Mese: settembre 2023

Arbitrato e appalto, è invalido il lodo emesso dal collegio arbitrale durante l’arco di tempo concesso al commissario liquidatore della procedura concorsuale per decidere se subentrare nel contratto d’appalto

Cassazione civile Sez. un., 23/02/2023, n.5694

IL CASO. La decisione di rimessione alle SSUU prendeva le mosse da un ricorso promosso avverso alla sentenza con cui la Corte di Appello di Bologna aveva rigettato l’impugnazione di un lodo arbitrale con cui il collegio arbitrale aveva accolto alcune delle domande proposte dalla committente e rigettato la domanda di risoluzione del contratto di subappalto. Il collegio non sarebbe stato a conoscenza del fatto che, in pendenza della procedura arbitrale, la committente era stata posta in liquidazione coatta amministrativa.
Nell’ordinanza di rimessione la Seconda Sezione della Corte prospetta la soluzione sulla base di alcuni precedenti delle stesse Sezioni Unite, in cui si affermava che l’effetto attributivo di cognizione, scaturente dalla clausola arbitrale, sarebbe stato paralizzato dall’inevitabile assorbimento di tali tipologie di giudizio nello speciale procedimento di verifica dello stato passivo, con la conseguenza che l’accertamento di crediti vantati nei confronti di una parte sottoposta a fallimento o ad amministrazione straordinaria non avrebbe potuto essere devoluta al collegio (cfr. Cass., SS.UU., 21 luglio, 2015, n. 15200).
Una soluzione come quella descritta appare, infatti, funzionale alla garanzia di realizzazione del simultaneus processus, in quanto consente il contraddittorio in un solo giudizio di tutti i creditori del debitore insolvente.
In sintesi con la pronuncia sono stati espressi i seguenti principi:
1) Il giudizio arbitrale promosso sulla base della clausola compromissoria accessoria ad un appalto e per l’accertamento di un credito da esso dipendente, diviene improcedibile al sopraggiungere della messa in liquidazione coatta amministrativa di una delle parti del contratto (nella specie, l’appaltatore), stante l’esclusività dell’accertamento del passivo nella sede concorsuale cui è comunque tenuta, ai sensi degli artt. 52 e 93 l. fall., la parte creditrice (nella specie, il committente), se il rapporto è ancora pendente, cioè non esaurito ai sensi dell’art. 72 l. fall.
2) Il lodo ciononostante emesso, prima della scadenza del termine di 60 giorni assegnato dall’art. 81 l. fall. all’organo concorsuale per dichiarare il proprio eventuale subentro nel contratto-presupposto e senza che siffatta dichiarazione sia intervenuta, è nullo, con conseguente inettitudine a produrre effetti nei confronti della procedura concorsuale, in quanto lo scioglimento dell’appalto in conseguenza dell’apertura del concorso realizza un effetto legale ex nunc, solo risolutivamente condizionato alla decisione di subentro del commissario fin quando è possibile,  e così gli arbitri, nella fattispecie, difettano di potestas judicandi;
3) l’apertura della procedura concorsuale in pendenza del rapporto determina altresì, secondo la regola generale dell’art. 72, comma 6, l. fall., valevole anche per l’appalto, la inefficacia della clausola negoziale che ne fa dipendere la risoluzione da tale evento.

 

Per la lettura del testo integrale della sentenza accedere al seguente link:     https://www.italgiure.giustizia.it/xway/application/nif/clean/hc.dll?verbo=attach&db=snciv&id=./20230223/snciv@sU0@a2023@n05694@tS.clean.pdf

La protezione dei pagamenti da revocatoria fallimentare. I pagamenti effettuati nei termini d’uso

Cass. Civ., Sez. I, 26 aprile 2023, n. 10997, ord.

L’art 67 della Legge Fallimentare ( ora ridefinita Legge della crisi d’impresa) esclude da revocabilità, in caso di insolvenza dichiara dell’impresa ( id est fallimento, concordato, liquidazione coatta amministrativa), il pagamenti operati dall’impresa insolvente anche nell’arco degli ultimi sei mesi che precedono la dichiarazione d’insolvenza, se i pagamenti stessi sono effettuati “nei termini d’uso”. La giurisprudenza si è cimentata, quindi, nel compito di interpretare tale espressione posto che accade sovente che le imprese in difficoltà pagano in modo irregolare.  Accade nella prassi, infatti, che le imprese in difficoltà chiedano di modificare i termini di pagamento, peggio, adempiano in modo irregolare.
L’argomento è stato affrontato con un recentissimo arresto della Suprema Corte di Cassazione, la sentenza n.  10997/2023, con il quale è stato enunciato il seguente principio:
“L’effetto dell’esenzione dell’art. 67, terzo comma, lett. a), l. fall., è quello di rendere non revocabili quei pagamenti i quali, pur avvenuti oltre i tempi contrattualmente prescritti, siano stati di fatto eseguiti ed accettati in termini diversi, nell’ambito di plurimi adempimenti con le nuove caratteristiche, evidenziatesi già in epoca anteriore a quelli de quibus.  Ai fini dell’accertamento, il Giudice dovrà valutare la sussistenza di una prassi invalsa tra le parti in epoca prossima ai pagamenti revocandi.”

IL CASO. La Corte d’Appello di Perugia, ribaltando la sentenza di primo grado resa dal Tribunale di Terni, dichiarava la revocabilità di una serie di pagamenti, escludendo l’applicabilità dell’esenzione di cui alla lett. a) del comma 3, dell’art. 67, l.fall. Per la Corte, infatti, la circostanza che i pagamenti fossero avvenuti con un ritardo sempre maggiore rispetto a quello ritenuto “solito”, portava ad escludere la possibilità di ritenere tali ritardi nei termini d’uso, come ulteriormente comprovato  dai numerosi solleciti inviati dalla Società Alfa, creditrice, alla Società Beta, debitrice.
Sussisteva, inoltre, la scientia decoctionis dell’accipiens ( n.d.r.  la consapevolezza dello stato di decozione da parte del creditore), comprovata da elementi presuntivi quali (i) articoli di stampa; (ii) risultanze di bilancio; (iii) rifiuto del revisore di esprimere il proprio parere sul bilancio; (iv) attivazione della cassa integrazione; (v) sospensione delle forniture e interruzione dell’attività produttiva.
La società Alfa, accipiens condannata alla restituzione degli importi ricevuti, ricorreva in cassazione, chiedendo la riforma della sentenza della Corte perugina, assumendo l’erroneità del decisum del Giudice nella misura in cui aveva escluso l’applicabilità dell’esenzione prevista dall’art. 67, co. 3, lett. a), l.fall.

La Corte di Cassazione, in accoglimento del ricorso della Società Alfa, ha cassato la sentenza impugnata e disposto il rinvio alla Corte d’Appello di Perugia, in diversa composizione.

In particolare, la Corte ha statuito che il giudice d’appello, pur essendo tenuto a verificare l’esistenza di una prassi anteriore, adeguatamente consolidata e stabile, non si è preoccupato di accertare quale fosse la consuetudine negoziale invalsa fra le parti in un’epoca prossima ai pagamenti revocandi, arrestando la propria analisi a condotte risalenti a quattro anni addietro e dunque non significative della “normalità” di un atto di adempimento compiuto in coerenza con la pratica esistente al momento della sua esecuzione. La motivazione del giudice a quo, che risultava contraddittoria e viziata dall’omesso esame della documentazione relativa ai pagamenti avvenuti in epoca più recente, doveva dunque essere riformata.

Il testo della sentenza 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

RILEVATO

che:

  1. Il Tribunale di Terni, con sentenza n. 355/2017, respingeva la domanda proposta D.Lgs. n. 270 del 1999, ex art. 49 e L.Fall., art. 67 da BETA s.p.a. in a.s. nei confronti di ALFA s.p.a., avente ad oggetto la revoca dei pagamenti effettuati dalla società in bonis in favore della convenuta nei sei mesi anteriori alla dichiarazione di insolvenza, ritenendo che gli stessi fossero stati effettuati nei termini d’uso fra le parti e rientrassero così nell’esenzione prevista dalla L.Fall., art. 67, comma 3, lett. a).
  2. La Corte d’appello di Perugia ha accolto l’appello proposto dall’A.S. contro la decisione. Ha rilevato che, benché sin dal 2005 BETA avesse iniziato a pagare le forniture con ritardo, contenuto però entro un termine di venti – trenta giorni, “al 2007, e quindi al semestre antecedente alla dichiarazione dello stato di insolvenza, i ritardi erano sempre aumentati, sino ad arrivare agli ottanta e ai novanta giorni delle fatture relative ai pagamenti oggetto del giudizio” (così, testualmente, la sentenza alla pag. 4, 2 cpv).

Ha quindi ritenuto che simili ritardi non rientrassero nei termini d’uso, come del resto comprovato dai numerosi solleciti (di cui avevano esaustivamente riferito i testi escussi) che ALFA, per il tramite di suoi dipendenti, aveva provveduto a inviare a BETA nell’ultimo periodo.

Ha poi affermato che i medesimi solleciti dimostravano la scientia decoctionis della compagine appellata.

Ha aggiunto che la prova della sussistenza del presupposto soggettivo dell’azione emergeva da ulteriori, plurime circostanze conosciute nel mondo produttivo (articoli di stampa che trattavano della precaria situazione della BETA; pubblicazione del bilancio al 31 dicembre 2008 della società; rifiuto di KPMG di esprimere il proprio parere sul bilancio per l’anno successivo; attivazione della cassa integrazione per i dipendenti; sospensione delle forniture e interruzione dell’attività produttiva).

Ha pertanto dichiarato l’inefficacia dei pagamenti dedotti in giudizio, per l’importo di Euro 41.600, e ha condannato ALFA a restituire alla procedura appellante la somma predetta, maggiorata degli interessi legali dalla data della domanda al saldo.

  1. ALFA s.p.a. ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza, pubblicata il 7 giugno 2019, prospettando sei motivi di doglianza, ai quali ha resistito con controricorso BETA s.p.a. in a.s..

Parte ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c..

 

CONSIDERATO

che:

4.1 Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione della L.Fall., art. 67, commi 2 e 3, lett. a): la corte d’appello, pur riconoscendo che i ritardi nei pagamenti di BETA risalivano al 2005, ed erano arrivati nel 2007 a 80/90 giorni, ha negato che rientrassero nei termini d’uso i pagamenti di cui era stata richiesta la revoca, che erano avvenuti con un ritardo della medesima consistenza; i giudici distrettuali, a dire della ricorrente, non hanno tenuto conto che la sentenza dichiarativa dell’insolvenza di BETA è stata emessa il 18 maggio 2011, e che dunque il cd. periodo sospetto non risaliva al 2007, ma, dovendo essere calcolato a ritroso da tale data, si arrestava al 17 novembre 2010, oppure hanno limitato la valutazione dei termini d’uso esistenti fra le parti al periodo anteriore al 2007.

