contravvenzionali la buona fede può acquistare rilevanza giuridica solo a condizione che essa si traduca nella mancanza di consapevolezza dell’illiceità del fatto e che derivi da un elemento positivo estraneo all’agente, consistente in una circostanza che induca alla convinzione della liceità del comportamento tenuto”

Testo della sentenza

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 7 febbraio – 18 maggio 2017, n. 24585
Ritenuto in fatto

  1. Con sentenza in data 4/07/2016 il Tribunale di Asti aveva assolto, con la formula “perché il fatto non costituisce reato”, M.N. , S.G. e Ma.Sa. in relazione ai reati di cui agli artt. 71 (capo a) e 93 e 95 (capo b) del d.p.r. n. 380 del 2001, per avere: la prima in qualità di committente, il secondo di esecutore ed il terzo di direttore dei lavori, eseguito opere in conglomerato cementizio armato – consistenti in un muro di confine, in piloni di sostegno del cancello, in un muretto di recinzione su strada – in violazione dell’art. 64, commi 2, 3 e 4, nonché per avere omesso di presentare allo Sportello unico per l’edilizia la denuncia delle predette opere strutturali prima del loro inizio; fatti accertati in (omissis) .

1.1. Secondo il primo giudice, infatti, pur essendo stata pacificamente dimostrata la realizzazione delle opere sopra menzionate, dall’istruttoria dibattimentale era, altresì, emerso che i manufatti, costruiti in cemento armato, non erano destinati ad assolvere alcuna funzione statica e che, per tale motivo, gli imputati avevano ritenuto di non dovere presentare preventivamente la denuncia prevista dall’art. 65 del d.p.r. n. 380/2001 per le opere in conglomerato cementizio armato, che l’art. 53, comma 1 considera come tali, appunto, solo quando assolvano ad una funzione statica. Sulla base della riportata interpretazione della normativa di riferimento, avallata dalla Circolare del Ministero dei lavori pubblici 14/02/1974, n. 11951, gli imputati si erano, dunque, consapevolmente determinati a non presentare la denuncia in questione, incorrendo in un errore scusabile, siccome indotto da una normativa suscettibile di differenti opzioni esegetiche e non potendo attribuirsi rilievo dirimente al contrario indirizzo della giurisprudenza di legittimità, che gli imputati non sarebbero stati tenuti a conoscere. 2. Avverso la predetta sentenza ha presentato ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Asti, deducendo, con un unico motivo di impugnazione proposto ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b) cod. proc. pen., l’inosservanza o erronea applicazione della legge penale in relazione alla sola contravvenzione di cui agli artt. 93 e 95 del d.p.r. n. 380 del 2001 contestata al capo b). Ciò sul presupposto che tale figura di reato sia applicabile a tutte le opere realizzate in zona sismica, indipendentemente dalla funzione statica dalle stesse svolte; e non essendo stato, per altro verso, dimostrato che gli imputati versassero, nella specie, in una situazione di errore scusabile, anche tenuto conto del consolidato indirizzo interpretativo della giurisprudenza di legittimità in materia di obblighi di informazione sulla normativa settoriale.

