Autore: Giovanni Orlandi

Arbitrato e appalto, è invalido il lodo emesso dal collegio arbitrale durante l’arco di tempo concesso al commissario liquidatore della procedura concorsuale per decidere se subentrare nel contratto d’appalto

Cassazione civile Sez. un., 23/02/2023, n.5694

IL CASO. La decisione di rimessione alle SSUU prendeva le mosse da un ricorso promosso avverso alla sentenza con cui la Corte di Appello di Bologna aveva rigettato l’impugnazione di un lodo arbitrale con cui il collegio arbitrale aveva accolto alcune delle domande proposte dalla committente e rigettato la domanda di risoluzione del contratto di subappalto. Il collegio non sarebbe stato a conoscenza del fatto che, in pendenza della procedura arbitrale, la committente era stata posta in liquidazione coatta amministrativa.
Nell’ordinanza di rimessione la Seconda Sezione della Corte prospetta la soluzione sulla base di alcuni precedenti delle stesse Sezioni Unite, in cui si affermava che l’effetto attributivo di cognizione, scaturente dalla clausola arbitrale, sarebbe stato paralizzato dall’inevitabile assorbimento di tali tipologie di giudizio nello speciale procedimento di verifica dello stato passivo, con la conseguenza che l’accertamento di crediti vantati nei confronti di una parte sottoposta a fallimento o ad amministrazione straordinaria non avrebbe potuto essere devoluta al collegio (cfr. Cass., SS.UU., 21 luglio, 2015, n. 15200).
Una soluzione come quella descritta appare, infatti, funzionale alla garanzia di realizzazione del simultaneus processus, in quanto consente il contraddittorio in un solo giudizio di tutti i creditori del debitore insolvente.
In sintesi con la pronuncia sono stati espressi i seguenti principi:
1) Il giudizio arbitrale promosso sulla base della clausola compromissoria accessoria ad un appalto e per l’accertamento di un credito da esso dipendente, diviene improcedibile al sopraggiungere della messa in liquidazione coatta amministrativa di una delle parti del contratto (nella specie, l’appaltatore), stante l’esclusività dell’accertamento del passivo nella sede concorsuale cui è comunque tenuta, ai sensi degli artt. 52 e 93 l. fall., la parte creditrice (nella specie, il committente), se il rapporto è ancora pendente, cioè non esaurito ai sensi dell’art. 72 l. fall.
2) Il lodo ciononostante emesso, prima della scadenza del termine di 60 giorni assegnato dall’art. 81 l. fall. all’organo concorsuale per dichiarare il proprio eventuale subentro nel contratto-presupposto e senza che siffatta dichiarazione sia intervenuta, è nullo, con conseguente inettitudine a produrre effetti nei confronti della procedura concorsuale, in quanto lo scioglimento dell’appalto in conseguenza dell’apertura del concorso realizza un effetto legale ex nunc, solo risolutivamente condizionato alla decisione di subentro del commissario fin quando è possibile,  e così gli arbitri, nella fattispecie, difettano di potestas judicandi;
3) l’apertura della procedura concorsuale in pendenza del rapporto determina altresì, secondo la regola generale dell’art. 72, comma 6, l. fall., valevole anche per l’appalto, la inefficacia della clausola negoziale che ne fa dipendere la risoluzione da tale evento.

 

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La protezione dei pagamenti da revocatoria fallimentare. I pagamenti effettuati nei termini d’uso

Cass. Civ., Sez. I, 26 aprile 2023, n. 10997, ord.

L’art 67 della Legge Fallimentare ( ora ridefinita Legge della crisi d’impresa) esclude da revocabilità, in caso di insolvenza dichiara dell’impresa ( id est fallimento, concordato, liquidazione coatta amministrativa), il pagamenti operati dall’impresa insolvente anche nell’arco degli ultimi sei mesi che precedono la dichiarazione d’insolvenza, se i pagamenti stessi sono effettuati “nei termini d’uso”. La giurisprudenza si è cimentata, quindi, nel compito di interpretare tale espressione posto che accade sovente che le imprese in difficoltà pagano in modo irregolare.  Accade nella prassi, infatti, che le imprese in difficoltà chiedano di modificare i termini di pagamento, peggio, adempiano in modo irregolare.
L’argomento è stato affrontato con un recentissimo arresto della Suprema Corte di Cassazione, la sentenza n.  10997/2023, con il quale è stato enunciato il seguente principio:
“L’effetto dell’esenzione dell’art. 67, terzo comma, lett. a), l. fall., è quello di rendere non revocabili quei pagamenti i quali, pur avvenuti oltre i tempi contrattualmente prescritti, siano stati di fatto eseguiti ed accettati in termini diversi, nell’ambito di plurimi adempimenti con le nuove caratteristiche, evidenziatesi già in epoca anteriore a quelli de quibus.  Ai fini dell’accertamento, il Giudice dovrà valutare la sussistenza di una prassi invalsa tra le parti in epoca prossima ai pagamenti revocandi.”

IL CASO. La Corte d’Appello di Perugia, ribaltando la sentenza di primo grado resa dal Tribunale di Terni, dichiarava la revocabilità di una serie di pagamenti, escludendo l’applicabilità dell’esenzione di cui alla lett. a) del comma 3, dell’art. 67, l.fall. Per la Corte, infatti, la circostanza che i pagamenti fossero avvenuti con un ritardo sempre maggiore rispetto a quello ritenuto “solito”, portava ad escludere la possibilità di ritenere tali ritardi nei termini d’uso, come ulteriormente comprovato  dai numerosi solleciti inviati dalla Società Alfa, creditrice, alla Società Beta, debitrice.
Sussisteva, inoltre, la scientia decoctionis dell’accipiens ( n.d.r.  la consapevolezza dello stato di decozione da parte del creditore), comprovata da elementi presuntivi quali (i) articoli di stampa; (ii) risultanze di bilancio; (iii) rifiuto del revisore di esprimere il proprio parere sul bilancio; (iv) attivazione della cassa integrazione; (v) sospensione delle forniture e interruzione dell’attività produttiva.
La società Alfa, accipiens condannata alla restituzione degli importi ricevuti, ricorreva in cassazione, chiedendo la riforma della sentenza della Corte perugina, assumendo l’erroneità del decisum del Giudice nella misura in cui aveva escluso l’applicabilità dell’esenzione prevista dall’art. 67, co. 3, lett. a), l.fall.

La Corte di Cassazione, in accoglimento del ricorso della Società Alfa, ha cassato la sentenza impugnata e disposto il rinvio alla Corte d’Appello di Perugia, in diversa composizione.

In particolare, la Corte ha statuito che il giudice d’appello, pur essendo tenuto a verificare l’esistenza di una prassi anteriore, adeguatamente consolidata e stabile, non si è preoccupato di accertare quale fosse la consuetudine negoziale invalsa fra le parti in un’epoca prossima ai pagamenti revocandi, arrestando la propria analisi a condotte risalenti a quattro anni addietro e dunque non significative della “normalità” di un atto di adempimento compiuto in coerenza con la pratica esistente al momento della sua esecuzione. La motivazione del giudice a quo, che risultava contraddittoria e viziata dall’omesso esame della documentazione relativa ai pagamenti avvenuti in epoca più recente, doveva dunque essere riformata.

Il testo della sentenza 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

RILEVATO

che:

  1. Il Tribunale di Terni, con sentenza n. 355/2017, respingeva la domanda proposta D.Lgs. n. 270 del 1999, ex art. 49 e L.Fall., art. 67 da BETA s.p.a. in a.s. nei confronti di ALFA s.p.a., avente ad oggetto la revoca dei pagamenti effettuati dalla società in bonis in favore della convenuta nei sei mesi anteriori alla dichiarazione di insolvenza, ritenendo che gli stessi fossero stati effettuati nei termini d’uso fra le parti e rientrassero così nell’esenzione prevista dalla L.Fall., art. 67, comma 3, lett. a).
  2. La Corte d’appello di Perugia ha accolto l’appello proposto dall’A.S. contro la decisione. Ha rilevato che, benché sin dal 2005 BETA avesse iniziato a pagare le forniture con ritardo, contenuto però entro un termine di venti – trenta giorni, “al 2007, e quindi al semestre antecedente alla dichiarazione dello stato di insolvenza, i ritardi erano sempre aumentati, sino ad arrivare agli ottanta e ai novanta giorni delle fatture relative ai pagamenti oggetto del giudizio” (così, testualmente, la sentenza alla pag. 4, 2 cpv).

Ha quindi ritenuto che simili ritardi non rientrassero nei termini d’uso, come del resto comprovato dai numerosi solleciti (di cui avevano esaustivamente riferito i testi escussi) che ALFA, per il tramite di suoi dipendenti, aveva provveduto a inviare a BETA nell’ultimo periodo.

Ha poi affermato che i medesimi solleciti dimostravano la scientia decoctionis della compagine appellata.

Ha aggiunto che la prova della sussistenza del presupposto soggettivo dell’azione emergeva da ulteriori, plurime circostanze conosciute nel mondo produttivo (articoli di stampa che trattavano della precaria situazione della BETA; pubblicazione del bilancio al 31 dicembre 2008 della società; rifiuto di KPMG di esprimere il proprio parere sul bilancio per l’anno successivo; attivazione della cassa integrazione per i dipendenti; sospensione delle forniture e interruzione dell’attività produttiva).

Ha pertanto dichiarato l’inefficacia dei pagamenti dedotti in giudizio, per l’importo di Euro 41.600, e ha condannato ALFA a restituire alla procedura appellante la somma predetta, maggiorata degli interessi legali dalla data della domanda al saldo.

  1. ALFA s.p.a. ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza, pubblicata il 7 giugno 2019, prospettando sei motivi di doglianza, ai quali ha resistito con controricorso BETA s.p.a. in a.s..

Parte ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c..

 

CONSIDERATO

che:

4.1 Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione della L.Fall., art. 67, commi 2 e 3, lett. a): la corte d’appello, pur riconoscendo che i ritardi nei pagamenti di BETA risalivano al 2005, ed erano arrivati nel 2007 a 80/90 giorni, ha negato che rientrassero nei termini d’uso i pagamenti di cui era stata richiesta la revoca, che erano avvenuti con un ritardo della medesima consistenza; i giudici distrettuali, a dire della ricorrente, non hanno tenuto conto che la sentenza dichiarativa dell’insolvenza di BETA è stata emessa il 18 maggio 2011, e che dunque il cd. periodo sospetto non risaliva al 2007, ma, dovendo essere calcolato a ritroso da tale data, si arrestava al 17 novembre 2010, oppure hanno limitato la valutazione dei termini d’uso esistenti fra le parti al periodo anteriore al 2007.

4.2 Il secondo motivo di ricorso lamenta la violazione e falsa applicazione degli art. 116 c.p.c., L. fall., art. 67, commi 2 e 3, lett. a): la corte d’appello – in tesi – non avrebbe compiuto un prudente apprezzamento delle prove disponibili, omettendo di analizzare compiutamente tutti i pagamenti intervenuti fra le parti dal 2005 al 2010 ai fini della valutazione in concreto dei termini d’uso esistenti e limitando la propria disamina sino al 2007; i giudici distrettuali, inoltre, avrebbero dato indebita prevalenza, nella individuazione dei termini d’uso, alle dichiarazioni testimoniali rese dai soli testi della procedura appellante, escludendo invece la valutazione sia delle prove documentali, sia delle prove testimoniali offerte a tal fine da ALFA.