4.2 Il secondo motivo di ricorso lamenta la violazione e falsa applicazione degli art. 116 c.p.c., L. fall., art. 67, commi 2 e 3, lett. a): la corte d’appello – in tesi – non avrebbe compiuto un prudente apprezzamento delle prove disponibili, omettendo di analizzare compiutamente tutti i pagamenti intervenuti fra le parti dal 2005 al 2010 ai fini della valutazione in concreto dei termini d’uso esistenti e limitando la propria disamina sino al 2007; i giudici distrettuali, inoltre, avrebbero dato indebita prevalenza, nella individuazione dei termini d’uso, alle dichiarazioni testimoniali rese dai soli testi della procedura appellante, escludendo invece la valutazione sia delle prove documentali, sia delle prove testimoniali offerte a tal fine da ALFA.

4.3 Il terzo motivo di ricorso denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omessa valutazione di fatti storici decisivi risultanti dagli atti di causa, costituiti, fra l’altro: i) dalla documentazione relativa a tempi e modalità di pagamento delle fatture adottati dalle parti nel periodo ricompreso fra il 2005 e il 2010; ii) dall’insussistenza di solleciti scritti; iii) dalle dichiarazioni testimoniali dei testi di ALFA.

4.4 Il sesto motivo di ricorso adduce la nullità della sentenza impugnata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per violazione degli art. 116 c.p.c. e L.Fall., art. 67: la sentenza impugnata sarebbe viziata da incoerenza e illogicità nella parte in cui ha ritenuto i pagamenti tardivi come non rientranti nei termini d’uso, pur avendo riconosciuto che fra le parti i pagamenti avvenivano in ritardo sin dal 2005.

  1. I motivi, da esaminarsi congiuntamente e in via prioritaria, in applicazione del principio della ragione più liquida, sono fondati, nei termini che si vanno ad illustrare.

5.1 Questa Corte ha già avuto modo di precisare (cfr. Cass. 27939/2020), in termini che questo collegio condivide appieno, che l’eccezione posta dalla L.Fall., art. 67, comma 3, lett. a), va intesa “nel senso che, pur quando le modalità di pagamento siano estranee alla previsione della relativa clausola contrattuale, il pagamento resta fermo ed efficace tutte le volte che fra le parti si sia instaurata una prassi anteriore – adeguatamente consolidata e stabile, così da potersi definire tale – volta a derogare a quella clausola contrattuale ed introdurre, come nuova regola inter partes, il pagamento nei termini diversi e più lunghi”.

“L’effetto della disposizione di esonero e’, in definitiva, che non sono revocabili quei pagamenti i quali, pur avvenuti oltre i tempi contrattualmente prescritti, siano stati di fatto eseguiti ed accettati in termini diversi, nell’ambito di plurimi adempimenti con le nuove caratteristiche, evidenziatesi già in epoca anteriore a quelli de quibus:

tanto che non possano più, a quel punto, ritenersi pagamenti eseguiti “in ritardo”, ossia inesatti adempimenti, ma siano divenuti per prassi, proprio al contrario, esatti adempimenti: con tutte le conseguenze relative all’inesistenza di un inadempimento dell’altro contraente (in ordine alla mora, all’art. 1460 c.c., all’azione di risoluzione, al risarcimento del danno, ecc.)”.

La norma, quindi, richiede la dimostrazione “della consistenza della quotidianità sotto il profilo delle modalità di adempimento invalse fra le parti, al fine di consentire al giudice di apprezzare se le parti nel caso di specie si fossero scostate dai termini consueti fino ad allora seguiti” (Cass. 9851/2019).

5.2 La corte di merito, chiamata a verificare la revocabilità di due pagamenti effettuati all’interno del periodo sospetto (pacificamente decorrente a ritroso dal 18 maggio 2011), ha sovvertito la decisione di primo grado, che aveva ravvisato l’esistenza dei presupposti dell’esenzione prevista dalla L.Fall., art. 67, comma 3, lett. a), facendo riferimento al fatto che i ritardi invalsi nella prassi negoziale, sempre contenuti tra i venti e i trenta giorni a partire dal 2005, “approssimandosi, invece, al 2007” “erano sempre aumentati fino ad arrivare agli ottanta e ai novanta giorni delle fatture relative ai pagamenti oggetto del presente giudizio”.

Una simile valutazione risulta viziata, innanzitutto, perché il giudice d’appello, pur essendo tenuto a verificare l’esistenza di una prassi anteriore, adeguatamente consolidata e stabile, non si è preoccupato di accertare quale fosse la consuetudine negoziale invalsa fra le parti in un’epoca prossima ai pagamenti revocandi, arrestando la propria analisi a condotte risalenti a quattro anni addietro e dunque non significative della “normalità” di un atto di adempimento compiuto in coerenza con la pratica esistente al momento della sua esecuzione.

Risulta altresì fondata la doglianza concernente l’omesso esame della documentazione relativa ai pagamenti avvenuti in epoca più recente, che doveva essere esaminata dalla corte di merito al fine di verificare se la prassi seguita dalle parti a partire dal 2007 fosse proseguita anche nel periodo successivo o avesse registrato dei significativi mutamenti.

Per di più, la motivazione offerta si prospetta come contraddittoria (o quanto meno apodittica) laddove, da un lato, riconosce che i ritardi erano “sempre” aumentati fino ad arrivare “agli ottanta e ai novanta giorni delle fatture relative ai pagamenti oggetto del presente del giudizio”, dall’altro nega rilevanza a comportamenti coerenti con una simile consuetudine ai fini dell’applicazione dell’esenzione in discorso (senza spiegare perché la lievitazione dei tempi di pagamento riscontrata fin dal 2007 non fosse idonea ad assurgere a prassi consolidata).

Giova precisare, infine, come non assumesse rilievo, al fine di sminuire la rilevanza di un’attuale prassi di dilazione nei pagamenti eventualmente esistente nei rapporti fra le parti, il riferimento ai solleciti effettuati nei confronti della debitrice.

Questa Corte, infatti, ha già avuto modo di precisare che “se il ritardo rispetto alla scadenza pattiziamente convenuta sia divenuto una consuetudine, senza determinare una specifica reazione della controparte, a parte l’intimazione di solleciti, tale prassi deve ritenersi prevalente rispetto al regolamento negoziale” (Cass. 7580/2019).

  1. L’accoglimento dei motivi esaminati nei termini appena illustrati comporta l’assorbimento dei profili di censura riguardanti la scientia decoctionis nonché delle ulteriori doglianze prospettate.
  2. La sentenza impugnata va dunque cassata, con rinvio della causa alla Corte d’appello di Perugia in diversa composizione, la quale, nel procedere a un nuovo esame, si atterrà ai principi sopra illustrati, avendo cura anche di provvedere sulle spese del giudizio di legittimità.

 

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo, il secondo, il terzo e il sesto motivo di ricorso nei termini di cui in motivazione, dichiara assorbiti gli altri, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia la causa alla Corte d’appello di Perugia in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 15 marzo 2023.

Depositato in Cancelleria il 26 aprile 2023

Come può il creditore rivalersi sui beni  ereditari se l’erede/debitore  non ha  formalmente accettato l’eredità ?

 

Per principio espresso dall’art.2740 del codice civile  “ il debitore risponde dell’adempimento dell’obbligazione con tutti i suoi beni presenti e futuri.
Tuttavia  sovente chi è gravato da debiti,  spesso consapevolmente, per sottrarre i beni alle pretese dei creditori, omette di compiere gli atti necessari per portare a compimento la pratica successoria. In questo modo il creditore non ha la possibilità di aggredire i beni dell’eredità fino a quando gli stessi rimangono intestati al defunto (gli immobili in particolare) e non risulta intervenuta l’accettazione dell’eredità.
La soluzione del problema può essere rappresentata – come nel caso di specie – dalla declaratoria di “accettazione tacita” dell’eredità laddove sussistano atti compiuti dall’erede/debitore che lascino presumere l’intervenuta  accettazione di fatto dell’eredità.
Ove tale prova non potesse essere disponibile occorrerebbe ricorrere al diverso procedimento previsto dall’art.481 c.c. perchè il giudice  assegni un termine all’erede per dichiarare se accetta l’eredità.
Con la sentenza che si annota il Tribunale di Reggio Emilia (I  sezione civile, Sentenza n. 383 del 22.03.2022  ), ha accolto la domanda avanzata dall’impresa creditrice che intendeva sottoporre a pignoramento il bene immobile, caduto in successione, destinato al debitore, affermando tra l’altro, il seguente principio:
“ Il possesso dei beni ereditari da parte del chiamato (all’eredità), pur non presupponendo di per sé la volontà di chi li possiede di accettare l’eredità (potendo anche dipendere da un mero intento conservativo del chiamato), rappresenta tuttavia circostanza valutabile, unitamente alla mancata redazione dell’inventario, ai fini dell’accertamento dell’accettazione “ex lege“, di cui sono elementi costitutivi, appunto, l’apertura della successione, la delazione ereditaria, il possesso dei beni ereditari e la mancata tempestiva redazione dell’inventario (Cass. civ. 19.7.2006, n. 16507).” 

IL CASO. Con atto di citazione regolarmente notificato la Alfa Srl conveniva in giudizio Tizio, tra altri, chiedendo che fosse accertata e dichiarata l’intervenuta accettazione dell’eredità da parte di Tizio, nella sua qualità di chiamato all’eredità relitta dalla madre defunta Sempronia.
La domanda proposta da parte attrice nei confronti di Tizio è stata ritenuta fondata e accolta.
Tizio, infatti, successivamente alla morte della madre Sempronia, pur ponendo in essere comportamenti concludenti che presupponevano necessariamente la sua volontà di accettare tacitamente l’eredità della madre, aveva omesso l’espletamento degli adempimenti di legge  inerenti la dichiarazione di successione apertasi oltre 10 anni addietro.
In particolare Tizio aveva affidato nel corso dell’anno 2017 alla Alfa Srl l’appalto per l’esecuzione di lavori di manutenzione straordinaria dell’appartamento nel quale aveva stabilito la propria residenza ininterrottamente per almeno nove anni dopo l’apertura della successione di Sempronia, atti che lo stesso convenuto non avrebbe dovuto compiere se avesse scelto di rinunciare all’eredità; lo stesso, del resto, essendo nel possesso dei beni ereditari non aveva provveduto a redigere l’inventario entro tre mesi dal giorno dell’apertura della successione.