Considerato in diritto

  1. Il ricorso è fondato. 2. Con la fattispecie descritta al capo b) della rubrica è stato contestato agli imputati di avere omesso di presentare allo Sportello unico per l’edilizia la denuncia delle opere strutturali indicate al capo a) – consistenti di un muro di confine, dei piloni di sostegno di un cancello, di un muretto di recinzione su strada – prima di procedere al loro inizio. Come correttamente posto in luce dal ricorrente, la contravvenzione de qua sanziona, al comma 1, l’omesso preavviso scritto allo sportello unico delle “costruzioni, riparazioni e sopraelevazioni” alla cui presentazione è tenuto chiunque intenda procedervi “nelle zone sismiche di cui all’articolo 83”. Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di questa Corte il reato in contestazione resta integrato indipendentemente sia dalle caratteristiche dell’opera edilizia, che può consistere in qualsiasi intervento edilizio – con la sola eccezione di quelli di semplice manutenzione ordinaria – effettuato in zona sismica, comportante o meno l’esecuzione di opere in conglomerato cementizio armato (Sez. 3, n. 48005 del 17/09/2014, dep. 20/11/2014, Gulizzi e altro, Rv. 261155), sia dal grado di sismicità dell’area, essendo il reato de quo configurabile anche in caso di esecuzione di lavori in zona inclusa tra quelle a basso indice sismico (v. Sez. 3, n. 22312 del 15/02/2011, dep. 6/06/2011, Morini, Rv. 250369). Ne consegue che, già sotto il profilo dell’elemento oggettivo, la sentenza impugnata si mostra gravemente carente, essendosi la stessa soffermata unicamente sulle caratteristiche dell’opera in rapporto alla sua funzione statica ed ai conseguente obbligo di denuncia, senza in alcun modo affrontare il concorrente profilo della sismicità dell’area interessata dall’intervento, la quale avrebbe, dunque, imposto di ottemperare agli obblighi comunicativi. 3. Sotto altro aspetto, si è opinato, da parte della difesa degli imputati, e il primo giudice ha condiviso tale prospettazione, che gli stessi sarebbero incorsi in errore scusabile per avere deciso di non presentare la denuncia allo Sportello unico sulla base della Circolare del Ministero dei lavori pubblici 14/02/1974, n. 11951, non essendo gli stessi tenuti a conoscere il contrario indirizzo della giurisprudenza di legittimità, che affermerebbe, in siffatte ipotesi, la rilevanza penale dell’omissione della denuncia e, per converso, l’irrilevanza delle eventuali previsioni difformi da parte delle circolari amministrative. 3.1. Sul punto, osserva il Collegio che la consolidata produzione giurisdizionale di questa Corte è ormai pervenuta ad affermare, sulla scia della fondamentale sentenza n. 368/88 della Corte costituzionale, che nelle fattispecie contravvenzionali la buona fede può acquistare rilevanza giuridica solo a condizione che essa si traduca nella mancanza di consapevolezza dell’illiceità del fatto e che derivi da un elemento positivo estraneo all’agente, consistente in una circostanza che induca alla convinzione della liceità del comportamento tenuto, la prova della sussistenza del quale deve essere fornita dall’imputato, unitamente alla dimostrazione di avere compiuto tutto quanto poteva per osservare la norma violata (Sez. 3, n. 35314 del 20/05/2016, dep. 23/08/2016, P.M. in proc. Oggero, Rv. 268000; Sez. 4, n. 9165 del 5/02/2015, dep. 2/03/2015, Felli, Rv. 262443; Sez. 3, n. 42021 del 18/07/2014, dep. 9/10/2014, Paris, Rv. 260657; Sez. 3, n. 49910 del 4/11/2009, dep. 30/12/2009, Cangialosi e altri, Rv. 245863; Sez. 3, n. 46671 del 5/10/2004, dep. 1/12/2004, Sferlazzo, Rv. 230889; Sez. 3, n. 12710 del 29/11/1994, dep. 21/12/1994, D’Alessandro, Rv. 200950). Ciò sul presupposto che gli inderogabili doveri di solidarietà sociale stabiliti dall’art. 2 Cost. impongono al destinatario di una determinata normativa di adempiere a stringenti oneri informativi, i quali richiedono che, prima di porre in essere l’attività disciplinata da specifiche disposizioni, egli si adoperi per sciogliere i dubbi che eventualmente concernano il lecito svolgimento di essa o le particolari modalità previste per la sua esecuzione. Ora, se per un verso non può in assoluto escludersi che la presenza di determinate circolari amministrative possa contribuire a delineare un quadro regolativo confuso e scarsamente idoneo a orientare il comportamento dei consociati (rientrando, l’ipotesi delle circolari, tra gli esempi offerti dalla citata sentenza n. 364/88 per configurare una situazione di scarsa perspicuità dell’assetto normativo, tale eventualmente determinare un errore scusabile), deve nondimeno rilevarsi che, nel caso di specie, le circolari invocate riguardavano, come già osservato (v. supra § 2), tutt’altro oggetto rispetto alla problematica che viene, qui, in rilievo: ovvero l’obbligatorietà della preventiva denuncia di opere in cemento armato inidonee ad assolvere una funzione statica e non, come invece sarebbe stato necessario, l’obbligatorietà della comunicazione connessa alla sismicità dell’area interessata dall’intervento edificatorio. Consegue a quanto appena rilevato che, in ogni caso, anche sotto questo dirimente profilo, deve escludersi qualunque rilevanza, sotto il profilo scusante, a quanto stabilito dalla cennata circolare e, corrispondentemente, al convincimento maturato dagli imputati alla stregua delle sue disposizioni. 4. Alla luce delle considerazioni che precedono, il ricorso deve essere accolto, sicché la sentenza impugnata deve essere annullata limitatamente al reato di cui al capo b), con rinvio ai Tribunale di Asti.

