Mese: giugno 2023

Diritto alla provvigione per il mediatore? Mettere in relazione le parti non è sufficiente

 

Cassazione civile sez. II – 02/02/2023, n. 3165

Con un recentissimo arresto la Corte di Cassazione ha enunciato seguente principio di diritto: “al fine del sorgere del diritto alla provvigione ex Art. 1755, co. 1 c.c. è necessario che la conclusione dell’affare sia effetto causato adeguatamente dal suo intervento, senza che il mettere in relazione delle parti tra di loro ad opera del mediatore sia sufficiente di per sé a conferire all’intervento di questi il carattere di adeguatezza, nè che l’intervento di un secondo mediatore sia sufficiente di per sé a privare ex post l’opera del primo mediatore di tale qualità di adeguatezza”.

IL CASO.

La signora X  accompagnava la madre Y, interessata alla  compravendita di un fabbricato, dal mediatore immobiliare Alfa. Dopo la scadenza del contratto sottoscritto con detto mediatore, tuttavia, Y perfezionava la compravendita  con il  venditore – con cui in precedenza era stata posta in contatto dal mediatore Alfa – per effetto dell’attività della diversa agenzia immobiliare Beta. Il mediatore Alfa, pertanto, decideva di agire per vedere riconosciuto il proprio apporto causale alla conclusione dell’affare e conseguentemente  il compenso per la mediazione, ma risultava soccombente sia in primo sia in secondo grado. Ricorreva dunque davanti alla Suprema Corte.
La Suprema Corte, muovendo dal concetto di “antecedente indispensabile”,  sulla scorta del dettato degli art.li 1754 e 1755 comma 1 c.c. è giunta ad “escludere l’efficienza causale adeguata dell’opera del primo mediatore” rispetto alla conclusione della compravendita in esame, ma non per l’intervento del secondo mediatore, che “non spezza di per sé il nesso di causalità tra l’opera del primo mediatore e la conclusione dell’affare”, ma perché la messa “in relazione di due o più parti per la conclusione di un affare” (art. 1754 c.c.) non è elemento sufficiente, di per sè, a far ritenere che l’affare sia “concluso per effetto” dell’intervento del mediatore (art. 1755 c.c.)”.
Dunque, se, da una parte, l’intervento di un secondo mediatore non è sufficiente di per sé a privare ex post l’opera del primo mediatore dell’adeguatezza alla conclusione dell’affare, dall’altra, nemmeno il mettere in relazione delle parti tra di loro ad opera del mediatore è di per sé sufficiente a conferire all’intervento di questi il carattere di adeguatezza e quindi il diritto alla provvigione.

 

Il testo della sentenza

Cassazione civile sez. II – 02/02/2023, n. 3165

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ASCOLA             Pasquale               –  Presidente   –

Dott. PAPA                 Patrizia               –  Consigliere  –

Dott. FORTUNATO            Giuseppe               –  Consigliere  –

Dott. CRISCUOLO            Mauro                  –  Consigliere  –

Dott. CAPONI               Remo              –  rel. Consigliere  –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

Sul ricorso n. 35980/2018, proposto da:

R.A. e AGENZIA Immobiliare Srl, elettivamente domiciliate in

Roma,

– ricorrente –

contro

M.N., elettivamente domiciliata in Roma,

– controricorrente –

nonché

R.F., domiciliato in Roma,

– controricorrente –

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 25/5/2022 dal

cons. REMO CAPONI;

lette le conclusioni del P.M., nella persona del Sostituto

Procuratore Generale ROSA MARIA DELL’ERBA, che ha concluso per il

rigetto del ricorso.

FATTI DI CAUSA

R.A., già titolare della ditta Cogi e legale rappresentante della Compro Casa s.r.l., ha impugnato in cassazione la sentenza di secondo grado di conferma della pronuncia di primo grado, che ha rigettato le domande da costei proposte nei confronti di R.F. e M.N.. In particolare, l’attrice ha domandato: (a) l’accertamento del rapporto di mediazione ex art. 1754 c.c. intercorso tra costei ed i convenuti, nonché l’accertamento della causalità del suo intervento nella conclusione del contratto di compravendita immobiliare tra i convenuti; (b) l’accertamento della simulazione del prezzo di acquisto indicato nel rogito, nonché l’accertamento dell’effettivo prezzo di vendita; (c) la condanna dei convenuti al pagamento del compenso di mediazione. In via subordinata, per il caso che sia accertata la cooperazione di più mediatori, l’attrice chiede: (d) l’accertamento della misura della provvigione che le spetta, sia da parte del venditore che dell’ac-quirente, con condanna dei convenuti al pagamento.

Nel costituirsi in giudizio, per quanto rileva ancora in questa sede, R.F. rileva che le persone messe in contatto tra di loro dall’attrice siano differenti dalle parti della compravendita de qua; afferma che, dopo la scadenza del contratto con la Cogi, si è rivolto ad un’altra agenzia, la “In casa” di A.C., con la quale ha sottoscritto un nuovo contratto di mediazione; eccepisce che la vendita si è conclusa per effetto esclusivo dell’intervento del secondo mediatore e che quindi nessuna provvigione è da riconoscere all’attrice; aggiunge che il prezzo di vendita indicato nel rogito, in assenza di diversa prova, è l’unico parametro di determinazione del compenso da riconoscere eventualmente all’attrice.

Nel costituirsi in giudizio, per quanto rileva ancora in questa sede, M.N., acquirente dell’immobile in comunione con il marito, ritiene che nessun rapporto sia intercorso tra l’attrice e lei, che si è limitata ad accompagnare sua madre, signora P., all’epoca interessata all’acquisto. Chiama in causa il secondo mediatore, che ha ricevuto da lei il compenso, per essere tenuta indenne rispetto alla quota di provvigione eventualmente dovuta all’attrice.

Nel costituirsi in giudizio, “In casa” di A.C. conferma di aver messo in contatto il venditore R. e l’acquirente M.; sostiene di aver rinunciato al compenso dovuto dal venditore e di aver ricevuto la provvigione esclusivamente dagli acquirenti, in misura inferiore al dovuto.

Nella sentenza di primo grado, per quanto ancora rileva in questa sede, il Tribunale di Bologna ha rigettato le domande attoree, ritenendo che: (a) la vicenda sia da inquadrare giuridicamente come mediazione; (b) l’attività dell’attrice non abbia avuto incidenza causale determinante nella conclusione dell’affare, che si è perfezionato per effetto dell’attività svolta in via autonoma da altra agenzia; (c) l’art. 1758 c.c. (sul diritto pro quota alla provvigione in caso di pluralità di mediatori) sia inapplicabile.

Il ricorso in cassazione è affidato a quattro motivi, illustrati da memoria. Resistono R.F. e M.N. con due controricorsi, illustrati rispettivamente da memorie.

 

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1. – Con il primo motivo, proposto ex art. 360, n. 3 e n. 4 c.p.c., si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 132 e 342 c.p.c., per avere la Corte di appello rigettato il primo motivo di gravame in quanto generico e privo di una specifica indicazione delle parti della sentenza di primo grado oggetto di censura. In particolare, la parte ricorrente assume che il giudice di secondo grado abbia applicato l’art. 342 c.p.c. nella versione vigente dal 2012, mentre il giudizio d’appello de quo è sottoposto ancora al vecchio regime, essendo stato instaurato nel 2011.

1.2. – Il primo motivo non è fondato. Il giudice di secondo grado non ha applicato l’art. 342 c.p.c., che sancisce l’inammissibilità dell’appello privo dei requisiti ivi previsti. E’ vero che la Corte ha parlato di “assenza di una specifica indicazione delle parti della motivazione oggetto di censura” e che, nell’esprimersi così, può ben essere stata influenzata dalla nuova versione dell’art. 342 c.p.c., ma si tratta di un accidentale condizionamento imitativo-lessicale, privo di effetti giuridico-processuali, che altrimenti si sarebbero tradotti in termini di dichiarazione d’inam-missibilità del motivo d’appello. Invece, esso è stato dichiarato infondato nel merito, con un’argomentazione che la ricorrente sottopone a censura con il secondo motivo di ricorso, oggetto di esame nel successivo paragrafo.

In conclusione, il primo motivo è rigettato.

2.1. – Con il secondo motivo, proposto ex art. 360, n. 3, n. 4 e n. 5 c.p.c., si deduce, sotto un primo profilo, la violazione e falsa applicazione degli artt. 1754,1755 e 1758 c.c.; si deduce inoltre, sotto un secondo profilo, la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2729 c.c., nonché di conseguenza la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4 c.p.c.; si deduce infine, sotto un terzo profilo, l’omesso esame di fatti decisivi.

E’ opportuno innanzitutto distinguere nettamente tra di loro il primo profilo del motivo dagli altri due, non tanto perché il secondo e il terzo profilo hanno un ruolo ancillare rispetto al primo (e quindi saranno esaminati successivamente), ma soprattutto perché è il primo che solleva la centrale questione di violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto sostanziale. In particolare, alla stregua di tale profilo del secondo motivo, la Corte d’appello avrebbe applicato falsamente gli artt. 1754,1755 c.c. poiché ha escluso che il diritto del mediatore sorga sol che questi abbia messo in relazione le parti e così abbia posto l’antecedente indispensabile per pervenire alla conclusione del contratto, secondo i principi della causalità adeguata, quand’anche egli non intervenga poi in ogni fase della trattativa e il processo di formazione della volontà negoziale delle parti sia complesso e articolato nel tempo.

2.2. – La quaestio iuris è la seguente: al fine di considerare che la conclusione dell’affare sia l’effetto dell’intervento del mediatore, è sufficiente o meno che questi abbia messo in relazione le parti e così abbia posto l’antecedente indispensabile per pervenire alla conclusione del contratto? La tesi giuridica sostenuta dalla ricorrente si risolve sostanzialmente nella risposta positiva a questa domanda, come si può desumere dall’accento che costei pone sulla “messa in relazione” delle parti da parte del mediatore, mentre è fatto scivolare in secondo piano il carattere adeguato dell’apporto causale di quest’ultimo, al fine di affermare che la conclusione dell’affare sia l’effetto dell’intervento del mediatore.

2.3. – Il Collegio reputa che tale tesi – pur argomentata con valorizzazione defensionale degli indirizzi giurisprudenziali a proprio vantaggio – non possa essere condivisa.

La tesi non può essere accolta – si badi bene – non già solo a cagione dell’intervento autonomo di un secondo mediatore (al quale un peso nella vicenda dovrà pur essere accordato). Infatti, l’intervento di un secondo mediatore non spezza di per sé il nesso di causalità tra l’opera del primo mediatore e la conclusione dell’affare. Ciò si ricava univocamente e direttamente dalla disciplina legislativa, cioè dalla presenza di una disposizione quale l’art. 1758 c.c., e trova conferma in giurisprudenza (così, tra le altre, Cass. 25762 del 2018).

La tesi non può incontrare consenso, poiché altrettanto univoco, in quanto direttamente desumibile dalla disciplina legislativa, è che la messa “in relazione di due o più parti per la conclusione di un affare” (art. 1754 c.c.) non è elemento sufficiente, di per sé, a far ritenere che l’affare sia “concluso per effetto” dell’intervento del mediatore (art. 1755 c.c.).

Ciò si ricava dalla interdipendente distinzione di ruolo e di portata normativa tra l’art. 1754 c.c. e l’art. 1755, comma 1 c.c. In sé considerata, la prima disposizione si limita a definire la figura del mediatore come “colui che mette in relazione due o più parti per la conclusione di un affare, senza essere legato ad alcuna di esse da rapporti di collaborazione, di dipendenza o di rappresentanza”. Considerato invece nella sua relazione con l’art. 1755, comma 1 c.c., l’art. 1754 c.c. consegue una portata normativa ulteriore rispetto al carattere esclusivamente defini-torio che gli è proprio in sé. La portata è di ordine negativo: diretta a negare, per l’appunto, che la semplice messa in relazione delle parti sia requisito idoneo, di per sé, a far reputare l’affare concluso per effetto dell’intervento del mediatore.

