Categoria: Diritto bancario e finanziario

Carta di credito clonata: quale diligenza è richiesta all’esercente nel rapporto con il cliente che si avvale di una carta di credito per il pagamento del prezzo di un bene o servizio?

La Cassazione ( con sentenza  10 luglio 2023, n. 19400  ) è intervenuta “sui rapporti contrattuali tra l’emittente di una carta di credito e l’esercente stabilendo che quest’ultimo, nell’accettare i pagamenti da parte dell’apparente titolare della carta, è tenuto all’adempimento del contratto secondo il criterio di cui all’art. 1176 c.c., usando la diligenza del buon padre di famiglia.”

IL CASO. Il caso sottoposto all’attenzione della Corte nasce da un ricorso presentato da un gioielliere, soccombente in appello, che chiedeva ad American Express il pagamento della somma di € 24.607,50. Tale era l’importo oggetto di transazioni commerciali tra il ricorrente ed un presunto cliente, avvenuto a mezzo carta di credito (che successivamente risultava clonata) gestita da American Express.

Impugnava la sentenza l’emittente della carta di credito, rilevando come il gioielliere avrebbe ripetutamente violato il dovere di diligenza sancito dall’art. 1176 c.c.: in primis, non avrebbe annotato sullo scontrino fiscale gli estremi del documento del (presunto) titolare della carta, come invece prescritto dal contratto POS. Secondariamente, evidenziava American Express, il cliente, con lo stesso esercente, aveva eseguito cinque diverse transazioni in due giorni differenti, pertanto (con operazioni verosimilmente sospette per via del numero e della reiterazione in breve arco di tempo) sarebbe stato violato più di una volta il divieto di frazionamento delle spese prescritto dalla clausola contrattuale prodotta in giudizio. Infine, il ricorrente avrebbe omesso di annotare gli estremi del documento di identificazione sullo scontrino.

La Corte condivide l’analisi logico- giuridica illustrata nella sentenza impugnata, riprendendo i principi di diritto in materia di buona fede nell’esecuzione del contratto (Cass. civ. sentenza n. 16102/2006; Cass. civ., sentenza n. 694/2010). In presenza di operazioni sospette, il gioielliere avrebbe dovuto adottare misure più adeguate ed incisive per il rispetto delle cautele imposte dalle condizioni contrattuali.

Alla luce delle suddette evidenze, il ricorso è stato dichiarato inammissibile.

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Recupero crediti, banca, cessione del credito, cartolarizzazione

Con la sentenza che  pubblichiamo il Giudice,  in tema di cartolarizzazione del credito, ha affrontato la dibattuta questione  della prova che  la società cessionaria, che agisce per ottenere l’adempimento da parte del debitore ceduto, è tenuta a dare  del contratto di cessione da cui si possa ricavare che lo specifico credito, per il quale essa agisce, è stato effettivamente ed inequivocabilmente cartolarizzato. Ha trovato affermazione il principio, peraltro condiviso dall’orientamento prevalente della giurisprudenza, secondo il quale  l’esistenza del contratto di apertura di credito deve essere provata con la forma scritta e non può essere fondata su altri elementi come prove indirette, quali gli estratti conto, i riassunti scalari, i report della centrale rischi, la stabilità dell’esposizione, l’entità del saldo debitore, la previsione di una commissione di massimo scoperto, oppure voci quali spese gestione fido e revisione fido.

Il giudice ha quindi accolto l’opposizione al Decreto ingiuntivo proposta dalla persona intimata che negava di avere mai intrattenuto rapporti con l’istituto di credito.

Sentenza del Giudice di Pace di Reggio Emilia

Cointestazione del conto corrente bancario: rapporti interni tra cointestatari.

Un recente arresto  offre lo spunto per ricordare alcuni principi peraltro consolidati nel pensiero giurisprudenziale a proposito del rapporto di conto corrente cointestato (Cassazione Civile, Sez. II, 04 gennaio 2018, n. 77).

In primo luogo la Corte di legittimità ribadisce che nel conto corrente cointestato il rapporto interno fra i vari correntisti cointestatari, vale a dire l’effettiva titolarità della quota spettante a ciascuno di essi sul credito o sul debito risultante dal conto, va regolamentato dall’art. 1298, comma secondo c.c., ai sensi del quale le parti di ciascuno dei debitori e creditori solidali si presumono uguali, a meno che la parte interessata non dimostri che la quota spettante alcuno dei contitolari è maggiore di quella presunta. Pertanto ove la presunzione di parità delle parti non sia superata, ciascun intestatario, nei rapporti interni, non può disporre in proprio favore senza il consenso tacito dell’altro della somma depositata in misura eccedente la quota di sua spettanza, e questo sia in relazione al saldo finale del conto sia in pendenza del rapporto.

Questi in sintesi i principi affermati dalla sentenza.

Sempre per quanto riguarda i rapporti interni tra i cointestatari, peraltro, pare utile ricordare che in caso di morte o di sopravvenuta incapacità di agire di uno dei cointestatari, in caso di conto firme congiunte, non si pongono problemi particolari in quanto gli atti di disposizione continueranno a dover essere compiuti da tutti i cointestatari e da tutti gli eredi .

Nella diversa ipotesi di conto a firme disgiunte – secondo quanto previsto dall’art. 14 delle N.U.B. (Norme Uniforme Bancarie) sui conti correnti di corrispondenza – la morte di uno dei cointestatari del conto non priva gli altri contitolari del diritto di continuare a disporre separatamente del saldo, a meno che uno degli interessati non proponga opposizione.

Testo della sentenza 

Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 16 novembre 2017 – 4 gennaio 2018, n. 77 Presidente Mazzacane – Relatore Scarpa

Fatti di causa

L’avvocato K.K.D.L.G.T. ha proposto ricorso articolato in sei motivi avverso la sentenza della Corte d’Appello di Roma n. 2654/2013, depositata il 10 maggio 2013, la quale ha rigettato l’impugnazione principale dello stesso K.K.D.L.G.T. ed ha parzialmente accolto l’appello incidentale di K.K.D.L.G.N. contro la pronuncia di primo grado n. 6439/2005 resa dal Tribunale di Roma, condannando N. a pagare al fratello T. la somma di Euro 77.972,01, oltre interessi legali dal 18 marzo 1995 al saldo. K.K.D.L.G.N. resiste con controricorso. K.K.D.L.G.T. , con citazione dell’8 giugno 1999, convenne il fratello N. davanti al Tribunale di Roma, chiedendo che quest’ultimo fosse dichiarato debitore della cifra di Lire 557.245.071, pari alla metà della somma depositata sul conto corrente Cornelio, aperto in cointestazione da K.K.D.L.G.N. e dalla madre C.E. il 26 maggio 1994 presso la banca Merril Lynch S.A., somma abusivamente prelevata dal convenuto. Assunse l’attore che l’iniziale provvista di oltre 900.000.000 di lire versata sul conto cointestato alla sua apertura fosse di esclusiva proprietà della signora C. , la quale aveva comunque poi appreso nell’aprile del 1997 che era stata disposta la chiusura del medesimo conto con autorizzazione recante la propria firma contraffatta, oltre che la firma di N. , e che era stato trasferito il saldo esistente su altro conto corrente denominato (…). L’attore aggiunse che la Banca aveva anche trattenuto in pegno alcuni titoli gestiti sul conto cointestato per la mancata restituzione di un mutuo rilasciato al fratello N. ; di tal che affermò che il debito gravante su N. fosse pari a titoli e contanti disponibili al momento della chiusura, oltre a quelli incamerati dall’istituto per il mutuo rimasto inadempiuto. Il Tribunale accolse la domanda di K.K.D.L.G.T. e condannò il fratello N. a pagare la somma di Euro 155.944,02 (pari alla metà del saldo esistente in base all’estratto al 31 marzo 1995), oltre accessori, ritenendo apocrifa la sottoscrizione di Erminia C. , nonché superata la presunzione di comproprietà delle somme versate sul conto(…). La Corte d’Appello di Roma ha poi respinto l’impugnazione principale di K.K.D.L.G.T. , affermando che “non può essere condivisa la tesi dell’appellante che sostiene che il fratello dovrebbe restituire anche i soldi presi a mutuo, sia perché non è chiaro chi effettivamente fosse la parte mutuataria (considerato sia il tenore della denuncia-querela che il testamento), sia perché in ogni caso non risulta che alla data di chiusura del conto la banca fosse obbligata per ulteriori somme”. La sentenza impugnata ha invece parzialmente accolto l’appello incidentale di K.K.D.L.G.N. , sostenendo che non potesse dirsi superata la presunzione di proprietà comune delle somme cointestate sul conto depositato, non avendo la signora C. provato “la fonte delle ingenti somme depositate sul conto”, e negando rilevanza alle circostanze, al contrario, valorizzate dal Tribunale, quali la vendita di immobili da parte di N. , o la notevole esposizione debitoria di N. verso la madre (Lire 385.000.000), come da assegno emesso da questo in favore della C. , assegno del quale, però, la Corte d’Appello ha detto non esser chiara la causale, aggiungendo che era comunque intenzione della madre rimettere tale debito, stando al testamento del 3 ottobre 1996, poi revocato. Le parti hanno presentato memorie ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Ragioni della decisione