P.Q.M.

annulla la sentenza impugnata limitatamente al reato di cui al capo b) e rinvia al Tribunale di Asti.

Abuso edilizio. Tribunale di Milano di Milano, Sez. IV, 23 novembre 2016, n. 12549

“Il silenzio dell’amministrazione competente successivo alla presentazione di una denuncia di inizio attività ed alla revoca di un’ordinanza di sospensione di lavori non può ingenerare un errore di diritto scusabile quando l’attività professionale dell’agente (nella specie, direttore dei lavori) presupponga la conoscenza della normativa di settore ed il suo comportamento sia sintomatico dell’inosservanza dell’obbligo di adeguata informazione per conseguire la conoscenza della legislazione vigente in materia”

Nel caso sottoposto recentemente all’attenzione del Tribunale di Milano è stato contestato ad un direttore lavori, nonché progettista, il reato previsto e punito dagli artt. 110 c.c. e 44 co 1 lett. a) e b) D.P.R. 380/2001, per aver realizzato, in concorso con il proprietario di un immobile, lavori edili non ammissibili, in forza di un permesso di costruire poi annullato dalla Amministrazione Comunale perché ritenuto dalla medesima illegittimo.

All’imputato, inoltre, veniva contestato il fatto d’aver proseguito i lavori edificatori malgrado la notifica di un ordine di sospensione dei lavori, emesso dallo Sportello Unico per l’Edilizia del Comune di Milano.

La vicenda trae origine da un procedimento amministrativo suddivisosi in alcune determinanti tappe:

1) con permesso di costruire n. 153 del 02.03.2007, il Comune di Milano aveva autorizzato un intervento edilizio di manutenzione straordinaria, consistente nel frazionamento in due unità, di un’unità immobiliare posta su due livelli di un immobile.

2) in data 01.07.2008, alcuni condomini dell’immobile dello stabile con esposto inviato all’AC, alla ASL e ai Vigili del Fuoco di Milano, e per conoscenza alla Procura della Repubblica, contestavano l’idoneità del titolo edilizio-permesso di costruire.

3) Il Comune di Milano, dopo un procedimento volto all’annullamento d’ufficio del permesso di costruire annullava il precedente provvedimento autorizzatorio in data 06.02.2012.

4) Con sentenza dell’08.11.2012 il TAR della Lombardia annullava il provvedimento dell’AC di annullamento del permesso di costruire del 06.02.2012, su ricorso dell’imputato.

Quanto al reato di cui all’art. 44 comma lett. a), il Tribunale di Milano, nel mandare assolto il progettista, nonché direttore dei lavori, afferma, in coerenza con la più recente giurisprudenza di legittimità, l’astratta imputabilità dei reati urbanistici in capo all’esecutore di opere edili, anche se eseguiti sulla base di un permesso di costruire successivamente ritenuto illegittimo per violazione da parte dell’Amministrazione delle disposizione di cui al T.U. 380/2001 ( si veda Corte di cassazione n. 11045 del 18/2/2015).

Ciononostante, il Giudice osserva che nel caso di specie manca la prova della palese illegittimità del titolo sulla base del quale sono stati eseguiti i lavori edilizi; assenza, questa, che si riflette sul profilo della consapevolezza dell’imputato.

Quanto al diverso reato di cui all’art. 44 comma 1 lett. b), inerente la prosecuzione dell’attività edificatoria nonostante l’ordine di sospensione, il Tribunale ravvisa l’inesistenza di elementi probatori che attestino lo status dei locali al momento della notifica della sospensione.