4.3 Il terzo motivo di ricorso denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omessa valutazione di fatti storici decisivi risultanti dagli atti di causa, costituiti, fra l’altro: i) dalla documentazione relativa a tempi e modalità di pagamento delle fatture adottati dalle parti nel periodo ricompreso fra il 2005 e il 2010; ii) dall’insussistenza di solleciti scritti; iii) dalle dichiarazioni testimoniali dei testi di ALFA.

4.4 Il sesto motivo di ricorso adduce la nullità della sentenza impugnata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per violazione degli art. 116 c.p.c. e L.Fall., art. 67: la sentenza impugnata sarebbe viziata da incoerenza e illogicità nella parte in cui ha ritenuto i pagamenti tardivi come non rientranti nei termini d’uso, pur avendo riconosciuto che fra le parti i pagamenti avvenivano in ritardo sin dal 2005.

  1. I motivi, da esaminarsi congiuntamente e in via prioritaria, in applicazione del principio della ragione più liquida, sono fondati, nei termini che si vanno ad illustrare.

5.1 Questa Corte ha già avuto modo di precisare (cfr. Cass. 27939/2020), in termini che questo collegio condivide appieno, che l’eccezione posta dalla L.Fall., art. 67, comma 3, lett. a), va intesa “nel senso che, pur quando le modalità di pagamento siano estranee alla previsione della relativa clausola contrattuale, il pagamento resta fermo ed efficace tutte le volte che fra le parti si sia instaurata una prassi anteriore – adeguatamente consolidata e stabile, così da potersi definire tale – volta a derogare a quella clausola contrattuale ed introdurre, come nuova regola inter partes, il pagamento nei termini diversi e più lunghi”.

“L’effetto della disposizione di esonero e’, in definitiva, che non sono revocabili quei pagamenti i quali, pur avvenuti oltre i tempi contrattualmente prescritti, siano stati di fatto eseguiti ed accettati in termini diversi, nell’ambito di plurimi adempimenti con le nuove caratteristiche, evidenziatesi già in epoca anteriore a quelli de quibus:

tanto che non possano più, a quel punto, ritenersi pagamenti eseguiti “in ritardo”, ossia inesatti adempimenti, ma siano divenuti per prassi, proprio al contrario, esatti adempimenti: con tutte le conseguenze relative all’inesistenza di un inadempimento dell’altro contraente (in ordine alla mora, all’art. 1460 c.c., all’azione di risoluzione, al risarcimento del danno, ecc.)”.

La norma, quindi, richiede la dimostrazione “della consistenza della quotidianità sotto il profilo delle modalità di adempimento invalse fra le parti, al fine di consentire al giudice di apprezzare se le parti nel caso di specie si fossero scostate dai termini consueti fino ad allora seguiti” (Cass. 9851/2019).

5.2 La corte di merito, chiamata a verificare la revocabilità di due pagamenti effettuati all’interno del periodo sospetto (pacificamente decorrente a ritroso dal 18 maggio 2011), ha sovvertito la decisione di primo grado, che aveva ravvisato l’esistenza dei presupposti dell’esenzione prevista dalla L.Fall., art. 67, comma 3, lett. a), facendo riferimento al fatto che i ritardi invalsi nella prassi negoziale, sempre contenuti tra i venti e i trenta giorni a partire dal 2005, “approssimandosi, invece, al 2007” “erano sempre aumentati fino ad arrivare agli ottanta e ai novanta giorni delle fatture relative ai pagamenti oggetto del presente giudizio”.

Una simile valutazione risulta viziata, innanzitutto, perché il giudice d’appello, pur essendo tenuto a verificare l’esistenza di una prassi anteriore, adeguatamente consolidata e stabile, non si è preoccupato di accertare quale fosse la consuetudine negoziale invalsa fra le parti in un’epoca prossima ai pagamenti revocandi, arrestando la propria analisi a condotte risalenti a quattro anni addietro e dunque non significative della “normalità” di un atto di adempimento compiuto in coerenza con la pratica esistente al momento della sua esecuzione.

Risulta altresì fondata la doglianza concernente l’omesso esame della documentazione relativa ai pagamenti avvenuti in epoca più recente, che doveva essere esaminata dalla corte di merito al fine di verificare se la prassi seguita dalle parti a partire dal 2007 fosse proseguita anche nel periodo successivo o avesse registrato dei significativi mutamenti.

Per di più, la motivazione offerta si prospetta come contraddittoria (o quanto meno apodittica) laddove, da un lato, riconosce che i ritardi erano “sempre” aumentati fino ad arrivare “agli ottanta e ai novanta giorni delle fatture relative ai pagamenti oggetto del presente del giudizio”, dall’altro nega rilevanza a comportamenti coerenti con una simile consuetudine ai fini dell’applicazione dell’esenzione in discorso (senza spiegare perché la lievitazione dei tempi di pagamento riscontrata fin dal 2007 non fosse idonea ad assurgere a prassi consolidata).

Giova precisare, infine, come non assumesse rilievo, al fine di sminuire la rilevanza di un’attuale prassi di dilazione nei pagamenti eventualmente esistente nei rapporti fra le parti, il riferimento ai solleciti effettuati nei confronti della debitrice.

Questa Corte, infatti, ha già avuto modo di precisare che “se il ritardo rispetto alla scadenza pattiziamente convenuta sia divenuto una consuetudine, senza determinare una specifica reazione della controparte, a parte l’intimazione di solleciti, tale prassi deve ritenersi prevalente rispetto al regolamento negoziale” (Cass. 7580/2019).

  1. L’accoglimento dei motivi esaminati nei termini appena illustrati comporta l’assorbimento dei profili di censura riguardanti la scientia decoctionis nonché delle ulteriori doglianze prospettate.
  2. La sentenza impugnata va dunque cassata, con rinvio della causa alla Corte d’appello di Perugia in diversa composizione, la quale, nel procedere a un nuovo esame, si atterrà ai principi sopra illustrati, avendo cura anche di provvedere sulle spese del giudizio di legittimità.

 

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo, il secondo, il terzo e il sesto motivo di ricorso nei termini di cui in motivazione, dichiara assorbiti gli altri, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia la causa alla Corte d’appello di Perugia in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 15 marzo 2023.

Depositato in Cancelleria il 26 aprile 2023

Come può il creditore rivalersi sui beni  ereditari se l’erede/debitore  non ha  formalmente accettato l’eredità ?

 

Per principio espresso dall’art.2740 del codice civile  “ il debitore risponde dell’adempimento dell’obbligazione con tutti i suoi beni presenti e futuri.
Tuttavia  sovente chi è gravato da debiti,  spesso consapevolmente, per sottrarre i beni alle pretese dei creditori, omette di compiere gli atti necessari per portare a compimento la pratica successoria. In questo modo il creditore non ha la possibilità di aggredire i beni dell’eredità fino a quando gli stessi rimangono intestati al defunto (gli immobili in particolare) e non risulta intervenuta l’accettazione dell’eredità.
La soluzione del problema può essere rappresentata – come nel caso di specie – dalla declaratoria di “accettazione tacita” dell’eredità laddove sussistano atti compiuti dall’erede/debitore che lascino presumere l’intervenuta  accettazione di fatto dell’eredità.
Ove tale prova non potesse essere disponibile occorrerebbe ricorrere al diverso procedimento previsto dall’art.481 c.c. perchè il giudice  assegni un termine all’erede per dichiarare se accetta l’eredità.
Con la sentenza che si annota il Tribunale di Reggio Emilia (I  sezione civile, Sentenza n. 383 del 22.03.2022  ), ha accolto la domanda avanzata dall’impresa creditrice che intendeva sottoporre a pignoramento il bene immobile, caduto in successione, destinato al debitore, affermando tra l’altro, il seguente principio:
“ Il possesso dei beni ereditari da parte del chiamato (all’eredità), pur non presupponendo di per sé la volontà di chi li possiede di accettare l’eredità (potendo anche dipendere da un mero intento conservativo del chiamato), rappresenta tuttavia circostanza valutabile, unitamente alla mancata redazione dell’inventario, ai fini dell’accertamento dell’accettazione “ex lege“, di cui sono elementi costitutivi, appunto, l’apertura della successione, la delazione ereditaria, il possesso dei beni ereditari e la mancata tempestiva redazione dell’inventario (Cass. civ. 19.7.2006, n. 16507).” 

IL CASO. Con atto di citazione regolarmente notificato la Alfa Srl conveniva in giudizio Tizio, tra altri, chiedendo che fosse accertata e dichiarata l’intervenuta accettazione dell’eredità da parte di Tizio, nella sua qualità di chiamato all’eredità relitta dalla madre defunta Sempronia.
La domanda proposta da parte attrice nei confronti di Tizio è stata ritenuta fondata e accolta.
Tizio, infatti, successivamente alla morte della madre Sempronia, pur ponendo in essere comportamenti concludenti che presupponevano necessariamente la sua volontà di accettare tacitamente l’eredità della madre, aveva omesso l’espletamento degli adempimenti di legge  inerenti la dichiarazione di successione apertasi oltre 10 anni addietro.
In particolare Tizio aveva affidato nel corso dell’anno 2017 alla Alfa Srl l’appalto per l’esecuzione di lavori di manutenzione straordinaria dell’appartamento nel quale aveva stabilito la propria residenza ininterrottamente per almeno nove anni dopo l’apertura della successione di Sempronia, atti che lo stesso convenuto non avrebbe dovuto compiere se avesse scelto di rinunciare all’eredità; lo stesso, del resto, essendo nel possesso dei beni ereditari non aveva provveduto a redigere l’inventario entro tre mesi dal giorno dell’apertura della successione.

Testo integrale della sentenza

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE ORDINARIO DI REGGIO EMILIA

SEZIONE PRIMA CIVILE

Il Tribunale, nella persona del Giudice dott. Damiano Dazzi ha pronunciato ex art. 281 sexies c.p.c. la seguente

SENTENZA

nella causa civile di I° Grado iscritta al n. r.g. 678/2021 promossa da:

ALFA SRL, in persona del legale rappresentante pro tempore ……….., con il patrocinio dell’avv. ORLANDI GIOVANNI;

ATTRICE

contro

TIZIO

CAIO

CONVENUTI

 

CONCLUSIONI

Parte attrice ha così precisato le conclusioni:

“Piaccia all’Ill.mo Sig. Giudice unico, contrariis reiectis:

Nel merito:

1)         dichiarare aperta la successione di SEMPRONIA nata a ………… il ………. e qui ivi deceduta …………..;

2)         dichiarare che TIZIO, ha accettato l’eredità del defunto genitore SEMPRONIA, avendo lo stesso compiuto atti manifestanti la volontà di accettazione riguardanti l’immobile posto in ………, Via ……… n. …….., int.6., unità censita al Catasto Urbano dello stesso Comune al Foglio 39, mappale 299, sub. 42, cat. A3, Cl. 3, vani 7, R.C. 578,43 e Foglio 39 mappale 299 sub. 56, Cat. C6, Cl. 4, mq 17, R.C. 71,99, immobile caduto nell’asse ereditario;

3)         accertare e dichiarare, pertanto, il subentro, ab intestato o a diverso titolo, dello stesso TIZIO, quale unico erede, nella titolarità del compendio ereditario facente capo alla Sig.ra SEMPRONIA del quale faceva parte la quota indivisa di 3/4 dell’appartamento afferente l’edificio condominiale posto in ………, Via ………. n. …, int. 6 , unità censita al Catasto Urbano dello stesso Comune al