2.4. – Ci si persuade di ciò già se si pensa al circolo essenzialmente vizioso in cui si risolverebbe l’art. 1755, comma 1 c.c., ove fosse riscritto alla luce della tesi criticata. La riscrittura suonerebbe così: “colui che mette in relazione due o più parti per la conclusione di un affare ha diritto alla provvigione (…), se l’affare è concluso per effetto della semplice messa in relazione delle parti”. In altre parole, due e distinte sono le domande: (a) chi è il mediatore (art. 1754 c.c.); b) che cosa deve fare il mediatore per avere diritto alla provvigione (art. 1755, comma 1 c.c.). Non si può rispondere alla seconda domanda, evocando più o meno sic et simpliciter la risposta alla prima, altrimenti il senso normativo dell’art. 1755, comma 1 c.c. si appiattirebbe su quello dell’art. 1754 c.c. La nozione di causalità efficiente dell’intervento del mediatore accolta dall’art. 1755, comma 1 c.c. si ridurrebbe a considerare quest’ultimo una condicio sine qua non della conclusione dell’affare.

Di ciò è consapevole la giurisprudenza di questa Corte, come si può ricavare in controluce dalla stessa analisi condotta dalla parte ricorrente, ove si restituisca in primo piano ciò che quest’ultima, in una prospettiva defensionale, richiama fuggevolmente: il concetto di causalità adeguata, cioè la portata normativa della qualificazione di adeguatezza dell’opera del mediatore, laddove la giurisprudenza ricostruisce nel caso concreto l’efficienza causale dell’intervento del mediatore rispetto alla conclusione dell’affare (cfr., fra le più recenti, Cass. 11443 del 2022, 3134 del 2022, 7029 del 2021, 5495 del 2021, 4644 del 2021, 3055 del 2020).

2.5. – E’ appena il caso di ricordare che la nozione di “causalità adeguata” è stata sviluppata proprio al fine di mitigare la rigorosa imputazione dell’evento in base alla causalità condizionalistica (o della con-dicio sine qua non), nel senso che non tutte le condizioni sono considerate cause. Mutato ciò che si deve mutare nel passaggio da una branca del diritto all’altra, nel quadro dei rapporti tra art. 1754 e art. 1755, comma 1 c.c., il riferimento giurisprudenziale alla causalità adeguata assolve alla medesima funzione: di evitare che la causalità efficiente dell’intervento del mediatore di cui all’art. 1755, comma 1 c.c. si riduca alla causalità condizionalistica, si appiattisca cioè sulla definizione della figura del mediatore di cui all’art. 1754 c.c.

In altri termini, la nozione di causalità adeguata serve a rendere elastico il termine “effetto” di cui all’art. 1755, comma 1 c.c., nonostante sia prima facie percepibile la sua sudditanza linguistica alla teoria della causalità condizionalistica, se non della causalità naturale (“causa-effetto”). Il concetto di “effetto” si arricchisce della qualità della “adeguatezza”.

2.6. – Con sguardo riassuntivo che si volge al caso di specie, si devono riconoscere infatti due dati.

In primo luogo, la ricostruzione di “effetto adeguato” o di “efficienza causale adeguata” dell’intervento del mediatore rispetto alla conclusione dell’affare si muove elasticamente all’interno di un campo delimitato, ai due capi opposti, da due elementi rigidi, di ordine negativo: (a) di per sé, la semplice messa in relazione delle parti ad opera del primo mediatore non è sufficiente ad integrare l’efficienza causale adeguata ex art. 1755, comma 1 c.c.; (b) di per sé, il semplice intervento di un secondo mediatore non è sufficiente a privare ex post l’opera del primo mediatore della sua qualità di adeguatezza ex art. 1755, comma 1 c.c.

Il secondo dato è che la ricostruzione in positivo dell’efficienza causale adeguata dell’opera del mediatore è frutto dell’applicazione di un termine elastico, qual è quello di effetto adeguato di cui all’art. 1755, comma 1 c.c., nel senso precisato nel capoverso precedente.

2.7. – A proposito dell’adeguatezza dell’effetto di cui all’art. 1755, comma 1 c.c., si può richiamare pertanto il consolidato orientamento sul sindacato delle norme elastiche (rectius, delle disposizioni con parole o sintagmi elastici): esse sono “disposizion(i) di contenuto precettivo ampio e polivalente, destinato ad essere progressivamente precisato, nell’estrinsecarsi della funzione nomofilattica della Corte di Cassazione, fino alla formazione del diritto vivente mediante puntualizzazioni di carattere generale ed astratto”, per cui “l’operazione valutativa, compiuta dal giudice di merito (…) non sfugge ad una verifica in sede di giudizio di legittimità” (così, tra le molte, Cass. 12789 del 2022).

Orbene, l’osservazione del caso di specie non offre al Collegio occasione di compiere puntualizzazioni correttive dell’applicazione compiuta dai giudici di merito. Al fine di escludere l’efficienza causale adeguata dell’opera del primo mediatore rispetto alla conclusione della compravendita pesano in particolare le seguenti circostanze, così come correttamente apprezzate dai giudici nelle due istanze di merito: (a) la parte interessata all’acquisto che è stata messa in relazione con il venditore dalla ditta Cogi in esecuzione dell’incarico ricevuto da quest’ultimo è la signora P. (madre di M.N.), che non coincide con la parte acquirente nella compravendita de qua ( M.N., che ha accompagnato la madre nelle visite all’immobile svoltesi nel periodo di efficacia dell’incarico alla ditta Cogi); (b) l’affare si è concluso dopo un lasso di tempo significativo dalla scadenza dell’incarico conferito al primo mediatore; (c) il venditore si è rivolto ad un secondo mediatore, la cui opera – autonoma rispetto a quella del primo – ha avuto un ruolo di efficienza causale adeguata rispetto alla conclusione dell’affare.

Merita di sottolineare che – ad avviso del Collegio – nessuna di queste circostanze isolatamente considerata è in grado di giustificare un giudizio di correttezza dell’operazione ermeneutica dei giudici di merito. Esse cospirano a fondare un tale giudizio solo nella loro concomitanza nell’intero arco temporale della vicenda, nonché nel loro intreccio.

2.8. – La forza persuasiva che tale concomitante intreccio conferisce all’apprezzamento compiuto dai giudici di merito non è scalfita dalle censure articolate nel secondo e terzo profilo del secondo motivo. Alla stregua del secondo profilo, la ricorrente si lamenta che la seconda visita dell’immobile da parte di M.N. non sia stata valutata come un indizio grave, preciso e concordante con altri indizi (ex art. 2729 c.c.), idoneo a contribuire a provare l’efficienza causale dell’atti-vità del mediatore adeguata all’effetto della successiva conclusione dell’affare. Tale difetto di valutazione ridonderebbe nella violazione dell’art. 2697 c.c., poiché la Corte ha ritenuto che la ditta Cogi abbia mancato di fornire prove sufficienti del fatto costitutivo del diritto alla provvigione, e si rifletterebbe anche nell’omessa motivazione.

Alla stregua del terzo profilo del secondo motivo, la ricorrente censura che la Corte abbia omesso di esaminare ulteriori circostanze dalle quali si desumerebbe la consapevolezza che gli altri partecipanti della vicenda (le parti della compravendita, il secondo mediatore) hanno avuto del ruolo determinante del primo mediatore nella conclusione dell’affare. Si tratta in particolare delle circostanze che il secondo mediatore ha rinunciato a percepire la provvigione da parte del venditore ed ha concesso uno sconto anche all’acquirente.

I due profili si risolvono sostanzialmente nel questionare la prudenza o ragionevolezza dell’accertamento del giudice di merito circa i fatti rilevanti. Ciò vale in modo manifesto per il terzo profilo, che riguarda appunto l’omesso esame di circostanze decisive. Ma non vale in misura minore per il secondo motivo, ché l’episodica questione di violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto colà proposta – sotto specie di censura relativa agli artt. 2729 e 2697 c.c. – concerne pur sempre il mancato apprezzamento di un fatto (la seconda visita) come fatto secondario fonte di presunzioni idonee alla prova dell’efficienza causale adeguata dell’attività del mediatore.

E’ evidente che il giudizio che si fonda sul concomitante intreccio delle circostanze elencate nel paragrafo precedente non può essere scalfito nel suo carattere di prudenza e di ragionevolezza dalla valutazione del peso da attribuire alle circostanze di una seconda visita all’immobile, dell’esonero dalla corresponsione della provvigione, che il venditore ottiene dal secondo mediatore, e dello sconto praticato da quest’ultimo all’acquirente. Pertanto, gli apprezzamenti giudiziali bersagliati dal secondo e terzo profilo del secondo motivo di ricorso non potrebbero essere ribaltati in sede di legittimità se non al prezzo che questa Corte indebitamente sostituisca sic et simpliciter il proprio accertamento a quello proprio del giudice di merito (cfr. il significativo aggettivo possessivo “suo” impiegato dall’art. 116, comma 1 c.p.c.).

In conclusione, il secondo motivo non è fondato nel suo complesso ed è pertanto rigettato.

  1. – Con il terzo motivo, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 4, si deduce la nullità della sentenza e del procedimento per violazione e falsa applicazione degli artt. 112,132 e 246 c.p.c. per avere la Corte d’appello “con decisione sul punto del tutto priva di motivazione, confermato una incapacità (della teste L.B. a testimoniare) non pronunciata dal primo giudice e fondato immotivatamente ed apoditticamente il suo convincimento su tale inesistente presupposto”.

Il motivo è da dichiarare inammissibile. Dal brano rilevante della sentenza di primo grado emerge che: “non è invece stato efficacemente dimostrato in causa che tale prima visita sia stata seguita da una seconda (…), stante la ritenuta incapacità a testimoniare dell’unica teste dedotta dalla attrice ( L.B.). Sul punto si osserva quanto segue: anche a ritenere che non ricorresse nella fattispecie interesse concreto della teste tale da prefigurare la incapacità a testimoniare ex art. 246 c.p.c., reputa questo giudice che alla luce dei dati tutti di giudizio emergenti agli atti la testimonianza sia da valutarsi superflua ai fini del decidere”.

Il motivo di ricorso muove dal presupposto erroneo che il giudice di primo grado non si sia pronunciato nel senso della incapacità della teste L.B. a testimoniare. In realtà, come si è potuto constatare dalla lettura del brano rilevante, la decisione di non ammettere la deposizione della teste si fonda vuoi sulla “ritenuta incapacità a testimoniare”, vuoi sulla valutazione di superfluità della testimonianza ai fini del decidere. Viceversa, l’argomentazione del terzo motivo concentra le proprie censure solo sui vizi da cui sarebbe affetta la decisione ba-santesi “semplicemente” sulla seconda delle due ragioni (la superfluità della testimonianza).

Orbene, si osserva che ove una pronuncia sia sorretta da una pluralità di ragioni, distinte ed autonome, ciascuna delle quali giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata, l’omessa impugnazione di una di esse (nel caso di specie: di quella relativa all’incapacità a testimoniare) rende inammissibile la censura relativa alle altre. Infatti, quand’anche tale censura fosse fondata, essa non potrebbe sfociare nell’annullamento della sentenza sul punto incompletamente censurato, essendo divenuta definitiva l’autonoma motivazione non impugnata (in questo senso, tra le molte, cfr. Cass. 17182 del 2020).

In conclusione, il terzo motivo è inammissibile.

  1. – Con il quarto motivo, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362,1363,1365,1366 e 1369 c.c. per avere la Corte d’appello trascurato di applicare una clausola contrattuale dell’accordo tra la ditta Cogi e R.F.. Pertanto, il quarto motivo coinvolge soltanto la posizione di quest’ultimo.

Con tale motivo si deduce in particolare che la Corte d’appello abbia trascurato di applicare una clausola contrattuale dell’accordo tra la ditta Cogi e R.F.. Tale clausola prevede: “In caso di vendita effettuata direttamente nel periodo dell’incarico, in caso di vendita effettuata direttamente dopo la scadenza a clienti da Voi presentati nel periodo dell’incarico e per revoca del presente, Vi sarà corrisposta una somma, a titolo di penale, pari al 75% del compenso pattuito”.

Il quarto motivo di ricorso è fondato nel senso specificato di seguito. Esso è stato già proposto come motivo di gravame e la Corte d’appello lo ha rigettato poiché, alla stregua di una interpretazione secondo buona fede, ha ritenuto che la clausola non dovesse applicarsi al caso di specie, in cui il venditore non ha effettuato una vendita direttamente, ma si è avvalso dell’opera di un secondo mediatore. Viceversa, la clausola avrebbe potuto trovare applicazione nel caso in cui R. avesse approfittato dell’attività svolta dalla ditta Cogi per concludere direttamente la compravendita, dopo la scadenza dell’incarico, senza l’ap-porto di alcun altro mediatore. Al contrario, nel caso di esame – conclude la Corte d’appello – la conclusione dell’affare è avvenuta, a distanza di un apprezzabile lasso di tempo rispetto alla scadenza del primo incarico, con l’intervento di un secondo mediatore, incaricato in modo autonomo dal primo.