Testo integrale della sentenza

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE ORDINARIO DI REGGIO EMILIA

SEZIONE PRIMA CIVILE

Il Tribunale, nella persona del Giudice dott. Damiano Dazzi ha pronunciato ex art. 281 sexies c.p.c. la seguente

SENTENZA

nella causa civile di I° Grado iscritta al n. r.g. 678/2021 promossa da:

ALFA SRL, in persona del legale rappresentante pro tempore ……….., con il patrocinio dell’avv. ORLANDI GIOVANNI;

ATTRICE

contro

TIZIO

CAIO

CONVENUTI

 

CONCLUSIONI

Parte attrice ha così precisato le conclusioni:

“Piaccia all’Ill.mo Sig. Giudice unico, contrariis reiectis:

Nel merito:

1)         dichiarare aperta la successione di SEMPRONIA nata a ………… il ………. e qui ivi deceduta …………..;

2)         dichiarare che TIZIO, ha accettato l’eredità del defunto genitore SEMPRONIA, avendo lo stesso compiuto atti manifestanti la volontà di accettazione riguardanti l’immobile posto in ………, Via ……… n. …….., int.6., unità censita al Catasto Urbano dello stesso Comune al Foglio 39, mappale 299, sub. 42, cat. A3, Cl. 3, vani 7, R.C. 578,43 e Foglio 39 mappale 299 sub. 56, Cat. C6, Cl. 4, mq 17, R.C. 71,99, immobile caduto nell’asse ereditario;

3)         accertare e dichiarare, pertanto, il subentro, ab intestato o a diverso titolo, dello stesso TIZIO, quale unico erede, nella titolarità del compendio ereditario facente capo alla Sig.ra SEMPRONIA del quale faceva parte la quota indivisa di 3/4 dell’appartamento afferente l’edificio condominiale posto in ………, Via ………. n. …, int. 6 , unità censita al Catasto Urbano dello stesso Comune al

–           Foglio 39, mappale 299, sub. 42, cat. A3, Cl. 3, vani 7, R.C. 578,43 e

–           Foglio 39 mappale 299 sub. 56, Cat. C6, Cl. 4, mq 17, R.C. 71,99 ;

4)         accertare e dichiarare che CAIO, in qualità di comproprietario dell’appartamento con annesso garage, afferente l’edificio condominiale sito in …….., Via  ………. n. …, int. 6 , unità censita al Catasto Urbano dello stesso Comune al Foglio 39, mappale 299, sub. 42 e al Foglio 39 mappale 299 sub. 56, è obbligato in solido con il padre, TIZIO, all’adempimento degli oneri derivanti dal contratto d’appalto da quest’ultimo stipulato con la ALFA srl e, per l’effetto, condannarlo al pagamento del corrispettivo dovuto alla Società attrice per l’opera dalla stessa prestata, ammontante ad € 62.578,23, o a quella diversa maggiore o minore somma che fosse accertata in corso di causa, oltre interessi di mora e maggior danno da ritardato pagamento;

5)         in via subordinata, dirsi tenuto CAIO a pagare alla ALFA Srl, in persona del suo legale rappresentante pro tempore, la somma di € 62.578,23 oltre interessi, o quella maggiore o minore che dovesse essere accertata e determinata nel corso del giudizio, a titolo di indennizzo per indebito arricchimento;

6)         ordinare al Conservatore dei RR.II. di Reggio Emilia di provvedere, ai sensi dell’art. 2648 c.c., alla trascrizione della presente sentenza con esonero da sua responsabilità;

7)         pronunciare sentenza provvisoriamente esecutiva ex lege;

8)         condannare delle parti convenute al pagamento delle spese e dei compensi professionali di causa oltre IVA e C.p.a. se e in quanto dovuti, nonché a eventuali spese di CTU e CTP”.

 

MOTIVI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE

1.

Con atto di citazione notificato il 02/02/2021, ALFA Srl conveniva in giudizio, dinanzi all’intestato

Tribunale, TIZIO e CAIO, chiedendo che fosse accertata e dichiarata l’intervenuta accettazione dell’eredità da parte di TIZIO, nella sua qualità di chiamato all’eredità relitta dalla madre defunta SEMPRONIA.

Chiedeva inoltre di accertare e dichiarare che l’altro convenuto, CAIO, “in qualità di comproprietario dell’appartamento sito in ……….., int. 6 , unità censita al Catasto Urbano dello stesso Comune al foglio 29, mappale 299”, fosse “obbligato in solido con il padre, TIZIO, all’adempimento degli oneri derivanti dal contratto d’appalto da quest’ultimo stipulato con la ALFA srl e, per l’effetto, condannarlo al pagamento del corrispettivo dovuto alla Società attrice per l’opera dalla stessa prestata, ammontante ad € 62.578,23, o a quella diversa maggiore o minore somma che fosse accertata in corso di causa, oltre interessi di mora e maggior danno da ritardato pagamento”.

In via subordinata, chiedeva la condanna di CAIO al pagamento della “somma di € 62.578,23 oltre interessi, o quella maggiore o minore che dovesse essere accertata e determinata nel corso del giudizio, a titolo di indennizzo per indebito arricchimento”.

I convenuti non si costituivano in giudizio, di talché all’udienza del 20/05/2021 ne veniva dichiarata la contumacia.

Assegnati i termini di cui all’art. 183, comma 6, c.p.c., la causa –  istruita solo documentalmente –  veniva rinviata all’odierna udienza per discussione orale e contestuale decisione ex art. 281 sexies c.p.c.

 

Fatte queste premesse, la domanda proposta da parte attrice nei confronti di TIZIO è fondata e deve essere accolta.

TIZIO, infatti, successivamente alla morte della madre SEMPRONIA, deceduta a ……….il ………, ha posto in essere comportamenti concludenti che presupponevano necessariamente la sua volontà di accettare tacitamente l’eredità della madre.

Sul punto, giova rammentare che l’art. 476 c.c. dispone che “..l’accettazione è tacita quando il chiamato all’eredità compie un atto che presuppone necessariamente la sua volontà di accettare e che non avrebbe il diritto di fare se non nella qualità di erede..”, e che la giurisprudenza di legittimità è ferma nel ritenere che detta accettazione tacita possa essere desunta anche dal comportamento del chiamato che abbia compiuto atti incompatibili con la volontà di rinunciare o che siano concludenti e significativi della volontà di accettare (cfr. ex multis Cass. n. 22317/2014; Cass. n. 10796/2009; Cass. n. 5226/2002; Cass. n. 7075/1999).

In effetti, il comportamento di TIZIO, emergente dalle produzioni documentali, consente di ritenere provati i fatti posti da parte attrice a fondamento della domanda di accertamento dell’accettazione tacita di eredità, dovendosi in particolare ritenere, in adesione alle argomentazioni svolte sul punto dalla ALFA Srl e sulla base della documentazione prodotta, che TIZIO, affidando nel corso dell’anno 2017 alla ALFA Srl l’appalto per l’esecuzione di lavori di manutenzione straordinaria dell’appartamento, in cui egli è rimasto residente con la moglie anche dopo la morte della madre quantomeno sino al 17/12/2020 (doc. 31) ed ancora sino al 02/02/2021 (data di ricezione della notifica della citazione), abbia compiuto atti che presupponevano necessariamente la sua volontà di accettare l’eredità della madre SEMPRONIA, come si è detto deceduta il 01/12/2011 (doc. 26), trattandosi di atti che lo stesso convenuto non avrebbe avuto il diritto di compiere se non nella sua qualità di erede.

L’appartamento nel quale sono stati effettuati i lavori in questione (unità censita in catasto al foglio 29, particella 299) era in comproprietà della de cuius SEMPRONIA, madre di TIZIO, per la quota di 3/4 (cfr. visura catastale di cui al doc. 32),

Si consideri che la ALFA Srl –   per i lavori commissionati da TIZIO ed eseguiti presso il succitato immobile, iniziati nel mese di giugno 2017 (cfr. comunicazione di inizio lavori del 12/06/2017  di cui al doc. 6) –  ha emesso nei confronti di TIZIO la fattura n. 8 del 13/03/2019, pari ad € 62.578,23 Iva compresa (€ 56.889,30 + Iva), e lo stesso

TIZIO è stato condannato da questo Tribunale a pagare alla ALFA Srl, a titolo di compenso per tali opere appaltate, la somma di € 54.118,98 + Iva con la sentenza n. 1048/2021 pubblicata il 21/09/2021 (procedimento RG 3392/2019), la quale ha accertato l’esistenza di contratto di appalto tra la ALFA Srl e TIZIO, avente ad oggetto proprio i predetti lavori di manutenzione straordinaria eseguiti nell’appartamento.

A ciò si aggiunga che, avendo TIZIO mantenuto la propria residenza presso tale immobile ininterrottamente per almeno nove anni dopo il decesso della de cuius SEMPRONIA, egli fosse nel possesso del predetto bene immobile, come si evince sia dai certificati di residenza in atti, sia dall’esito della notifica del 02/02/2021 della citazione introduttiva del presente giudizio.

Ciò posto, si rileva che, secondo costante giurisprudenza (v. Cass. n. 21436/2018), “in tema di successioni “mortis causa”, la delazione che segue l’apertura della successione, pur rappresentandone un presupposto, non è da sola sufficiente all’acquisto della qualità di erede, essendo necessaria l’accettazione da parte del chiamato, mediante “aditio” o per effetto di una “pro herede gestio”, oppure la ricorrenza delle condizioni di cui all’art. 485 c.c.”

E’ stato affermato che “l’immissione in possesso dei beni ereditari non comporta accettazione tacita dell’eredità, poiché non presuppone necessariamente, in chi la compie, la volontà di accettare, cionondimeno, se il chiamato nel possesso o compossesso anche di un solo bene ereditario non forma l’inventario nel termine di tre mesi decorrenti dal momento di inizio del possesso, viene considerato erede puro e semplice; tale onere condiziona, non solo, la facoltà di accettare con beneficio d’inventario, ma anche quella di rinunciare all’eredità in maniera efficace nei confronti dei creditori del “de cuius” (v. Cass. n. 15690/2020).

In definitiva, come affermato dalla giurisprudenza di legittimità, il possesso dei beni ereditari da parte del chiamato, pur non presupponendo di per sé la volontà di chi li possiede di accettare l’eredità (potendo anche dipendere da un mero intento conservativo del chiamato), rappresenta tuttavia circostanza valutabile, unitamente alla mancata redazione dell’inventario, ai fini dell’accertamento dell’accettazione “ex lege”, di cui sono elementi costitutivi, appunto, l’apertura della successione, la delazione ereditaria, il possesso dei beni ereditari e la mancata tempestiva redazione dell’inventario (Cass. civ. 19.7.2006, n. 16507)

La norma contenuta nell’art. 485 c.c. contempla, dunque, un’ipotesi di accettazione ex lege dell’eredità, prevedendo che il chiamato all’eredità che si trovi, a qualunque titolo, nel possesso dei beni ereditari assuma la qualità di erede puro e semplice qualora non provveda a redigere l’inventario entro tre mesi dal giorno dell’apertura della successione o della notizia della devoluta eredità.