–           Foglio 39, mappale 299, sub. 42, cat. A3, Cl. 3, vani 7, R.C. 578,43 e

–           Foglio 39 mappale 299 sub. 56, Cat. C6, Cl. 4, mq 17, R.C. 71,99 ;

4)         accertare e dichiarare che CAIO, in qualità di comproprietario dell’appartamento con annesso garage, afferente l’edificio condominiale sito in …….., Via  ………. n. …, int. 6 , unità censita al Catasto Urbano dello stesso Comune al Foglio 39, mappale 299, sub. 42 e al Foglio 39 mappale 299 sub. 56, è obbligato in solido con il padre, TIZIO, all’adempimento degli oneri derivanti dal contratto d’appalto da quest’ultimo stipulato con la ALFA srl e, per l’effetto, condannarlo al pagamento del corrispettivo dovuto alla Società attrice per l’opera dalla stessa prestata, ammontante ad € 62.578,23, o a quella diversa maggiore o minore somma che fosse accertata in corso di causa, oltre interessi di mora e maggior danno da ritardato pagamento;

5)         in via subordinata, dirsi tenuto CAIO a pagare alla ALFA Srl, in persona del suo legale rappresentante pro tempore, la somma di € 62.578,23 oltre interessi, o quella maggiore o minore che dovesse essere accertata e determinata nel corso del giudizio, a titolo di indennizzo per indebito arricchimento;

6)         ordinare al Conservatore dei RR.II. di Reggio Emilia di provvedere, ai sensi dell’art. 2648 c.c., alla trascrizione della presente sentenza con esonero da sua responsabilità;

7)         pronunciare sentenza provvisoriamente esecutiva ex lege;

8)         condannare delle parti convenute al pagamento delle spese e dei compensi professionali di causa oltre IVA e C.p.a. se e in quanto dovuti, nonché a eventuali spese di CTU e CTP”.

 

MOTIVI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE

1.

Con atto di citazione notificato il 02/02/2021, ALFA Srl conveniva in giudizio, dinanzi all’intestato

Tribunale, TIZIO e CAIO, chiedendo che fosse accertata e dichiarata l’intervenuta accettazione dell’eredità da parte di TIZIO, nella sua qualità di chiamato all’eredità relitta dalla madre defunta SEMPRONIA.

Chiedeva inoltre di accertare e dichiarare che l’altro convenuto, CAIO, “in qualità di comproprietario dell’appartamento sito in ……….., int. 6 , unità censita al Catasto Urbano dello stesso Comune al foglio 29, mappale 299”, fosse “obbligato in solido con il padre, TIZIO, all’adempimento degli oneri derivanti dal contratto d’appalto da quest’ultimo stipulato con la ALFA srl e, per l’effetto, condannarlo al pagamento del corrispettivo dovuto alla Società attrice per l’opera dalla stessa prestata, ammontante ad € 62.578,23, o a quella diversa maggiore o minore somma che fosse accertata in corso di causa, oltre interessi di mora e maggior danno da ritardato pagamento”.

In via subordinata, chiedeva la condanna di CAIO al pagamento della “somma di € 62.578,23 oltre interessi, o quella maggiore o minore che dovesse essere accertata e determinata nel corso del giudizio, a titolo di indennizzo per indebito arricchimento”.

I convenuti non si costituivano in giudizio, di talché all’udienza del 20/05/2021 ne veniva dichiarata la contumacia.

Assegnati i termini di cui all’art. 183, comma 6, c.p.c., la causa –  istruita solo documentalmente –  veniva rinviata all’odierna udienza per discussione orale e contestuale decisione ex art. 281 sexies c.p.c.

 

Fatte queste premesse, la domanda proposta da parte attrice nei confronti di TIZIO è fondata e deve essere accolta.

TIZIO, infatti, successivamente alla morte della madre SEMPRONIA, deceduta a ……….il ………, ha posto in essere comportamenti concludenti che presupponevano necessariamente la sua volontà di accettare tacitamente l’eredità della madre.

Sul punto, giova rammentare che l’art. 476 c.c. dispone che “..l’accettazione è tacita quando il chiamato all’eredità compie un atto che presuppone necessariamente la sua volontà di accettare e che non avrebbe il diritto di fare se non nella qualità di erede..”, e che la giurisprudenza di legittimità è ferma nel ritenere che detta accettazione tacita possa essere desunta anche dal comportamento del chiamato che abbia compiuto atti incompatibili con la volontà di rinunciare o che siano concludenti e significativi della volontà di accettare (cfr. ex multis Cass. n. 22317/2014; Cass. n. 10796/2009; Cass. n. 5226/2002; Cass. n. 7075/1999).

In effetti, il comportamento di TIZIO, emergente dalle produzioni documentali, consente di ritenere provati i fatti posti da parte attrice a fondamento della domanda di accertamento dell’accettazione tacita di eredità, dovendosi in particolare ritenere, in adesione alle argomentazioni svolte sul punto dalla ALFA Srl e sulla base della documentazione prodotta, che TIZIO, affidando nel corso dell’anno 2017 alla ALFA Srl l’appalto per l’esecuzione di lavori di manutenzione straordinaria dell’appartamento, in cui egli è rimasto residente con la moglie anche dopo la morte della madre quantomeno sino al 17/12/2020 (doc. 31) ed ancora sino al 02/02/2021 (data di ricezione della notifica della citazione), abbia compiuto atti che presupponevano necessariamente la sua volontà di accettare l’eredità della madre SEMPRONIA, come si è detto deceduta il 01/12/2011 (doc. 26), trattandosi di atti che lo stesso convenuto non avrebbe avuto il diritto di compiere se non nella sua qualità di erede.

L’appartamento nel quale sono stati effettuati i lavori in questione (unità censita in catasto al foglio 29, particella 299) era in comproprietà della de cuius SEMPRONIA, madre di TIZIO, per la quota di 3/4 (cfr. visura catastale di cui al doc. 32),

Si consideri che la ALFA Srl –   per i lavori commissionati da TIZIO ed eseguiti presso il succitato immobile, iniziati nel mese di giugno 2017 (cfr. comunicazione di inizio lavori del 12/06/2017  di cui al doc. 6) –  ha emesso nei confronti di TIZIO la fattura n. 8 del 13/03/2019, pari ad € 62.578,23 Iva compresa (€ 56.889,30 + Iva), e lo stesso

TIZIO è stato condannato da questo Tribunale a pagare alla ALFA Srl, a titolo di compenso per tali opere appaltate, la somma di € 54.118,98 + Iva con la sentenza n. 1048/2021 pubblicata il 21/09/2021 (procedimento RG 3392/2019), la quale ha accertato l’esistenza di contratto di appalto tra la ALFA Srl e TIZIO, avente ad oggetto proprio i predetti lavori di manutenzione straordinaria eseguiti nell’appartamento.

A ciò si aggiunga che, avendo TIZIO mantenuto la propria residenza presso tale immobile ininterrottamente per almeno nove anni dopo il decesso della de cuius SEMPRONIA, egli fosse nel possesso del predetto bene immobile, come si evince sia dai certificati di residenza in atti, sia dall’esito della notifica del 02/02/2021 della citazione introduttiva del presente giudizio.

Ciò posto, si rileva che, secondo costante giurisprudenza (v. Cass. n. 21436/2018), “in tema di successioni “mortis causa”, la delazione che segue l’apertura della successione, pur rappresentandone un presupposto, non è da sola sufficiente all’acquisto della qualità di erede, essendo necessaria l’accettazione da parte del chiamato, mediante “aditio” o per effetto di una “pro herede gestio”, oppure la ricorrenza delle condizioni di cui all’art. 485 c.c.”

E’ stato affermato che “l’immissione in possesso dei beni ereditari non comporta accettazione tacita dell’eredità, poiché non presuppone necessariamente, in chi la compie, la volontà di accettare, cionondimeno, se il chiamato nel possesso o compossesso anche di un solo bene ereditario non forma l’inventario nel termine di tre mesi decorrenti dal momento di inizio del possesso, viene considerato erede puro e semplice; tale onere condiziona, non solo, la facoltà di accettare con beneficio d’inventario, ma anche quella di rinunciare all’eredità in maniera efficace nei confronti dei creditori del “de cuius” (v. Cass. n. 15690/2020).

In definitiva, come affermato dalla giurisprudenza di legittimità, il possesso dei beni ereditari da parte del chiamato, pur non presupponendo di per sé la volontà di chi li possiede di accettare l’eredità (potendo anche dipendere da un mero intento conservativo del chiamato), rappresenta tuttavia circostanza valutabile, unitamente alla mancata redazione dell’inventario, ai fini dell’accertamento dell’accettazione “ex lege”, di cui sono elementi costitutivi, appunto, l’apertura della successione, la delazione ereditaria, il possesso dei beni ereditari e la mancata tempestiva redazione dell’inventario (Cass. civ. 19.7.2006, n. 16507)

La norma contenuta nell’art. 485 c.c. contempla, dunque, un’ipotesi di accettazione ex lege dell’eredità, prevedendo che il chiamato all’eredità che si trovi, a qualunque titolo, nel possesso dei beni ereditari assuma la qualità di erede puro e semplice qualora non provveda a redigere l’inventario entro tre mesi dal giorno dell’apertura della successione o della notizia della devoluta eredità.

Nel caso di specie, ad avviso di questo Giudice, risultano integrati i requisiti della fattispecie di cui

all’art. 485 c.c.:  non risulta infatti agli atti essersi effettuato inventario ai sensi dell’art. 485 c.c.; sono provate l’apertura della successione e la delazione ereditaria; inoltre è dimostrata la circostanza del possesso dell’immobile oggetto dell’eredità materna da parte di TIZIO, tenuto conto delle certificazioni anagrafiche di residenza, che hanno un indubbio valore presuntivo, delle risultanze della notifica della citazione introduttiva del presente giudizio, e dei lavori in appalto commissionati nel 2017 alla ALFA Srl dallo stesso TIZIO, riguardanti l’abitazione nel quale risiede e di cui era comproprietaria la madre per la quota di 3/4, dai quali è agevole far discendere che TIZIO è stato, sin dalla data della morte della madre (01/12/2011), e quantomeno sino al 02/02/2021 (quindi per circa 9 anni), residente nell’immobile oggetto di successione e, quindi, nel possesso dell’immobile rilevante ai sensi dell’art. 485 c.c.

E’ dunque corretto ritenere presuntivamente provata l’avvenuta accettazione tacita dell’eredità da parte dello stesso quale erede puro e semplice (in mancanza di redazione dell’inventario).

Deve essere altresì accolta la richiesta di trascrizione della presente sentenza in presenza delle condizioni di cui all’art. 2648 c.c.

 

3.

Non è invece fondata la domanda svolta nei confronti di CAIO (figlio di TIZIO).

Va innanzitutto premesso che il contratto di appalto, come accertato nella summenzionata sentenza del Tribunale di Reggio Emilia n. 1048/2021, passata in giudicato, è stato stipulato tra TIZIO (committente) e ALFA Srl (appaltatrice), e dunque CAIO, pur se di fatto informato dei lavori, non era parte di tale rapporto negoziale.

La fonte della sua obbligazione non può pertanto essere di natura contrattuale.

Parte attrice ha sostenuto –  a fondamento di detta domanda di condanna di CAIO al pagamento della somma di € 62.578,23 quale compenso dell’appalto stipulato tra TIZIO e ALFA Srl –  l’assunto secondo cui CAIO, quale comproprietario dell’immobile sul quale erano stati eseguiti i lavori di manutenzione straordinaria commissionati dal padre alla ALFA Srl, sarebbe “obbligato in solido per le obbligazioni contratte per la cosa comune”.