Con tale argomentazione, il giudice d’appello ha violato innanzitutto l’art. 1362 c.c., privilegiando unilateralmente l’interpretazione letterale dell’avverbio “direttamente” rispetto alla comune intenzione delle parti, quale può essere ricostruita in modo relativamente agevole dalla qualificazione giuridica che costoro hanno attribuito alla clausola de qua, dal contenuto negoziale di quest’ultima, nonché dal comportamento delle parti anche posteriore alla conclusione dell’accordo. Con ciò la Corte d’appello ha sostanzialmente rovesciato l’ordine di priorità fissato dall’art. 1362 c.c. per l’impiego dei canoni ermeneutici dei contratti.

Innanzitutto, le parti hanno espressamente qualificato la clausola come “penale”. La qualificazione è corretta, con la precisazione che essa è diretta a determinare previamente e in modo forfettario l’am-montare della cifra dovuta a titolo di indennizzo per l’attività svolta dal mediatore nell’interesse del venditore nel periodo di vigenza dell’inca-rico, indipendentemente dal fatto che l’affare si sia successivamente concluso per effetto dell’intervento del mediatore. L’irrilevanza del contributo causale dato dall’attività del mediatore alla posteriore conclusione della compravendita emerge dall’elemento portante della fattispecie cui la clausola collega l’obbligo del pagamento al 75% del compenso pattuito. L’elemento è che il compratore rientri nel novero delle persone che il mediatore ha presentato al venditore. Infatti, nella struttura e nella funzione della clausola, fondamentale è il contributo dato dal mediatore all’individuazione della controparte, non già la mera modalità (diretta o indiretta, merce’ l’intervento di un secondo mediatore) con cui si è concluso l’affare.

In primo luogo, tale elemento è indizio che la funzione della penale non è afflittiva (a cagione d’un ipotetico inadempimento, che invece non esiste nemmeno nella supposizione delle parti, come si può desumere dall’aggiunta “per revoca del presente”: in realtà ultronea, ma pur sempre indice dell’intenzione), bensì indennitaria delle spese incontrate dal mediatore nel mettere in contatto le parti. In secondo luogo, tale elemento nel suo essere condizione necessaria e sufficiente al sorgere dell’obbligo pecuniario esclude la rilevanza di qualsiasi altro aspetto. Esso rende cioè irrilevante che la conclusione dell’affare sia l’effetto dell’intervento del primo mediatore (come invece hanno ritenuto i giudici di primo e di secondo grado, condizionati dall’idea che il nesso di causalità sia sotteso anche all’operatività della clausola penale), sia l’effetto dell’opera del secondo mediatore, oppure sia dovuta all’attività diretta del venditore. Cosicché l’aspetto che la Corte d’ap-pello ha reputato centrale (cioè che la vendita sia avvenuta “direttamente”, nel significato attribuito) si rivela in realtà come una modalità accidentale.

Che questa sia l’interpretazione maggiormente persuasiva si profila anche alla luce di aspetti complementari, attinenti al comportamento successivo delle parti, in particolare del venditore, dal momento che egli si è dato premura di ottenere l’esonero dal pagamento della provvigione al secondo mediatore. Con ciò l’interpretazione così determinata è in linea con gli altri canoni ermeneutici di cui agli artt. 1362 ss. c.c., quali l’interpretazione secondo buona fede (art. 1366 c.c.), la conservazione degli effetti della clausola (art. 1367 c.c.), l’equo contemperamento degli interessi delle parti (art. 1371 c.c.).

Le ragioni sottese alla fondatezza del quarto motivo di ricorso lasciano impregiudicata, e pertanto affidata al giudice di rinvio, la valutazione se la già menzionata clausola, nei termini in cui è stato teste’ ricostruito il suo valore giuridico, rivesta o meno un carattere vessatorio ai sensi degli artt. 33 ss. cod. cons.

In conclusione, il quarto motivo è accolto.

  1. – In relazione al rigetto del secondo motivo di ricorso, il Collegio enuncia il seguente principio di diritto:

“Al fine del sorgere del diritto alla provvigione ex art. 1755, comma 1 c.c., è necessario che la conclusione dell’affare sia effetto causato adeguatamente dal suo intervento, senza che il mettere in relazione delle parti tra di loro ad opera del mediatore sia sufficiente di per sé a conferire all’intervento di questi il carattere di adeguatezza, né che l’intervento di un secondo mediatore sia sufficiente di per sé a privare ex post l’opera del primo mediatore di tale qualità di adeguatezza”.

  1. – In conclusione, è accolto il quarto motivo di ricorso; è dichiarato inammissibile il terzo motivo; sono rigettati i primi due motivi; è cassata con rinvio la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto.

 

P.Q.M.

La Corte accoglie il quarto motivo di ricorso nei sensi di cui in motivazione; dichiara inammissibile il terzo motivo; rigetta i primi due motivi; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la causa alla Corte d’appello di Bologna in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 25 maggio 2022.

Depositato in Cancelleria il 2 febbraio 2023

 

Per i vizi dell’opera rispondono in via solidale l’appaltatore e il direttore dei lavori?

 

Cassazione civile sez. II – 19/07/2022 n. 22575

L’annotata ordinanza della Sprema Corte ha affermato il seguente principio: “ qualora il danno subito dal committente rientri nell’ambito dell’articolo 1669 c.c., e sia conseguenza dei concorrenti inadempimenti dell’appaltatore e del direttore dei lavori “entrambi rispondono solidalmente dei danni, essendo sufficiente, per la sussistenza della solidarieta’, che le azioni e le omissioni di ciascuno abbiano concorso in modo efficiente a produrre l’evento, a nulla rilevando che le stesse costituiscano autonomi e distinti fatti illeciti, o violazioni di norme giuridiche diverse” (Cass. 18521/2016), trovando il vincolo di responsabilita’ solidale “fondamento nel principio di cui all’articolo 2055 c.c.” (Cass. 18289/2020)”

IL CASO.  A rivolgersi agli ermellini è la ditta appaltatrice chiamata in causa dall’architetto direttore dei lavori in uno stabile.
Il condominio assumeva che i lavori erano stati mal eseguiti e chiedeva un cospicuo risarcimento.
Il direttore dei lavori faceva notare tra l’altro che l’azione di risarcimento era stata avanzata dal condominio solo nei suoi confronti, non della ditta esecutrice, che si difendeva assumendo di non essere tenuta al vincolo di solidarietà nei confronti del direttore dei lavori esterno.
Secondo la Corte la diversa natura contrattuale delle due prestazioni non incide quando entrambe le attività possono concorrere alla produzione del danno.
Non incide neppure il dato della scarsa presenza del direttore dei lavori nel cantiere. Indipendentemente dalla frequenza dei controlli, il direttore dei lavori avrebbe potuto contestare le modalità esecutive dell’opera rispetto al progetto anche con un’unica visita all’interno dell’edificio.
Responsabilità condivisa quindi e risarcimento da corrispondere al condominio danneggiato.
E il ruolo dell’amministratore? Il contratto di appalto è deciso dall’assemblea condominiale e l’amministratore deve curare la sua esecuzione, in base all’articolo 1130 del Codice civile non trascurando gli articoli 90 e 93 del decreto legislativo 81/2008 sulla sicurezza sul lavoro che obbligano il committente a verificare l’idoneità tecnica professionale della ditta appaltatrice e ad acquisirne la relativa visura camerale e il Durc, il documento unico di regolarità contributiva.
Attenzione soprattutto al contratto: l’appaltatore deve eseguire i lavori a regola d’arte, in conformità al contratto d’appalto, capitolati, computi metrici, normative in tema di sicurezza del lavoro.
Nell’ambito dei lavori del 110% e comunque dei bonus edilizi si devono verificare e collaudare gli interventi alla presenza dell’appaltatore, del committente e/o del direttore dei lavori, in occasione dei vari Sal (stati avanzamento lavori) da inviare all’Enea e all’agenzia delle Entrate.
Verifica che può portare ad accettazione dei lavori senza riserve, ad accettazione con riserva per riscontrati vizi o difetti o a una dichiarazione di non accettazione.
In questi due ultimi casi, vanno indicate le motivazioni, supportate da idonea documentazione.
In caso di riscontrati vizi e/o difetti imputabili all’appaltatore, lo stesso dovrà porvi rimedio.
Gli amministratori committenti devono prestare attenzione alle clausole contrattuali che escludono le responsabilità dell’appaltatore per danni indiretti, che escludono o limitano le eventuali garanzie di risultato (performance) indicate nel contratto e negli allegati, o che escludono responsabilità per ogni mancato guadagno e/o perdita per mancata e/o limitata commerciabilità e/o redditività degli immobili oggetto dei lavori.

 

Il testo della sentenza

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGILIO    Rosa Maria                    –  Presidente   –

Dott. GRASSO         Giuseppe                      –  Consigliere  –

Dott. ABETE          Luigi                         –  Consigliere  –

Dott. DONGIACOMO     Giuseppe                      –  Consigliere  –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara                   –  rel. Consigliere  –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 13395/2017 proposto da:

B.G., TITOLARE DI IMPRESA S. di  B.G.,

elettivamente domiciliato in ROMA,

– ricorrente –

contro

CONDOMINIO (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro

tempore elettivamente domiciliato in ROMA,

– controricorrente –

e contro

R.G.S., elettivamente domiciliato in ROMA, V

– controricorrente e ricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 826/2017 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 27/02/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

25/02/2022 dal Consigliere CHIARA BESSO MARCHEIS.

PREMESSO IN FATTO

CHE

  1. Il Condominio di (OMISSIS) conveniva in giudizio l’architetto R.G.S., direttore dei lavori di manutenzione straordinaria effettuati nello stabile condominiale, al fine di ottenerne la condanna al risarcimento dei danni asseritamente collegati agli eseguiti interventi. Si costituiva l’architetto R. chiamando in causa B.G., quale titolare della ditta individuale S. di B.Gche aveva eseguito i lavori, chiedendo che, in caso di accertamento dei vizi lamentati dall’attore e in considerazione dell’addebitabilità degli stessi all’appaltatore, questo fosse condannato a indennizzarlo della eventuale condanna. Si costituiva B., che eccepiva come rispetto ai vizi denunciati fossero ormai decorsi i termini di cui agli artt. 1667,1668 e 1669 c.c.; il chiamato evidenziava anche l’avvenuto svolgimento di un giudizio arbitrale da egli instaurato per ottenere il pagamento da parte del Condominio di ulteriori lavori non previsti nel contratto, giudizio arbitrale che si era concluso con l’accoglimento della sua domanda e il rigetto delle domande riconvenzionali del Condominio relative alla “cattiva esecuzione” del contratto d’appalto.

Il Tribunale di Milano, con sentenza n. 3070/2015, ha parzialmente accolto la domanda del Condominio e, accertato l’inadempimento del convenuto all’incarico professionale, lo ha condannato al risarcimento del danno quantificato in Euro 64.073,30; ha poi parzialmente accolto la domanda di regresso dell’architetto R. e ha condannato l’appaltatore a tenerlo indenne nella misura del 70%.

  1. La sentenza è stata impugnata in via principale da B.; R. ha impugnato in via incidentale, chiedendo di accertare la responsabilità esclusiva dell’appaltatore. La Corte d’appello di Milano con sentenza 27 febbraio 2017, n. 826 – ha rigettato sia l’appello principale che quello incidentale.
  2. Avverso la sentenza della Corte d’appello B.G. ricorre per cassazione.

Resiste con controricorso R.G.S., che propone ricorso incidentale.

Resiste con distinti atti di controricorso avverso il ricorso principale e quello incidentale il Condominio di (OMISSIS).

Il ricorrente incidentale ha depositato memoria.

Con atto datato 2 aprile 2021 il difensore di B. ha comunicato di avere rinunciato al mandato conferitogli; con atto del 21 luglio 2021 si è costituito il nuovo difensore.

 

CONSIDERATO IN DIRITTO

CHE:

  1. Il ricorso principale è articolato in quattro motivi, che ripropongono doglianze già sottoposte al giudice d’appello con i motivi di gravame.