Il primo motivo di ricorso di K.K.D.L.G.T. deduce la violazione degli artt. 112 e 115 c.p.c. (e 111, comma 2, Cost.,) indicando le deduzioni istruttorie avanzate dal ricorrente per superare la presunzione di comproprietà delle somme esistenti sul conto corrente cointestato (trascritte nella parte espositiva del ricorso) e rimaste senza risposta nella sentenza impugnata. Il secondo motivo di ricorso di K.K.D.L.G.T. denuncia l’omesso esame di fatti controversi e decisivi, facendo riferimento sempre ai fatti che avrebbero consentito di superare la presunzione di comproprietà. Il terzo motivo di ricorso di K.K.D.L.G.T. allega ancora un omesso esame di fatti anche in relazione all’art. 115 c.p.c., quanto all’affermazione della Corte d’Appello di Roma secondo cui “non è chiaro chi effettivamente fosse la parte mutuataria (considerato sia il tenore della denuncia-querela che il testamento)”, e “in ogni caso non risulta che alla data di chiusura del conto la banca fosse obbligata per ulteriori somme”. Il quarto motivo di ricorso denuncia l’omesso esame di fatti anche in relazione agli artt. 2727 e ss. c.c. ed all’art. 115 c.p.c., quanto alle “vendite” di proprietà immobiliari compiute da N. , che avrebbero potuto alimentare la provvista sul conto cointestato. Il quinto motivo di ricorso allega la violazione degli artt. 2727 2729 c.c., circa l’uso delle presunzioni fatto dalla Corte d’Appello. Il sesto motivo di ricorso censura l’omesso esame quanto alla documentazione allegata alla lettera della Merryl Linch del 22 aprile 1997, che negava qualsiasi versamento di somme sul conto (…) dopo quello iniziale. Il settimo motivo di ricorso deduce la violazione degli artt. 112 e 115 c.p.c., in quanto lo stesso convenuto K.K.D.L.G.N. si era difeso già nel costituirsi in primo grado senza allegare di aver in qualche modo alimentato la somma depositata sul conto cointestato. I sette motivi di ricorso vanno esaminati congiuntamente per la loro connessione e si rivelano fondati nei limiti di seguito precisati. Va premesso come l’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., riformulato dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, applicabile nella specie ratione temporis, abbia introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, comma 1, n. 6, e 369, comma 2, n. 4, c.p.c., il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie. Non di meno, pur dopo tale riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., rimane denunciabile in cassazione l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass. Sez. U, 07/04/2014, n. 8053). La sentenza della Corte d’Appello di Roma risulta allora strutturata su una motivazione apparente, o comunque obiettivamente incomprensibile, in quanto essa ha respinto l’impugnazione principale di K.K.D.L.G.T. e parzialmente accolto l’appello incidentale di K.K.D.L.G.N. , senza rendere percepibile il fondamento della decisione, precludendo all’attuale ricorrente la possibilità di assolvere l’onere probatorio su di esso gravante e ricorrendo ad argomentazioni inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento. Riformando sul punto la decisione del Tribunale, la Corte d’Appello ha ritenuto non superata la presunzione di proprietà comune delle somme cointestate sul conto depositato, non avendo la signora C. provato “la fonte delle ingenti somme depositate sul conto”; la Corte di Roma ha poi negato rilevanza alle circostanze dell’avvenuta vendita di immobili da parte di K.K.D.L.G.N. , della notevole esposizione debitoria del medesimo N. verso la madre (documentata da assegno di Lire 385.000.000), e della soggezione di N. a numerose procedure esecutive, anche da parte della stessa C. . Di conseguenza, la Corte d’Appello ha diviso tra i due correntisti cointestatari il saldo attivo esistente sul conto al 31 marzo 1995. Quanto alla vicenda che la Banca avesse incamerato alcuni titoli gestiti sul conto cointestato in conseguenza della mancata restituzione di un mutuo rilasciato a N. e garantito con gli stessi titoli, la Corte d’Appello ha sostenuto che “non è chiaro chi effettivamente fosse la parte mutuataria” e che “in ogni caso non risulta che alla data di chiusura del conto la banca fosse obbligata per ulteriori somme”. La causa va sottoposta a nuovo esame, dovendo la Corte d’Appello uniformarsi ai principi più volte ribaditi da questa Corte, secondo cui nel conto corrente bancario intestato a più persone, i rapporti interni tra correntisti, anche aventi facoltà di compiere operazioni disgiuntamente, sono regolati non dall’art. 1854 c.c., riguardante i rapporti con la banca, bensì dal secondo comma dell’art. 1298 c.c., in virtù del quale debito e credito solidale si dividono in quote uguali solo se non risulti diversamente; ne consegue che, ove il saldo attivo risulti discendere dal versamento di somme di pertinenza di uno solo dei correntisti, si deve escludere che l’altro possa, nel rapporto interno, avanzare diritti sul saldo medesimo. Peraltro, pur ove si dica insuperata la presunzione di parità delle parti, ciascun cointestatario, anche se avente facoltà di compiere operazioni disgiuntamente, nei rapporti interni non può disporre in proprio favore, senza il consenso espresso o tacito dell’altro, della somma depositata in misura eccedente la quota parte di sua spettanza, e ciò in relazione sia al saldo finale del conto, sia all’intero svolgimento del rapporto (cfr. Cass. Sez. 2, 02/12/2013, n. 26991; Cass. Sez. 2, 19/02/2009, n. 4066; Cass. Sez. 1, 01/02/2000, n. 1087; Cass., Sez. 1, 09/07/1989, n. 3241). Al fine, allora, di ritenere non superata la presunzione di comproprietà in relazione al conto corrente (…), cointestato a K.K.D.L.G.N. ed alla madre C.E. , occorrerà spiegare perché, a fronte delle deduzioni istruttorie di K.K.D.L.G.T. , risulti non provato che i versamenti fossero stati compiuti con denaro appartenente soltanto alla C. . D’altro canto, deve essere accertato e spiegato se sussista, o meno, pur a fronte della presunzione derivante dalla cointestazione del conto, la dedotta (da K.K.D.L.G.T. ) assoluta estraneità di C.E. all’operazione di costituzione in pegno di titoli, gestiti sul conto, in favore della banca mutuante Merryl Linch a garanzia del rimborso di un finanziamento erogato a K.K.D.L.G.N. , in quanto tale prospettazione renderebbe non riferibile solidalmente la movimentazione, e la relativa esposizione debitoria, al saldo del conto corrente. In conclusione, in accoglimento del ricorso, la sentenza impugnata deve essere cassata, con conseguente rinvio, anche per le spese del presente giudizio, ad altra sezione della Corte di Appello di Roma per una nuova delibazione, sulla base dei principi di diritto sopra enunciati e dei rilievi svolti.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa ad altra sezione della Corte d’appello di Roma anche per la pronuncia sulle spese del giudizio di cassazione.

 

 

Banche. Espropriazione presso terzi, ritenuta d’acconto

“ Dalla lettura dell’ art . 27 comma 15 della legge 21 dicembre 7991 n. 449, come integrato con Decreto del Direttore dell’Agenzia delle Entrate 34155/2010, si desume che nel- caso in cui il pagamento avvenga a seguito di ordinanza di assegnazione emessa nel corso di procedura di  espropriazione presso terzi ed il credito sia riferito a somme per le qual deve essere operata una ritenuta alla fonte, il terzo se riveste la qualifica di sostituto d’imposta deve operare all’atto del pagamento la  ritenuta d’acconto nella misura del 20%, salvo che sia a conoscenza della riferibilità del credito a somme o valori diversi da quelli assoggettabili a ritenute alla fonte.”   ( Trib.le di Benevento  sent. N. 1030/2017 ).

Testo della sentenza

TRIBUNALE DI BENEVENTO

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale di Benevento, in composizione monocratica, nella persona del Giudice dott.ssa Serena Berruti, ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa iscritta al n. 4915 R.G. Cont. anno 2015

VERTENTE TRA

SAVIANO ANGELINA (c.f. SVNNLN4 4B5 6C359V)

Rappresentata e difesa    dall’avv. SARNO ALFREDO giusta procura     a

margine del ricorso per   decreto ingiuntivo, depositato   in atti,  e

domiciliata in BENEVENTO  presso il suo studio -parte attrice nel giudizio di merito ex art.            616                        -c.p.c.,

opposta-

UNICREDIT S.P.A. in persona del legale rappresentante prò tempore (P.IVA 00348170101)

Rappresentata e difesa dall’avv. CLAUDIO GIORGIO SUPPA –

-parte convenuta nel giudizio dì merito ex art. 616 c.p.c.,

opponente-

Oggetto: opposizione all’esecuzione mobiliare n. 260/2015 r.g.e.. CONCLUSIONI: come formulate all’udienza del 28 ottobre 2016.