L’assunto non può essere condiviso.

Infatti, con riferimento alle obbligazioni assunte da TIZIO nell’interesse della cosa comune nei confronti di terzi – in difetto di un’espressa previsione normativa che stabilisca il principio della solidarietà, trattandosi di un’obbligazione avente ad oggetto una somma di denaro, e perciò divisibile –  la responsabilità dei comunisti è retta dal criterio della parziarietà e non già della solidarietà, per cui le obbligazioni assunte nell’interesse della cosa comune si imputano ai singoli comproprietari soltanto in   proporzione delle rispettive quote, secondo criteri simili a quelli dettati dagli artt. 752 e 1295 cod. civ. per le obbligazioni ereditarie (cfr. Cass. SS.UU., Sentenza n. 9148 del 08/04/2008).

Contrariamente dunque a quanto sostenuto dalla difesa attorea, non sussiste alcuna solidarietà passiva dei partecipanti alla comunione con riguardo alle obbligazioni assunte nell’interesse della cosa comune nei confronti di terzi.

La sentenza della Suprema citata da parte attrice (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 21907 del 21/10/2011) riguarda la ben diversa fattispecie dei comproprietari di un’unità immobiliare sita in condominio che sono tenuti in solido, nei confronti del condominio medesimo, al pagamento degli oneri condominiali, e nella specie, la Suprema Corte ha chiarito che il principio espresso non si pone in contrasto con quello già enunciato dalle summenzionate Sez. Un. n. 9148 del 2008, riguardando quest’ultima pronuncia la diversa problematica delle obbligazioni contratte dal rappresentante del condominio verso i terzi e non la questione relativa al se le obbligazioni dei comproprietari inerenti le spese condominiali ricadano o meno nella disciplina del condebito ad attuazione solidale.

Improponibile risulta infine, sotto il profilo della sussidiarietà, la domanda subordinata svolta nei confronti di CAIO di arricchimento senza causa ex art. 2041 c.c., ostando il carattere sussidiario dell’azione generale di arricchimento (artt. 2041 e 2042 cod. civ.). Si rammenta infatti che, ai sensi dell’art. 2041 cod. civ., uno dei presupposti per la proposizione dell’azione generale di arricchimento senza causa è rappresentato dalla sussidiarietà dell’azione (art. 2042 c.c.). L’azione di arricchimento senza causa ha carattere sussidiario ed è quindi inammissibile, ai sensi dell’art. 2042 cod. civ., allorché chi la eserciti, secondo una valutazione da compiersi in astratto e perciò prescindendo dalla previsione del suo esito, abbia a disposizione, come avvenuto in specie, un’altra azione per farsi indennizzare il pregiudizio subito (cfr. Sezioni Unite n. 28042 del 25/11/2008).

Sulla base delle superiori considerazioni, la domanda principale svolta nei confronti di CAIO va quindi respinta in quanto infondata, e la domanda subordinata di arricchimento senza causa va dichiarata inammissibile in ragione del carattere sussidiario dell’azione generale di arricchimento (artt.

2041 e 2042 cod. civ.).

 

4.

Quanto infine alla regolamentazione delle spese d lite, nel rapporto processuale tra ALFA Srl e

TIZIO, le spese di lite, seguendo la soccombenza, vanno poste a carico di quest’ultimo.

Le spese si liquidano secondo i parametri di cui al D.M. n. 55 del 2014, come modificato dal D.M. n.

37 del 2018.

Alla luce del valore indeterminabile della domanda svolta nei confronti di TIZIO, e della

bassa complessità delle questioni sottese a detta domanda, si applica lo scaglione da € 26.001,00 ad € 52.000,00; le fasi da prendere in considerazione sono quelle di studio, introduttiva, istruttoria e decisoria; la natura non particolarmente complessa delle questioni di diritto e di fatto trattate, la natura documentale della causa, la mancata assunzione di prove costituende e l’adozione del modulo decisorio semplificato della discussione orale e contestuale decisione ex art. 281 sexies c.p.c., giustificano una riduzione del 50% dei compensi di tutte le fasi, corrispondenti, rispettivamente, ad € 810,00, ad €

574,00, ad € 860,00 e ad € 1.384,00.

Anche il contributo unificato da riconoscere a parte attrice va parametrato al valore indeterminabile della domanda svolta nei confronti di TIZIO (€ 518,00), a cui occorre aggiungere la marca da bollo pari ad € 27,00.

Nulla invece deve disporsi in ordine alle spese nel rapporto processuale tra parte attrice e l’altro convenuto CAIO.

 

P.Q.M.

Il Tribunale di Reggio Emilia in composizione monocratica, definitivamente decidendo, ogni diversa istanza, eccezione e deduzione disattese o assorbite, così provvede:

1)         Accerta e dichiara l’accettazione tacita dell’eredità di SEMPRONIA, deceduta a …….il……… , da parte di TIZIO, e conseguentemente che TIZIO è erede di SEMPRONIA.

2)         Ordina al Conservatore dei R.R.I.I. competente per territorio di provvedere alla trascrizione della presente sentenza con esonero da ogni sua responsabilità.

3)         Rigetta la domanda svolta in via principale da parte attrice nei confronti del convenuto CAIO.

4)         Dichiara inammissibile la domanda svolta in via subordinata da parte attrice nei confronti del convenuto CAIO.

5)         Condanna il convenuto TIZIO al pagamento, in favore di ALFA Srl, delle spese di lite, che liquida in € 3.628,00 per compenso, in € 545,00 per anticipazioni, oltre IVA e CPA come per legge e rimborso delle spese forfettarie nella misura del 15% del compenso ex art. 2 del D.M. 55/2014.

 

Reggio Emilia, 22 marzo 2022

Il Giudice

dott. Damiano Dazzi

Eredità e polizze vita: qual è il rapporto? La giurisprudenza della Cassazione. (Cass. Civ., n. 29583 del 22 ottobre 2021)

 

La Corte di Cassazione è intervenuta per dirimere una complessa vicenda successoria, che aveva dato luogo ad una controversia tra gli eredi del contraente di una polizza vita. In particolare la disputa  concerneva i premi relativi ai contratti di assicurazione sulla vita a favore di un erede, che i ricorrenti pretermessi intendevano assoggettare a  collazione.
Nella fattispecie una polizza assicurativa di tipo index “mista” caso vita e morte, era stata stipulata dal defunto padre sulla vita del figlio (assicurato di polizza) e avente  il contraente quale beneficiario caso vita ( e dunque nel caso di sopravvivenza di entrambi alla scadenza del contratto), e  gli eredi dell’assicurato (figlio) quali beneficiari caso morte (nel caso di decesso dell’assicurato stesso).
Va detto che la polizza prevedeva quale ulteriore condizione che in caso di premorienza del contraente padre rispetto all’assicurato figlio, prima della scadenza del contratto, l’assicurato avrebbe preso posto del contraente deceduto.
E’ accaduto che  il padre è premorto al figlio e quest’ultimo è subentrato, in forza della summenzionata prescrizione, nella posizione di contraente di polizza continuando ad esserne anche assicurato.
La Corte ha riaffermato un principio ormai ricorrente nella giurisprudenza di legittimità, statuendo, in estrema sintesi, che al momento della morte del contraente, il figlio è tenuto al conferimento del premio per il “caso di vita”, nell’ipotesi, di fatto verificatasi, di premorienza del contraente rispetto all’assicurato. Allo stesso obbligo di conferimento è tenuto  anche per quanto concerne i premi  per il “caso di morte”, in forza dell’art. 741 del codice civile, pur essendo egli l’assicurato e non il beneficiario dei vantaggi della polizza, destinati agli eredi di lui, ossia del medesimo assicurato.
In entrambi i casi si viene a configurare una donazione indiretta.
Mette conto di osservare che l’obbligo di collazione, cioè del conferimento della donazione fatta dal defunto nei confronti di un legittimario per il calcolo della massa ereditaria, riguarda la minore somma tra l’ammontare dei premi pagati e il capitale, non potendo la collazione avere per oggetto che il vantaggio conseguito dal discendente.

Se poi l’evento, condizionante il diritto all’indennizzo, non si sia ancora verificato all’apertura della successione, il discendente è intanto tenuto al conferimento del premio, salva la necessità, in favore del discendente stesso o dei suoi eredi, di procedere a un nuovo conteggio qualora l’indennità si rilevi in seguito inferiore.

La Corte ha  quindi espresso il seguente principio di diritto: “L’obbligo di collazione previsto dall’art. 741 c.c. relativamente a ciò che il defunto ha speso a favore dei suoi discendenti, per soddisfare, tra l’altro, premi relativi a contratti sulla vita a loro favore, riguarda tanto l’ipotesi dell’assicurazione stipulata dal discendente sulla propria vita, “sub specie” di pagamento del debito altrui, quanto quella di assicurazione sulla vita del discendente (o del “de cuius”), che rientra nello schema della donazione indiretta, quale contratto a favore di terzo. Peraltro, giacché il capitale assicurato può rivelarsi, di fatto, inferiore ai premi – che costituiscono, in linea di principio, l’oggetto del conferimento ex art. 2923, comma 2, c.c. – l’obbligo di collazione va precisato nel senso che, indipendentemente dalla natura cd. tradizionale o finanziaria della polizza, il conseguente conferimento riguarda la minore somma tra l’ammontare dei premi pagati ed il capitale, non potendo la collazione avere ad oggetto che il vantaggio conseguito dal beneficiario (o dai suoi discendenti), sul quale grava l’onere della relativa prova.”

Testo integrale della sentenza

Cassazione civile sez. II – 22/10/2021, n. 29583

Intestazione

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

FATTI DI CAUSA

  1. La presente causa riguarda la successione legittima di B.A., deceduto il (OMISSIS), lasciando i figli S., Sa., G., R. e i discendenti del figlio premorto A.: B.F.A. e B.R.F.. In corso di causa è deceduta B.T., lasciando eredi I.R., I.M., I.E.R., I.U..

Per quanto interessa in questa sede, il Tribunale di Catania, adito da Ba.Sa., G. e R., con sentenza non definitiva, riconosceva, con riferimento a una polizza vita stipulata dal de cuius con la Fideuram, nella quale le attrici avevano ravvisato una donazione del genitore in favore di B.S., che non ricorrevano i presupposti della collazione invocata dalle attrici, in difetto delle condizioni richieste per poter ravvisare nella fattispecie una liberalità del genitore in favore del figlio.

Il Tribunale rigettava inoltre la domanda ulteriore della attrici, che avevano richiesto il conferimento di una gestione patrimoniale, intestata al defunto e al figlio S.. Anche in questo caso il primo giudice riteneva che non ci fossero i presupposti della collazione, non essendoci prova che l’intestazione congiunta costituisse una donazione.

Il Tribunale rigettava ancora la domanda, proposta dalle attrici, di annullamento per incapacità naturale del genitore della vendita di quote della B. s.r.l., intercorsa fra il de cuius e il figlio S.; rigettava altresì la domanda volta a fare accertare la simulazione del medesimo contratto, rilevando che non ricorrevano, nella specie, le condizioni per riconoscere alle legittimarie attrici la qualità di terzo ai fini della prova della simulazione e, in ogni caso, in difetto della deduzione di elementi presuntivi idonei nel termine concesso per le deduzioni istruttorie.