1) Il primo motivo contesta “violazione del divieto del ne bis in idem, violazione del pur riconosciuto obbligo di astenersi dal deliberare intorno alla responsabilità del deducente nei confronti del Condominio, in relazione al compromesso e al lodo munito di esecutorietà”: il giudice d’appello ha ritenuto che gli effetti del lodo non fossero opponibili a R. perché la decisione arbitrale non poteva vincolarlo, ma “i fatti accertati nel lodo, per quanto circoscritti all’attività dell’impresa appaltatrice, sono estensibili al direttore dei lavori, il quale potrà giovarsi in giudizio, salvo ove ci fosse la responsabilità di quest’ultimo nell’espletamento dell’incarico assegnatogli dal Condominio, la quale del resto è oggetto di precisa domanda nei suoi confronti”; rileva quindi la netta distinzione tra le responsabilità dell’appaltatore e del direttore dei lavori, evidentemente dipendenti da due negozi distinti.

2) Il secondo motivo contesta “violazione degli artt. 99,100 e 101 c.p.c., per avere il giudice proceduto ad autonoma qualificazione della domanda proposta dal convenuto nei confronti dell’impresa; violazione degli artt. 88,100 e 101 c.p.c., per avere il giudice di prime cure qualificato la domanda proposta dal Condominio addirittura contra dicta e quindi contro la proclamata volontà dell’interessato”: il Condominio non ha mai avanzato alcuna domanda nei confronti dell’impresa appaltatrice, avendo agito in giudizio nei confronti del solo direttore dei lavori “per fatti propri”.

3) Il terzo motivo fa valere “violazione degli artt. 1292 e 2055 c.c., per avere la Corte d’appello asserito l’esistenza di responsabilità solidale e di conseguente regresso a favore del preteso coobbligato, senza avere competenza per delibare sulla responsabilità del deducente nei confronti del Condominio”: nel caso di specie non vi è alcuna responsabilità solidale tra il direttore dei lavori e l’appaltatore, con conseguente inapplicabilità dell’art. 2055 c.c..

4) Il quarto motivo contesta, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, “mancata delibazione in ordine alle numerose eccezioni preliminari e di merito spiegate dal deducente, che è andato oltre le eccezioni preliminari ed aveva ritualmente proposto eccezioni di prescrizione e di infondatezza delle pretese spiegate nei suoi confronti”: la Corte d’appello, nel rigettare il motivo di gravame, sarebbe partita da un presupposto “fuorviante”, ossia che l’azione nei confronti dell’impresa appaltatrice non è stata proposta dal Condominio, ma dal direttore dei lavori, quando ciò che rileva sarebbe che “il Condominio si è astenuto dal rivolgere qualunque domanda nei confronti del deducente”, fatto decisivo che sarebbe stato omesso dal giudice d’appello.

I motivi, tra loro strettamente connessi, non possono essere accolti. Il terzo motivo nega la sussistenza del vincolo di solidarietà tra il direttore dei lavori e l’appaltatore e l’inapplicabilità dell’art. 2055 c.c., negazione della solidarietà che è sottesa anche al secondo, al primo e al quarto motivo. Il ricorrente in tal modo non considera che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, qualora il danno subito dal committente rientri nell’ambito dell’art. 1669 c.c., e sia conseguenza dei concorrenti inadempimenti dell’appaltatore e del direttore dei lavori come nel caso in esame ha accertato il giudice d’appello (cfr. le pp. 10 e 11 del provvedimento impugnato) – “entrambi rispondono solidalmente dei danni, essendo sufficiente, per la sussistenza della solidarietà, che le azioni e le omissioni di ciascuno abbiano concorso in modo efficiente a produrre l’evento, a nulla rilevando che le stesse costituiscano autonomi e distinti fatti illeciti, o violazioni di norme giuridiche diverse” (Cass. 18521/2016), trovando il vincolo di responsabilità solidale “fondamento nel principio di cui all’art. 2055 c.c.” (Cass. 18289/2020), “a nulla rilevando in contrario la natura e la diversità dei contratti cui si ricollega la responsabilità”, essendo sia l’appaltatore che il direttore dei lavori, con le rispettive azioni od omissioni, “entrambi autori dell’unico illecito extracontrattuale, e perciò rispondendo, a detto titolo, del danno cagionato” (Cass. 8016/2012); infatti le attività dell’appaltatore come quella del direttore dei lavori “pur essendo i contratti ai quali si ricollegano di diverse. natura possono concorrere tutte alla produzione del danno, con la conseguenza che gli indicati soggetti (indipendentemente dalla graduazione delle rispettive colpe nei rapporti interni) sono tenuti a risarcire integralmente i danneggiati” (Cass. 4900/1993).

Per quanto concerne specificamente la censura, di cui al primo motivo, di violazione del ne bis in idem in relazione al lodo reso nel giudizio arbitrale, correttamente la Corte d’appello ha rilevato che l’architetto R. era estraneo al contratto d’appalto e pertanto la clausola compromissoria a questo apposto non poteva vincolarlo e il lodo non poteva avere nei suoi confronti alcun effetto. Al riguardo va precisato che il titolare dell’impresa appaltatrice è stato chiamato in causa con la proposizione nei suoi confronti dell’azione di regresso da parte del direttore dei lavori (come puntualizza la Corte d’appello, correttamente e non in modo “fuorviante” come deduce il ricorrente nel quarto motivo) e che l’art. 1306 c.c., si applica nei soli rapporti tra creditore e coobbligato solidale e non ai rapporti di regresso tra i vari condebitori. Ne consegue che nell’azione di regresso del condebitore nei confronti dell’altro coobbligato, il coobbligato convenuto (il ricorrente) non può “opporre altro e contrastante giudicato, col quale sia stata rigettata la pretesa creditoria nei suoi confronti” (Cass. 16117/2013).

Il ricorso principale va pertanto rigettato.

  1. Il ricorso incidentale è articolato in due motivi.

1) Il primo motivo denuncia “violazione e falsa applicazione dell’art. 1669 c.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5, per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione in ordine alla mancata sorveglianza dei lavori eseguiti dall’impresa appaltatrice”.

Il motivo non può essere accolto. In rubrica, anzitutto, viene richiamato un parametro – l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione – non applicabile ratione temporis alla fattispecie. Nello sviluppo del motivo si lamenta poi che la Corte d’appello abbia “del tutto ignorato” dati di fatto che confuterebbero l’assunto della mancata vigilanza sui lavori da parte di R., dati di fatto di cui non si ravvisa il carattere della decisività alla luce dell’accertamento di fatto posto in essere dal giudice d’appello, secondo cui, “indipendentemente dalla frequenza in cantiere di R., quello che è certo è che non risulta alcun intervento da parte sua volto alla contestazione delle modalità esecutive dell’opera anche per la parte non rispondente a progetto” (p. 12 della sentenza impugnata). Nella parte finale del motivo, infine, si contesta che il ricorrente, pur non avendo alcuna responsabilità per i vizi lamentati o comunque una responsabilità pari solo al 30%, sia stato condannato al risarcimento integrale in favore del Condominio, così non considerando la solidarietà della responsabilità dell’appaltatore e del direttore dei lavori (supra, sub I).

2) Il secondo motivo contesta “violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., omessa motivazione in ordine alla condanna al pagamento delle spese processuali dei due gradi di giudizio”: il ricorrente non doveva essere condannato al pagamento delle spese in favore del Condominio, in quanto il processo “non è causalmente riconducibile ad alcun suo comportamento”.

Il motivo non può essere accolto. Il ricorso per cassazione è infatti rivolto nei confronti della pronuncia del giudice di secondo grado, che ha integralmente rigettato l’appello incidentale di R., così che – in corretta applicazione dell’art. 91 c.p.c. – ha condannato quest’ultimo al pagamento delle spese in favore del Condominio.

Il ricorso incidentale va quindi rigettato.

III. Considerata la reciproca soccombenza vanno compensate le spese tra i due ricorrenti, che vanno condannati in solido al rimborso delle spese del giudizio di legittimità nei confronti del Condominio.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale e di quello incidentale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

 

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso principale e quello incidentale, compensa le spese del presente giudizio tra il ricorrente principale e il ricorrente incidentale e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese in favore del controricorrente, che liquida in Euro 5.800, di cui Euro 200 per esborsi, oltre spese generali (15%) e accessori di legge.

Sussistono,D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13, comma 1 quater, i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale e di quello incidentale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella adunanza camerale della Sezione Seconda Civile, il 25 febbraio 2022.

Depositato in Cancelleria il 19 luglio 2022

E’ dovuto l’indennizzo in caso di assicurazione privata per malattia e “garanzia per l’invalidità permanente” in caso di malattie mortali ?

 

Cassazione civile sez. III – 17/03/2015, n. 5197

Con un arresto non recentissimo la Suprema Corte di Cassazione ha affermato il seguente principio: “L’invalidità permanente costituisce uno stato menomativo, stabile e non remissibile, che si consolida soltanto all’esito di un periodo di malattia e non può quindi sussistere prima della sua cessazione; ne consegue che, se un contratto di assicurazione prevede il pagamento di un indennizzo nel caso di invalidità permanente conseguente a malattia, nessun indennizzo è dovuto se la malattia, senza guarigione clinica, abbia avuto esito letale

IL CASO. Parte attrice chiedeva in giudizio il pagamento di un indennizzo, affermando che il proprio congiunto aveva stipulato una polizza assicurativa a copertura del rischio di invalidità permanente causata da malattia, nonché che aveva poi contratto un tumore allo stomaco, malattia che lo condusse a morte.
La Suprema Corte, rifacendosi a principi medico legali, ribadisce che l’esistenza di una malattia in atto e l’esistenza di uno stato di invalidità permanente non sono tra loro compatibili: sinché durerà la malattia, permarrà uno stato di invalidità temporanea, ma non v’è ancora invalidità permanente; se la malattia guarisce con postumi permanenti si avrà uno stato di invalidità permanente, ma non vi sarà più invalidità temporanea; se la malattia dovesse condurre a morte dell’ammalato, essa avrà causato solo un periodo di invalidità temporanea. Secondo i principi medicolegali, a qualsiasi lesione dell’integrità psicofisica consegue sempre un periodo di invalidità temporanea, alla quale può conseguire talora un’invalidità permanente. La nozione medicolegale di invalidità permanente presuppone che la malattia sia cessata, e che l’organismo abbia riacquistato il suo equilibrio, magari alterato, ma stabile.
Ciò non avviene quando, come nel caso in questione, l’evoluzione della malattia porta alla morte.

 

Il testo della sentenza 

Cassazione civile sez. III – 17/03/2015, n. 5197

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RUSSO     Libertino Alberto                 –  Presidente   –

Dott. SPIRITO   Angelo                            –  Consigliere  –

Dott. STALLA    Giacomo Maria                     –  Consigliere  –

Dott. CARLUCCIO Giuseppa                          –  Consigliere  –

Dott. ROSSETTI  Marco                        –  rel. Consigliere  –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 20873/2011 proposto da:

F.C.   (OMISSIS),                    F.G.

(OMISSIS),                F.A.  (OMISSIS),  tutti

nella loro qualità di eredi dei defunti            F.R. E      S.

M.L.,  elettivamente domiciliati in ROMA

– ricorrenti –

contro

H ASSICURAZIOII

(OMISSIS),  in  persona del procuratore  speciale  Dott.      T.

R.,  elettivamente domiciliata in ROMA

– controricorrente –

avverso  la  sentenza  n. 90/2011 della CORTE  D’APPELLO  di  MILANO,

depositata il 17/01/2011, R.G.N. 2301/2006;

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

  1. Nel 2003 i sigg.ri S.M.L., F.C., F.A. e F.G. convennero dinanzi al Tribunale di Milano la società “H ASSICURAZIONI, esponendo che:

(-) nel 1995 il proprio congiunto F.R. aveva stipulato una polizza assicurativa a copertura:

(a) del rischio di invalidità permanente causata da malattia;

(b) del rischio di degenza ospedaliera causata da malattia;

(-) nel 2001 F.R. contrasse un tumore allo stomaco;

venne perciò ricoverato ed operato; la malattia tuttavia lo condusse a morte nel 2002;

(-) l’assicuratore aveva rifiutato il pagamento sia dell’indennizzo dovuto per l’ipotesi di invalidità permanente, sia di quello dovuto per l’ipotesi di malattia.

  1. Con sentenza 28.2.2006 il Tribunale di Milano accolse la domanda.

La sentenza venne impugnata dalla H ASSICURAZIONI.