A tale conclusione assolutoria il Giudice di merito giunge pur confermando la natura di reato di pericolo istantaneo della fattispecie de qua, da ritenersi consumato all’atto e nel luogo di oggettivo accertamento della realizzazione di lavori ad opera dell’agente in spregio alla pregressa emissione di un provvedimento inibitorio all’uopo notificato dal competente Ufficio Tecnico Comunale.

 

Dott. Matteo Gambarati (Studio Legale Orlandi)

 

TRIBUNALE DI MILANO

 

SEZIONE 4° PENALE

Composto dai Sigg. Magistrati

Dr.                     Oscar MAGI                 Giudice

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa penale contro

………………nata il 23/07/1964 a Milano, elettivamente domiciliata c/o

lo studio dell’aw. Andrea Orabona, libera, assente.

Difesa di fiducia dall’avv. Andrea Orabona, del foro di Milano, con studio in Milano vìa Francesco Sforza n. 15.

IMPUTATA

In concorso con ……..nei cui confronti si è proceduto separatamente .

 p.p. dagli art.li 110 e 44 co 1 lett a e b) D.P.R. 380/2001, perché, in concorso tra loro, quale  proprietario, quale progettista e quale  direttore dei lavori

realizzavano lavori edili ucl locale scmfnlcrrnlo in contrasto coi* le nonne del D.P.H. 380/2001, in forza del permesso di costruire 11. 153 del 02.03.2007 ( avente ad oggetto l’esecuzione delle seguenti opere di manutenzione straordinaria: frazionamento dell’unità immobiliare posta so due livelli ad uso laboratorio in due unità immobiliari con cambio di destinazione d’uso delle stesse , l’unità ai piano rialzato viene destinala ad uso abitazione e l’unità al piano seminterrato c destinala ad uso studio privalo…”), lavori non ammissibili nel locale seminterrato, indicato falsamente quale “laboratorio” invece di “deposito” nella relazione tecnica descrittivi] delle opere a firma deH’arch. €SSSKS8BDSG3B del <1.12.06, allegata alla richiesta di rilascio del permesso di coslmirc presentata il 6 12 06 allo Sportello Unico per l’edilizia del Comune di Milano, permesso poi annullato in data 6.2,12 per la non abitabilità/agibilità degli spazi al piano seminterrato, con ordine di demolizione delie opeie edilizie abusivamente realizzate ed il ripristino dello stalo quo ante desistendo dall’uso con pcrinane.nzH di persone del piano seminici rato entro il termine perentorio di 90 giorni

e comunque li proseguivano nonostante l’ordine di sospensione dei lavori emesso dal Settore Sportello Unico per l’Edilizia del Comune di Milano il 06.11. 2008 (notificalo il 17.11.08) e rinnovato in data 25.02 2009. In particolare, con i riferimento al piano seminterrato  come da sopralluogo del 03.03.09 c 19 12.11 della Polizia Locale di Milano; in particolare, con riferimento ili piano seminici rato, realizzavano, nonostante l’ordine di sospensione, opere edilizie consistile nella completa rislruttinazionc dei locali, con nuova suddivisione degli spazi, posa parquet di alla qualità in tutte le stanze, inslnilazione di sanitari sospesi, piano lavabo in cristallo e posa mosaici nel locale adibito a bagno, costruzione di scala in muratura e legno, posa di poile in legno, nuovo impianto elcttiico con illuminazione a faretli, nonché islallazionc di impianto di condizionamento; quest’ultinii lavori di finitura proseguili anche successivamente all’ordine di sospensione.

In Milano in epoca anteriore c prossima al 19.12.11

CONCLUSIONI

All’udienza del 23 novembre 2016 le parti concludono come da relativo verbale | d’udienza.

MOTIVAZIONI:

Con decreto di citazione diretta a giudizio del 7/03/201 ……..                  in qualità di

progettista e direttrice dei lavori delle opere edilizie contestato nell’imputazione, veniva chiamata a rispondere del reato in epigrafe descritto, in concorso con f||f|f|fc|uale proprietario dei locali.

Il procedimento si è svolto in assenza dell’odierna imputata .