Nel caso di specie, ad avviso di questo Giudice, risultano integrati i requisiti della fattispecie di cui

all’art. 485 c.c.:  non risulta infatti agli atti essersi effettuato inventario ai sensi dell’art. 485 c.c.; sono provate l’apertura della successione e la delazione ereditaria; inoltre è dimostrata la circostanza del possesso dell’immobile oggetto dell’eredità materna da parte di TIZIO, tenuto conto delle certificazioni anagrafiche di residenza, che hanno un indubbio valore presuntivo, delle risultanze della notifica della citazione introduttiva del presente giudizio, e dei lavori in appalto commissionati nel 2017 alla ALFA Srl dallo stesso TIZIO, riguardanti l’abitazione nel quale risiede e di cui era comproprietaria la madre per la quota di 3/4, dai quali è agevole far discendere che TIZIO è stato, sin dalla data della morte della madre (01/12/2011), e quantomeno sino al 02/02/2021 (quindi per circa 9 anni), residente nell’immobile oggetto di successione e, quindi, nel possesso dell’immobile rilevante ai sensi dell’art. 485 c.c.

E’ dunque corretto ritenere presuntivamente provata l’avvenuta accettazione tacita dell’eredità da parte dello stesso quale erede puro e semplice (in mancanza di redazione dell’inventario).

Deve essere altresì accolta la richiesta di trascrizione della presente sentenza in presenza delle condizioni di cui all’art. 2648 c.c.

 

3.

Non è invece fondata la domanda svolta nei confronti di CAIO (figlio di TIZIO).

Va innanzitutto premesso che il contratto di appalto, come accertato nella summenzionata sentenza del Tribunale di Reggio Emilia n. 1048/2021, passata in giudicato, è stato stipulato tra TIZIO (committente) e ALFA Srl (appaltatrice), e dunque CAIO, pur se di fatto informato dei lavori, non era parte di tale rapporto negoziale.

La fonte della sua obbligazione non può pertanto essere di natura contrattuale.

Parte attrice ha sostenuto –  a fondamento di detta domanda di condanna di CAIO al pagamento della somma di € 62.578,23 quale compenso dell’appalto stipulato tra TIZIO e ALFA Srl –  l’assunto secondo cui CAIO, quale comproprietario dell’immobile sul quale erano stati eseguiti i lavori di manutenzione straordinaria commissionati dal padre alla ALFA Srl, sarebbe “obbligato in solido per le obbligazioni contratte per la cosa comune”.

L’assunto non può essere condiviso.

Infatti, con riferimento alle obbligazioni assunte da TIZIO nell’interesse della cosa comune nei confronti di terzi – in difetto di un’espressa previsione normativa che stabilisca il principio della solidarietà, trattandosi di un’obbligazione avente ad oggetto una somma di denaro, e perciò divisibile –  la responsabilità dei comunisti è retta dal criterio della parziarietà e non già della solidarietà, per cui le obbligazioni assunte nell’interesse della cosa comune si imputano ai singoli comproprietari soltanto in   proporzione delle rispettive quote, secondo criteri simili a quelli dettati dagli artt. 752 e 1295 cod. civ. per le obbligazioni ereditarie (cfr. Cass. SS.UU., Sentenza n. 9148 del 08/04/2008).

Contrariamente dunque a quanto sostenuto dalla difesa attorea, non sussiste alcuna solidarietà passiva dei partecipanti alla comunione con riguardo alle obbligazioni assunte nell’interesse della cosa comune nei confronti di terzi.

La sentenza della Suprema citata da parte attrice (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 21907 del 21/10/2011) riguarda la ben diversa fattispecie dei comproprietari di un’unità immobiliare sita in condominio che sono tenuti in solido, nei confronti del condominio medesimo, al pagamento degli oneri condominiali, e nella specie, la Suprema Corte ha chiarito che il principio espresso non si pone in contrasto con quello già enunciato dalle summenzionate Sez. Un. n. 9148 del 2008, riguardando quest’ultima pronuncia la diversa problematica delle obbligazioni contratte dal rappresentante del condominio verso i terzi e non la questione relativa al se le obbligazioni dei comproprietari inerenti le spese condominiali ricadano o meno nella disciplina del condebito ad attuazione solidale.

Improponibile risulta infine, sotto il profilo della sussidiarietà, la domanda subordinata svolta nei confronti di CAIO di arricchimento senza causa ex art. 2041 c.c., ostando il carattere sussidiario dell’azione generale di arricchimento (artt. 2041 e 2042 cod. civ.). Si rammenta infatti che, ai sensi dell’art. 2041 cod. civ., uno dei presupposti per la proposizione dell’azione generale di arricchimento senza causa è rappresentato dalla sussidiarietà dell’azione (art. 2042 c.c.). L’azione di arricchimento senza causa ha carattere sussidiario ed è quindi inammissibile, ai sensi dell’art. 2042 cod. civ., allorché chi la eserciti, secondo una valutazione da compiersi in astratto e perciò prescindendo dalla previsione del suo esito, abbia a disposizione, come avvenuto in specie, un’altra azione per farsi indennizzare il pregiudizio subito (cfr. Sezioni Unite n. 28042 del 25/11/2008).

Sulla base delle superiori considerazioni, la domanda principale svolta nei confronti di CAIO va quindi respinta in quanto infondata, e la domanda subordinata di arricchimento senza causa va dichiarata inammissibile in ragione del carattere sussidiario dell’azione generale di arricchimento (artt.

2041 e 2042 cod. civ.).

 

4.

Quanto infine alla regolamentazione delle spese d lite, nel rapporto processuale tra ALFA Srl e

TIZIO, le spese di lite, seguendo la soccombenza, vanno poste a carico di quest’ultimo.

Le spese si liquidano secondo i parametri di cui al D.M. n. 55 del 2014, come modificato dal D.M. n.

37 del 2018.

Alla luce del valore indeterminabile della domanda svolta nei confronti di TIZIO, e della

bassa complessità delle questioni sottese a detta domanda, si applica lo scaglione da € 26.001,00 ad € 52.000,00; le fasi da prendere in considerazione sono quelle di studio, introduttiva, istruttoria e decisoria; la natura non particolarmente complessa delle questioni di diritto e di fatto trattate, la natura documentale della causa, la mancata assunzione di prove costituende e l’adozione del modulo decisorio semplificato della discussione orale e contestuale decisione ex art. 281 sexies c.p.c., giustificano una riduzione del 50% dei compensi di tutte le fasi, corrispondenti, rispettivamente, ad € 810,00, ad €

574,00, ad € 860,00 e ad € 1.384,00.

Anche il contributo unificato da riconoscere a parte attrice va parametrato al valore indeterminabile della domanda svolta nei confronti di TIZIO (€ 518,00), a cui occorre aggiungere la marca da bollo pari ad € 27,00.

Nulla invece deve disporsi in ordine alle spese nel rapporto processuale tra parte attrice e l’altro convenuto CAIO.

 

P.Q.M.

Il Tribunale di Reggio Emilia in composizione monocratica, definitivamente decidendo, ogni diversa istanza, eccezione e deduzione disattese o assorbite, così provvede:

1)         Accerta e dichiara l’accettazione tacita dell’eredità di SEMPRONIA, deceduta a …….il……… , da parte di TIZIO, e conseguentemente che TIZIO è erede di SEMPRONIA.

2)         Ordina al Conservatore dei R.R.I.I. competente per territorio di provvedere alla trascrizione della presente sentenza con esonero da ogni sua responsabilità.

3)         Rigetta la domanda svolta in via principale da parte attrice nei confronti del convenuto CAIO.

4)         Dichiara inammissibile la domanda svolta in via subordinata da parte attrice nei confronti del convenuto CAIO.

5)         Condanna il convenuto TIZIO al pagamento, in favore di ALFA Srl, delle spese di lite, che liquida in € 3.628,00 per compenso, in € 545,00 per anticipazioni, oltre IVA e CPA come per legge e rimborso delle spese forfettarie nella misura del 15% del compenso ex art. 2 del D.M. 55/2014.

 

Reggio Emilia, 22 marzo 2022

Il Giudice

dott. Damiano Dazzi

Eredità e polizze vita: qual è il rapporto? La giurisprudenza della Cassazione. (Cass. Civ., n. 29583 del 22 ottobre 2021)

 

La Corte di Cassazione è intervenuta per dirimere una complessa vicenda successoria, che aveva dato luogo ad una controversia tra gli eredi del contraente di una polizza vita. In particolare la disputa  concerneva i premi relativi ai contratti di assicurazione sulla vita a favore di un erede, che i ricorrenti pretermessi intendevano assoggettare a  collazione.
Nella fattispecie una polizza assicurativa di tipo index “mista” caso vita e morte, era stata stipulata dal defunto padre sulla vita del figlio (assicurato di polizza) e avente  il contraente quale beneficiario caso vita ( e dunque nel caso di sopravvivenza di entrambi alla scadenza del contratto), e  gli eredi dell’assicurato (figlio) quali beneficiari caso morte (nel caso di decesso dell’assicurato stesso).
Va detto che la polizza prevedeva quale ulteriore condizione che in caso di premorienza del contraente padre rispetto all’assicurato figlio, prima della scadenza del contratto, l’assicurato avrebbe preso posto del contraente deceduto.
E’ accaduto che  il padre è premorto al figlio e quest’ultimo è subentrato, in forza della summenzionata prescrizione, nella posizione di contraente di polizza continuando ad esserne anche assicurato.
La Corte ha riaffermato un principio ormai ricorrente nella giurisprudenza di legittimità, statuendo, in estrema sintesi, che al momento della morte del contraente, il figlio è tenuto al conferimento del premio per il “caso di vita”, nell’ipotesi, di fatto verificatasi, di premorienza del contraente rispetto all’assicurato. Allo stesso obbligo di conferimento è tenuto  anche per quanto concerne i premi  per il “caso di morte”, in forza dell’art. 741 del codice civile, pur essendo egli l’assicurato e non il beneficiario dei vantaggi della polizza, destinati agli eredi di lui, ossia del medesimo assicurato.
In entrambi i casi si viene a configurare una donazione indiretta.
Mette conto di osservare che l’obbligo di collazione, cioè del conferimento della donazione fatta dal defunto nei confronti di un legittimario per il calcolo della massa ereditaria, riguarda la minore somma tra l’ammontare dei premi pagati e il capitale, non potendo la collazione avere per oggetto che il vantaggio conseguito dal discendente.