Con sentenza 17.1.2011 la Corte d’appello Milano confermò la condanna dell’assicuratore al pagamento dell’indennizzo dovuto per il rischio di degenza ospedaliera; rigettò invece la domanda di condanna al pagamento dell’indennizzo dovuto per il rischio di invalidità permanente.

Ritenne la Corte d’appello che rispetto alla copertura per invalidità permanente il rischio assicurato nella specie non si fosse mai avverato, perchè la malattia contratta dall’assicurato ebbe esito letale: di conseguenza, non essendo mai avvenuta la guarigione clinica, mai potevano essersi consolidati postumi permanenti di sorta.

  1. La sentenza d’appello è stata impugnata per cassazione (in base a tre motivi di ricorso) da F.C., F.A. e F.G., i quali hanno dichiarato di agire anche quali eredi di S.M.L., deceduta nelle more del giudizio.

Ha resistito con controricorso la H ASSICURAZIONI.

MOTIVI DELLA DECISIONE

  1. Il primo motivo di ricorso.

1.1. Col primo motivo di ricorso i ricorrenti lamentano che la sentenza impugnata sia affetta dal vizio di violazione di legge, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3.. Assumono violati gli artt. 1325 e 1882 c.c..

Espongono, al riguardo, che il contratto di assicurazione stipulato da F.R. copriva il rischio di “invalidità permanente”, definito nelle condizioni generali come la “perdita o diminuzione, definitiva irrimediabile, della capacità dell’esercizio della propria professione (…) e di ogni altro lavoro (…), conseguente a malattia”.

Nel caso di specie l’assicurato, a causa del tumore, perse la capacità di lavoro: e dunque si era avverato il rischio assicurato.

La Corte d’appello invece, aveva – errando – ritenuto che nella specie nessuna “invalidità permanente” fosse insorta, perchè quest’ultima è concepibile solo quando, guarita la malattia, questa abbia lasciato postumi permanenti all’ammalato.

1.2. Il motivo è inammissibile.

Ad onta della sua intitolazione formale, infatti, il motivo pone esclusivamente una questione di interpretazione del contratto: ovvero quale dovesse essere il senso da attribuire all’espressione “invalidità permanente” in esso contenuta.

Le norme che i ricorrenti assumono violate (gli artt. 1325 e 1882 c.c.) sono del tutto irrilevanti nel presente giudizio, nel quale mai si è fatta questione nè di quali fossero gli elementi essenziali del contratto (art. 1325 c.c.), nè del fatto che quello stipulato tra le parti fosse un contratto di assicurazione (art. 1882 c.c.).

Nè ovviamente è consentito a questa Corte supplire a carenze motivazionali dei ricorsi, andando a ricercare d’ufficio quali fossero le norme che il ricorrente intendeva assumere come violate.

  1. Il secondo motivo di ricorso.

2.1. Col secondo motivo di ricorso i ricorrenti lamentano, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, che la sentenza impugnata abbia violato le regole legali di ermeneutica di cui agli artt. 1362, 1363 e 1366 c.c..

2.1.1. Il criterio di interpretazione letterale sarebbe stato violato a causa del senso attribuito dalla Corte d’appello all’espressione “invalidità permanente”. Espongono i ricorrenti che secondo l’interpretazione del giudice di merito una invalidità permanente può concepirsi solo quando la malattia sia esaurita ed il paziente sia guarito con postumi: ma tale interpretazione sarebbe in contrasto con la chiara lettera del contratto, che definiva l’invalidità come la perdita definitiva della capacità di lavoro, perdita che nel caso di specie si è verificata già nel corso della malattia patita dall’assicurato, a nulla rilevando che la malattia stessa fosse inguaribile ed abbia condotto a morte l’assicurato, e quindi che non sia mai avvenuta una guarigione clinica.

2.1.2. La Corte d’appello avrebbe trascurato, poi, di valutare la condotta delle parti successiva alla conclusione del contratto: ed infatti nella fase stragiudiziale la H ASSICURAZIONI aveva rifiutato il pagamento dell’indennizzo assumendo che il diritto all’indennizzo non fosse trasferibile agli eredi, mentre nulla aveva eccepito circa la sussistenza nella specie d’un danno da invalidità temporanea.

2.1.3. La Corte d’appello avrebbe violato altresì il criterio di interpretazione complessiva del contratto (art. 1363 c.c.), là dove ha desunto la nozione di “invalidità permanente” posta a fondamento della decisione dalla clausola contrattuale che impediva l’accertamento della suddetta invalidità prima del decorso d’un anno dalla denuncia della malattia: clausola che, secondo i ricorrenti, disciplinava il quantum dell’indennizzo e non l’indennizzabilità dell’infortunio.

2.1.4. Infine, i ricorrenti lamentano che la decisione del Tribunale abbia violato il criterio di interpretazione del contratto secondo buona fede (art. 1366 c.c.), perchè escluderebbe l’indennizzabilità di tutte le malattie ad esito infausto, alterando l’equilibrio contrattuale e “l’equo contemperamento degli interessi delle parti”.

2.2. Il motivo è manifestamente infondato in tutti e quattro i profili in cui si articola.

Non vi è stata, in primo luogo, alcuna violazione del criterio di interpretazione letterale.

La Corte d’appello era chiamata infatti ad interpretare un contratto di assicurazione contro le malattie.

L’assicuratore, in forza di tale contratto, si era obbligato al pagamento in favore dell’assicurato d’un indennizzo nel caso in cui la malattia avesse causato una “invalidità permanente”.

Quest’ultima era contrattualmente definita come la “perdita o diminuzione, definitiva e irrimediabile, della capacità dell’esercizio della propria professione (…) e di ogni altro lavoro (…), conseguente a malattia”.

Secondo la Corte d’appello, la suddetta “perdita o diminuzione” non potrebbe che concepirsi una volta esaurita la fase acuta della malattia.

Secondo i ricorrenti, invece, una “invalidità permanente” potrebbe concepirsi anche a malattia in corso, quando questa sia destinata ad avere un esito infausto.

2.3. L’interpretazione letterale propugnata dai ricorrenti è erronea.

Un contratto è un testo giuridico.

Le espressioni in esso contenute, se potenzialmente ambivalenti, vanno interpretate secondo il senso che è loro proprio nel contesto giuridico, non certo secondo il buon senso od il linguaggio comune.

Il lemma “invalidità” è un lemma tecnico. Esso è frutto di una elaborazione ormai quasi secolare in ambito medico legale.

Essa designa uno stato menomativo che può essere transeunte (invalidità temporanea) o permanente (invalidità permanente).

L’espressione “invalidità temporanea” designa lo stato menomativo causato da una malattia, durante il decorso di questa.

L’espressione “invalidità permanente” designa lo stato menomativo che residua dopo la cessazione d’una malattia.

L’esistenza d’una malattia in atto e l’esistenza di uno stato di invalidità permanente non sono tra loro compatibili: sinchè durerà la malattia, permarrà uno stato di invalidità temporanea, ma non v’è ancora invalidità permanente; se la malattia guarisce con postumi permanenti si avrà uno stato di invalidità permanente, ma non vi sarà più invalidità temporanea; se la malattia dovesse condurre a morte l’ammalato, essa avrà causato solo un periodo di invalidità temporanea.

2.4. I principi appena esposti sono stati mutuati dal legislatore in numerosissime norme. Per tutte, basterà ricordare:

(a) il D.Lgs. 7 settembre 2005, n. 209, art. 137, comma 1, (codice delle assicurazioni), il quale distinguendo il danno patrimoniale da inabilità temporanea rispetto a quello da invalidità permanente, implicitamente conferma che quest’ultima presuppone l’avvenuta guarigione, con postumi, della vittima;

(b) il D.Lgs. n. 209 del 2005, art. 138, comma 2, cit., il quale distingue anch’esso il danno non patrimoniale temporaneo da quello permanente (definito “invalidità permanente”), in tal modo dimostrando che l’invalidità permanente non può cominciare a computarsi sinchè duri l’invalidità temporanea;

(c) le infinite norme assicurative e previdenziali che, stabilendo la misura della invalidità permanente oltre la quale è dovuto il trattamento indennitario (due terzi, quattro quinti, eco), lasciano anch’esse intendere che in tanto è concepibile e misurabile una “invalidità permanente”, in quanto la malattia che l’ha causata sia cessata ed i postumi si siano stabilizzati: sarebbe infatti concepibile misurare i “due terzi” d’una validità instabile ed in divenire (cfr., ex permultis, l’art. 302, comma 2, cod. ass., in tema di danni indennizzabili dal fondo di garanzia vittime della caccia;

la L. 20 ottobre 1990, n. 302, art. 1, comma 1, in tema di provvidenze alle vittime del terrorismo).

2.5. I principi appena esposti, infine, sono già stati affermati da questa Corte, sia pure in fattispecie concrete diverse.

Infatti, chiamata a stabilire se spettasse o meno il risarcimento del danno biologico da invalidità permanente in un caso in cui le lesioni patite dalla vittima avevano causato la morte di questa a distanza di tempo dall’infortunio, questa Corte ha già stabilito che “se la morte della vittima è stata causata dalle lesioni, l’unico danno biologico risarcibile è quello correlato dall’inabilità temporanea, in quanto per definizione non è in questo caso concepibile un danno biologico da invalidità permanente. Infatti, secondo i principi medico-legali, a qualsiasi lesione dell’integrità psicofisica consegue sempre un periodo di invalidità temporanea, alla quale può conseguire talora un’invalidità permanente. Per l’esattezza l’invalidità permanente si considera insorta allorchè, dopo che la malattia ha compiuto il suo decorso, l’individuo non sia riuscito a riacquistare la sua completa validità.

Il consolidarsi di postumi permanenti può quindi mancare in due casi: o quando, cessata la malattia, questa risulti guarita senza reliquati; ovvero quando la malattia si risolva con esito letale. La nozione medicolegale di invalidità permanente presuppone, dunque, che la malattia sia cessata, e che l’organismo abbia riacquistato il suo equilibrio, magari alterato, ma stabile.

Si intende, pertanto, come nell’ipotesi di morte causata dalla lesione, non sia configurabile alcuna invalidità permanente in senso medicolegale: la malattia, infatti, non si risolve con esiti permanenti, ma determina la morte dell’individuo” (sono parole di Sez. 3, Sentenza n. 7632 del 16/05/2003, Rv. 563159, p.3.3 dei “Motivi della decisione”).

A tale decisione possono, infine, affiancarsi tutte le altre – numerosissime – le quali hanno negato che l’invalidità permanente e quella temporanea possano sovrapporsi (ad es., ai fini del decorso della prescrizione o della quantificazione del risarcimento): in tutte queste decisioni si è costantemente affermato che sino a quando perdura l’invalidità temporanea, non sorge quella permanente;

e quando viene ad esistenza quest’ultima, è necessariamente cessata la prima (così, ex aliis, Sez. 3, Sentenza n. 3806 del 25/02/2004, Rv. 570534, secondo cui “in tema di danno biologico, la cui liquidazione deve tenere conto della lesione dell’integrità psicofisica del soggetto sotto il duplice aspetto dell’invalidità temporanea e di quella permanente, quest’ultima è suscettibile di valutazione soltanto dal momento in cui, dopo il decorso e la cessazione della malattia, l’individuo non abbia riacquistato la sua completa validità con relativa stabilizzazione dei postumi. Ne consegue che il danno biologico di natura permanente deve essere determinato soltanto dalla cessazione di quello temporaneo, giacchè altrimenti la contemporanea liquidazione di entrambe le componenti comporterebbe la duplicazione dello stesso danno”).

L’interpretazione del contratto adottata dalla Corte d’appello, in conclusione, lungi dall’essere arbitraria rispetto al testo della polizza, è la sola coerente con quello, alla luce del seguente principio di diritto:

L’espressione “invalidità permanente” designa uno stato menomativo divenuto stabile ed irremissibile, consolidatosi all’esito di un periodo di malattia: pertanto, prima della cessazione di questa, non può esistere alcuna “invalidità permanente”. Ne consegue che, ove in un contratto di assicurazione contro i rischi di malattia, sia previsto il pagamento di un indennizzo nel caso di invalidità permanente conseguente a malattia, alcun indennizzo è dovuto nel caso in cui la malattia patita dall’assicurato, senza mai pervenire a guarigione clinica, abbia esito letale.

2.6. Nemmeno sussiste la violazione, da parte della Corte d’appello, del criterio di interpretazione fondato sulla condotta tenuta dalle parti dopo la stipula del contratto.