Il primo giudice, in accoglimento della domanda riconvenzionale di B.S., riconosceva che le attrici e B.T. erano tenuti al conferimento della somma di Lire 100.000.000 ricevuta in donazione del de cuius.

  1. La Corte d’appello di Catania, adita con appello principale dalle originarie attrici e in procedimento separato, poi riunito, dagli eredi di B.T., nonché con appello incidentale da B.S., ha riformato in parte la sentenza.

2.1. In relazione al contratto del 2 aprile 2001, con il quale il de cuius aveva venduto al figlio S. le quote di sua proprietà della B. s.r.l., la Corte d’appello ha innanzitutto rigettato la domanda, con la quale le attrici Ba.Sa., B.G. e B.R. avevano chiesto disporsi l’annullamento del contratto per incapacità naturale del disponente. Essa ha osservato in proposito che gli elementi addotti al fine della prova della incapacità, consistenti nelle dichiarazioni testimoniali della persona di servizio del de cuius, non erano idonei a tal fine, emergendo da tali dichiarazioni emergevano solo disturbi e malesseri tipici dell’età avanzata.

2.2. La Corte d’appello ha poi esaminato la domanda di simulazione, proposta dalle attrice con riferimento al medesimo atto. In relazione a tale domanda la corte di merito ha negato che le attrici potessero fruire delle agevolazioni probatorie accordate al legittimario che agisce per fare accertare la simulazione di atti, apparentemente onerosi, compiuti dal defunto. Essa ha osservato che le attrici non avevano agito in qualità di legittimari con l’azione di riduzione, ma avevano agito quali eredi legittimi al fine della ricostruzione del patrimonio in funzione della collazione della donazione dissimulata. In verità, ha proseguito la Corte d’appello, le stesse attrici avevano chiesto, in via subordinata, la riduzione della donazione dissimulata sotto l’apparenza della vendita; tuttavia, la domanda, in quanto non accompagnata dalla richiesta di volere conseguire la quota di riserva, non poteva ritenersi idoneo esercizio dell’azione di riduzione, avuto riguardo agli stringenti oneri di deduzione imposti a colui che proponga la relativa domanda, secondo consolidati principi della giurisprudenza di legittimità.

La Corte d’appello ha proseguito nell’analisi, ponendo in luce che le appellanti non avevano impugnato la statuizione della sentenza di primo graddella parte in cui il Tribunale aveva rimarcato che le attrici non avevano indicato, entro i termini fissati per le preclusioni istruttorie, alcune/elemento presuntivo volto a dimostrare la pretesa simulazione. In proposito la Corte d’appello, richiamando le, previsione di cui all’art. 342 c.p.c., ha rilevato che le appellanti si erano inammissibilmente limitate a riproporre la tesi sostenuta in primo grado, senza sottoporre a una effettiva revisione critica la decisione impugnata. Solo nel grado le appellanti avevano indicato gli elementi presuntivi volti a comprovare l’esistenza di donazioni indirette.

2.3. La corte d’appello, in accoglimento della ragione di censura proposta dalle originarie attrici, ha riconosciuto che B.A. era tenuto al conferimento del premio versato dal defunto relativo alla polizza stipulata da de cuius. In proposito essa ha osservato che si trattava di polizza indicizzata a premio unico, che era stata stipulata da de cuius sulla vita del figlio B.S.; che la polizza aveva quali beneficiari, per il “caso vita”, il contraente e, per il “caso morte”, gli eredi testamentari o legittimi dell’assicurato B.S.; che il meccanismo della polizza prevedeva, per l’ipotesi che l’assicurato fosse ancora in vita al decesso del contraente, il subentro dell’assicurato nella posizione del medesimo contraente, con preclusione di poter variare i beneficiari caso vita e caso morte.

Così identificato il meccanismo di polizza, la Corte d’appello ha ravvisato in essa una liberalità realizzata dal defunto in favore de6iglio, subentrato al contraente e restando pertanto beneficiario in “caso vita”. E’ vero – ha proseguito la Corte d’appello – che lo strumento prescelto del defunto corrispondeva a un interesse finanziario e non per sé stesso a un fine di liberalità; tuttavia, “tenuto conto dell’età dell’originario contraente e della tipologia dello strumento prescelto con scadenza a lungo termine, della possibilità di far subentrare nel contratto la persona scelta come contraente, rende evidente il fine di liberalità perseguito dal defunto”. In quanto alla possibilità, già ventilata dal primo giudice, che il premio pagato avrebbe potuto non coincidere con il premio, la Corte d’appello ha riconosciuto, visto che la Compagnia non aveva dato una risposta esauriente sul contenuto della polizza “per ragioni di tutela della privacy del nuovo contraente, che l’onere di provare il minore beneficio era a carico dell’assicurato, “trattandosi dell’unico soggetto che avrebbe potuto dimostrare l’effettivo valore dell’importo ricevuto (in misura maggiore o minore dell’importo versato dal de cuius)”.

La Corte di merito, in esito a tale ricostruzione, ha imposto a B.S. l’obbligo di conferire in collazione il premio versato dal de cuius, pari a Euro 800.000,00.

2.4. E’ stato invece rigettato il motivo d’appello, con il quale le attrici originarie avevano censurato la decisione di primo grado nella parte in cui il Tribunale aveva negato che costituisse donazione l’intestazione, in nome del de cuius e del figlio, dei titoli esistenti presso la Banca Fideuram. Il primo giudice aveva negato che fosse stata data la prova della provenienza della provvista da parte del solo defunto. In relazione a tale statuizione la Corte d’appello ha osservato che le appellanti si erano limitate e ribadire la provenienza esclusiva della provvista dal solo defunto, senza neanche censurare l’ulteriore considerazione del primo giudice “in ordine al fatto che la gestione in parola è oggetto di un’apertura di credito in conto corrente, concessa ai due cointestatari della gestione”.

2.5. La Corte d’appello, infine, ha riformato la sentenza di primo grado in ordine a un ulteriore aspetto.

Il primo giudice, in accoglimento della domanda riconvenzionale proposta da B.S., aveva riconosciuto che il genitore aveva donato alle figlie Lire 100.000.000, imponendo l’obbligo del conferimento a carico delle attrici e di B.T.. La Corte d’appello, accogliendo l’appello proposto sul punto dalle originarie attrici, ha esteso l’obbligo di collazione a B.S., riconoscendo che il defunto aveva elargito identico importo a favore di ciascuno dei sei figli.

  1. Per la cassazione della sentenza B.S. ha proposto ricorso affidato a quattro motivi.

Ba.Sa., B.G. e B.R. hanno resistito con controricorso, contenente ricorso incidentale affidato a quattro motivi.

B.F.A. e B.R.F. hanno resistito con controricorso.

Hanno resistito con controricorso anche I.U., I.E.R., I.R. e I.M..

In vista dell’udienza camerale del 21 gennaio 2021, B.S. ha depositato memoria. Hanno depositato memoria anche I.U., I.E.R., I.R. e I.M.. La causa, con ordinanza di pari data, è stata rimessa alla pubblica udienza.

Il ricorrente ha depositato ulteriore memoria in prossimità della pubblica udienza.

 

RAGIONI DELLA DECISIONE

  1. Il primo motivo del ricorso principale denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 342 e 346 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

Si premette, da parte del ricorrente, che il primo giudice, in relazione alla polizza Fideuram, aveva rigettato la domanda di collazione proposta dai coeredi sulla base di una duplice ratio: a) l’inidoneità dello strumento utilizzato al fine di realizzare una liberalità; b) il rilievo che “i soggetti indicati come beneficiari sono altri e diversi da quello che si assume essere stato il donatario (e cioè il convenuto B.S.”). Ciò posto, il ricorrente evidenzia che, nel proporre il gravame, le appellanti avevano proposto considerazioni generiche, in parte anche improprie (così quella con la quale si assumeva che l’assicurato, avendo assunto la qualità di contraente alla morte del de cuius, avesse acquisito il potere di variare i beneficiari, laddove tale facoltà era espressamente esclusa dalle previsioni di polizza). Pertanto, assenza di idonee critiche verso la rafia decidendi della decisione di primo grado 1 l’appello doveva essere dichiarato inammissibile ai sensi dell’art. 342 c.p.c..

Il motivo è infondato. Risulta dalla trascrizione dell’atto di appello operata nel ricorso, che le appellanti avevano sostenuto che l’operazione realizzata dal genitore, seppure avesse ad oggetto un investimento finanziario, fu concepita e voluta dal de cuius al fine di favorire il figlio B.S. e non gli apparenti beneficiari della polizza ovvero i figli del medesimo B.S.. Avevano poi precisato che, secondo le previsioni della polizza, l’assicurato, alla morte dello stipulante, aveva assunto la qualità di contraente, vale a dire quella qualità in considerazione della quale la Corte d’appello ha riconosciuto che la fattispecie aveva realizzato una donazione del de cuius in favore del figlio. Non è vero perciò che la Corte d’appello abbia definito la lite sulla base di circostanze non dedotte. La Corte d’appello ha soltanto dato una qualificazione giuridica di un fatto dedotto. Del resto, costituisce orientamento pacifico nella giurisprudenza della Corte quello secondo cui “ai fini della specificità dei motivi d’appello richiesta dall’art. 342 c.p.c., l’esposizione delle ragioni di fatto e di diritto, invocate a sostegno del gravame, può sostanziarsi anche nella prospettazione delle medesime ragioni addotte nel giudizio di primo grado, non essendo necessaria l’allegazione di profili fattuali e giuridici aggiuntivi, purché ciò determini una critica adeguata e specifica della decisione impugnata e consenta al giudice del gravame di percepire con certezza il contenuto delle censure, in riferimento alle statuizioni adottate dal primo giudice” (Cass. n. 23781/2020).

Il rilievo che le appellanti avessero erroneamente sostenuto che colui che era subentrato al contraente aveva acquisito la facoltà di variare i beneficiari, nulla toglie all’idoneità della critica mossa alla sentenza di primo grado. Infatti, l’essenza della critica non è in tale aspetto, ma nel non avere il tribunale colto che il genitore aveva fatto ricorso a un meccanismo negoziale comunque idoneo a beneficiare il figlio, che diveniva destinatario del capitale assicurato “per il caso di vita”.

  1. Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 346 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

Si pone in luce che le appellanti non avevano formulato alcuna censura contro la statuizione della sentenza di primo grado, laddove il primo giudice aveva negato l’obbligo di collazione, a carico di B.S., argomentando che i beneficiari della polizza erano soggetti diversi dal supposto donatario. Secondo il ricorrente, la carenza di un’apposita censura su questa statuizione, identificata quale autonoma ratio decidendi idonea a giustificare il rigetto della domanda, imponeva alla Corte d’appello di dichiarare inammissibile l’impugnazione.

Il motivo è infondato. La censura contro la supposta ratio deddendi era stata in effetti formulata, in quanto al rilievo del primo giudice, fondato sulla diversa identità dei beneficiari, le appellanti avevano obiettato che l’operazione fu attuata dal genitore non con il fine di favorire i beneficiari, ma il figlio S., a carico del quale permaneva l’obbligo di conferimento del premio (Cass. n. 3194/2019; n. 12280/2016).

  1. Il terzo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e art. 115 c.p.c..

La sentenza è oggetto di censura nella parte in cui la corte di merito ha posto a carico dell’attuale ricorrente l’onere di provare “l’effettivo valore dell’importo ricevuto (in misura maggiore o minore del premio versato dal de culla)”.