Se poi l’evento, condizionante il diritto all’indennizzo, non si sia ancora verificato all’apertura della successione, il discendente è intanto tenuto al conferimento del premio, salva la necessità, in favore del discendente stesso o dei suoi eredi, di procedere a un nuovo conteggio qualora l’indennità si rilevi in seguito inferiore.

La Corte ha  quindi espresso il seguente principio di diritto: “L’obbligo di collazione previsto dall’art. 741 c.c. relativamente a ciò che il defunto ha speso a favore dei suoi discendenti, per soddisfare, tra l’altro, premi relativi a contratti sulla vita a loro favore, riguarda tanto l’ipotesi dell’assicurazione stipulata dal discendente sulla propria vita, “sub specie” di pagamento del debito altrui, quanto quella di assicurazione sulla vita del discendente (o del “de cuius”), che rientra nello schema della donazione indiretta, quale contratto a favore di terzo. Peraltro, giacché il capitale assicurato può rivelarsi, di fatto, inferiore ai premi – che costituiscono, in linea di principio, l’oggetto del conferimento ex art. 2923, comma 2, c.c. – l’obbligo di collazione va precisato nel senso che, indipendentemente dalla natura cd. tradizionale o finanziaria della polizza, il conseguente conferimento riguarda la minore somma tra l’ammontare dei premi pagati ed il capitale, non potendo la collazione avere ad oggetto che il vantaggio conseguito dal beneficiario (o dai suoi discendenti), sul quale grava l’onere della relativa prova.”

Testo integrale della sentenza

Cassazione civile sez. II – 22/10/2021, n. 29583

Intestazione

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

FATTI DI CAUSA

  1. La presente causa riguarda la successione legittima di B.A., deceduto il (OMISSIS), lasciando i figli S., Sa., G., R. e i discendenti del figlio premorto A.: B.F.A. e B.R.F.. In corso di causa è deceduta B.T., lasciando eredi I.R., I.M., I.E.R., I.U..

Per quanto interessa in questa sede, il Tribunale di Catania, adito da Ba.Sa., G. e R., con sentenza non definitiva, riconosceva, con riferimento a una polizza vita stipulata dal de cuius con la Fideuram, nella quale le attrici avevano ravvisato una donazione del genitore in favore di B.S., che non ricorrevano i presupposti della collazione invocata dalle attrici, in difetto delle condizioni richieste per poter ravvisare nella fattispecie una liberalità del genitore in favore del figlio.

Il Tribunale rigettava inoltre la domanda ulteriore della attrici, che avevano richiesto il conferimento di una gestione patrimoniale, intestata al defunto e al figlio S.. Anche in questo caso il primo giudice riteneva che non ci fossero i presupposti della collazione, non essendoci prova che l’intestazione congiunta costituisse una donazione.

Il Tribunale rigettava ancora la domanda, proposta dalle attrici, di annullamento per incapacità naturale del genitore della vendita di quote della B. s.r.l., intercorsa fra il de cuius e il figlio S.; rigettava altresì la domanda volta a fare accertare la simulazione del medesimo contratto, rilevando che non ricorrevano, nella specie, le condizioni per riconoscere alle legittimarie attrici la qualità di terzo ai fini della prova della simulazione e, in ogni caso, in difetto della deduzione di elementi presuntivi idonei nel termine concesso per le deduzioni istruttorie.

Il primo giudice, in accoglimento della domanda riconvenzionale di B.S., riconosceva che le attrici e B.T. erano tenuti al conferimento della somma di Lire 100.000.000 ricevuta in donazione del de cuius.

  1. La Corte d’appello di Catania, adita con appello principale dalle originarie attrici e in procedimento separato, poi riunito, dagli eredi di B.T., nonché con appello incidentale da B.S., ha riformato in parte la sentenza.

2.1. In relazione al contratto del 2 aprile 2001, con il quale il de cuius aveva venduto al figlio S. le quote di sua proprietà della B. s.r.l., la Corte d’appello ha innanzitutto rigettato la domanda, con la quale le attrici Ba.Sa., B.G. e B.R. avevano chiesto disporsi l’annullamento del contratto per incapacità naturale del disponente. Essa ha osservato in proposito che gli elementi addotti al fine della prova della incapacità, consistenti nelle dichiarazioni testimoniali della persona di servizio del de cuius, non erano idonei a tal fine, emergendo da tali dichiarazioni emergevano solo disturbi e malesseri tipici dell’età avanzata.

2.2. La Corte d’appello ha poi esaminato la domanda di simulazione, proposta dalle attrice con riferimento al medesimo atto. In relazione a tale domanda la corte di merito ha negato che le attrici potessero fruire delle agevolazioni probatorie accordate al legittimario che agisce per fare accertare la simulazione di atti, apparentemente onerosi, compiuti dal defunto. Essa ha osservato che le attrici non avevano agito in qualità di legittimari con l’azione di riduzione, ma avevano agito quali eredi legittimi al fine della ricostruzione del patrimonio in funzione della collazione della donazione dissimulata. In verità, ha proseguito la Corte d’appello, le stesse attrici avevano chiesto, in via subordinata, la riduzione della donazione dissimulata sotto l’apparenza della vendita; tuttavia, la domanda, in quanto non accompagnata dalla richiesta di volere conseguire la quota di riserva, non poteva ritenersi idoneo esercizio dell’azione di riduzione, avuto riguardo agli stringenti oneri di deduzione imposti a colui che proponga la relativa domanda, secondo consolidati principi della giurisprudenza di legittimità.

La Corte d’appello ha proseguito nell’analisi, ponendo in luce che le appellanti non avevano impugnato la statuizione della sentenza di primo graddella parte in cui il Tribunale aveva rimarcato che le attrici non avevano indicato, entro i termini fissati per le preclusioni istruttorie, alcune/elemento presuntivo volto a dimostrare la pretesa simulazione. In proposito la Corte d’appello, richiamando le, previsione di cui all’art. 342 c.p.c., ha rilevato che le appellanti si erano inammissibilmente limitate a riproporre la tesi sostenuta in primo grado, senza sottoporre a una effettiva revisione critica la decisione impugnata. Solo nel grado le appellanti avevano indicato gli elementi presuntivi volti a comprovare l’esistenza di donazioni indirette.

2.3. La corte d’appello, in accoglimento della ragione di censura proposta dalle originarie attrici, ha riconosciuto che B.A. era tenuto al conferimento del premio versato dal defunto relativo alla polizza stipulata da de cuius. In proposito essa ha osservato che si trattava di polizza indicizzata a premio unico, che era stata stipulata da de cuius sulla vita del figlio B.S.; che la polizza aveva quali beneficiari, per il “caso vita”, il contraente e, per il “caso morte”, gli eredi testamentari o legittimi dell’assicurato B.S.; che il meccanismo della polizza prevedeva, per l’ipotesi che l’assicurato fosse ancora in vita al decesso del contraente, il subentro dell’assicurato nella posizione del medesimo contraente, con preclusione di poter variare i beneficiari caso vita e caso morte.

Così identificato il meccanismo di polizza, la Corte d’appello ha ravvisato in essa una liberalità realizzata dal defunto in favore de6iglio, subentrato al contraente e restando pertanto beneficiario in “caso vita”. E’ vero – ha proseguito la Corte d’appello – che lo strumento prescelto del defunto corrispondeva a un interesse finanziario e non per sé stesso a un fine di liberalità; tuttavia, “tenuto conto dell’età dell’originario contraente e della tipologia dello strumento prescelto con scadenza a lungo termine, della possibilità di far subentrare nel contratto la persona scelta come contraente, rende evidente il fine di liberalità perseguito dal defunto”. In quanto alla possibilità, già ventilata dal primo giudice, che il premio pagato avrebbe potuto non coincidere con il premio, la Corte d’appello ha riconosciuto, visto che la Compagnia non aveva dato una risposta esauriente sul contenuto della polizza “per ragioni di tutela della privacy del nuovo contraente, che l’onere di provare il minore beneficio era a carico dell’assicurato, “trattandosi dell’unico soggetto che avrebbe potuto dimostrare l’effettivo valore dell’importo ricevuto (in misura maggiore o minore dell’importo versato dal de cuius)”.

La Corte di merito, in esito a tale ricostruzione, ha imposto a B.S. l’obbligo di conferire in collazione il premio versato dal de cuius, pari a Euro 800.000,00.

2.4. E’ stato invece rigettato il motivo d’appello, con il quale le attrici originarie avevano censurato la decisione di primo grado nella parte in cui il Tribunale aveva negato che costituisse donazione l’intestazione, in nome del de cuius e del figlio, dei titoli esistenti presso la Banca Fideuram. Il primo giudice aveva negato che fosse stata data la prova della provenienza della provvista da parte del solo defunto. In relazione a tale statuizione la Corte d’appello ha osservato che le appellanti si erano limitate e ribadire la provenienza esclusiva della provvista dal solo defunto, senza neanche censurare l’ulteriore considerazione del primo giudice “in ordine al fatto che la gestione in parola è oggetto di un’apertura di credito in conto corrente, concessa ai due cointestatari della gestione”.

2.5. La Corte d’appello, infine, ha riformato la sentenza di primo grado in ordine a un ulteriore aspetto.

Il primo giudice, in accoglimento della domanda riconvenzionale proposta da B.S., aveva riconosciuto che il genitore aveva donato alle figlie Lire 100.000.000, imponendo l’obbligo del conferimento a carico delle attrici e di B.T.. La Corte d’appello, accogliendo l’appello proposto sul punto dalle originarie attrici, ha esteso l’obbligo di collazione a B.S., riconoscendo che il defunto aveva elargito identico importo a favore di ciascuno dei sei figli.

  1. Per la cassazione della sentenza B.S. ha proposto ricorso affidato a quattro motivi.

Ba.Sa., B.G. e B.R. hanno resistito con controricorso, contenente ricorso incidentale affidato a quattro motivi.

B.F.A. e B.R.F. hanno resistito con controricorso.

Hanno resistito con controricorso anche I.U., I.E.R., I.R. e I.M..

In vista dell’udienza camerale del 21 gennaio 2021, B.S. ha depositato memoria. Hanno depositato memoria anche I.U., I.E.R., I.R. e I.M.. La causa, con ordinanza di pari data, è stata rimessa alla pubblica udienza.

Il ricorrente ha depositato ulteriore memoria in prossimità della pubblica udienza.