IN FATTO E IN DIRITTO

Il presente giudizio ha ad oggetto la fase di merito dell’opposizione all’esecuzione proposta da UNICREDIT s.p.a. nella procedura espropriativa mobiliare avente n. 260/2015 intentata nei suoi confronti da SAVIANO ANGELINA -conclusasi con ordinanza di sospensione della procedura esecutiva mobiliare, avente n. 260/2015, poi riformata in sede di reclamo con ordinanza depositata in data 8 gennaio 2016- introdotta nel termine fissato dal G.E. nell’ordinanza ex art. 616 c.p.c. dalla Saviano.                                           ,

Saviano Angelina ha chiesto al giudice della cognizione il rigetto dell’opposizione all’esecuzione proposta ex art. 615 comma 1 c.p.c. dalla Unìcredit s.p.a. in quanto inammissibile ed infondata in fatto ed in diritto e con conseguente accertamento del suo diritto a procedere nell’esecuzione forzata intentata nei confronti della, convenuta opponente n. 260/2015 r.g.e..

Ha dedotto ed allegato a sostegno’ delle proprie ragioni:

  • che illegittimamente il terzo pignorato aveva, nel l’eseguire il pagamento a favore della Saviano della somma oggetto di assegnazione nella procedura esecutiva n. 1314/2012, provveduto ad applicare la ritenuta d’acconto del 20%, avendo la stessa avuto , conoscenza della natura del credito dell’assegnatario, estraneo a quelli assoggettabili a ritenuta d’acconto;
  • che infatti, nel caso di specie 1′ art. 21, c. 15 della legge 449/97 (come modificato dall’art. 15 del DL 78/2009), aveva

disposto che, “qualora il credito sia riferito a somme per le quali, ai sensi delle predette disposizioni, deve essere operata una ritenuta alla fonte”, laddove il terzo pignorato rivesta la qualifica di sostituto d’imposta, questi all’atto del pagamento deve operare la ritenuta d’acconto nella misura del 20%” e l’art. 1 del protocollo n. 34755/2010 del Direttore dell’Agenzia delle Entrate, chiamato dalla norma di legge richiamata a dettare le modalità operative del procedimento, aveva chiarito che “il terzo erogatore non effettua la ritenuta se è a conoscenza che il credito è , riferibile a somme o valori – diversi da quelle assoggettabili a ritenute alla fonte”;

-che non si doveva ritenere vincolante, ai fini della verifica della ricorrenza del richiamato requisito della conoscenza, alla luce dei princìpi che regolano la gerarchia delle fonti normative, la circolare n.8 del 2 marzo 2011 dell’Agenzia delle Entrate, con la quale era stato precisato che la detta conoscenza era acquisibile esclusivamente mediante produzione, da parte del creditore, di propria dichiarazione sostitutiva di atto notorio corredata dal documento di riconoscimento;

– che nel caso di specie il difensore della Saviano, su richiesta della Banca opponente di chiarire la natura fiscale del credito, aveva dato comunicazione alla Unicredit s.p.a. della natura del credito attivato dalla Saviano in executlvis, riferendo circostanze oggettive note al medesimo in virtù dell’incarico conferitogli, con conseguente .illegittimità della trattenuta dei 20% effettuata, nonostante tale comunicazione, dall’istituto di credito ;

– che neppure sussisteva il pericolo, rappresentato dall’opponente, di effettuare un doppio pagamento, quale terzo pignorato e quale sostituto d’imposta, alla luce di quanto disposto dall’art. 38 del D.P.R. 602/1973, secondo il quale il terzo pignorato aveva diritto di chiedere ed ottenere il rimborso di ritenute mal versate entro il termine di decadenza.

Nel costituirsi in giudizio la parte convenuta opponente ha chiesto accogliersi l’opposizione in quanto fondata, e riconoscere che l’inesistenza del credito vantato dalla Saviano nei propri confronti nella procedura esecutiva n. 260/2015.

Ha dedotto ed allegato a sostegno delle proprie ragioni:

– la legittima applicazione, nel pagare la somma di cui all’ordinanza di assegnazione emessa nella procedura esecutiva n. 1314/2012, della ritenuta a tìtolo di acconto del 20% così come imposto dalla legge, tenuto conto che, in caso di pignoramento presso terzi, in base all’art. 1 comma 2, del decreto legge del 1 luglio del 2009 n. 78, il soggetto erogatore in qualità di sostituto di imposta doveva effettuare la ritenuta pari al 20%, e che, secondo la circolare dell’Agenzia delle Entrate 8/E del 2 marzo 2011, gli erogatori dovevano sempre operare una ritenuta del 20% a titolo dì acconto dell’Irpef dovuta dal creditore pignoratizio, salvo che il creditore, con dichiarazione resa personalmente chiarisse la estraneità del credito alla detta ritenuta, anche per il principio della vicinanza della prova;

-che infatti nel caso di specie tale dichiarazione non era stata resa dalla Saviano;

-che non risultava efficace, a tal fine, la dichiarazione resa dal difensore della medesima, esulando il potere dovere di rendere la detta dichiarazione i poteri conferitigli nella procura alle liti;. – che infatti la circolare richiamata non si riferiva ad Una conoscenza attraverso qualsiasi modalità bensì ad una conoscenza attraverso una dichiarazione proveniente direttamente dalla parte, analogamente a quanto previsto, dall’art. 152 disp. att. c.p.c. in materia di giudizi per l’ottenimento di prestazioni previdenziali ed assistenziali;    .

  • che solo il sostituito e non il sostituto era legittimato a chiedere la restituzione              di quanto eventualmente versato   in eccedenza all’erario.

I motivi di opposizione proposti      dalla Unicredit   s.p.a.

non risultano fondati.

Infatti, confermando l’orientamento già manifestato da questo Tribunale in sede collegiale con l’ordinanza depositata l’8 gennaio 2016 nel procedimento per reclamo avente n. 3604/2015, questo Giudice ritiene che dalla lettura dell’art. 21 comma 15 della legge 27 dicembre 1997 n. 449, come integrato con Decreto del Direttore dell’Agenzia delle Entrate 34755/2010, si desume che nel caso in cui il pagamento avvenga a seguito di ordinanza di assegnazione emessa nel corso di procedura espropriativa presso terz^ ed il credito sia riferito a somme per le quali deve essere °PSrata ^ ritenuta alla fonte, il terzo, se riveste la sostituto d’imposta deve operare all’atto del pagamento la ritenuta d’acconto nella misura del 20%, salvo che sia a conoscenza della riferibilità del credito a somme o valori diversi da quelli assoggettabili a ritenute alla fonte.

Le norme citate non richiedono necessariamente, per escludere la ritenuta d’acconto, l’obbligo del creditore procedente di rendere una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà – che pure sembra imposta dalla Circolare n. 8/2011- dell’Agenzia delle Entrate- tenuto conto della non vincolatività della stessa (sul punto cfr. ex multis Cass. Sez. 5, Sentenza n. 6699 del 21/03/2014, che chiarisce che “la circolare dell’Agenzia delle Entrate interpretativa di una norma tributaria, anche ove contenga una direttiva agli uffici gerarchicamente subordinati, esprime esclusivamente un parere, non vincolante per il contribuente (oltre che per gli uffici), per il giudice e per la stessa autorità che l’ha emanata”), a differenza di quanto espressamente revisto dal legislatore dall’art. 152 disp. . att. c.p.c., conseguentemente non comparabile al caso di specie.

La detta dichiarazione sostitutiva costituisce solo uno degli strumenti mediante i quali il terzo sostituto di imposta può raggiungere la detta conoscenza.

Bisogna a questo punto applicare        al          caso di  specie i principi appena richiamati. Per farlo occorre innanzi tutto rilevare che nel caso di specie è pacifica tra le parti la natura del credito attivato dalla Saviano in via esecutiva, non assogettabile a ritenuta d’acconto (desumibile, peraltro, anche dalla lettura del titolo esecutivo, prodotto nel fascicolo dell’esecuzione) . Ebbene, proprio in assenza di una specifica previsione normativa che imponga la dichiarazione sostitutiva di notorietà, si ritiene che la conoscenza rilevante per evitare l’effettuazione della ritenuta  d’acconto da parte dell’istituto di credito,nella qualità di sostituto d’imposta, sìa integrata dalla comunicazione fatta all’istituto di credito da parte del difensore della creditrice, nella fase immediatamente successiva alla emissione dell’ordinanza di assegnazione nella procedura esecutiva espressamente richiamata dallo stesso istituto di credito nel verbale di causa del 2 luglio 2015 della procedura espropriativa mobiliare avente n. 260/2015, tenuto conto del principio di leale collaborazione tra le parti, essendo emerso dalla documentazione prodotta da entrambe le parti che il terzo pignorato si rivolse, all’indomani dell’ordinanza di assegnazione, direttamente al difensore della Saviano, chiedendogli genericamente di precisare la natura del credito attivato in. via esecutiva, salvo poi a ritenere insufficiente la sola dichiarazione resa dal suo difensore (cfr. mali intercorse tra le parti, prodotte da entrambe).