La circostanza che la H ASSICURAZIONI, nella fase delle trattative stragiudiziali, non abbia ritenuto di sollevare l’eccezione di non indennizzabilità del danno da invalidità permanente, è infatti irrilevante ai fini dell’interpretazione del contratto:

– sia perchè tale scelta costituisce frutto di una facoltà del debitore, ovviamente non preclusiva della facoltà di sollevare la suddetta eccezione in giudizio;

– sia perchè la “condotta delle parti” cui fa riferimento l’art. 1362 c.c., è quella esecutiva del contratto, non certo quella consistita nel replicare alla pretesa di adempimento formulata ex adverso;

– sia, soprattutto, perchè la condotta delle parti quale criterio interpretativo del contratto può venire in rilievo quando il testo non sia sufficientemente chiaro, e come si è visto nel caso di specie il testo contrattuale era chiarissimo.

2.7. Inammissibile, per difetto di concreta rilevanza, è poi l’allegazione secondo cui la Corte avrebbe violato il criterio dell’interpretazione complessiva (art. 1363 c.c.), là dove ha ritenuto di suffragare la propria decisione facendo leva sulla clausola contrattuale che impediva l’accertamento dell’invalidità permanente prima d’un anno dalla denuncia della malattia.

Nella struttura della sentenza impugnata, infatti, tale argomento viene utilizzato dalla Corte d’appello ad abundantiam, e dunque quale che ne fosse la correttezza, l’espunzione di esso dalla motivazione della sentenza, impugnata non renderebbe quest’ultima immotivata.

2.8. Insussistente, infine, è la violazione del criterio di interpretazione secondo buona fede: sia perchè anche tale criterio è suppletivo, e non viene in rilievo quando la lettera del contratto sia inequivoca; sia perchè è proprio l’interpretazione propugnata dai ricorrente a sovvertire l’equilibrio contrattuale, pretendendo il pagamento dell’indennizzo dovuto per l’invalidità permanente in un caso in cui la malattia dell’assicurato aveva causato la morte dell’assicurato, non la sua invalidità: così trasformando una polizza malattia in una polizza vita.

  1. Il terzo motivo di ricorso.

3.1. Col terzo motivo di ricorso i ricorrenti lamentano che la sentenza impugnata sia affetta da un vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5.

Espongono, al riguardo, che la Corte d’appello avrebbe adottato una motivazione lacunosa, non indicando la fonte della nozione di “invalidità permanente” da essa adottata.

3.2. Il motivo è tanto inammissibile quanto infondato.

E’ inammissibile perchè il vizio di motivazione è concepibile solo con riferimento all’accertamento di fatti, e nel presente giudizio non si controverte sull’accertamento del contenuto oggettivo del contratto (il quale soltanto costituirebbe un accertamento di fatto), ma sul senso da attribuire ad una clausola contrattuale il cui terso non è in discussione e sul rispetto, da parte del giudicante, dei criteri ermeneutici di cui all’art. 1362 c.c. e ss.: il che costituisce una questione di diritto, rispetto alla quale non è concepibile il vizio di motivazione, ma solo la violazione di legge.

Il motivo è tuttavia anche infondato, giacchè per quanto detto la nozione di “invalidità permanente” fatta propria dalla Corte d’appello è quella condivisa dalla unanime dottrina medico legale, dal legislatore e da questa Corte.

  1. Le spese.

Le spese del giudizio di legittimità vanno poste a carico dei ricorrenti, ai sensi dell’art. 385 c.p.c., comma 1.

 

P.Q.M.

la Corte di cassazione:

-) rigetta il ricorso;

-) condanna F.C., F.A. e F. G., in solido, alla rifusione in favore di H ASSICURAZIONI delle spese del presente grado di giudizio, che si liquidano nella somma di Euro 7.200, di cui 200 per spese vive, oltre I.V.A. ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 19 novembre 2014.

Depositato in Cancelleria il 17 marzo 2015

 

STUDIO © Copyright Giuffrè Francis Lefebvre S.p.A. 2023 14/06/2023

 

 

Donazioni e vendite fittizie di beni immobili, quali i rimedi esperibili dal creditore.

I casi del nostro studio

 Tutela del credito. Donazioni e vendite fittizie di beni immobili, quali i rimedi esperibili dal creditore.

Tribunale ordinario di Reggio Emilia, sezione civile I, sentenza n. 724 del 09.06.2022

Con la sentenza che si annota il Tribunale di Reggio Emilia accogliendo la domanda avanzata dalla parte istante, ha affermato i seguenti principi:

“Per l’accoglimento dell’azione revocatoria ordinaria (ndr. per l’annullamento dell’atto di disposizione compiuto dal debitore in frode ai creditori)  è sufficiente l’esistenza di una legittima ragione o aspettativa di credito, non occorrendo necessariamente un credito certo, liquido ed esigibile accertato in sede giudiziale. Anche il credito eventuale, in veste di credito litigioso, è idoneo a determinare l’insorgere della qualità di creditore che abilita all’esperimento dell’azione revocatoria, ai sensi dell’art. 2901 c.c. avverso l’atto di disposizione compiuto dal debitore.”

“In tema di azione revocatoria, per l’integrazione del profilo oggettivo dell’eventus damni (cioè del  requisito  del pregiudizio alle ragioni del creditore)  non è necessario che l’atto di disposizione del debitore abbia reso impossibile la soddisfazione del credito, determinando la perdita della garanzia patrimoniale del creditore, ma è sufficiente che abbia determinato o aggravato il pericolo dell’incapienza dei beni del debitore.”

“Ad integrare il requisito del pregiudizio (eventus damni) è sufficiente una variazione sia quantitativa che meramente qualitativa del patrimonio del debitore, e, pertanto, pure la mera trasformazione di un bene in altro meno agevolmente aggredibile in sede esecutiva, com’è tipico del denaro.”

“Nell’ipotesi di atto a titolo oneroso se esso è posteriore alla nascita del credito, l’art. 2901 c.c. richiede soltanto che il debitore ed il terzo fossero consapevoli (scientia damni) del fatto che attraverso l’atto il debitore diminuiva la garanzia spettante ai creditori, arrecando pregiudizio alle ragioni di questi ultimi.”

IL CASO. Con atto di citazione regolarmente notificato CAIO conveniva in giudizio TIZIO, SEMPRONIA, LIVIA e MEVIA per sentire dichiarare, in via principale l’inefficacia ex art. 2901 c.c. (domanda revocatoria) nei propri confronti di una serie di atti di disposizione (tra i quali atti di donazione e vendita) di beni immobili a favore di alcuni parenti, ed in via subordinata per sentire dichiarare la simulazione assoluta di tali atti.

Resistevano i convenuti disponenti, assumendo, tra l’altro, che i restanti beni di loro proprietà potevano rappresentare garanzia sufficiente a vantaggio del debito.

Il Tribunale di Reggio Emilia sulla scorta dei superiori enunciati principi, ha dichiarato l’inefficacia ex art. 2901 c.c. nei confronti di CAIO dei suddetti atti; ordinato la trascrizione ed ogni altra formalità conseguente al provvedimento e condannato, in solido tra loro, i convenuti a rifondere a CAIO le spese di lite.

Il testo della sentenza

REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE ORDINARIO DI REGGIO EMILIA PRIMA SEZIONE CIVILE

Il Tribunale civile e penale di Reggio Emilia, in persona del giudice Stefano Rago, ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa civile di I grado iscritta al n. 2634/2021 R.G. promossa

da

CAIO, rappresentato e difeso dall’avv. Giovanni Orlandi      come da procura in calce all’atto di citazione ed elettivamente domiciliato presso il suo studio in Correggio (RE), Corso Mazzini n. 15

-attore-

contro

TIZIO, SEMPRONIA, LIVIA, MEVIA,

tutti rappresentati e difesi dall’avv.……………. come da procura allegata alla comparsa di costituzione e risposta ed elettivamente domiciliati presso il suo studio in ……… (RE).

-convenuti-

OGGETTO: revocatoria ordinaria; azione di simulazione.

CONCLUSIONI

Per CAIO:

Piaccia All’Ill.mo Sig. Giudice unico, contrariis reiectis:

  1. A) In via principale per le causali di cui in narrativa, revocare ex art 2901 cc e dichiarare nulli e privi di efficacia,

nei confronti dell’attore, i seguenti atti pubblici:

  • atto di donazione con riserva di diritto di abitazione, compiuto da TIZIO e SEMPRONIA a favore della nipote MEVIA, in data 27/03/2019, rep. 805, a ministero Notaio X, di bene immobile sito in Comune di Correggio (RE);
  • atto di vendita dei diritti di nuda proprietà da parte di TIZIO e SEMPRONIA a favore della figlia LIVIA, in data 17/05/2019, rep. 841, a ministero Notaio X, di consistenza immobiliare sita in Comune di Correggio (RE);
  • atto di vendita dei diritti di nuda proprietà, da parte di TIZIO e SEMPRONIA a favore della nipote MEVIA, in data 17/05/2019, rep 840, a ministero Notaio X, di cespite immobiliare, sito nel Comune di Correggio (RE).
  • B) In via subordinata, per le causali di cui in narrativa, accertare la simulazione assoluta, e per l’effetto dichiarare nulli e/o inesistenti i seguenti atti pubblici:
  • atto di donazione con riserva di diritto di abitazione, compiuto da TIZIO e SEMPRONIA a favore della nipote MEVIA, in data 27/03/2019, rep. 805, a ministero Notaio X, di bene immobile sito in Comune di Correggio (RE).
  • atto di vendita dei diritti di nuda proprietà da parte di TIZIO e SEMPRONIA a favore della figlia LIVIA, in data 17/05/2019, rep. 841, a ministero Notaio X, di consistenza immobiliare sita nel Comune di Correggio (RE);
  • atto di vendita dei diritti di nuda proprietà, da parte di TIZIO e SEMPRONIA a favore della nipote MEVIA in data 17/05/2019, rep 840, a ministero Notaio X, di cespite immobiliare, sito nel Comune di Correggio (RE);
  • C) Ordinare al Conservatore dei Registri Immobiliari di Reggio Emilia di provvedere alla trascrizione della presente sentenza con esonero da sua responsabilità.

Con vittoria di spese e compensi professionali comprese le eventuali spese di CTU e CTP.

Per TIZIO, SEMPRONIA, LIVIA, MEVIA:

Ogni diversa istanza, eccezione e deduzione respinta, voglia l’Ill.mo Tribunale adito:

In via principale:

integralmente respingere perché infondate in fatto e in diritto le domande formulate da CAIO nei confronti di TIZIO, SEMPRONIA, LIVIA, MEVIA.
In via subordinata istruttoria:

ammettere la C.T.U. richiesta dalla difesa dei convenuti nella memoria depositata ai sensi dell’art.183 comma VI n.2 c.p.c.

In ogni caso:

Con vittoria di spese e compensi professionali del presente giudizio.

FATTI DI CAUSA

  1. Con atto di citazione regolarmente notificato CAIO conveniva in giudizio i genitori TIZIO e SEMPRONIA, nonché la sorella LIVIA e la nipote ex sorore MEVIA per sentire dichiarare, in via principale l’inefficacia ex art. 2901 c.c. nei propri confronti della donazione di beni immobili con riserva di diritto di abitazione effettuata dai nonni a favore della nipote MEVIA in data 27 marzo 2019, della vendita della nuda proprietà di beni immobili effettuata dai genitori a favore della figlia LIVIA in data 17 maggio 2019, ed altresì della vendita della nuda proprietà di beni immobili effettuata dai nonni a favore della nipote MEVIA in data 17 maggio 2019, ed in via subordinata per sentire dichiarare la simulazione assoluta di tali atti.
  2. Costituiti con un’unica comparsa depositata in data 29 settembre 2021, TIZIO, SEMPRONIA, LIVIA E MEVIA , nel contestare il dedotto avversario, chiedevano il rigetto delle domande attoree.
  3. Alla prima udienza del 28 ottobre 2021 venivano concessi i chiesti termini ex 183, comma 6, c.p.c.

Depositate le memorie, la causa, ritenuta matura per la decisione, veniva rinviata per la precisazione delle conclusioni.

All’udienza del 17 marzo 2022 sulle conclusioni precisate dalle parti come in epigrafe la causa veniva rimessa in decisione con assegnazione dei termini ex art. 190 c.p.c.