 

RAGIONI DELLA DECISIONE

  1. Il primo motivo del ricorso principale denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 342 e 346 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

Si premette, da parte del ricorrente, che il primo giudice, in relazione alla polizza Fideuram, aveva rigettato la domanda di collazione proposta dai coeredi sulla base di una duplice ratio: a) l’inidoneità dello strumento utilizzato al fine di realizzare una liberalità; b) il rilievo che “i soggetti indicati come beneficiari sono altri e diversi da quello che si assume essere stato il donatario (e cioè il convenuto B.S.”). Ciò posto, il ricorrente evidenzia che, nel proporre il gravame, le appellanti avevano proposto considerazioni generiche, in parte anche improprie (così quella con la quale si assumeva che l’assicurato, avendo assunto la qualità di contraente alla morte del de cuius, avesse acquisito il potere di variare i beneficiari, laddove tale facoltà era espressamente esclusa dalle previsioni di polizza). Pertanto, assenza di idonee critiche verso la rafia decidendi della decisione di primo grado 1 l’appello doveva essere dichiarato inammissibile ai sensi dell’art. 342 c.p.c..

Il motivo è infondato. Risulta dalla trascrizione dell’atto di appello operata nel ricorso, che le appellanti avevano sostenuto che l’operazione realizzata dal genitore, seppure avesse ad oggetto un investimento finanziario, fu concepita e voluta dal de cuius al fine di favorire il figlio B.S. e non gli apparenti beneficiari della polizza ovvero i figli del medesimo B.S.. Avevano poi precisato che, secondo le previsioni della polizza, l’assicurato, alla morte dello stipulante, aveva assunto la qualità di contraente, vale a dire quella qualità in considerazione della quale la Corte d’appello ha riconosciuto che la fattispecie aveva realizzato una donazione del de cuius in favore del figlio. Non è vero perciò che la Corte d’appello abbia definito la lite sulla base di circostanze non dedotte. La Corte d’appello ha soltanto dato una qualificazione giuridica di un fatto dedotto. Del resto, costituisce orientamento pacifico nella giurisprudenza della Corte quello secondo cui “ai fini della specificità dei motivi d’appello richiesta dall’art. 342 c.p.c., l’esposizione delle ragioni di fatto e di diritto, invocate a sostegno del gravame, può sostanziarsi anche nella prospettazione delle medesime ragioni addotte nel giudizio di primo grado, non essendo necessaria l’allegazione di profili fattuali e giuridici aggiuntivi, purché ciò determini una critica adeguata e specifica della decisione impugnata e consenta al giudice del gravame di percepire con certezza il contenuto delle censure, in riferimento alle statuizioni adottate dal primo giudice” (Cass. n. 23781/2020).

Il rilievo che le appellanti avessero erroneamente sostenuto che colui che era subentrato al contraente aveva acquisito la facoltà di variare i beneficiari, nulla toglie all’idoneità della critica mossa alla sentenza di primo grado. Infatti, l’essenza della critica non è in tale aspetto, ma nel non avere il tribunale colto che il genitore aveva fatto ricorso a un meccanismo negoziale comunque idoneo a beneficiare il figlio, che diveniva destinatario del capitale assicurato “per il caso di vita”.

  1. Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 346 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

Si pone in luce che le appellanti non avevano formulato alcuna censura contro la statuizione della sentenza di primo grado, laddove il primo giudice aveva negato l’obbligo di collazione, a carico di B.S., argomentando che i beneficiari della polizza erano soggetti diversi dal supposto donatario. Secondo il ricorrente, la carenza di un’apposita censura su questa statuizione, identificata quale autonoma ratio decidendi idonea a giustificare il rigetto della domanda, imponeva alla Corte d’appello di dichiarare inammissibile l’impugnazione.

Il motivo è infondato. La censura contro la supposta ratio deddendi era stata in effetti formulata, in quanto al rilievo del primo giudice, fondato sulla diversa identità dei beneficiari, le appellanti avevano obiettato che l’operazione fu attuata dal genitore non con il fine di favorire i beneficiari, ma il figlio S., a carico del quale permaneva l’obbligo di conferimento del premio (Cass. n. 3194/2019; n. 12280/2016).

  1. Il terzo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e art. 115 c.p.c..

La sentenza è oggetto di censura nella parte in cui la corte di merito ha posto a carico dell’attuale ricorrente l’onere di provare “l’effettivo valore dell’importo ricevuto (in misura maggiore o minore del premio versato dal de culla)”.

La Corte d’appello, in questo modo, ha violato il criterio di riparto dell’onere probatorio, in base al quale era onere delle attrici, le quali avevano dedotto l/esistenza della liberalità, fornire la prova dei fatti costitutivi della pretesa. Alla carenza di sufficienti e adeguate informazioni da parte della Compagnia, le attrici ben avrebbero potuto supplire con istanza di esibizione.

Il quarto motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 737 e 741 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

La Corte d’appello, nell’imporre all’attuale ricorrente, il conferimento in collazione del premio unico versato dal defunto, ha violato le norme in materia, sotto una molteplicità di profili: a) perché B.S. non era il beneficiario della polizza, ma solo il soggetto subentrato al contrante, privo peraltro del potere di variazione; b) perché egli non aveva ricevuto alcunché dal defunto, e non potendosi imporre a suo carico l’obbligo di collazione di un premio volto in ipotesi a procurare un beneficio in favore di soggetti diversi; c) perché la natura del contratto rendeva persino aleatoria ed incerta l’esistenza e la misura beneficio.

  1. Il terzo e il quarto motivo, da esaminare congiuntamente, sono infondati.
  2. Si può ritenere acquisito che l’assicurazione di cui si discute nella presente causa fu stipulata dal de cuius non sulla propria vita, ma sulla vita del figlio B.S..

Si trattava inoltre di una polizza c.d. mista sulla vita del terzo, sia “per il caso di vita” sia “per il caso di morte”.

Si intende per assicurazione sulla vita “per il caso di vita” quella in cui l’assicuratore è obbligato a pagare se a un dato momento una data persona (nel caso in esame B.S.) è ancora in vita. Nell’assicurazione sulla vita “per il caso di morte” l’assicuratore è obbligato a pagare se a un dato momento una data persona è morta.

Nel caso in esame, il de cuius (contraente), per il caso di vita, aveva riservato a sé il beneficio; per il caso di morte la polizza fu stipulata a favore di terzo: secondo la sentenza gli eredi testamentari o legittimi dell’assicurato B.S., secondo gli scritti difensivi di parte “de nipoti del sig. B.A.” (pag. 17 del ricorso), “figli di B.S.” (pag. 5 del controricorso delle ricorrenti incidentali). Agli effetti che rilevano in questa sede la divergenza non incide minimamente sul significato giuridico dell’operazione. Si prevedeva ancora che, in caso di premorienza dello stipulante, nella posizione di contraente sarebbe subentrato l’assicurato.

  1. Si deve ora chiarire che la designazione di uno o più terzi beneficiari è sempre possibile e mai necessaria nel contratto di assicurazione sulla vita, in quanto anche al di fuori dei casi in cui il contraente riservi espressamente a sé stesso la somma assicurata, una designazione generica o specifica di uno o più beneficiari può sempre mancare, senza che il contratto ne soffra. Insomma, la designazione del beneficiario (che può essere coeva o successiva alla sottoscrizione del contratto: art. 1920 c.c., comma 2), è elemento normale del contratto di assicurazione sulla vita, ma non essenziale. Potrà darsi il caso che il contraente decida, ab origine, di riservare a proprio vantaggio il capitale o la rendita assicurata; è anche perfettamente concepibile che la designazione del terzo beneficiario manchi in toto: nell’uno e nell’altro caso, evidentemente, il diritto alla somma assicurata, entrerà nel patrimonio del contraente e si trasferisce ai suoi eredi, secondo le comuni norme sulla successione ereditaria (Cass. n. 7683/2015 in motivazione). Lo stesso dicasi quando l’originaria designazione venga revocata (art. 1921 c.c.), senza essere, in seguito, sostituita da una nuova. Il punto è controverso in dottrina.
  2. Si deve dare inoltre per acquisito che la polizza stipulata dal de cuius aveva contenuto finanziario. Per polizze vita a contenuto finanziario si intendono le polizze in cui la componente vita e di investimento risulta preponderante rispetto a quella demografica-previdenziale tipica delle polizze di assicurazioni sulla vita c.d. “tradizionali” di cui all’art. 1882 c.c. Senza che sia minimamente necessario approfondire la tematica, ai fini che interessano in questa sede, è sufficiente il rilievo che, nelle polizze di tipo classico, l’assicurato mira generalmente a garantire la disponibilità di una somma a familiari ovvero a terzi al momento della propria morte ed il rischio di perdita del capitale è pari a zero, essendo predeterminato l’importo da erogare al contraente o al beneficiario alla scadenza del contratto. Invece, nelle polizze a contenuto finanziario, al posto dell’obbligo restitutorio in capo all’impresa di assicurazione, viene conferito una sorta di mandato di gestione del denaro investito e l’investitore matura il diritto al mero risultato di gestione che quindi varia in base a una serie di fattori: l’andamento del mercato, dei titoli investiti, eccetera. Il riferimento è in particolare alle polizze unit e index linked, il cui rendimento, nel primo caso, è parametrato all’andamento di fondò comuni di investimento e, nel secondo, ad indici di vario tipo, generalmente titoli azionari. L’elemento caratterizzante tale tipologie di polizze è dunque il rischio finanziario, che, nelle così dette linked “pure” grava interamente sull’assicurato, poiché la compagnia non garantisce né la restituzione del capitale, né eventuali rendimento minimi.
  3. Costituisce principio acquisito che, in tema di polizza vita, la designazione dà luogo a favore del beneficiario a un acquisto iure proprio ai vantaggi dell’assicurazione (art. 1920 c.c.), anche se sottoposto alla condizione risolutiva della mancata revoca della designazione (Cass. n. 3263/2016). Iure proprio vuol dire che il diritto trova la sua fonte nel contratto e non entra a far parte del patrimonio ereditario dello stipulante (Cass., S.U., n. 11421/2021; n. 25635/2018; n. 15407/2000). E’ opinione unanime, in dottrina e in giurisprudenza, che la designazione del beneficiario sia un negozio unilaterale, personalissimo e non recettizio, con cui il contraente individua in modo generico o specifico il destinatario della prestazione dell’assicuratore (Cass. n. 4833/1978).
  4. Ex art. 1923 c.c., comma 2, in tema di assicurazione sulla vita a favore di un terzo, le norme sulla collazione e sulla riduzione sono fatte salve in riferimento ai primi pagati dallo stipulante non alle somme percepite dal beneficiario.

La Suprema Corte ha chiarito che le polizze sulla vita, aventi contenuto finanziario, nelle quali sia designato come beneficiario un soggetto terzo non legato al contraente da vincolo di mantenimento, sono configurabili, fino a fino a prova contraria, come “donazioni indirette” a favore dei beneficiari delle polizze stesse (Cass. n. 3263/2016). Si rileva che è il pagamento del premio che costituisce pertanto il c.d. “negozio mezzo” (l’assicurazione) utilizzato per conseguire gli effetti del “negozio fine” (la donazione). Sono i premi pagati, pertanto, che comportano liberalità atipica, non il contratto di assicurazione, che non può considerarsi quale uno degli atti di liberalità contemplati dall’art. 809 c.c. (Cass. n. 7683/2015).