Occorre inoltre sottolineare che la conoscenza     della natura del credito attivato in via esecutiva poteva essere     desunta dal terzo pignorato da una semplice lettura del titolo esecutivo attivato nella procedura esecutiva n. 1314/2012 (e prodotto nel presente fascicolo), alla luce del contenuto precettivo dell’atto di ” pignoramento presso terzi, in particolare ex art. 543 comma 2 n. c.p.c., allo stesso istituto di credito notificato.

Nessun rilievo può assumere, ai fini della    definizione della presente controversia, la circostanza, peraltro non provata,dell’avvenuto pagamento della somma oggetto di ritenuta all’ente impositore da parte dell’istituto di credito reclamato, tenuto conto che anche il sostituto, nel caso di indebito pagamento, può richiedere il rimborso all’amministrazione finanziaria ai sensi del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 38, impugnando poi dinanzi al giudice tributario l’eventuale rifiuto.

Alla luce delle motivazioni esposte l’opposizione proposta da Unicredit s.p.a. nei confronti di Saviano Angelina nella procedura espropriativa n. 260/2015 non può essere accolta.

La Unicredit s.p.a., soccombente, deve essere condannata a rifondere a Saviano Angelina le spese di lite, liquidate nel dispositivo. Deve essere disposto il pagamento delle spese di lite direttamente a favore del difensore della Saviano, che ha dichiarato di aver anticipato e le spese e non ricevuto compensi.

P.Q.M.

Il  Tribunale di Benevento, in persona del Giudice Dott.ssa Serena Berruti, definitivamente pronunciando, ogni altra domanda ed eccezione disattesa, così dispone:

-non accoglie l’opposizione proposta da Unicredit s.p.a. nei confronti di Saviano Angelina nella procedura espropriativa n. 260/2015;

-condanna la Unicredit s.p.a. a rifondere a Saviano Angelina le spese di lite, liquidate nella complessiva somma di € 1212,00 per compenso ed € 120,00 per spese vive, oltre spese .generali al 15% ed oneri di legge, disponendone il pagamento a favore-, del difensore.

Benevento, 22 maggio 2017.

Il Giudice Serena Berruti

 

 

 

 

Apertura di credito bancario garantita, fideiussore

” Il recesso del fideiussore dalla garanzia prestata per i debiti di un terzo, derivanti da un rapporto di apertura di credito bancario in conto corrente destinato a prolungarsi ulteriormente nel tempo, produce l’effetto di circoscrivere l’obbligazione accessoria al saldo del debito esistente al momento in cui il recesso medesimo è diventato efficace. L’obbligo del garante è limitato al pagamento di tale saldo anche qualora il debito dell’accreditato, al momento in cui la successiva chiusura del conto rende la garanzia attuale ed esigibile, risulti aumentato in dipendenza di operazioni posteriori, e senza che peraltro, ai fini della determinazione dell’ambito della prestazione dovuta dal garante, possa aversi una considerazione delle ulteriori rimesse dell’accreditato separata e diversa rispetto ai prelevamenti dallo stesso operati, e ciò stante l’unitarietà e l’inscindibilità del rapporto tra banca e cliente. Solo se il saldo esistente alla chiusura del rapporto di apertura di credito sia inferiore a quello esistente al momento del recesso del fideiussore, si verifica una corrispondente riduzione dell’obbligazione fideiussoria, in applicazione della regola sancita dall’art. 1941, comma 1, c.c., per cui la fideiussione non può eccedere l’ammontare dell’obbligazione garantita.”

Cassazione civile sez. I  15 giugno 2012 n. 9848  

Testo della sentenza

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1.- Con la sentenza impugnata la Corte di appello di Roma ha confermato la sentenza (depositata il 28 maggio 2003) con la quale il Tribunale di Viterbo, decidendo sull’opposizione proposta da Z. A. contro il decreto ingiuntivo per la somma di L. 244.536.038 oltre interessi e spese, emesso nei suoi confronti quale fideiussore, in favore della Carivit, aveva revocato il decreto ingiuntivo opposto; condannato l’opponente a pagare, in favore della Carivit, quale saldo del conto corrente n. 11/70643, la somma di Euro 118.603,98 oltre interessi dal 16 novembre 1995 al saldo; aveva compensato per la metà le spese del giudizio e condannato lo Z. alla refusione della restante metà, compensando integralmente tra le parti le spese della c.t.u..

Contro la sentenza di appello Z.A. ha proposto ricorso per cassazione affidato a sette motivi.

Ha resistito con controricorso la s.p.a. Italfondiario, quale mandataria di Castello Finance s.r.l., cessionaria del credito oggetto della controversia.

Nei termini di cui all’art. 378 c.p.c., le parti hanno depositato memorie.

2.1.- Con il primo motivo parte ricorrente denuncia “inammissibilità della mutatio libelli eseguita da CARIVIT con la comparsa di costituzione in primo grado;

violazione e falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 167, 183 e 645 c.p.c.; violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c.; vizio della motivazione per apparenza, carenza, insufficienza e perplessità della stessa”.

2.2.- Con il secondo motivo parte ricorrente denuncia “inammissibilità della nuova domanda subordinata formulata dalla difesa CARIVIT per la prima volta in sede di precisazione delle conclusioni; violazione e falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 167, 183, 189 e 190 bis c.p.c.; violazione e falsa applicazione degli artt. 645, 99 e 112 c.p.c.; vizio della motivazione per apparenza, carenza, insufficienza e perplessità della stessa”.

2.3.- Con il terzo motivo parte ricorrente denuncia “tardività della richiesta di verificazione dell’assegno n. (OMISSIS); violazione e falsa applicazione dell’art. 216 c.p.c.. In ogni caso, violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 115 c.p.c., per non avere il Tribunale tenuto conto, nella sentenza gravata, della accertata falsità della sottoscrizione dell’assegno di cui anzidetto.

Perplessità, contraddittorietà e carenza della motivazione su un punto decisivo della lite”.

Deduce che l’istanza di verificazione di una scrittura disconosciuta formalmente da una delle parti deve essere proposta dalla parte che vi ha interesse, a pena di decadenza di inammissibilità, nella prima difesa utile per tale dovendosi intendere il primo scritto difensivo o la prima udienza successiva disconoscimento stesso; la mancata contestazione, da parte del titolare o del garante, delle risultanze di un conto corrente non comporta decadenza del diritto di contestarne il saldo qualora i predetti soggetti scoprano, anche successivamente, che tutte o alcune delle scritturazioni del conto siano state eseguite in base a documenti falsificati; l’obbligazione di garanzia prestata dal fideiussore non si estende sino a comprendere gli effetti di documenti certificati come falsi.

2.4.- Con il quarto motivo di ricorso parte ricorrente denuncia “violazione e falsa applicazione dell’art. 1858 cod. civ., perplessità e carenza di motivazione su un punto decisivo della controversia”.

Deduce che “il rapporto costituito tra cliente e banca, in base al quale su un conto corrente viene scontata una fattura, mentre la disponibilità frutto dello sconto viene accreditata su un altro conto, integra un contratto di sconto fatture, nonostante l’apparente autonomia dei due rapporti paralleli in vista della funzione negoziale unitaria prefissa delle parti; di conseguenza, il diritto della Banca di ottenere dal cliente (o dal garante di questi) la restituzione della somma anticipata discende dal contratto di sconto e diviene attuale ed esercitabile solo a seguito dell’inadempimento del debitore ceduto, il quale opera come condizione risolutiva dell’erogazione; spetta quindi alla banca, che chieda detta restituzione, di fornire la prova dell’inadempienza del terzo ceduto;

la disciplina legale del contratto di fideiussione non prevede alcun potere del fideiussore di verificare il rapporto tra debitore principale e creditore si svolga secondo i criteri generali di correttezza e buona fede previsti dagli artt. 1375 e 1175 c.c., posta l’autonomia del rapporto di garanzia rispetto a quello garantito; è piuttosto il creditore garantito che deve osservare le cautele del caso nella gestione del rapporto con il debitore, non solo nell’interesse proprio ma anche in quello del fideiussore, al duplice fine di conservarne le garanzie (art. 1955 c.c.) e di non aggravarne la condizione (art. 1956 c.c.)”.