RAGIONI DELLA DECISIONE

  1. La controversia ha ad oggetto, in principalità, l’azione revocatoria e, in subordine, l’azione di simulazione assoluta di tre diversi atti (una donazione con riserva del diritto di abitazione e due vendite dei diritti di nuda proprietà) effettuati da TIZIO e SEMPRONIA a favore della figlia LIVIA e della nipote MEVIA.

Si tratta, in particolare, dei seguenti atti:

  • atto di donazione stipulato in data 27 marzo 2019 con il quale TIZIO e SEMPRONIA hanno donato a MEVIA, con riserva di diritto di abitazione, la nuda proprietà dell’immobile sito in Correggio (RE);
  • atto di compravendita stipulato in data 17 maggio 2019 con il quale TIZIO e SEMPRONIA hanno ceduto a LIVIA la nuda proprietà dell’immobile sito in Correggio (RE);
  • atto di compravendita stipulato in data 17 maggio 2019 con il quale TIZIO e SEMPRONIA hanno ceduto a MEVIA la nuda proprietà dell’immobile sito in Correggio (RE).

Preliminarmente, giova ricordare che l’azione di simulazione (assoluta o relativa) e quella revocatoria, pur diverse per contenuto e finalità, possono essere proposte entrambe nello stesso giudizio in forma alternativa tra loro o, anche, eventualmente in via subordinata l’una all’altra, senza che la possibilità di esercizio dell’una precluda la proposizione dell’altra.

L’unica differenza tra la formulazione delle due domande in via alternativa, piuttosto che in via subordinata una all’altra, risiede esclusivamente nella circostanza che, nel primo caso, è l’attore a rimettere al potere discrezionale del giudice la valutazione delle pretese fatte valere sotto una species iuris piuttosto che l’altra, mentre nella seconda ipotesi si richiede, espressamente, che il giudice prima valuti la possibilità di accogliere una domanda e, solo nell’eventualità in cui questa risulti infondata (o, comunque, da rigettare), esamini l’ulteriore richiesta (Cass. 21083/2016 e Cass. 17867/2007).

  • È fondata l’azione revocatoria.

Come noto, la domanda ex art. 2901 c.c. presuppone, per la sua legittima esperibilità, la sussistenza congiunta dei seguenti elementi:

  • l’esistenza di un valido rapporto di credito tra il creditore che agisce in revocatoria e il debitore disponente;
  • l’effettività del danno, inteso come lesione della garanzia patrimoniale a seguito del compimento da parte del debitore dell’atto dispositivo;
  • la ricorrenza in capo al debitore della consapevolezza che, con l’atto di disposizione, venga a diminuire la consistenza delle garanzie spettanti ai creditori (scientia damni), ovvero, laddove l’atto sia anteriore al sorgere del credito, la specifica intenzione di pregiudicare la garanzia del futuro credito (consi/ium fraudis);
  • nel caso in cui l’atto di disposizione sia a titolo oneroso, la ricorrenza di tale consapevolezza/dolosa preordinazione anche in capo al terzo acquirente.
  • Sussiste, anzitutto, il primo presupposto.

In via generale, si osserva che per l’accoglimento dell’azione revocatoria ordinaria è sufficiente l’esistenza di una legittima ragione o aspettativa di credito, non occorrendo necessariamente un credito certo, liquido ed esigibile accertato in sede giudiziale. Detta azione può essere pertanto esperita, unitamente alla sussistenza degli altri requisiti di legge, anche per tutelare crediti condizionali, non scaduti o soltanto eventuali, nonché per tutelare crediti che non siano liquidi, ossia determinabili nel loro ammontare né facilmente liquidabili (Cass. S.U. 9440/2004 e Cass. 1129/2012).

In particolare, anche il credito eventuale, in veste di credito litigioso, è idoneo a determinare – sia che si tratti di un credito di fonte contrattuale oggetto di contestazione giudiziale in separato giudizio, sia che si tratti di credito risarcitorio da fatto illecito – l’insorgere della qualità di creditore che abilita all’esperimento dell’azione revocatoria, ai sensi dell’art. 2901 c.c. avverso l’atto di disposizione compiuto dal debitore (Cass. 11573/2013).

Ciò in coerenza con la funzione propria dell’azione revocatoria, la quale non persegue scopi specificamente restitutori, bensì mira a conservare la garanzia generica sul patrimonio del debitore in favore di tutti i creditori (Cass. 24757/2008).

Nella specie, CAIO – premesso di aver pagato interamente il debito di € 55.000,00 oggetto della transazione conclusa con ALFA in data 5 dicembre 2017 a fronte del maggior credito vantato dal suddetto istituto bancario nei confronti suoi e dei genitori sulla base della sentenza n. 1892/2017 del Tribunale di Modena – ha dedotto di essere creditore di TIZIO e SEMPRONIA quali coobbligati e di avere agito in regresso nei loro confronti chiedendo ed ottenendo dal Tribunale di Reggio Emilia decreto ingiuntivo in data 26 luglio 2018 con il quale era stato ingiunto a ciascuno dei due predetti debitori di pagargli, a tale titolo, la somma di € 18.333,33, oltre interessi e spese della procedura.

Pertanto, ancorché il decreto ingiuntivo sia stato opposto dagli odierni convenuti e sia ancora pendente la causa di opposizione (iscritta al n. 4952/2018 R.G.), il credito vantato dall’attore, seppur litigioso, è idoneo a determinare l’insorgere, in capo a CAIO, della qualità di creditore abilitato all’esperimento dell’azione revocatoria ordinaria avverso gli atti dispositivi compiuti dai debitori, senza che il presente giudizio sia soggetto alla sospensione necessaria ex art. 295 c.p.c. sollecitata dai convenuti (Cass. 3369/2019 e Cass. 2673/2016).

Non possono, invece, considerarsi sussistenti, ai fini della proponibilità dell’azione revocatoria, gli altri crediti prospettati dall’attore, il quale ha riferito di essere debitore, unitamente ai genitori, nei confronti della società cessionaria dei crediti vantati da altre due banche per le somme di € 168.202,14 e di € 107.535,88 in forza di fideiussioni prestate a favore della società (la BETA s.r.l.) di cui sono soci, atteso che, non risultando essere giunta a conclusione l’asserita      transazione con la creditrice, non è    neppure dato comprendere, allo stato, il titolo che legittimerebbe la sua pretesa creditoria nei confronti dei condebitori solidali.

Dunque, l’attore ha agito in revocatoria nei confronti di TIZIO e SEMPRONIA a tutela    del proprio credito che, ancorché litigioso, ammonta ad € 18.333,33 a carico di ciascun debitore.

  • Sussiste, altresì, il requisito dell’eventus damni.

Avendo l’azione revocatoria ordinaria la funzione di ricostituzione della garanzia generica assicurata al creditore dal patrimonio del suo debitore, e non anche della garanzia specifica, ne consegue che deve ritenersi sussistente l’interesse del creditore, da valutarsi ex ante – e non con riguardo al momento dell’effettiva realizzazione -, a far dichiarare inefficace un atto che renda maggiormente difficile e incerta l’esazione del suo credito, sicché per l’integrazione del profilo oggettivo dell’eventus damni non è necessario che l’atto di disposizione del debitore abbia reso impossibile la soddisfazione del credito, determinando la perdita della garanzia patrimoniale del creditore, ma è sufficiente che abbia determinato o aggravato il pericolo dell’incapienza dei beni del debitore, e cioè il pericolo dell’insufficienza del patrimonio a garantire il credito del revocante ovvero la maggiore difficoltà od incertezza nell’esazione coattiva del credito medesimo (Cass. 5105/2006 e Cass. 12144/1999).

Ad integrare il pregiudizio alle ragioni del creditore (eventus damni) è a tale stregua sufficiente una variazione sia quantitativa che meramente qualitativa del patrimonio del debitore (Cass. 5972/2005, Cass. 20813/2004, Cass. 12144/1999), e pertanto pure la mera trasformazione di un bene in altro meno agevolmente aggredibile in sede esecutiva, com’è tipico del danaro (Cass. 966/2007), in tal caso determinandosi il pericolo di danno costituito dalla eventuale infruttuosità di una futura azione esecutiva (Cass. 15310/2007, Cass. 3470/2007, Cass. 7262/2000). Il riconoscimento dell’esistenza dell’eventus damni non presuppone, peraltro, una valutazione sul pregiudizio arrecato alle ragioni del creditore istante, ma richiede soltanto la dimostrazione da parte di quest’ultimo della pericolosità dell’atto impugnato, in termini di una possibile, quanto eventuale, infruttuosità della futura esecuzione sui beni del debitore (Cass. 5105/2006).

Tanto premesso, è evidente che con gli atti compiuti da TIZIO e SEMPRONIA sia stata resa più incerta o difficile la soddisfazione del credito, avendo gli odierni convenuti, coniugi debitori, ceduto (pacificamente) tutti gli immobili di loro proprietà (cfr. pagina 6 della comparsa costitutiva) con conseguente rilevante modifica qualitativa e quantitativa della loro garanzia patrimoniale (tra le molteplici pronunce in cui è stato ravvisato l’eventus damni nel caso di atto dispositivo dell’unico immobile di proprietà del debitore, cfr. Cass. 966/2007 e Cass. 5816/2008).

A fronte di tali atti di per sé idonei a compromettere la garanzia generica del  creditore, i convenuti, nel richiamare (quantomeno implicitamente)      un noto orientamento giurisprudenziale       ( Cass.

21808/2015,       Cass.     17096/2014,               Cass. 4467/2011,      Cass.

24757/2008,       Cass.      7767/2007,                Cass. 5972/2004,      Cass.

11471/2003), hanno eccepito, invero, che i negozi in contestazione non arrecherebbero alcun pregiudizio all’attore, deducendo, a riguardo, di essere soci della GAMMA s.n.c., non gravata da debiti ma, anzi, proprietaria di due vasti attigui capannoni industriali siti a Correggio (RE), aventi un valore solo catastale di € 666.918,00 e di € 517.986,00, nonché di un edificio residenziale non ancora accatastato costruito sul terreno di pertinenza di uno dei capannoni, tutti liberi da ipoteche e trascrizioni pregiudizievoli.

La tesi non è condivisibile.

Anzitutto, premesso che la quota di una società di persone (quale è la GAMMA s.n.c.), se non “liberamente” trasferibile in forza di disposizione dell’atto costitutivo (Cass. 15605/2002), è sottratta, finché dura la società, alle azioni esecutive dei creditori particolari dei soci (quale è CAIO), potendo costoro far valere i loro diritti         sulla  stessa solo quando, esaurita la liquidazione della società, sarà attribuita al socio la quota di liquidazione (art. 2305 c.c.), i convenuti, omettendo la produzione dello statuto della società o comunque della documentazione societaria idonea a verificare le condizioni di libera trasferibilità della loro partecipazioni, non hanno dimostrato l’espropriabilità delle loro quote e, dunque, la possibilità per l’attore di soddisfarsi su di esse (cfr. Cass.       3538/2019  e        Cass. 23743/2011, che hanno precisato come il momento storico in cui deve essere verificata la sussistenza dell’eventus damni, tale da determinare l’insufficienza dei beni del debitore ad offrire la necessaria garanzia patrimoniale, sia quello in cui viene compiuto l’atto di disposizione dedotto in giudizio ed in cui può apprezzarsi se il patrimonio residuo sia tale da soddisfare le ragioni del creditore, restando, invece, assolutamente irrilevanti, al fine anzidetto, le successive vicende patrimoniali del debitore, non collegate direttamente all’atto di disposizione).

In secondo luogo, anche a prescindere dalla superiore dirimente considerazione, poiché non è richiesta, a fondamento dell’azione revocatoria      ordinaria,    la       totale                     compromissione della consistenza patrimoniale del debitore ma soltanto il compimento di un atto che renda più incerta o difficile la soddisfazione del credito, l’eventus damni continua a sussistere, in quanto le cessioni in contestazione hanno comportato di  per sé  un obiettivo impoverimento del patrimonio dei debitori ed hanno reso in ogni caso più difficile a CAIO il recupero del credito.