Il rilievo è esatto, perché, la natura finanziaria delle polizze pone problemi diversi, ad esempio se sia applicabile l’art. 1923 c.c., comma 1, secondo cui le somme dovute dall’assicuratore in base a un’assicurazione sulla vita “non possono essere sottoposte ad azione esecutiva o cautelare”. Si osserva che questo regime di favore per l’assicurato consistente nella impignorabilità e nella insequestrabilità della prestazione assicurativa – si giustificherebbe in base al fatto che le polizze vita sono strumenti volti alla previdenza e al risparmio. Ove, per contro, una polizza sia contratta a fini esclusivamente speculativi (ravvisabili, anche solo in parte, nei contratti linked), essa non potrà godere della specifica tutela riconosciuta dalla norma. Ora, e senza che sia minimamente necessario in questa sede indagare oltre su tale questione, si può tranquillamente riconoscere che il dibattito sulla natura delle polizze aventi contenuto finanziario non riguarda l’idoneità dello strumento a realizzare una donazione indiretta, “che può realizzarsi nei modi più vari, essendo caratterizzata dal fine perseguito di realizzare una liberalità e non già dal mezzo, che può essere il più vario nei limiti consentito dall’ordinamento (Cass. n. 21449/2015; n. 3134/2012; n. 5333/2004). In quanto all’aleatorietà del beneficio, si nota in dottrina che, nelle assicurazioni sulla vita in genere, l’arricchimento del beneficiario non sta nell’indennità, che è sempre eventuale e aleatoria, ma nell’acquisto del diritto ai vantaggi economici dell’operazione, cui corrisponde il depauperamento del donante. Le successive diminuzioni possono essere considerate ai fini della collazione, ma non fanno perdere all’atto il carattere di donazione. Tanto questo è vero che è applicabile alla designazione l”art. 775 c.c. e “se compiuta da un incapace naturale, è annullabile a prescindere dal pregiudizio che quest’ultimo possa averne risentito” (Cass. n. 7683/2015 cit..).

  1. L’art. 741 c.c., dice soggetto a collazione ciò che il defunto ha speso a favore dei suoi discendenti per assegnazioni fatte a causa di matrimonio, per avviarli all’esercizio di un’attività produttiva o professionale, per soddisfare premi relativi a contratti di assicurazione sulla vita a loro favore o per pagare i loro debiti.

Quanto alle spese fatte per soddisfare premi relativi a contratti di assicurazione, a favore dei discendenti (propria o dei discendenti medesimi), è opinione concorde degli interpreti che la norma comprende sia l’ipotesi dell’assicurazione stipulata dal discendente sulla propria vita, sub specie di pagamento del debito altrui, sia l’assicurazione sulla vita del discendente (o del de cuius), che rientra nello schema della donazione indiretta, sub specie di contratto a favore di terzo. Per il discendente, infatti, ottenere l’indennizzo o assicurarlo ai propri familiari, dopo la propria morte, può infatti rappresentare un vantaggio non meno rilevante che l’intraprendere un’attività lucrativa. Si avrebbe invece donazione diretta in ipotesi di messa a disposizione del discendente delle somme necessarie per pagare i premi di assicurazione sulla vita di lui. In generale si rileva che l’art. 741 c.c., risulterebbe meramente indicativo di singole elargizioni da ritenersi comprese nell’ampia dizione dell’art. 737 c.c., facente riferimento a tutto ciò che i discendenti o il coniuge hanno ricevuto per donazione, direttamente o indirettamente, e pertanto privo di autonoma portata normativa, perché le elargizioni prevista dalla norma ricadrebbero sotto lo schema generale dell’art. 737 c.c..

  1. E’ incontroverso che la polizza stipulata dal de cuius prevedeva che, in caso di premorienza del contraente rispetto all’assicurato, il posto del contraente fosse preso dall’assicurato medesimo, il quale diveniva beneficiario della polizza per il “caso di vita”.
  2. In conclusione, la fattispecie negoziale, al momento della morte dello stipulante, vedeva B.S. tenuto al conferimento del premio per il “caso di vita”, nell’ipotesi, di fatto verificatasi, di premorienza del contraente rispetto all’assicurato. Lo vedeva inoltre tenuto al conferimento anche per il “caso di morte”, in forza dell’art. 741 c.c., pur essendo egli l’assicurato e non il beneficiario dei vantaggi della polizza, destinati agli eredi di lui, ossia del medesimo B.S.. E’ stato chiarito che, ai fini della collazione e della riunione fittizia, il pagamento dei premi di un’assicurazione per conto di un terzo, è avvicinabile all’adempimento di un obbligo altrui, al quale e’, appunto, apparentato dall’art. 741 c.c..
  3. Nelle polizze vita in genere, anche fuori dall’ambito delle polizze a contenuto finanziario, potrà avvenire che il capitale assicurato si rilevi di fatto inferiore ai premi, che costituiscono in linea di principio l’oggetto del conferimento ex art. 2923 c.c., comma 2. L’obbligo di collazione va precisato nel senso che si deve conferire la minore somma tra l’ammontare dei premi pagati e il capitale, non potendo la collazione avere per oggetto che il vantaggio conseguito dal discendente. Se poi l’evento, condizionante il diritto all’indennizzo, non si sia ancora verificato all’apertura della successione, il discendente è intanto tenuto al conferimento del premio, salva la necessità, in favore del discendente stesso o dei suoi eredi, di procedere a un nuovo conteggio qualora l’indennità si rilevi in seguito inferiore. E’ naturale che l’onere3.di provare conseguimento di un vantaggio minore rispetto al premio, sia a carico del beneficiario o degli eredi di lui subentrati nell’obbligo di conferimento. La Corte d’appello, nel rilevare che B.S. non aveva dato la prova di un arricchimento minore rispetto al premio pagato dal defunto, ha fatto esatta applicazione del generale principio di vicinanza della prova (Cass. n. 9099/2012; n. 8018/2021).
  4. Il quinto motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 737 c.p.c., in relazione all’arto. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

La sentenza è oggetto di censura laddove la corte d’appello ha imposto a carico dell’attuale ricorrente l’obbligo di collazione della somma di Lire 100.000.000. Si sostiene che il principio, applicato dalla sentenza impugnata, circa l’insorgenza automatica dell’obbligo di collazione anche in assenza di apposita domanda, implica pur sempre l’individuazione, ad opera della parte, della specifica donazione da conferire. Il ricorrente rileva che le attrici, nel proporre la domanda, non avevano dedotto alcunché, né avevano lamentato lesione di legittima. In effetti la donazione era stata dedotta dall’attuale ricorrente con la domanda riconvenzionale proposta in primo grado.

Il motivo è infondato. La donazione di denaro, come riconosce la Corte d’appello, era stata ammessa dall’attuale ricorrente in sede di interrogatorio formale. Al cospetto di una tale ammissione la Corte d’appello ha fatto corretta applicazione del principio, consolidato nella giurisprudenza della Corte, secondo cui l’obbligo della collazione sorge automaticamente a seguito dell’apertura della successione e i beni donati devono essere conferiti indipendentemente da una espressa domanda dei condividenti, mentre chi eccepisce un fatto ostativo alla collazione ha l’onere di fornirne la prova (Cass. n. 1159/1995; n. 18625/2010; n. 8507/2011).

  1. Il primo motivo del ricorso incidentale denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1147 e 553 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

La sentenza è oggetto di censura nella parte in cui la corte d’appello ha negato alle legittimarie attrici la qualità di terzi ai fini della prova della simulazione dell’atto di disposizione compiuto dal de cuius, nonostante esse avessero proposto anche domanda di riduzione. Si sostiene che i principi che hanno indotto la Corte di merito a dichiarare inammissibile la domanda operano nella successione testamentaria, non nella successione legittima.

Il motivo è infondato. In relazione agli oneri di deduzione imposti al legittimario che agisce in riduzione, la Corte d’appello ha richiamato il principio secondo “il legittimario che proponga l’azione di riduzione ha l’onere di indicare entro quali limiti sia stata lesa la sua quota di riserva, determinando con esattezza il valore della massa ereditaria nonché quello della quota di legittima violata dal testatore. A tal fine, l’attore ha l’onere di allegare e comprovare tutti gli elementi occorrenti per stabilire se, ed in quale misura, sia avvenuta la lesione della sua quota di riserva (potendo solo in tal modo il giudice procedere alla sua reintegrazione), oltre che di proporre, sia pure senza l’uso di formule sacramentali, espressa istanza di conseguire la legittima, previa determinazione della medesima mediante il calcolo della disponibile e la susseguente riduzione delle donazioni compiute in vita dal de cuium (Cass. n. 1357/2017; n. 14473/2011).

Questo orientamento è stato di recente oggetto di significative precisazioni da parte della recente giurisprudenza della Corte, per la quale “I principi di giurisprudenza sugli oneri di deduzione imposti al legittimario che agisce in riduzione non possono essere intesi nel senso che il legittimario è tenuto a precisare nella domanda la entità monetaria della lesione, ma piuttosto che la richiesta della riduzione di disposizioni testamentarie o donazioni deve essere giustificata alla stregua di una rappresentazione patrimoniale tale da rendere verosimile, anche sulla base di elementi presuntivi, la sussistenza della lesione di legittima” (Cass. n. 17926/2020; n. 18199/2020).

Si chiarisce che, nel proporre la domanda di riduzione, il legittimario, senza l’uso di formule sacramentali, deve denunciare la lesione di legittima; che, a sua volta, la denuncia della lesione implica un confronto fra quanto il legittimario consegue, come erede legittimo o testamentario, e quanto avrebbe diritto di ricevere come erede necessario; che il confronto, per forza di cose, avviene in base a una certa rappresentazione patrimoniale, che il legittimario deve indicare nei suoi estremi essenziali già nella domanda, perché la lesione di legittima deve essere enunciata in termini concreti e non come pura eventualità (Cass. n. 276/1964).

Gli oneri imposti al legittimario che propone l’azione di riduzione si atteggiano allo stesso modo tanto nella successione legittima, quanto nella successione testamentaria; mentre è vero solo che questi oneri subiscono una ulteriore semplificazione nel caso di domanda di riduzione proposta dal legittimario preterito (Cass. n. 5458/2017) e nella ipotesi di domanda di riduzione proposta dal legittimario, erede ab intestato, nel caso di integrale esaurimento del patrimonio mediante donazioni (Cass. n. 16535/2020).