2.5.- Con il quinto motivo parte ricorrente denuncia “violazione e falsa applicazione dell’art. 1936 c.c., e segg.; violazione e falsa applicazione dell’art. 222 c.p.c., nonchè erronea valutazione delle risultanze probatorie, con riferimento alla lettera del 30 giugno 1994 della quale la difesa di CARIVIT aveva dichiarato di non volersi avvalere. Perplessità, contraddittorietà e carenza della motivazione della sentenza di primo grado su un punto decisivo alla controversia. Omessa pronunzia la parte dalla corte di appello”.

Deduce che “è inefficace la proroga della validità di un qualsiasi contratto o negozio giuridico che sia intervenuta in epoca successiva alla dichiarazione di revoca o in funzione di quel medesimo rapporto, attesa l’insanabile contraddittorietà tra le opposte manifestazioni di volontà e l’impossibilità logico-giuridica di riportare in vita un rapporto i cui effetti siano ormai cessati; la mancata considerazione, da parte del giudice di appello, di uno o più motivi di appello costituisce insanabile vizio in procedendo della sentenza e ne comporta necessariamente la nullità e quindi la cassazione”.

2.6.- Con il sesto motivo parte ricorrente denuncia “violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 115 c.p.c.. Erronea valutazione delle risultanze probatorie e perplessità e carenza di motivazione in merito alla natura delle fatture scontate. Omessa pronunzia della Corte di appello”.

Deduce che la banca avrebbe dovuto accertare la falsità delle fatture della s.r.l. IEMEL scontate e che il fideiussore non può rispondere delle somme anticipate incautamente dalla banca per fatture false.

2.7.- Con il settimo motivo il ricorrente denuncia vizio di motivazione in ordine al saldo dei conti correnti. Manca una motivazione adeguata circa il motivo di appello con il quale era dedotta la non debenza delle commissioni di massimo scoperto, le quali concorrono nel superamento del tasso soglia di usura.

3.- Va preliminarmente rilevata la genericità della contestazione della legittimazione della s.r.l. Castello Finance sollevata nella memoria dal ricorrente a fronte della specifica indicazione – contenuta nel controricorso – degli estremi della Gazzetta Ufficiale (n. 300 del 27 dicembre 2005) – Foglio Inserzioni sulla quale è stata pubblicata ai sensi del D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385, art. 58, la notizia della cessione del credito oggetto del giudizio, con gli effetti di cui all’art. 111 c.p.c., ed essendo preclusa da giudicato implicito la legittimazione della cedente s.p.a. Intesa Gestione Crediti – la quale ha partecipato al giudizio di appello – quale cessionaria della CARIVIT s.p.a..

3.1.- Il primo motivo è infondato perchè, come ha evidenziato la Corte di appello, lo stesso Z. nell’atto di opposizione ha indicato la sussistenza del c.c. n. (OMISSIS) e la Banca, nella comparsa di risposta, si è limitata a produrre documentazione bancaria, onde non vi è stato un mutamento della domanda. D’altra parte, nel procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo si devono applicare le norme del rito ordinario, ai sensi dell’art. 645, comma 2, e, dunque, anche l’art. 183 cod. proc. civ., comma 5 (Sez. U, Sentenza n. 26128 del 27/12/2010). Talchè correttamente la corte territoriale ha ritenuto legittimo l’ampliamento del thema decidendum introdotto proprio dall’opponente.

Anche il secondo motivo è infondato alla luce del principio per il quale la richiesta di conferma del decreto ingiuntivo opposto, formulata dal creditore al momento della costituzione o nel corso del giudizio di opposizione, comprende in sè in modo implicito la richiesta di condanna al pagamento del credito o di una parte di esso, che può pertanto essere pronunziata dal giudice per un importo inferiore a quello per il quale è stato emesso il decreto ingiuntivo, anche in difetto di esplicita domanda in tal senso, senza incorrere in vizio di ultrapetizione (Sez. 3, Sentenza n. 9021 del 30/04/2005; Sez. 3, Sentenza n. 20613 del 07/10/2011).

Il sesto motivo è infondato.

Invero, la Corte di appello, dopo avere rilevato che “la Banca aveva anticipato l’importo corrispondente alle dette fatture ed era onere del fideiussore verificare la correttezza delle operazioni relative al rapporto di credito che garantiva”, ha evidenziato che “del resto gli stretti rapporti con il debitore principale, confermati dalla esistenza di un altro conto corrente cointestato a firme congiunte, porta a ritenere, come correttamente rilevato dal Tribunale, che lo Z. fosse a conoscenza degli affari del C.” (correntista garantito).

Tale ultima ratio decidendi non risulta specificamente impugnata e, d’altra parte, la banca che procede allo sconto non può che limitarsi alla verifica della regolarità formale della documentazione presentata dal cliente, non potendo svolgere accertamenti sulla reale esistenza dei rapporti sottostanti.

Quanto al settimo motivo va rilevato che la Corte di appello ha evidenziato che “Per quanto riguarda la censura relativa ai conteggi, in particolare alle commissioni di massimo scoperto, va rilevato che il Tribunale ha operato i conteggi all’esito della ulteriore c.t.u.

che ha capitalizzato annualmente, gli interessi che la Banca aveva capitalizzato trimestralmente”. Del tutto nuova e, quindi, inammissibile, appare la censura relativa alle commissioni formulata per la prima volta in sede di legittimità sotto il profilo del superamento del tasso-soglia di usura.

3.2.- I motivi dal terzo al quinto possono essere esaminati congiuntamente perchè contengono censure connesse e fondate nei limiti infrascritti.

Se è vero, infatti, che il ricorrente è privo di interesse in ordine alla denuncia di tardività dell’istanza di verificazione, essendosi questa conclusa con l’accertamento della falsità della sottoscrizione, nondimeno proprio l’accertata falsità dell’assegno non giustifica la decisione della corte territoriale.

Secondo la Corte di appello andavano “disattesi i due motivi relativi l’uno alla mancata detrazione dell’importo dell’assegno risultato falsificato e l’altro attinente alla natura dei due contratti, secondo l’appellante di sconto e non di c.c. su anticipo fatture.

Proprio in considerazione di quanto già esposto in ordine alla autonomia dei rapporti correttamente contabilizzati dalla Banca, l’importo portato dall’assegno falso va detratto dal c.c. n. (OMISSIS), estraneo al D.I. e quindi non oggetto della contabilizzazione relativa al conto in questione, cioè a quello n. (OMISSIS)”.

Sennonchè la corte di merito aveva essa stessa ritenuto corretto l’ampliamento del thema decidendum perchè esteso dal medesimo opponente al conto n. (OMISSIS) e se su quest’ultimo era stato tratto e addebitato l’assegno falso non si vede perchè il relativo importo non potesse essere detratto da quanto preteso dalla banca, assumendo la contestazione dell’opponente natura di eccezione di compensazione.

La corte di merito, poi, non ha adeguatamente motivato in ordine al funzionamento dei tre conti innanzi indicati e ciò anche alla luce della giurisprudenza di questa Corte in materia di c.d. “sconto improprio”.

In materia si è ritenuto, invero, che nel caso della c.d.

anticipazione su fatture o sconto improprio, a fronte del mandato all’incasso di ricevute bancarie, è onere del creditore che pretende la restituzione delle somme erogate, in ragione del mancato pagamento del terzo, dimostrare non solo l’esistenza del contratto di finanziamento, bensì anche l’avvenuta erogazione delle somme sovvenute, senza che ad integrare tale prova possa ritenersi sufficiente la produzione, da parte della banca, dell’originale delle ricevute bancarie, di per sè inidonee a dimostrare l’effettiva anticipazione delle somme oggetto di finanziamento (Sez. 1, Sentenza n. 18447 del 31/08/2007).

Del pari fondata è la censura relativa al termine di efficacia della fideiussione, prorogata sino al 30.6.1994.

La Corte di appello ha osservato che “la revoca della fideiussione non ha effetto immediato in quanto il fideiussore risponde delle operazioni ancora in essere alla data della scadenza. Del resto anche il contratto, alla lettera d), che contempla il recesso del fideiussore, nel disciplinare gli effetti del recesso dalla garanzia, dispone che la comunicazione di recesso si intende ricevuta dalla Banca solo quando la lettera raccomandata sia giunta ai suoi uffici e sia trascorso il tempo ragionevolmente necessario per provvedere”, nel senso che non è automatico l’effetto della scadenza del contratto. Spettava pertanto allo Z. provare che era stato superato il tempo ragionevolmente necessario e comunque tale non può ritenersi il breve lasso di tre mesi”.

Appare evidente il contrasto con la giurisprudenza di questa Corte secondo la quale in tema di fidejussione prestata a garanzia di un’apertura di credito in conto corrente, senza predeterminazione di durata, il recesso del fidejussore è operante dal momento in cui viene a conoscenza della banca e produce l’effetto di limitare la garanzia al saldo passivo esistente a tale data, non essendo al garante opponibile l’ulteriore prosecuzione del rapporto di apertura di credito (Sez. 1, Sentenza n. 6473 del 02/07/1998).