La Corte d’appello, in questo modo, ha violato il criterio di riparto dell’onere probatorio, in base al quale era onere delle attrici, le quali avevano dedotto l/esistenza della liberalità, fornire la prova dei fatti costitutivi della pretesa. Alla carenza di sufficienti e adeguate informazioni da parte della Compagnia, le attrici ben avrebbero potuto supplire con istanza di esibizione.

Il quarto motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 737 e 741 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

La Corte d’appello, nell’imporre all’attuale ricorrente, il conferimento in collazione del premio unico versato dal defunto, ha violato le norme in materia, sotto una molteplicità di profili: a) perché B.S. non era il beneficiario della polizza, ma solo il soggetto subentrato al contrante, privo peraltro del potere di variazione; b) perché egli non aveva ricevuto alcunché dal defunto, e non potendosi imporre a suo carico l’obbligo di collazione di un premio volto in ipotesi a procurare un beneficio in favore di soggetti diversi; c) perché la natura del contratto rendeva persino aleatoria ed incerta l’esistenza e la misura beneficio.

  1. Il terzo e il quarto motivo, da esaminare congiuntamente, sono infondati.
  2. Si può ritenere acquisito che l’assicurazione di cui si discute nella presente causa fu stipulata dal de cuius non sulla propria vita, ma sulla vita del figlio B.S..

Si trattava inoltre di una polizza c.d. mista sulla vita del terzo, sia “per il caso di vita” sia “per il caso di morte”.

Si intende per assicurazione sulla vita “per il caso di vita” quella in cui l’assicuratore è obbligato a pagare se a un dato momento una data persona (nel caso in esame B.S.) è ancora in vita. Nell’assicurazione sulla vita “per il caso di morte” l’assicuratore è obbligato a pagare se a un dato momento una data persona è morta.

Nel caso in esame, il de cuius (contraente), per il caso di vita, aveva riservato a sé il beneficio; per il caso di morte la polizza fu stipulata a favore di terzo: secondo la sentenza gli eredi testamentari o legittimi dell’assicurato B.S., secondo gli scritti difensivi di parte “de nipoti del sig. B.A.” (pag. 17 del ricorso), “figli di B.S.” (pag. 5 del controricorso delle ricorrenti incidentali). Agli effetti che rilevano in questa sede la divergenza non incide minimamente sul significato giuridico dell’operazione. Si prevedeva ancora che, in caso di premorienza dello stipulante, nella posizione di contraente sarebbe subentrato l’assicurato.

  1. Si deve ora chiarire che la designazione di uno o più terzi beneficiari è sempre possibile e mai necessaria nel contratto di assicurazione sulla vita, in quanto anche al di fuori dei casi in cui il contraente riservi espressamente a sé stesso la somma assicurata, una designazione generica o specifica di uno o più beneficiari può sempre mancare, senza che il contratto ne soffra. Insomma, la designazione del beneficiario (che può essere coeva o successiva alla sottoscrizione del contratto: art. 1920 c.c., comma 2), è elemento normale del contratto di assicurazione sulla vita, ma non essenziale. Potrà darsi il caso che il contraente decida, ab origine, di riservare a proprio vantaggio il capitale o la rendita assicurata; è anche perfettamente concepibile che la designazione del terzo beneficiario manchi in toto: nell’uno e nell’altro caso, evidentemente, il diritto alla somma assicurata, entrerà nel patrimonio del contraente e si trasferisce ai suoi eredi, secondo le comuni norme sulla successione ereditaria (Cass. n. 7683/2015 in motivazione). Lo stesso dicasi quando l’originaria designazione venga revocata (art. 1921 c.c.), senza essere, in seguito, sostituita da una nuova. Il punto è controverso in dottrina.
  2. Si deve dare inoltre per acquisito che la polizza stipulata dal de cuius aveva contenuto finanziario. Per polizze vita a contenuto finanziario si intendono le polizze in cui la componente vita e di investimento risulta preponderante rispetto a quella demografica-previdenziale tipica delle polizze di assicurazioni sulla vita c.d. “tradizionali” di cui all’art. 1882 c.c. Senza che sia minimamente necessario approfondire la tematica, ai fini che interessano in questa sede, è sufficiente il rilievo che, nelle polizze di tipo classico, l’assicurato mira generalmente a garantire la disponibilità di una somma a familiari ovvero a terzi al momento della propria morte ed il rischio di perdita del capitale è pari a zero, essendo predeterminato l’importo da erogare al contraente o al beneficiario alla scadenza del contratto. Invece, nelle polizze a contenuto finanziario, al posto dell’obbligo restitutorio in capo all’impresa di assicurazione, viene conferito una sorta di mandato di gestione del denaro investito e l’investitore matura il diritto al mero risultato di gestione che quindi varia in base a una serie di fattori: l’andamento del mercato, dei titoli investiti, eccetera. Il riferimento è in particolare alle polizze unit e index linked, il cui rendimento, nel primo caso, è parametrato all’andamento di fondò comuni di investimento e, nel secondo, ad indici di vario tipo, generalmente titoli azionari. L’elemento caratterizzante tale tipologie di polizze è dunque il rischio finanziario, che, nelle così dette linked “pure” grava interamente sull’assicurato, poiché la compagnia non garantisce né la restituzione del capitale, né eventuali rendimento minimi.
  3. Costituisce principio acquisito che, in tema di polizza vita, la designazione dà luogo a favore del beneficiario a un acquisto iure proprio ai vantaggi dell’assicurazione (art. 1920 c.c.), anche se sottoposto alla condizione risolutiva della mancata revoca della designazione (Cass. n. 3263/2016). Iure proprio vuol dire che il diritto trova la sua fonte nel contratto e non entra a far parte del patrimonio ereditario dello stipulante (Cass., S.U., n. 11421/2021; n. 25635/2018; n. 15407/2000). E’ opinione unanime, in dottrina e in giurisprudenza, che la designazione del beneficiario sia un negozio unilaterale, personalissimo e non recettizio, con cui il contraente individua in modo generico o specifico il destinatario della prestazione dell’assicuratore (Cass. n. 4833/1978).
  4. Ex art. 1923 c.c., comma 2, in tema di assicurazione sulla vita a favore di un terzo, le norme sulla collazione e sulla riduzione sono fatte salve in riferimento ai primi pagati dallo stipulante non alle somme percepite dal beneficiario.

La Suprema Corte ha chiarito che le polizze sulla vita, aventi contenuto finanziario, nelle quali sia designato come beneficiario un soggetto terzo non legato al contraente da vincolo di mantenimento, sono configurabili, fino a fino a prova contraria, come “donazioni indirette” a favore dei beneficiari delle polizze stesse (Cass. n. 3263/2016). Si rileva che è il pagamento del premio che costituisce pertanto il c.d. “negozio mezzo” (l’assicurazione) utilizzato per conseguire gli effetti del “negozio fine” (la donazione). Sono i premi pagati, pertanto, che comportano liberalità atipica, non il contratto di assicurazione, che non può considerarsi quale uno degli atti di liberalità contemplati dall’art. 809 c.c. (Cass. n. 7683/2015).

Il rilievo è esatto, perché, la natura finanziaria delle polizze pone problemi diversi, ad esempio se sia applicabile l’art. 1923 c.c., comma 1, secondo cui le somme dovute dall’assicuratore in base a un’assicurazione sulla vita “non possono essere sottoposte ad azione esecutiva o cautelare”. Si osserva che questo regime di favore per l’assicurato consistente nella impignorabilità e nella insequestrabilità della prestazione assicurativa – si giustificherebbe in base al fatto che le polizze vita sono strumenti volti alla previdenza e al risparmio. Ove, per contro, una polizza sia contratta a fini esclusivamente speculativi (ravvisabili, anche solo in parte, nei contratti linked), essa non potrà godere della specifica tutela riconosciuta dalla norma. Ora, e senza che sia minimamente necessario in questa sede indagare oltre su tale questione, si può tranquillamente riconoscere che il dibattito sulla natura delle polizze aventi contenuto finanziario non riguarda l’idoneità dello strumento a realizzare una donazione indiretta, “che può realizzarsi nei modi più vari, essendo caratterizzata dal fine perseguito di realizzare una liberalità e non già dal mezzo, che può essere il più vario nei limiti consentito dall’ordinamento (Cass. n. 21449/2015; n. 3134/2012; n. 5333/2004). In quanto all’aleatorietà del beneficio, si nota in dottrina che, nelle assicurazioni sulla vita in genere, l’arricchimento del beneficiario non sta nell’indennità, che è sempre eventuale e aleatoria, ma nell’acquisto del diritto ai vantaggi economici dell’operazione, cui corrisponde il depauperamento del donante. Le successive diminuzioni possono essere considerate ai fini della collazione, ma non fanno perdere all’atto il carattere di donazione. Tanto questo è vero che è applicabile alla designazione l”art. 775 c.c. e “se compiuta da un incapace naturale, è annullabile a prescindere dal pregiudizio che quest’ultimo possa averne risentito” (Cass. n. 7683/2015 cit..).

  1. L’art. 741 c.c., dice soggetto a collazione ciò che il defunto ha speso a favore dei suoi discendenti per assegnazioni fatte a causa di matrimonio, per avviarli all’esercizio di un’attività produttiva o professionale, per soddisfare premi relativi a contratti di assicurazione sulla vita a loro favore o per pagare i loro debiti.

Quanto alle spese fatte per soddisfare premi relativi a contratti di assicurazione, a favore dei discendenti (propria o dei discendenti medesimi), è opinione concorde degli interpreti che la norma comprende sia l’ipotesi dell’assicurazione stipulata dal discendente sulla propria vita, sub specie di pagamento del debito altrui, sia l’assicurazione sulla vita del discendente (o del de cuius), che rientra nello schema della donazione indiretta, sub specie di contratto a favore di terzo. Per il discendente, infatti, ottenere l’indennizzo o assicurarlo ai propri familiari, dopo la propria morte, può infatti rappresentare un vantaggio non meno rilevante che l’intraprendere un’attività lucrativa. Si avrebbe invece donazione diretta in ipotesi di messa a disposizione del discendente delle somme necessarie per pagare i premi di assicurazione sulla vita di lui. In generale si rileva che l’art. 741 c.c., risulterebbe meramente indicativo di singole elargizioni da ritenersi comprese nell’ampia dizione dell’art. 737 c.c., facente riferimento a tutto ciò che i discendenti o il coniuge hanno ricevuto per donazione, direttamente o indirettamente, e pertanto privo di autonoma portata normativa, perché le elargizioni prevista dalla norma ricadrebbero sotto lo schema generale dell’art. 737 c.c..