All’udienza del 13/04/2016 la difesa di……………………………..                munita di procura

speciale, chiedeva procedersi nelle forme del rito abbreviato condizionato a produzioni documentali ed il Tribunale disponeva in conformità; la posizione era, dunque, stralciata con n. 4385/16 R.G. Trib. e giudicata con sentenza n. 8502 del 11 luglio 2016 avanti alla dott.ssa Amicone.

la difesa dell’odierna imputata all’udienza del 13/07/2016 prestava, invece, il consenso all’acquisizione degli atti del PM e rappresentava al Giudice che il procedimento a carico di………..si era concluso con una sentenza di assoluzione perché il fatto non sussiste.

All’odierna udienza, esaurita la discussione, le parti concludevano come in atti, e il Tribunale dava lettura del dispositivo.

Si riportano i passi salienti della motivazione della sentenza n. 8502/16 della dott.ssa Amicone a carico di^^p^pé^^nel procedimento n. 4385/16 R.G. Trib.

(…) Al fine di ricostruire la vicenda di cui è processo, occorre previamente ricordare le tappe del procedimento amministrativo di cui è processo:

  • Con permesso di costruire n. 153 del 2,3.2007, il Comune di Milano aveva autorizzato l’intervento edilizio di manutenzione straordinaria, consistente nel frazionamento in due unità, di un’unità immobiliare posta su due livelli nell’immobile d j|ji3gli|§i|^p.
  • Il Comune aveva contestualmente autorizzato, oltre al frazionamento il cambio d’uso da uso laboratorio per le duo nuove unità; quella posta al piano terreno, ad uso abitazione, e quella posta nel piano seminterrato ad uso studio privato.
  • Con successiva istanza di permesso di costruire in variante in data 8.11.2009 veniva richiesto dalla proprietà alcune modifiche delle opere, interne ed esterne, tra cui un collegamento tra le due distinte nuove unità immobiliari, e In data 1.7,2008, alcuni condomini dell’immobile dello stabile, con esposto inviato all’ A.C., alla ASL e ai Vigili del Fuoco di Milano, e per conoscenza alla Procura della Repubblica contestavano l’idoneità del titolo edìlizio-permesso di costruire relativo ad intervento di manutenzione straordinaria- ai fini dell’esecuzione di dette opere, che sostanzialmente comportavano l’aumento di s.l.p. trasformando il laboratorio in studio privato, e quindi in locale destinato alla permanenza di persone, e In data 10.11.2008, il Comune di Milano ordinava la sospensioné dei lavori e avviava il procedimento volto all’annullamento d’ufficio del pernfessò’di costruire in relazione alla sua inidoneità a consentire interventi del genere di quelli richiesti, e A seguito di sopralluogo ai fini della effettuazione della notifica de! provvedimento, in data 17.11.2000 (cfr, doc. 7 difesa) l’istr. Di PI, Scaltro Roberto comunicava allo SSUE che i lavori erano stati sospesi « Il permesso a costruire veniva annullato in data 6.2,2012.

« Con sentenza dell’8.11.2012 il Tar della Lombardia annullava il provvedimento dell’AC di annullamento del permesso a costruire del 6.2.2012, su ricorso dell’imputato, osservando che tale provvedimento, emesso dopo cinque anni dal rilascio del permesso a costruire, non risultava emanato entro un periodo di tempo ragionevole, e peraltro era privo di idonee e congrue valutazioni in ordine agli interessi del destinatario e degli interessati.

(…) La citata pronuncia de) TAR dell’8.11.2012, che ha annullato il provvedimento di annullamento del permesso di costruire, non ha sancito infatti la legittimità di quest’ultimo permesso, ma si è limitata a statuire l’illegittimità del suo annullamento, in quanto non emanato entro un periodo di tempo ragionevole, e senza idonee e congrue valutazioni in ordine agli interessi del destinatario e degli interessati.

Ciò detto, la prima questione posta all’attenzione del TribunaÌe, la Illegittimità del permesso a costruire n. 153 del 2.3.2007, o quanto meno, la sua intellegibilità per il committente, atteso che la penale responsabilità per reati edilizi non è esclusa neppure a fronte di attività edilizia effettuata in forza di provvedimento amministrativo illegittimo[1].

Nel dettaglio, come rilevato dal TAR nella citata pronuncia, l’immobile aveva validamente ottenuto, a seguito de] condono del 1986, richiesto rial precedente proprietario, la destinazione a laboratorio, sia al piano terra che al seminterrato.