Peraltro, “il recesso del fideiussore dalla garanzia prestata per i debiti di un terzo, derivanti da un rapporto di apertura di credito bancario in conto corrente destinato a prolungarsi ulteriormente nel tempo, produce l’effetto di circoscrivere l’obbligazione accessoria al saldo del debito esistente al momento in cui il recesso medesimo è diventato efficace. L’obbligo del garante è limitato al pagamento di tale saldo anche qualora il debito dell’accreditato, al momento in cui la successiva chiusura del conto rende la garanzia attuale ed esigibile, risulti aumentato in dipendenza di operazioni posteriori, e senza che peraltro, ai fini della determinazione dell’ambito della prestazione dovuta dal garante, possa aversi una considerazione delle ulteriori rimesse dell’accreditato separata e diversa rispetto ai prelevamenti dallo stesso operati, e ciò stante l’unitarietà e l’inscindibilità del rapporto tra banca e cliente. Solo se il saldo esistente alla chiusura del rapporto di apertura di credito sia inferiore a quello esistente al momento del recesso del fideiussore, si verifica una corrispondente riduzione dell’obbligazione fideiussoria, in applicazione della regola sancita dall’art. 1941 cod. civ., comma 1, per cui la fideiussione non può eccedere l’ammontare dell’obbligazione garantita” (Sez. 1, Sentenza n. 16705 del 07/11/2003).

Nei limiti innanzi precisati, dunque, i motivi dal terzo al quinto devono essere accolti e, in relazione ad essi, la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio alla Corte di appello di Roma in diversa composizione per nuovo esame e per il regolamento delle spese.

P.Q.M.

La Corte rigetta il primo, il secondo e il sesto motivo, dichiara inammissibile il settimo; accoglie i rimanenti motivi nei sensi di cui in motivazione; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia per nuovo esame e per il regolamento delle spese alla Corte di appello di Roma in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 17 aprile 2012.

Depositato in Cancelleria il 15 giugno 2012

Banca. L’estratto del c/c bancario ha efficacia di prova anche nei confronti del fideiussore del correntista

” Nei rapporti di conto corrente bancario, l’estratto conto ha efficacia probatoria fino a prova contraria anche nei confronti del fideiussore del correntista non soltanto per la concessione del decreto ingiuntivo, ma anche nel giudizio di opposizione allo stesso e in ogni altro procedimento di cognizione, perché ove il debitore principale sia decaduto a norma dell’art. 1832 cod. civ. dal diritto di impugnare gli estratti di conto, il fideiussore chiamato in giudizio dalla banca medesima per il pagamento della somma dovuta non può sollevare contestazioni in ordine alla definitività di quegli estratti .”

Testo della sentenza

Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 1, ordinanza 11 aprile – 24 maggio 2017, n. 13127 Presidente Campanile – Relatore Terrusi

Fatto e diritto

Rilevato che: il tribunale di Milano, con sentenza in data 18-2-2015, rigettava l’opposizione di D.B.M. e di C.M. al decreto ingiuntivo loro notificato dalla Banca popolare di Milano, quali fideiussori della Iti Arredo s.p.a., per la somma di Euro 867.647,00, oltre accessori, a titolo di saldo debitore del c/c n. (…); il gravame avverso la citata sentenza veniva dichiarato inammissibile, ai sensi degli artt. 348-bis e seg. cod. proc. civ., dalla corte d’appello di Milano, giusta ordinanza in data 7-82015 gli ingiunti hanno quindi proposto ricorso per cassazione, in due motivi (illustrati anche da memoria), nei riguardi della sentenza del tribunale; la Banca ha replicato con controricorso. Considerato che: il tribunale di Milano, per quanto ancora rileva, ha motivato la decisione affermando: che la Banca, attrice in senso sostanziale, aveva l’onere di produrre gli estratti conto dall’inizio del rapporto (nel caso di specie risalente al 1992), al fine di dimostrare l’effettività del credito vantato; che tali estratti erano stato prodotti solo dalla data del 30-6-2000; che tuttavia il primo estratto (al 30-6-2000) aveva evidenziato un saldo a credito del correntista (per lire 179.835.195), sicché esso ben poteva essere utilizzato al fine di ricostruire il rapporto da tale data nonostante la nullità delle clausole del contratto relative alla capitalizzazione trimestrale dell’interesse a debito; che la ricostruzione era stata fatta mediante c.t.u., la quale aveva concluso nel senso dell’effettiva esistenza di un saldo finale passivo di Euro 1.161.695,22, di gran lunga superiore, cioè, all’ammontare delle fideiussioni; che, ove gli opponenti avessero inteso invocare, invece, un maggior saldo creditore di partenza (al 30-6-2000), l’onere probatorio sarebbe stato a loro carico; la decisione del tribunale, ai sensi dell’art. 348-ter cod. proc. civ., è, coi citati due motivi di ricorso, impugnata per violazione o falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ., atteso che il tribunale avrebbe errato nel ritenere valido, quale punto di partenza per la ricostruzione del rapporto, il primo saldo noto alla data del 30-6-2000 sol perché risultato a credito del correntista, e per avere quindi ribaltato l’onere della prova inter partes in considerazione della mancata produzione degli estratti conto integrali dall’inizio del rapporto; il ricorso, i cui motivi possono essere unitariamente esaminati perché connessi, è manifestamente infondato; il tribunale ha in effetti accertato che il contratto di conto corrente non conteneva le specifiche condizioni di cui alla legge n. 154-92 e che era stato applicato illegittimamente l’anatocismo conseguente alla prevista capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi, ferma restando invece la capitalizzazione annuale di quelli creditori; ha dunque ritenuto la nullità di tali clausole, e ha detto che la Banca non aveva allegato, né provato, l’adeguamento del contratto alla delibera Cicr del 9-2-2000; tuttavia il tribunale ha anche accertato che il primo saldo noto, attestato dagli estratti prodotti in giudizio, era a credito del correntista, e dal ricorso non emerge, in prospettiva, di autosufficienza, che sia mai stato finanche soltanto dedotto che il relativo estratto fosse stato contestato dal correntista medesimo nel termine stabilito; questa Corte ha da tempo chiarito che, nei rapporti di conto corrente bancario, l’estratto conto ha efficacia probatoria fino a prova contraria anche nei confronti del fideiussore del correntista non soltanto per la concessione del decreto ingiuntivo, ma anche nel giudizio di opposizione allo stesso e in ogni altro procedimento di cognizione, perché ove il debitore principale sia decaduto a norma dell’art. 1832 cod. civ. dal diritto di impugnare gli estratti di conto, il fideiussore chiamato in giudizio dalla banca medesima per il pagamento della somma dovuta non può sollevare contestazioni in ordine alla definitività di quegli estratti (v. per tutte Cass. n. 8944-16; Cass. n. 18650-03); quanto invocato dai ricorrenti va coordinato con tale principio; non è in discussione che una volta che sia stata esclusa la validità, per mancanza dei requisiti di legge, della pattuizione di interessi ultralegali a carico del correntista, la rideterminazione del saldo del conto deve avvenire attraverso i relativi estratti a partire dalla data della sua apertura, così effettuandosi l’integrale ricostruzione del dare e dell’avere con applicazione del tasso legale, sulla base di dati contabili certi in ordine alle operazioni ivi registrate (v. Cass. n. 20693-16; Cass. n. 7972-16; Cass. n. 21597-13); ciò nondimeno, codesto insegnamento presuppone che il conto abbia avuto un andamento a debito, perché tale è la condizione per potersi discorrere di interessi a carico del correntista; nella specie non risulta che sia stato finanche solo dedotto che, prima del 30-6-2000 (data del primo estratto conto prodotto in giudizio, evidenziante il credito del correntista), il conto abbia avuto in qualche specifico momento un andamento negativo; al punto che l’impugnata sentenza ha esplicitamente affermato senza censure in questa sede – che mai la parte opponente aveva invocato, rispetto a tale data, “un maggiore saldo creditore”; consegue che la decisione assunta dal tribunale resiste alle critiche dei ricorrenti: correttamente, in tale condizione, potevasi porre a base della ricostruzione del saldo finale quanto emergente dal detto estratto, per poi ricostruire integralmente il dare e l’avere a partire da questo, mediante la produzione integrale degli estratti successivi; le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti alle spese processuali, che liquida in Euro 10.100,00, di cui Euro 100,00 per esborsi, oltre accessori e rimborso forfetario di spese generali nella percentuale di legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

 

 

Fideiussione, in taluni casi è possibile concedere nuovo credito al terzo senza l’autorizzazione del garante

Cassazione civile, sez. I, 02/03/2016,  n. 4112

Nella fattispecie la ricorrente, fideiussore del marito,  proponendo opposizione a decreto ingiuntivo, ha invocato l’art. 1956 cod. civ. per sottrarsi alle pretese della banca creditrice, ma la Corte d’Appello ha stabilito che la richiesta di autorizzazione ivi prevista doveva ritenersi nella specie irrilevante, tenuto conto che la moglie, stante il vincolo coniugale e di convivenza, era da considerare al corrente dell’aggravamento delle condizioni economiche del marito al punto da avere sostanzialmente assentito all’ulteriore credito.