  1. E’ incontroverso che la polizza stipulata dal de cuius prevedeva che, in caso di premorienza del contraente rispetto all’assicurato, il posto del contraente fosse preso dall’assicurato medesimo, il quale diveniva beneficiario della polizza per il “caso di vita”.
  2. In conclusione, la fattispecie negoziale, al momento della morte dello stipulante, vedeva B.S. tenuto al conferimento del premio per il “caso di vita”, nell’ipotesi, di fatto verificatasi, di premorienza del contraente rispetto all’assicurato. Lo vedeva inoltre tenuto al conferimento anche per il “caso di morte”, in forza dell’art. 741 c.c., pur essendo egli l’assicurato e non il beneficiario dei vantaggi della polizza, destinati agli eredi di lui, ossia del medesimo B.S.. E’ stato chiarito che, ai fini della collazione e della riunione fittizia, il pagamento dei premi di un’assicurazione per conto di un terzo, è avvicinabile all’adempimento di un obbligo altrui, al quale e’, appunto, apparentato dall’art. 741 c.c..
  3. Nelle polizze vita in genere, anche fuori dall’ambito delle polizze a contenuto finanziario, potrà avvenire che il capitale assicurato si rilevi di fatto inferiore ai premi, che costituiscono in linea di principio l’oggetto del conferimento ex art. 2923 c.c., comma 2. L’obbligo di collazione va precisato nel senso che si deve conferire la minore somma tra l’ammontare dei premi pagati e il capitale, non potendo la collazione avere per oggetto che il vantaggio conseguito dal discendente. Se poi l’evento, condizionante il diritto all’indennizzo, non si sia ancora verificato all’apertura della successione, il discendente è intanto tenuto al conferimento del premio, salva la necessità, in favore del discendente stesso o dei suoi eredi, di procedere a un nuovo conteggio qualora l’indennità si rilevi in seguito inferiore. E’ naturale che l’onere3.di provare conseguimento di un vantaggio minore rispetto al premio, sia a carico del beneficiario o degli eredi di lui subentrati nell’obbligo di conferimento. La Corte d’appello, nel rilevare che B.S. non aveva dato la prova di un arricchimento minore rispetto al premio pagato dal defunto, ha fatto esatta applicazione del generale principio di vicinanza della prova (Cass. n. 9099/2012; n. 8018/2021).
  4. Il quinto motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 737 c.p.c., in relazione all’arto. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

La sentenza è oggetto di censura laddove la corte d’appello ha imposto a carico dell’attuale ricorrente l’obbligo di collazione della somma di Lire 100.000.000. Si sostiene che il principio, applicato dalla sentenza impugnata, circa l’insorgenza automatica dell’obbligo di collazione anche in assenza di apposita domanda, implica pur sempre l’individuazione, ad opera della parte, della specifica donazione da conferire. Il ricorrente rileva che le attrici, nel proporre la domanda, non avevano dedotto alcunché, né avevano lamentato lesione di legittima. In effetti la donazione era stata dedotta dall’attuale ricorrente con la domanda riconvenzionale proposta in primo grado.

Il motivo è infondato. La donazione di denaro, come riconosce la Corte d’appello, era stata ammessa dall’attuale ricorrente in sede di interrogatorio formale. Al cospetto di una tale ammissione la Corte d’appello ha fatto corretta applicazione del principio, consolidato nella giurisprudenza della Corte, secondo cui l’obbligo della collazione sorge automaticamente a seguito dell’apertura della successione e i beni donati devono essere conferiti indipendentemente da una espressa domanda dei condividenti, mentre chi eccepisce un fatto ostativo alla collazione ha l’onere di fornirne la prova (Cass. n. 1159/1995; n. 18625/2010; n. 8507/2011).

  1. Il primo motivo del ricorso incidentale denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1147 e 553 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

La sentenza è oggetto di censura nella parte in cui la corte d’appello ha negato alle legittimarie attrici la qualità di terzi ai fini della prova della simulazione dell’atto di disposizione compiuto dal de cuius, nonostante esse avessero proposto anche domanda di riduzione. Si sostiene che i principi che hanno indotto la Corte di merito a dichiarare inammissibile la domanda operano nella successione testamentaria, non nella successione legittima.

Il motivo è infondato. In relazione agli oneri di deduzione imposti al legittimario che agisce in riduzione, la Corte d’appello ha richiamato il principio secondo “il legittimario che proponga l’azione di riduzione ha l’onere di indicare entro quali limiti sia stata lesa la sua quota di riserva, determinando con esattezza il valore della massa ereditaria nonché quello della quota di legittima violata dal testatore. A tal fine, l’attore ha l’onere di allegare e comprovare tutti gli elementi occorrenti per stabilire se, ed in quale misura, sia avvenuta la lesione della sua quota di riserva (potendo solo in tal modo il giudice procedere alla sua reintegrazione), oltre che di proporre, sia pure senza l’uso di formule sacramentali, espressa istanza di conseguire la legittima, previa determinazione della medesima mediante il calcolo della disponibile e la susseguente riduzione delle donazioni compiute in vita dal de cuium (Cass. n. 1357/2017; n. 14473/2011).

Questo orientamento è stato di recente oggetto di significative precisazioni da parte della recente giurisprudenza della Corte, per la quale “I principi di giurisprudenza sugli oneri di deduzione imposti al legittimario che agisce in riduzione non possono essere intesi nel senso che il legittimario è tenuto a precisare nella domanda la entità monetaria della lesione, ma piuttosto che la richiesta della riduzione di disposizioni testamentarie o donazioni deve essere giustificata alla stregua di una rappresentazione patrimoniale tale da rendere verosimile, anche sulla base di elementi presuntivi, la sussistenza della lesione di legittima” (Cass. n. 17926/2020; n. 18199/2020).

Si chiarisce che, nel proporre la domanda di riduzione, il legittimario, senza l’uso di formule sacramentali, deve denunciare la lesione di legittima; che, a sua volta, la denuncia della lesione implica un confronto fra quanto il legittimario consegue, come erede legittimo o testamentario, e quanto avrebbe diritto di ricevere come erede necessario; che il confronto, per forza di cose, avviene in base a una certa rappresentazione patrimoniale, che il legittimario deve indicare nei suoi estremi essenziali già nella domanda, perché la lesione di legittima deve essere enunciata in termini concreti e non come pura eventualità (Cass. n. 276/1964).

Gli oneri imposti al legittimario che propone l’azione di riduzione si atteggiano allo stesso modo tanto nella successione legittima, quanto nella successione testamentaria; mentre è vero solo che questi oneri subiscono una ulteriore semplificazione nel caso di domanda di riduzione proposta dal legittimario preterito (Cass. n. 5458/2017) e nella ipotesi di domanda di riduzione proposta dal legittimario, erede ab intestato, nel caso di integrale esaurimento del patrimonio mediante donazioni (Cass. n. 16535/2020).

La Corte d’appello, seppure si sia riferita al precedente orientamento della giurisprudenza di legittimità, ha posto l’accento, nello stesso tempo, sulla genericità della domanda di riduzione proposta dalle attuali ricorrenti incidentali. Si evidenzia che, con la stessa domanda non era stata ” addotta alcuna lesione di legittima”. Grazie a tale rilievo, la sentenza impugnata rimane in linea con la giurisprudenza di legittimità anche a volere considerare le precisazioni fatte dalle più recenti pronunce intervenute in materia, che escludono anch’esse l’ammissibilità di domande di riduzione, nelle quali la lesione sia solo genericamente enunciata.

1.1. Con il motivo in esame, le ricorrenti richiamano i principi giurisprudenziali in base ai quali, ai fini della prova della simulazione di atti di disposizione compiuti dal de cuius, il legittimario potrebbe assumere la veste di terzo anche se non sia stata proposta domanda di riduzione e pure in assenza di disposizioni testamentarie (Cass. n. 12317/2019). Il principio è certamente esatto, ma il suo richiamo non giova alla tesi delle ricorrenti incidentali. E’ esatto che la qualità di terzo è riconosciuta al legittimario in quanto tale, anche se non si ponga una questione di riduzione, ma questo non vuol dire che il legittimario, solo perché legittimario, quando impugni per simulazione un atto compiuto dal de cuius, venga a trovarsi sempre e comunque nella veste di terzo e non in quella del contraente (Cass. n. 7134/2001). Perché gli sia riconosciuta la veste di terzo occorre che l’accertamento della simulazione sia richiesto dal legittimario in tale specifica veste, per rimediare a una lesione di legittima, intesa l’espressione in senso ampio, modo da comprendere non solo la reintegrazione in senso proprio, tramite la riduzione della donazione dissimulata, ma anche il recupero all’asse ereditario del bene oggetto di alienazione simulata ovvero di donazione dissimulata nulla per difetto di forma (Cass. n. 8215/2013; n. 19468/2005).

La motivazione data dalla Corte di merito, nella parte in cui ha posto in luce la genericità della deduzione della lesione di legittima, è in linea con la giurisprudenza di legittimità da questo diverso punto di vista.

  1. Il secondo motivo denuncia violazione dell’art. 342 c.p.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio.

Le ricorrenti si dolgono perché la corte d’appello ha ritenuto che non fosse stata da loro impugnata la statuizione del primo giudice nella parte in cui questi aveva ritenuto che fossero stati indicati, nel termine accordato per le deduzioni istruttorie, gli elementi presuntivi idonei a confermare la simulazione della vendita delle quote sociali intercorsa fra il defunto e il figlio. Si sostiene che in appello furono indicati una pluralità di elementi idonei dare corpo all’ipotesi della simulazione.

Il motivo è inammissibile, perché si dirige contro ratio aggiuntiva priva di effettiva incidenza sulla decisione, che si regge interamente sulla riconosciuta mancanza delle condizioni per accordare al legittimario la qualità di terzo: quindi sulla riconosciuta inammissibilità della prova per presunzioni già in linea di principio. Si sa che la censura che investa una considerazione della sentenza impugnata che non abbia spiegato alcuna rilevanza sul dispositivo è inammissibile per difetto di interesse (Cass. n. 10420/2005; n. 8087/2007).

  1. Il terzo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 428 c.c. in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

E’ oggetto di censura il rigetto della domanda di annullamento, per incapacità naturale del defunto, della vendita di quote sociale intercorsa fra il genitore e B.S.. Si sostiene che, in base agli elementi istruttori, la domanda andava invece accolta, essendo stata raggiunta sia la prova dell’incapacità, sia la prova della mala fede dell’altro contraente.

Il motivo è inammissibile: si censura la valutazione delle prove da parte della Corte d’appello, intendendosi accreditare in questa sede una lettura degli elementi istruttori diversa rispetto a quella compiuta dal giudice di merito (Cass., S.U., n. 34476/2019), che ha dato congrua e adeguata valutazione del proprio convincimento. La Corte d’appello, infatti, ha esaminato la deposizione testimoniale ritenendo che da questa emergessero solo i disturbi e i malesseri tipici dell’età avanzata. Si legge nella sentenza impugnata che “il B. dimenticava dove posava gli oggetti e aveva difficoltà a scrivere e di faceva aiutare, ma dettava gli importi degli assegni e li sottoscriveva, evidenziando, quindi la piena consapevolezza delle proprie scelte e disposizioni”.

Tale apprezzamento, esente da vizi logici o giuridici, è incensurabile in questa sede (Cass. n. 17977/2011; n. 515/2004).

  1. Il quarto motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

La sentenza è oggetto di censura laddove i giudici d’appello hanno negato la natura liberale della intestazione congiunta dei titoli, in nome del de cuius e del figlio B.S., presso la Banca Fideuram. Si richiamano in proposito i principi di giurisprudenza sulla insorgenza automatica dell’obbligo di collazione all’apertura della successione. Tali principi sono intesi dalle ricorrenti incidentali nel senso che spettava al donatario provare l’esistenza di un fatto ostativo alla collazione, mentre la Corte d’appello ha invece posto a carico delle attuali ricorrenti incidentali l’onere di dare la prova di un effetto (la collazione, appunto) che, in base alla giurisprudenza, consegue automaticamente dall’apertura dalla successione.