Tale assunto è palesemente contraddetto dalle motivazioni dcH’annullamento del permesso che esclude l’operatività del condono, e della conseguente destinazione a laboratorio, per i locali posti al piano seminterrato.

Ma così non è, come osservato dal TAR posto che l’AC non poteva, nel 2008, retroagire annullando gli effetti del condono concesso nel 1986.

Già la modifica della destinazione ad uso laboratorio implica in aumento di s.l.p. (cfr. provvedimento citato annullato del 6.11.2008 7 sussegue/iti atti prodotti aU’Anmiinistrazione per ottenere i titoli abilitativi successivi,..dichiarano per i locali posti al seminterrato un uso laboratorio, generando così un aumento di superficie lorda di pavimento (leggasi aumento di volumetria) che ab origine non esisteva.”)

Con la richiesta di permesso a costruire n. 153 del 2007, pertanto, l’istante non realizzava l’aumento di s.l.p., in quanto già preventivamente ottenuta dal suo dante causa con la domanda di condono.

Del resto, comunque, la modifica della destinazione del seminterrato da laboratorio a studio privato non si traduce necessariamente, a giudizio del Tribunale, in modifica comportante aumento di s.l.p., atteso che, come del resto rilevato anche dalla Corte d’Appello di Milano, sez, I Civile[2] anche tale uso implica una permanenza, sia pure non a fini abitativi, di persone.

Manca pertanto nel caso di specie la prova della palese illegittimità del titolo, destinata a riflettersi nella consapevolezza da parte dell’imputato, che peraltro risulta semplice committente dei lavori.

Quanto alla seconda parte dell’imputazione, inerente alla prosecuzione dell’attività edificatoria nonostante gli intervenuti ordini di sospensione, nessuna conferma dell’accusa emerge in atti, principalmente perché manca una sicura attestazione della situazione dei locali al momento della notifica della sospensione; né dalla documentazione fotografica prodotta, inerente allo stato dei luoghi del 19.12.2011, emerge una sicura conferma quanto ai lavori edili ivi documentati, con riferimento alla loro data di effettuazione.

Nessun rilievo, ha evidentemente al riguardo, la situazione del mobilio ivi ritratto.

Lo stesso dicasi con riferimento alla istallazione del servizio igienico che, come efficacemente rilevato dalla difesa, risulta esser stato posizionato già nel 2009, come emerge dalla già citata sentenza della Corte d’Appello.

E’ appena il caso di osservare che l’esatta constatazione dei luoghi al momento della notifica della sospensione dei lavori costituisce presupposto indispensabile per la verifica della responsabilità dell’imputato per l’inosservanza dell’ordine medesimo3. Alla luce delle suesposte considerazioni, va esclusa la penale responsabilità per il reato contestato, dell’imputato, che va assolto mancando la prova del latto tipico, perché il fatto non sussiste.

Questo Giudice ritiene di dover aderire integralmente alla motivazione sopra riportata della sentenza a carico di……………..                                                              poiché la vicenda contestata è la medesima , pertanto non vi sono difformità di sorta a carico della posizione della imputata………..deve, dunque, essere assolta poiché il fatto

PQM

Visto l’art, 530 c.p.p,

ASSOLVE

dal reato ascritto perché il fatto non sussiste

INDICA

in giorni 30 il termine di deposito della motivazione della sentenza.

Milano

Il Giudice

 

[1]2  In tema di reati urbanistici, il silenzio della amministrazione competente successivo alla presentazione di una denuncia di inizio attività e alla revoca di una ordinanza di sospensione dei lavori non può ingenerare un errore di diritto scusabile quando l’attività professionale dell’agente (nella specie, direttore dei lavori) presupponga la conoscenza della normativa di settore e il suo comportamento sia sintomatico della inosservanza dell’obbligo di adeguata informazione per conseguire la conoscenza della legislazione vigente in materia. (Sez. 3, n. 11045 del 18/02/2015 – dep. 16/03/2015, De Santis e altro, Rv. 263288)

[2]3 doc. 2 difesa, p. 6 e ss.

31 atteso che il condominio di via Crivelli contestava in giudizio l’illeceità dell’allacciamento alla rete fognaria condominiale dei servizi igienici installati ne! piano seminterrato.