Infatti, deve osservarsi – per un verso – che i convenuti, lungi dall’allegare il valore delle loro quote, si sono limitati a richiedere una C.T.U. volta a stimare tale valore, la quale, tuttavia, in assenza di produzione di qualsivoglia documentazione contabile, si palesa assolutamente esplorativa, e – per altro verso – che a seguito degli atti impugnati il patrimonio dei debitori è sicuramente assai meno capiente e più difficilmente aggredibile da parte dell’attore, al quale non resterebbe che fare unicamente affidamento su quote (peraltro minoritarie, pari al 10% ciascuno, essendo le restanti quote intestate a CAIO ed alla di lui figlia) di una società di persone dall’incerta e non attuale liquidazione e, dunque, non sufficienti a costituire una residualità patrimoniale di ampiezza tale da garantire il sicuro soddisfacimento delle ragioni creditorie, non essendo allo stato in alcun modo prevedibile né ipotizzabile se ai soci debitori potrebbe essere in futuro attribuita la quota di liquidazione in natura, mediante l’assegnazione di beni immobili, oppure in denaro, con conseguente maggiore difficoltà di soddisfacimento in sede esecutiva.

Dunque, deve ritenersi provato il concreto pericolo di danno derivante dalle cessioni de quibus.

1.1.3. In ordine allo stato soggettivo di coloro che hanno partecipato al negozio, l’atteggiamento soggettivo del debitore e del terzo (destinatario degli effetti dell’atto di disposizione) acquistano rilievo differente a seconda che si tratti di atto dispositivo anteriore o posteriore al sorgere del credito ed in ragione della onerosità o della gratuità dell’atto.

Come è noto, nell’ipotesi di atto a titolo oneroso:

  • se esso è posteriore alla nascita del credito, l’art. 2901 c.c. richiede soltanto che il debitore ed il terzo fossero consapevoli del fatto che attraverso l’atto il debitore diminuiva la garanzia spettante ai creditori, arrecando pregiudizio alle ragioni di questi ultimi (scientia damni); si prescinde dalla specifica conoscenza del credito per la cui tutela viene esperita l’azione revocatoria (Cass. 987/1989, Cass. 5741/2004, Cass. 10623/2010) e non assume rilevanza anche una collusione fra il debitore ed il terzo, né lo stato d’insolvenza dell’uno, né la conoscenza di tale stato da parte dell’altro (Cass. 1007/1990 e Cass. 11518/1995);
  • se esso è anteriore alla nascita di un credito, è necessaria sia la dolosa preordinazione del debitore (consi/ium fraudis) sia la partecipazione o la conoscenza del terzo in ordine all’intenzione fraudolenta del debitore (partecipatio o scientia fraudis), cioè la conoscenza da parte di questi della dolosa preordinazione dell’alienazione ad opera del disponente rispetto al credito futuro (Cass. 11577/2008); ad integrare l’animus nocendi richiesto dall’art. 2901, comma 1, n. 1, c.c., è tuttavia sufficiente il mero dolo generico, e cioè la mera previsione, da parte del debitore, del pregiudizio dei creditori, e non è, quindi, necessaria la ricorrenza del dolo specifico, e cioè la consapevole volontà del debitore di pregiudicare le ragioni del creditore (Cass. 24757/2008 e Cass. 21338/2010), e tale elemento psicologico può essere accertato anche mediante il ricorso a presunzioni (Cass. 24757/2008); la prova della participatio fraudis del terzo ex 2901, comma 1, n. 2, c.c., può essere ricavata anche da presunzioni semplici (Cass. 11577/2008 cit.), ivi compresa la sussistenza di un vincolo parentale tra il debitore ed il terzo, quando tale vincolo renda estremamente inverosimile che il terzo non fosse a conoscenza della situazione debitoria gravante sul disponente (Cass. 5359/2009).

Nel caso, invece, di atto a titolo gratuito:

  • se esso è posteriore al sorgere del credito, è sufficiente la consapevolezza, da parte del debitore (e non anche del terzo beneficiario), del pregiudizio che, mediante l’atto di disposizione, si sia arrecato alle ragioni del creditore (scientia damni), consapevolezza la cui prova può essere fornita anche mediante presunzioni (Cass. 17867/2007);
  • se esso è anteriore al sorgere del credito, è necessaria la dolosa preordinazione dell’atto da parte del debitore ai fini di pregiudicarne il soddisfacimento (consi/ium fraudis): non è al riguardo necessario il dolo specifico, e cioè la consapevole volontà del debitore (alla data di stipulazione) di pregiudicare le ragioni del creditore e di contrarre debiti ovvero la consapevolezza da parte sua del sorgere della futura obbligazione, e che l’atto dispositivo venga compiuto al fine di porsi in una situazione di totale o parziale impossidenza, in modo da precludere o rendere difficile al creditore l’attuazione coattiva del suo diritto; deve, al contrario ritenersi sufficiente il dolo generico, sostanziantesi nella mera previsione del pregiudizio dei creditori; ad integrare l’animus nocendi previsto dalla norma, ossia l’intenzione del debitore di ledere la garanzia patrimoniale generica del creditore, è da ritenersi sufficiente che il debitore compia l’atto dispositivo nella previsione dell’insorgenza del debito e del pregiudizio (da intendersi anche quale mero pericolo dell’insufficienza del patrimonio a garantire il credito del revocante ovvero la maggiore difficoltà od incertezza nell’esazione coattiva del credito medesimo) per il creditore (Cass. 24757/2008).

In via generale, l’acquisto della qualità di debitore nei confronti del creditore procedente risale al momento della nascita del credito, sicché a tale momento occorre far riferimento per stabilire se l’atto pregiudizievole sia anteriore o successivo al sorgere del credito (Cass. 22465/2006).

Nel caso di specie, è evidente la posteriorità di tutti gli atti impugnati rispetto alle notifiche (ricevute in data 6 settembre 2018: cfr. doc. 8 dell’attore) del decreto ingiuntivo portante i crediti fatti valere dall’odierno attore.

Dunque, pur essendo dirimente rilevare come i convenuti non abbiano minimamente contestato la sussistenza del requisito soggettivo (art. 115 c.p.c.), è sufficiente richiamare il chiaro contenuto delle dichiarazioni testimoniali rese da LIVIA e MEVIA nella succitata causa di opposizione a decreto ingiuntivo al fine di affermare la piena consapevolezza, in capo a tutti gli odierni convenuti, di pregiudicare gli interessi di CAIO (cfr. verbale d’udienza dell’11 novembre 2020 sub doc. 18 dell’attore).

Premesso, poi, che con riguardo alla donazione a favore di MEVIA in data 27 marzo 2019 è sufficiente la mera consapevolezza nei debitori di arrecare pregiudizio agli interessi del creditore, devesi osservare, in ogni caso, che TIZIO e SEMPRONIA non potevano non rendersi conto dell’oggettivo depauperamento del proprio patrimonio e delle conseguenti difficoltà di soddisfacimento delle ragioni di credito ingenerate non solo da tale donazione, posta in essere solo sei mesi dopo il ricevimento del suddetto provvedimento monitorio, ma anche dagli altri due successivi atti di vendita, con i quali è stato portato a compimento il proposito di sottrarre alle ragioni del creditore tutti i beni immobili (cfr. Cass. 7507/2007, secondo cui, in tal caso, l’esistenza e la consapevolezza del debitore del pregiudizio patrimoniale possono ritenersi in re ipsa).

Indubbia essendo la consapevolezza in capo ai disponenti, deve ritenersi che – a prescindere dalle risultanze delle surriferita prova testimoniale – analoga consapevolezza, in relazione alle due vendite in data 17 maggio 2019, avessero anche le acquirenti LIVIA e MEVIA, avuto riguardo:

  • allo stretto rapporto di parentela tra disponenti e beneficiari (LIVIA è figlia di TIZIO e SEMPRONIA, mentre MEVIA è nipote di questi ultimi nonché figlia di LIVIA) (Cass. 1286/2019);
  • alla sequenza temporale degli atti dispositivi, compiuti lo stesso giorno col ministero del medesimo notaio ed a distanza di meno di due mesi dalla donazione conclusa il giorno precedente la prima udienza fissata nella citazione in opposizione a decreto ingiuntivo;
  • alla contestuale vendita di una pluralità di beni che esauriscono il patrimonio immobiliare del debitore (cfr. Cass. 18034/2013, Cass. 7104/2005, Cass. 6248/1999, secondo cui, in tal caso, l’esistenza e la consapevolezza dei terzi acquirenti del pregiudizio patrimoniale sono in re ipsa);
  • alla natura immobiliare dei beni oggetto dei trasferimenti, in assenza di titolarità in capo ai debitori di altri beni immobili sui quali il creditore avrebbe potuto far valere le sue ragioni (Cass. 5359/2009);
  • alla contestuale previsione della riserva del diritto di usufrutto non solo sull’immobile, dove effettivamente i coniugi convenuti risultano risiedere (cfr. notifiche della citazione introduttiva di questo giudizio), ma anche su quello alienato alla figlia che ivi risulta residente, dopo essersi i medesimi disponenti già riservati il diritto di abitazione sull’immobile donato alla nipote che ivi risulta residente (Cass. 13477/2013);
  • all’anomalia della tipologia di vendita in favore di LIVIA, con una lunga dilazione di pagamento, senza interessi (in cinquantasette rate mensili posticipate dell’importo di € 2.000,00 ciascuna, scadenti l’ultimo giorno del mese a partire dal 30 maggio 2019 con scadenza dell’ultima al 28 febbraio 2024), di cui peraltro non è stata fornita alcuna prova, e con rinuncia, altresì, alla ipoteca legale (Cass. 21503/2011);
  • alla mancanza di un motivo oggettivo idoneo a rendere ragione della vendita in favore di MEVIA, che solo un mese e mezzo prima aveva ricevuto in donazione dai nonni l’immobile dove risulta effettivamente risiedere (Cass. 13447/2013).

Pertanto, non può dubitarsi della consapevolezza dei convenuti in ordine al pregiudizio che i predetti atti dispositivi avrebbero arrecato all’attore.

Ne consegue, in base alle argomentazioni sopra svolte, che, ritenuti sussistenti i presupposti oggettivi e soggettivi dell’azione revocatoria proposta ai sensi dell’art. 2901 c.c., va dichiarata come richiesta l’inefficacia nei confronti di CAIO di tutti gli atti in contestazione.

  • L’accoglimento della domanda revocatoria, proposta in via principale, rende superfluo l’esame della domanda subordinata di simulazione dei medesimi atti.
  1. Le spese seguono la soccombenza (art. 91 c.p.c.) e si liquidano in conformità ai parametri di cui al D.M. n. 55 del 2014 e successive modificazioni, secondo i parametri medi delle fasi di studio, introduttiva, istruttoria e decisoria in relazione alle controversie di valore compreso tra € 26.001,00 ed € 52.000,00 determinato in ragione dell’entità economica della ragione di credito alla cui tutela l’azione revocatoria è diretta (art. 5 D.M. cit.) (cfr. Cass. 19989/2021 e Cass. 89/2021, secondo cui la liquidazione delle spese processuali, se contenuta tra il minimo ed il massimo della tariffa, non richiede motivazione specifica).

Pertanto, i convenuti vanno condannati, in solido tra loro, a pagare all’attore la somma di € 7.254,00 per compenso e di € 1.230,35 per esborsi, come da nota spese depositata in allegato alla memoria di replica.

P.Q.M.

Il   Tribunale di Reggio Emilia, definitivamente pronunciando, disattesa ogni ulteriore istanza, eccezione e difesa, così giudica:

  1. dichiara l’inefficacia ex 2901 c.c. nei confronti di CAIO dei seguenti atti:
  • atto di donazione con riserva di diritto di abitazione, stipulato tra TIZIO e SEMPRONIA, da un lato, e MEVIA, dall’altro, a ministero Notaio X, in data 27 marzo 2019 (Rep. n. 805 e Racc. n. 557);
  • atto di vendita della nuda proprietà, stipulato tra TIZIO e SEMPRONIA, da un lato, e LIVIA, dall’altro, a ministero Notaio X, in data 17 maggio 2019 (Rep. n. 841 e Racc. n. 581);
  • atto di vendita della nuda proprietà, stipulato tra TIZIO e SEMPRONIA, da un lato, e MEVIA, dall’altro, a ministero Notaio X, in data 17 maggio 2019 (Repertorio n. 840 Raccolta n. 580);
  1. ordina la trascrizione ed ogni altra formalità conseguente al presente provvedimento;
  2. condanna TIZIO, SEMPRONIA, LIVIA E MEVIA, in solido tra loro, a rifondere a CAIO le spese di lite, che liquida in € 1.230,35 per esborsi ed € 7.254,00 per compenso, oltre rimborso spese forfettarie nella misura del 15%, CPA ed IVA (se dovuta) come per legge.

Così deciso in Reggio Emilia il 9 giugno 2022.

IL GIUDICE Stefano Rago