La Corte di Cassazione ha confermato la correttezza di detta pronuncia. Diversamente da quanto eccepito nel ricorso, l’assenso del fideiussore, nel caso previsto dall’art. 1956 cod. civ., non impone la forma scritta, non potendosene affermare la configurazione in termini di accordo a latere del contratto bancario cui la fideiussione accede.

L’ipotesi contemplata dalla norma, che cioè il creditore, senza autorizzazione del fideiussore, abbia “fatto credito” al terzo pur sapendo che le condizioni patrimoniali di costui sono frattanto significativamente peggiorate, non è necessariamente equiparabile alla instaurazione di nuovi rapporti obbligatori tra il creditore e il terzo cui debba poi estendersi la garanzia per debiti futuri in precedenza prestata dal fideiussore.

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FORTE       Fabrizio                        –  Presidente   –

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria                     –  Consigliere  –

Dott. ACIERNO     Maria                           –  Consigliere  –

Dott. TERRUSI     Francesco                  –  rel. Consigliere  –

Dott. NAZZICONE   Loredana                        –  Consigliere  –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 4646-2011 proposto da:

D.R.G.  (C.F.  (OMISSIS)),   elettivamente

domiciliata in  ROMA, VIALE GORIZIA 14, presso  l’avvocato  SABATINI

FRANCO, rappresentata  e difesa dall’avvocato MARCHIONNE  LANFRANCO,

giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

U.C.M.B. – UNICREDIT MANAGEMENT CREDIT BANK, nuova denominazione  di

U.G.C. BANCA S.P.A., e per essa UNICREDIT CREDIT MANAGEMENT BANK,

Fatto

 SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

D.R.G. proponeva, in qualità di fideiussore e assieme al marito P.F., debitore principale, opposizione a un decreto ingiuntivo emesso dal presidente del tribunale di Pescara, su ricorso del Credito italiano s.p.a. (oggi Unicredit s.p.a.), per uno scoperto di conto corrente.

Eccepiva, per quanto in effetti ancora rileva, la propria liberazione dal vincolo, avendo la banca effettuato credito al garantito, senza autorizzazione di essa garante, per somme superiore all’affidamento, nonostante il mutamento delle condizioni patrimoniali del debitore.

L’opposizione veniva rigettata dall’adito tribunale, salvo il riconoscimento del diritto degli opponenti alla detrazione di una piccola somma.

L’appello della D.R. è stato a sua volta respinto dalla corte d’appello de L’Aquila, la quale, con sentenza in data 26-11-2010, ha ritenuto inammissibile per novità la deduzione relativa all’illegittimità della pretesa di pagamento di una somma superiore al limite massimo garantito e infondata la doglianza con la quale era stata invocata la liberazione del fideiussore per obbligazioni future ai sensi dell’art. 1956 cod. civ..

A tal proposito la corte ha in modo assorbente considerato che la mancata richiesta di autorizzazione da parte della banca non poteva configurare una violazione contrattuale liberatoria, in quanto la conoscenza delle condizioni economiche doveva ritenersi “comune” a creditore (rectius, debitore) e a garante, ovvero presunta in ragione del vincolo coniugale e dello stato di convivenza. Questi fatti – invero pacifici in causa costituivano, a dire della corte d’appello, elementi presuntivi di rilevante gravità, non superati da altri di segno contrario, in ordine “alla conoscenza da parte del fideiussore dell’aggravamento delle condizioni economiche del debitore e del suo sostanziale consenso all’ulteriore credito”.

Contro la sentenza citata la D.R. ha proposto ricorso per cassazione sulla base di due motivi.

Unicredit s.p.a. ha resistito con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

  1. – Col primo mezzo la ricorrente deduce la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ.per avere la corte d’appello erroneamente affermato la novità e di conseguenza l’inammissibilità di un profilo di censura, circa la pretesa di somme superiori al limite della garanzia, in verità mai prospettato.

Col secondo mezzo la ricorrente deduce la violazione dell’art. 1956 cod. civ., della L. n. 385 del 1993, art. 117 e dell’art. 2697 cod. civ. per avere la corte d’appello errato quanto al profilo afferente l’estinzione della fideiussione.

La tesi esposta nel secondo motivo è che, diversamente da quanto sostenuto in sentenza, la speciale autorizzazione di cui all’art. 1956 cod. civ. imponeva la forma scritta, tenendo conto del sistema garantista e documentale attualmente in vigore per i contratti bancari e del fatto che detta autorizzazione riveste la qualifica di vero e proprio contratto in appendice alla fideiussione.

La ricorrente censura inoltre la decisione di merito nella parte in cui ha ritenuto che la conoscenza del garante circa l’aggravamento delle condizioni economiche del debitore avesse di per sè integrato l’autorizzazione citata, mentre la norma richiede che debba essere provata appunto la concessione dell’autorizzazione e non la conoscenza dello stato di aggravamento delle condizioni economiche dell’obbligato principale. In sostanza, ove anche fosse stata provata, nella fideiubente, la conoscenza dell’aggravamento, ella avrebbe potuto pur sempre negare l’autorizzazione per le future obbligazioni, e dunque in tal senso avrebbe dovuto essere comunque sollecitata a esprimersi dal creditore secondo il disposto di legge.

Sul piano logico-giuridico, poi, non poteva secondo la ricorrente giustificarsi la duplice affermazione della corte d’appello circa la presunzione di conoscenza della moglie in ordine alle condizioni economiche del marito e al conseguente consenso tacito alla concessione di ulteriore credito: dal primo punto di vista, si sarebbe stati dinanzi a una presunzione tutt’altro che grave precisa e concordante; dal secondo, a una illazione non poggiante su alcuna presunzione, stante che questa avrebbe dovuto riguardare un fatto positivo (l’autorizzazione) di cui nessuna dimostrazione era stata data.

  1. – Il ricorso è infondato in relazione al secondo motivo, il cui esame si palesa assorbente di ogni questione.
  2. – La ricorrente, fideiussore del marito, ha invocato l’art. 1956 cod. civ.per sottrarsi alle pretese della banca creditrice, ma la corte d’appello ha stabilito che la richiesta di autorizzazione ivi prevista doveva ritenersi nella specie irrilevante, tenuto conto che la moglie, stante il vincolo coniugale e di convivenza, era da considerare al corrente dell’aggravamento delle condizioni economiche del marito al punto da avere sostanzialmente assentito all’ulteriore credito.

Diversamente da quanto eccepito nel ricorso, l’assenso del fideiussore, nel caso previsto dall’art. 1956 cod. civ., non impone la forma scritta, non potendosene affermare la configurazione in termini di accordo a latere del contratto bancario cui la fideiussione accede. L’ipotesi contemplata dalla norma, che cioè il creditore, senza autorizzazione del fideiussore, abbia “fatto credito” al terzo pur sapendo che le condizioni patrimoniali di costui sono frattanto significativamente peggiorate, non è necessariamente equiparabile alla instaurazione di nuovi rapporti obbligatori tra il creditore e il terzo cui debba poi estendersi la garanzia per debiti futuri in precedenza prestata dal fideiussore.

Essa comprende anche la semplice modalità di gestione di un rapporto obbligatorio già instaurato col terzo, coperto dalla garanzia fideiussoria, e dunque non implica affatto un nuovo contratto nè tra la banca e il debitore, nè tra la banca e il terzo fideiussore.

La norma costituisce molto più semplicemente un’applicazione del principio di buona fede nell’esecuzione dei contratti (v. per tutte Sez. 1, n. 394-06) e perciò onera il creditore di un comportamento coerente col rispetto di tale principio nella gestione del rapporto debitorio, tale da non ledere ingiustificatamente l’interesse del fideiussore.

  1. – Questa corte ha peraltro da tempo chiarito che vi possono essere casi in cui la richiesta di speciale autorizzazione di cui all’art. 1956 cod. civ.non è necessaria perchè l’autorizzazione può essere ritenuta implicitamente o tacitamente concessa dal fideiussore. Il che è esattamente coerente col fatto che per l’autorizzazione, appunto, non è richiesta la forma scritta ad substantiam.

In guisa di simile principio è stato così affermato che i presupposti applicativi dell’art. 1956 cod. civ. non ricorrono quando, per esempio, in una stessa persona coesistono le qualità di fideiussore e di legale rappresentante della società debitrice, visto che la richiesta di credito, in tali casi, proviene sostanzialmente dalla persona fisica che somma la posizione di garante (v. Sez. 3, n. 7587-01, Sez. 1 n. 3761-06), donde la conoscenza della difficoltà economica del debitore devesi ritenere quanto meno comune.