La Corte d’appello, seppure si sia riferita al precedente orientamento della giurisprudenza di legittimità, ha posto l’accento, nello stesso tempo, sulla genericità della domanda di riduzione proposta dalle attuali ricorrenti incidentali. Si evidenzia che, con la stessa domanda non era stata ” addotta alcuna lesione di legittima”. Grazie a tale rilievo, la sentenza impugnata rimane in linea con la giurisprudenza di legittimità anche a volere considerare le precisazioni fatte dalle più recenti pronunce intervenute in materia, che escludono anch’esse l’ammissibilità di domande di riduzione, nelle quali la lesione sia solo genericamente enunciata.

1.1. Con il motivo in esame, le ricorrenti richiamano i principi giurisprudenziali in base ai quali, ai fini della prova della simulazione di atti di disposizione compiuti dal de cuius, il legittimario potrebbe assumere la veste di terzo anche se non sia stata proposta domanda di riduzione e pure in assenza di disposizioni testamentarie (Cass. n. 12317/2019). Il principio è certamente esatto, ma il suo richiamo non giova alla tesi delle ricorrenti incidentali. E’ esatto che la qualità di terzo è riconosciuta al legittimario in quanto tale, anche se non si ponga una questione di riduzione, ma questo non vuol dire che il legittimario, solo perché legittimario, quando impugni per simulazione un atto compiuto dal de cuius, venga a trovarsi sempre e comunque nella veste di terzo e non in quella del contraente (Cass. n. 7134/2001). Perché gli sia riconosciuta la veste di terzo occorre che l’accertamento della simulazione sia richiesto dal legittimario in tale specifica veste, per rimediare a una lesione di legittima, intesa l’espressione in senso ampio, modo da comprendere non solo la reintegrazione in senso proprio, tramite la riduzione della donazione dissimulata, ma anche il recupero all’asse ereditario del bene oggetto di alienazione simulata ovvero di donazione dissimulata nulla per difetto di forma (Cass. n. 8215/2013; n. 19468/2005).

La motivazione data dalla Corte di merito, nella parte in cui ha posto in luce la genericità della deduzione della lesione di legittima, è in linea con la giurisprudenza di legittimità da questo diverso punto di vista.

  1. Il secondo motivo denuncia violazione dell’art. 342 c.p.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio.

Le ricorrenti si dolgono perché la corte d’appello ha ritenuto che non fosse stata da loro impugnata la statuizione del primo giudice nella parte in cui questi aveva ritenuto che fossero stati indicati, nel termine accordato per le deduzioni istruttorie, gli elementi presuntivi idonei a confermare la simulazione della vendita delle quote sociali intercorsa fra il defunto e il figlio. Si sostiene che in appello furono indicati una pluralità di elementi idonei dare corpo all’ipotesi della simulazione.

Il motivo è inammissibile, perché si dirige contro ratio aggiuntiva priva di effettiva incidenza sulla decisione, che si regge interamente sulla riconosciuta mancanza delle condizioni per accordare al legittimario la qualità di terzo: quindi sulla riconosciuta inammissibilità della prova per presunzioni già in linea di principio. Si sa che la censura che investa una considerazione della sentenza impugnata che non abbia spiegato alcuna rilevanza sul dispositivo è inammissibile per difetto di interesse (Cass. n. 10420/2005; n. 8087/2007).

  1. Il terzo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 428 c.c. in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

E’ oggetto di censura il rigetto della domanda di annullamento, per incapacità naturale del defunto, della vendita di quote sociale intercorsa fra il genitore e B.S.. Si sostiene che, in base agli elementi istruttori, la domanda andava invece accolta, essendo stata raggiunta sia la prova dell’incapacità, sia la prova della mala fede dell’altro contraente.

Il motivo è inammissibile: si censura la valutazione delle prove da parte della Corte d’appello, intendendosi accreditare in questa sede una lettura degli elementi istruttori diversa rispetto a quella compiuta dal giudice di merito (Cass., S.U., n. 34476/2019), che ha dato congrua e adeguata valutazione del proprio convincimento. La Corte d’appello, infatti, ha esaminato la deposizione testimoniale ritenendo che da questa emergessero solo i disturbi e i malesseri tipici dell’età avanzata. Si legge nella sentenza impugnata che “il B. dimenticava dove posava gli oggetti e aveva difficoltà a scrivere e di faceva aiutare, ma dettava gli importi degli assegni e li sottoscriveva, evidenziando, quindi la piena consapevolezza delle proprie scelte e disposizioni”.

Tale apprezzamento, esente da vizi logici o giuridici, è incensurabile in questa sede (Cass. n. 17977/2011; n. 515/2004).

  1. Il quarto motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

La sentenza è oggetto di censura laddove i giudici d’appello hanno negato la natura liberale della intestazione congiunta dei titoli, in nome del de cuius e del figlio B.S., presso la Banca Fideuram. Si richiamano in proposito i principi di giurisprudenza sulla insorgenza automatica dell’obbligo di collazione all’apertura della successione. Tali principi sono intesi dalle ricorrenti incidentali nel senso che spettava al donatario provare l’esistenza di un fatto ostativo alla collazione, mentre la Corte d’appello ha invece posto a carico delle attuali ricorrenti incidentali l’onere di dare la prova di un effetto (la collazione, appunto) che, in base alla giurisprudenza, consegue automaticamente dall’apertura dalla successione.

Il motivo è infondato. Esso è ispirato a una improponibile interpretazione del principio secondo cui “In presenza di donazioni fatte in vita dal de cuius, la collazione ereditaria – in entrambe le forme previste dalla legge, per conferimento del bene in natura ovvero per imputazione – è uno strumento giuridico volto alla formazione della massa ereditaria da dividere al fine di assicurare l’equilibrio e la parità di trattamento tra i vari condividenti, così da non alterare il rapporto di valore tra le varie quote, da determinarsi, in relazione alla misura del diritto di ciascun condividente, sulla base della sommatoria del relictum e del donatum al momento dell’apertura della successione, e quindi garantire a ciascuno degli eredi la possibilità di conseguire una quantità di beni proporzionata alla propria quota. Ne consegue che l’obbligo della collazione sorge automaticamente a seguito dell’apertura della successione (salva l’espressa dispensa da parte del de cuius nei limiti in cui sia valida) e che i beni donati devono essere conferiti indipendentemente da una espressa domanda dei condividenti, essendo sufficiente a tal fine la domanda di divisione e la menzione in essa dell’esistenza di determinati beni, facenti parte dell’asse ereditario da ricostruire, quali oggetto di pregressa donazione. Incombe in tal caso sulla parte che eccepisca un fatto ostativo alla collazione l’onere di fornirne la prova nei confronti di tutti gli altri condividenti” (Cass. n. 15131/2005).

Infatti, tale principio vuol dire che la collazione opera in presenza di donazioni, senza necessità di domanda, incombendo a colui che neghi l’operatività dell’istituto di fornire la prova del fatto impeditivo. Ma, appunto, il principio opera a condizione che risulti l’esistenza di donazioni. Queste, qualora non risultino in modo palese, debbono essere provare da chi le deduce. Insomma, si presume l’obbligo del conferimento della donazione che risulti oggettivamente o sia stata provata, non si presume invece l’esistenza della donazione solo perché ne sia stato chiesto il conferimento. Le ricorrenti intendono invece il principio come se dicesse che chi chieda la collazione può limitarsi a dedurre la esistenza di donazioni, spettando agli altri fornire la prova del contrario: il che, in verità, è conclusione che nessuno ha mai pensato di sostenere.

  1. In conclusione, sono rigettati sia il ricorso principale, sia il ricorso incidentale.

Avuto riguardo alla particolarità della vicenda si ravvisa la sussistenza di giusti motivi per compensare, fra tutte le parti, le spese di lite.

Ci sono le condizioni per dare atto D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13, comma 1-quater, della “sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale e delle ricorrenti incidentali, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto”.

 

P.Q.M.

rigetta il ricorso principale e il ricorso incidentale; dichiara compensate fra tutte le parti le spese del presente giudizio; ai sensi delD.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale e delle ricorrenti incidentali, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 10 giugno 2021.

Depositato in Cancelleria il 22 ottobre 2021

Tutela del credito. E’ pignorabile il credito derivante da un contratto preliminare ? Cass. civ., sez. III, 27 ottobre 2022, n. 31844

Con l’arresto  che si annota  è stato enunciato il seguente principio di diritto :
L’esecuzione mediante espropriazione presso terzi può riguardare anche crediti futuri, non esigibili, condizionati e finanche eventuali, con il solo limite della loro riconducibilità a un rapporto giuridico identificato e già esistente; pertanto, anche il credito al pagamento del prezzo del promittente venditore, riveniente da un contratto preliminare, è suscettibile di pignoramento ex art. 543 c.p.c., giacché – per quanto eventuale, dipendendo la sua effettiva maturazione dalla realizzazione del programma negoziale, sia essa spontanea o coattiva, ex art. 2932 c.c. – è specificamente collegato a un rapporto esistente e possiede, quindi, capacità satisfattiva futura, concretamente prospettabile nel momento dell’assegnazione.”

IL CASO.  Il creditore di un’ingente somma di denaro sottoponeva a pignoramento il credito vantato dal proprio debitore nei confronti di due società in forza di una sentenza con la quale, ai sensi dell’art. 2932 c.c., era stata trasferita coattivamente alle seconde la quota di partecipazione detenuta dal primo in una società a responsabilità limitata, con conseguente condanna al pagamento in suo favore del corrispettivo.
Poiché le società terze pignorate avevano reso dichiarazioni sostanzialmente negative, il creditore procedente introduceva il giudizio di accertamento dell’obbligo del terzo, all’esito del quale il Tribunale di Napoli dichiarava impignorabile il credito in questione, in quanto derivante da sentenza costitutiva non ancora passata in giudicato, con statuizione confermata all’esito del giudizio di appello, sebbene, nel corso dello stesso, la pronuncia resa ai sensi dell’art. 2932 c.c. fosse divenuta definitiva.
Il creditore procedente, dunque, proponeva ricorso per cassazione, contestando l’assunto in base al quale non poteva formare oggetto di pignoramento la posizione creditoria del proprio debitore scaturente dal contratto preliminare di vendita rimasto inadempiuto.
La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso, affermando che oggetto di espropriazione presso terzi possono essere anche crediti non esigibili, condizionati o anche solo eventuali, purché suscettibili di una futura capacità satisfattiva, concretamente prospettabile al momento dell’assegnazione, in virtù della loro riconducibilità a un rapporto giuridico identificato e già esistente al momento del pignoramento, ivi compreso quello che ha titolo in un contratto preliminare rimasto inadempiuto.

Per leggere il testo integrale della  sentenza accedere al seguente link:     https://www.italgiure.giustizia.it/xway/application/nif/clean/hc.dll?verbo=attach&db=snciv&id=./20221027/snciv@s30@a2022@n31844@tS.clean.pdf