Al di là di questa formula, sulla quale insiste la corte d’appello e che, invece, la ricorrente contesta in rapporto al distinto caso in cui il fideiussore sia il coniuge dell’obbligato, vi è che la ratio dell’insegnamento sta in ciò: che non è necessaria la richiesta di autorizzazione laddove possa ritenersi che vi sia già perfetta conoscenza, in capo al fideiussore, della situazione patrimoniale del debitore garantito.

Questo perchè tale perfetta conoscenza può essere considerata valida base di una presunzione di connessa autorizzazione tacita alla concessione del credito, desunta dalla possibilità di attivarsi mediante l’anticipata revoca della fideiussione per non aggravare i rischi assunti.

  1. – La corte d’appello non ha infranto i principi evocati, avendo appunto affermato, con apprezzamento di fatto non censurato sotto il profilo del vizio di motivazione, e dunque insindacabile in questa sede, che il consenso (id est, l’autorizzazione) del fideiussore, essendo questi coniuge convivente del debitore, al corrente della di lui aggravata condizione economica, dovevasi considerare in effetti sostanzialmente acquisito.

Se è vero che, in ipotesi di concessione del credito nonostante il deterioramento delle condizioni patrimoniali del debitore, la mancata richiesta di autorizzazione non può configurare una violazione contrattuale liberatoria se la conoscenza delle difficoltà economiche in cui versa il debitore principale può essere presunta comune al fideiussore, non è implausibile sostenere che tale sia anche, in relazione alle circostanze concrete, la condizione caratterizzante il coniuge dell’obbligato, ove sia desunta – come nella specie – dal legame tra debitore e fideiussore sorretto da vincoli stabili di comunione di vita e di interessi, tali da indurre a ritenere probabile – in mancanza di risultanze di segno contrario – sia la conoscenza sia il consenso del secondo.

Non si è in presenza, infatti, di una presunzione di secondo grado, notoriamente vietata, in quanto il fatto noto è costituito dalla stabile comunione di vita e di interessi tra fideiussore e debitore principale, cui segue la conoscenza del mutamento delle condizioni patrimoniali quale sintomo dell’autorizzazione tacita alla concessione del credito.

  1. – Tanto determina il rigetto del ricorso, assorbita rimanendo la questione prospettata nel primo motivo.

Le spese processuali seguono la soccombenza.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese processuali, che liquida in Euro 3.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori e rimborso forfetario di spese generali nella percentuale di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della prima sezione civile, il 20 gennaio 2016.

Depositato in Cancelleria il 2 marzo 2016

 

 

Pegno di libretto di deposito

Corte di Cassazione, Sez. I Civile, sentenza n. 18597 del 12 settembre 011

Con la sentenza n. 18597 del 12 settembre scorso, la Corte di cassazione ha affrontato il tema delle differenti modalità di soddisfazione del credito riconducibile alla natura regolare o irregolare del pegno vantato dalla banca su libretti di deposito al risparmio del fallito.

Citando i propri precedenti orientamenti (Cass. Civ, sez. I, 6 dicembre 2006 e Cass. Civ, sez. I, 20 aprile 2006 n. 9306), la Cassazione ha ricordato come, qualora un cliente della banca vincoli, a garanzia del proprio adempimento, un titolo di credito o un libretto di deposito al risparmio e non conferisca alla banca il potere di disporre del relativo diritto, non si è in presenza di un pegno irregolare ma si rientra invece nella disciplina del pegno regolare.

In tale ultimo caso, la banca non acquisisce la somma portata dal titolo o dal documento, con l’obbligo di riservare il relativo ammontare, ma è tenuta a restituire il titolo o il  documento.

Il  creditore assistito da pegno regolare è quindi tenuto ad insinuarsi nel passivo fallimentare agli sensi dell’articolo 53 della L.F., per il soddisfacimento del proprio credito, dovendosi escludere la compensazione che invece opera, nel pegno irregolare, come modalità tipica di esercizio della prelazione.

Nel caso di specie, le condizioni generali di contratto riportate in calce all’atto costitutivo del pegno non conferivano alla banca il potere di disporre di libretti ma, al contrario, tale potere era espressamente escluso nella misura in cui si attribuiva alla banca il diritto di prelevare la somma depositata fino alla concorrenza di quanto dovutole, ma esclusivamente in caso di inosservanza degli obblighi assunti e dopo il corso di cinque giorni dalla richiesta di pagamento da comunicare al cliente con lettera raccomandata .

Per   tale motivo, la Corte di Cassazione, in conformità con le decisioni del giudice di merito, ha confermato la revocabilità dei prelievi eseguiti dalla banca sulle somme portate dal libretto offerto in pegno regolare.

 

La Fideiussione omnibus e il recesso del socio fideiussore

In caso di recesso del fideiussore dal rapporto di fidejussione omnibus  limitata ( cioè circoscritta a un importo fissato all’atto di accensione del rapporto fideiussorio),  i principi  desumibili  dal consolidato orientamento della giurisprudenza possono essere sintetizzati come segue:

a.   la regola generale è che il recesso del fideiussore, ove consentito nel perdurare del rapporto principale, produce l’effetto di circoscrivere l’obbligazione accessoria al saldo del debito esistente al momento in cui il recesso medesimo diventa efficace e, pertanto, l’obbligo del garante è limitato al pagamento di tale saldo ancorché il debito dell’accreditato, al momento della chiusura del conto, risulti aumentato in dipendenza di operazioni successive;

b.  qualora successivamente al recesso del socio fideiussore si verifichino ulteriori rimesse da parte dell’accreditato sul conto garantito, queste, stante l’unitarietà del rapporto, non possono essere conteggiate separatamente dai prelevamenti, occorrendo in tali casi, per determinare l’entità dell’obbligazione principale, avere riguardo al momento della richiesta da parte della banca di estinzione del debito garantito, con la conseguenza che se esso risulta inferiore a quello esistente al momento del recesso, si verificherà una corrispondente riduzione dell’obbligazione fideiussoria, in applicazione della regola sancita dall’art. 1941, comma I, cc, per cui la fideiussione non può eccedere l’ammontare dell’obbligazione garantita;

c.   il comportamento della banca che,  pur dopo il recesso del fideiussore medesimo, abbia mantenuto in vita il rapporto di apertura di credito con il debitore principale senza chiedere la sostituzione del garante o l’integrazione della garanzia non è di per sé contraria a principi di correttezza e buona fede nei confronti del fideiussore, salvo  non venga dimostrato che la banca abbia agito con la consapevolezza delle insufficienza della garanzia e, quindi, senza la dovuta attenzione all’interesse del fideiussore (Cass. 12685/2004).

Nota.   Nel quadro della uniformità dei rapporti negoziali banca-cliente, il fideiussore è chiamato a rispondere anche per le obbligazioni successive al momento in cui ha manifestato l’intenzione di recedere, sorte e maturate in dipendenza dei rapporti esistenti a quel momento.

 

FALLIMENTO – PEGNO DI CREDITO

                                                                                                  Cass. civ., Sez. Un., 2 ottobre 2012, n. 16725

L’automatica trasformazione del pegno di credito alla consegna in pegno di titoli per effetto di un’apposita convenzione tra le parti, determina una sostituzione dell’oggetto del pegno equivalente ad una nuova garanzia. Nella descritta circostanza, inoltre, la convenzione sarebbe posta in essere in violazione del divieto di patto commissorio, perché l’appropriazione dei titoli da parte della banca, successivamente alla consegna, realizza un effetto sostanzialmente analogo al patto commissorio, in quanto la banca finirebbe in tal modo per appropriarsi dell’oggetto del credito del cliente

Non è assistita da prelazione ai fini dell’ammissione al passivo fallimentare la convenzione di pegno avente ad oggetto non titoli di stato, ma il credito del cliente nei confronti della banca all’acquisto ed alla consegna di una determinata quantità di titoli per un controvalore altrettanto determinato, senza che tali titoli risultino ancora materialmente formati al momento della convenzione, né successivamente. In merito deve rilevarsi che il pegno di credito all’acquisto ed alla consegna di titoli non ancora emessi ha natura di pegno di credito futuro, avente effetti obbligatori fino a quando non si verifica la consegna, pertanto inidoneo ad attribuire prelazione, che sorge solo dopo la specificazione e la consegna. A differenza del pegno di credito alla consegna di denaro o altra cosa fungibile (art. 2803 c.c.), già esistenti al momento della convenzione, i titoli di Stato, in regime di materializzazione, non possono dirsi ancora esistenti fino a quando non viene formato il documento che li incorpora e, dunque, fino a quando non ha luogo la individuazione, non può ritenersi sussistente alcuna prelazione.