Il motivo è infondato. Esso è ispirato a una improponibile interpretazione del principio secondo cui “In presenza di donazioni fatte in vita dal de cuius, la collazione ereditaria – in entrambe le forme previste dalla legge, per conferimento del bene in natura ovvero per imputazione – è uno strumento giuridico volto alla formazione della massa ereditaria da dividere al fine di assicurare l’equilibrio e la parità di trattamento tra i vari condividenti, così da non alterare il rapporto di valore tra le varie quote, da determinarsi, in relazione alla misura del diritto di ciascun condividente, sulla base della sommatoria del relictum e del donatum al momento dell’apertura della successione, e quindi garantire a ciascuno degli eredi la possibilità di conseguire una quantità di beni proporzionata alla propria quota. Ne consegue che l’obbligo della collazione sorge automaticamente a seguito dell’apertura della successione (salva l’espressa dispensa da parte del de cuius nei limiti in cui sia valida) e che i beni donati devono essere conferiti indipendentemente da una espressa domanda dei condividenti, essendo sufficiente a tal fine la domanda di divisione e la menzione in essa dell’esistenza di determinati beni, facenti parte dell’asse ereditario da ricostruire, quali oggetto di pregressa donazione. Incombe in tal caso sulla parte che eccepisca un fatto ostativo alla collazione l’onere di fornirne la prova nei confronti di tutti gli altri condividenti” (Cass. n. 15131/2005).

Infatti, tale principio vuol dire che la collazione opera in presenza di donazioni, senza necessità di domanda, incombendo a colui che neghi l’operatività dell’istituto di fornire la prova del fatto impeditivo. Ma, appunto, il principio opera a condizione che risulti l’esistenza di donazioni. Queste, qualora non risultino in modo palese, debbono essere provare da chi le deduce. Insomma, si presume l’obbligo del conferimento della donazione che risulti oggettivamente o sia stata provata, non si presume invece l’esistenza della donazione solo perché ne sia stato chiesto il conferimento. Le ricorrenti intendono invece il principio come se dicesse che chi chieda la collazione può limitarsi a dedurre la esistenza di donazioni, spettando agli altri fornire la prova del contrario: il che, in verità, è conclusione che nessuno ha mai pensato di sostenere.

  1. In conclusione, sono rigettati sia il ricorso principale, sia il ricorso incidentale.

Avuto riguardo alla particolarità della vicenda si ravvisa la sussistenza di giusti motivi per compensare, fra tutte le parti, le spese di lite.

Ci sono le condizioni per dare atto D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13, comma 1-quater, della “sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale e delle ricorrenti incidentali, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto”.

 

P.Q.M.

rigetta il ricorso principale e il ricorso incidentale; dichiara compensate fra tutte le parti le spese del presente giudizio; ai sensi delD.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale e delle ricorrenti incidentali, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 10 giugno 2021.

Depositato in Cancelleria il 22 ottobre 2021

Tutela del credito. E’ pignorabile il credito derivante da un contratto preliminare ? Cass. civ., sez. III, 27 ottobre 2022, n. 31844

Con l’arresto  che si annota  è stato enunciato il seguente principio di diritto :
L’esecuzione mediante espropriazione presso terzi può riguardare anche crediti futuri, non esigibili, condizionati e finanche eventuali, con il solo limite della loro riconducibilità a un rapporto giuridico identificato e già esistente; pertanto, anche il credito al pagamento del prezzo del promittente venditore, riveniente da un contratto preliminare, è suscettibile di pignoramento ex art. 543 c.p.c., giacché – per quanto eventuale, dipendendo la sua effettiva maturazione dalla realizzazione del programma negoziale, sia essa spontanea o coattiva, ex art. 2932 c.c. – è specificamente collegato a un rapporto esistente e possiede, quindi, capacità satisfattiva futura, concretamente prospettabile nel momento dell’assegnazione.”

IL CASO.  Il creditore di un’ingente somma di denaro sottoponeva a pignoramento il credito vantato dal proprio debitore nei confronti di due società in forza di una sentenza con la quale, ai sensi dell’art. 2932 c.c., era stata trasferita coattivamente alle seconde la quota di partecipazione detenuta dal primo in una società a responsabilità limitata, con conseguente condanna al pagamento in suo favore del corrispettivo.
Poiché le società terze pignorate avevano reso dichiarazioni sostanzialmente negative, il creditore procedente introduceva il giudizio di accertamento dell’obbligo del terzo, all’esito del quale il Tribunale di Napoli dichiarava impignorabile il credito in questione, in quanto derivante da sentenza costitutiva non ancora passata in giudicato, con statuizione confermata all’esito del giudizio di appello, sebbene, nel corso dello stesso, la pronuncia resa ai sensi dell’art. 2932 c.c. fosse divenuta definitiva.
Il creditore procedente, dunque, proponeva ricorso per cassazione, contestando l’assunto in base al quale non poteva formare oggetto di pignoramento la posizione creditoria del proprio debitore scaturente dal contratto preliminare di vendita rimasto inadempiuto.
La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso, affermando che oggetto di espropriazione presso terzi possono essere anche crediti non esigibili, condizionati o anche solo eventuali, purché suscettibili di una futura capacità satisfattiva, concretamente prospettabile al momento dell’assegnazione, in virtù della loro riconducibilità a un rapporto giuridico identificato e già esistente al momento del pignoramento, ivi compreso quello che ha titolo in un contratto preliminare rimasto inadempiuto.

Per leggere il testo integrale della  sentenza accedere al seguente link:     https://www.italgiure.giustizia.it/xway/application/nif/clean/hc.dll?verbo=attach&db=snciv&id=./20221027/snciv@s30@a2022@n31844@tS.clean.pdf

 

Diritto alla provvigione per il mediatore? Mettere in relazione le parti non è sufficiente

 

Cassazione civile sez. II – 02/02/2023, n. 3165

Con un recentissimo arresto la Corte di Cassazione ha enunciato seguente principio di diritto: “al fine del sorgere del diritto alla provvigione ex Art. 1755, co. 1 c.c. è necessario che la conclusione dell’affare sia effetto causato adeguatamente dal suo intervento, senza che il mettere in relazione delle parti tra di loro ad opera del mediatore sia sufficiente di per sé a conferire all’intervento di questi il carattere di adeguatezza, nè che l’intervento di un secondo mediatore sia sufficiente di per sé a privare ex post l’opera del primo mediatore di tale qualità di adeguatezza”.

IL CASO.

La signora X  accompagnava la madre Y, interessata alla  compravendita di un fabbricato, dal mediatore immobiliare Alfa. Dopo la scadenza del contratto sottoscritto con detto mediatore, tuttavia, Y perfezionava la compravendita  con il  venditore – con cui in precedenza era stata posta in contatto dal mediatore Alfa – per effetto dell’attività della diversa agenzia immobiliare Beta. Il mediatore Alfa, pertanto, decideva di agire per vedere riconosciuto il proprio apporto causale alla conclusione dell’affare e conseguentemente  il compenso per la mediazione, ma risultava soccombente sia in primo sia in secondo grado. Ricorreva dunque davanti alla Suprema Corte.
La Suprema Corte, muovendo dal concetto di “antecedente indispensabile”,  sulla scorta del dettato degli art.li 1754 e 1755 comma 1 c.c. è giunta ad “escludere l’efficienza causale adeguata dell’opera del primo mediatore” rispetto alla conclusione della compravendita in esame, ma non per l’intervento del secondo mediatore, che “non spezza di per sé il nesso di causalità tra l’opera del primo mediatore e la conclusione dell’affare”, ma perché la messa “in relazione di due o più parti per la conclusione di un affare” (art. 1754 c.c.) non è elemento sufficiente, di per sè, a far ritenere che l’affare sia “concluso per effetto” dell’intervento del mediatore (art. 1755 c.c.)”.
Dunque, se, da una parte, l’intervento di un secondo mediatore non è sufficiente di per sé a privare ex post l’opera del primo mediatore dell’adeguatezza alla conclusione dell’affare, dall’altra, nemmeno il mettere in relazione delle parti tra di loro ad opera del mediatore è di per sé sufficiente a conferire all’intervento di questi il carattere di adeguatezza e quindi il diritto alla provvigione.

 

Il testo della sentenza

Cassazione civile sez. II – 02/02/2023, n. 3165

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ASCOLA             Pasquale               –  Presidente   –

Dott. PAPA                 Patrizia               –  Consigliere  –

Dott. FORTUNATO            Giuseppe               –  Consigliere  –

Dott. CRISCUOLO            Mauro                  –  Consigliere  –

Dott. CAPONI               Remo              –  rel. Consigliere  –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

Sul ricorso n. 35980/2018, proposto da:

R.A. e AGENZIA Immobiliare Srl, elettivamente domiciliate in

Roma,

– ricorrente –

contro

M.N., elettivamente domiciliata in Roma,

– controricorrente –

nonché

R.F., domiciliato in Roma,

– controricorrente –

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 25/5/2022 dal

cons. REMO CAPONI;

lette le conclusioni del P.M., nella persona del Sostituto

Procuratore Generale ROSA MARIA DELL’ERBA, che ha concluso per il

rigetto del ricorso.

FATTI DI CAUSA

R.A., già titolare della ditta Cogi e legale rappresentante della Compro Casa s.r.l., ha impugnato in cassazione la sentenza di secondo grado di conferma della pronuncia di primo grado, che ha rigettato le domande da costei proposte nei confronti di R.F. e M.N.. In particolare, l’attrice ha domandato: (a) l’accertamento del rapporto di mediazione ex art. 1754 c.c. intercorso tra costei ed i convenuti, nonché l’accertamento della causalità del suo intervento nella conclusione del contratto di compravendita immobiliare tra i convenuti; (b) l’accertamento della simulazione del prezzo di acquisto indicato nel rogito, nonché l’accertamento dell’effettivo prezzo di vendita; (c) la condanna dei convenuti al pagamento del compenso di mediazione. In via subordinata, per il caso che sia accertata la cooperazione di più mediatori, l’attrice chiede: (d) l’accertamento della misura della provvigione che le spetta, sia da parte del venditore che dell’ac-quirente, con condanna dei convenuti al pagamento.

Nel costituirsi in giudizio, per quanto rileva ancora in questa sede, R.F. rileva che le persone messe in contatto tra di loro dall’attrice siano differenti dalle parti della compravendita de qua; afferma che, dopo la scadenza del contratto con la Cogi, si è rivolto ad un’altra agenzia, la “In casa” di A.C., con la quale ha sottoscritto un nuovo contratto di mediazione; eccepisce che la vendita si è conclusa per effetto esclusivo dell’intervento del secondo mediatore e che quindi nessuna provvigione è da riconoscere all’attrice; aggiunge che il prezzo di vendita indicato nel rogito, in assenza di diversa prova, è l’unico parametro di determinazione del compenso da riconoscere eventualmente all’attrice.

Nel costituirsi in giudizio, per quanto rileva ancora in questa sede, M.N., acquirente dell’immobile in comunione con il marito, ritiene che nessun rapporto sia intercorso tra l’attrice e lei, che si è limitata ad accompagnare sua madre, signora P., all’epoca interessata all’acquisto. Chiama in causa il secondo mediatore, che ha ricevuto da lei il compenso, per essere tenuta indenne rispetto alla quota di provvigione eventualmente dovuta all’attrice.

Nel costituirsi in giudizio, “In casa” di A.C. conferma di aver messo in contatto il venditore R. e l’acquirente M.; sostiene di aver rinunciato al compenso dovuto dal venditore e di aver ricevuto la provvigione esclusivamente dagli acquirenti, in misura inferiore al dovuto.

Nella sentenza di primo grado, per quanto ancora rileva in questa sede, il Tribunale di Bologna ha rigettato le domande attoree, ritenendo che: (a) la vicenda sia da inquadrare giuridicamente come mediazione; (b) l’attività dell’attrice non abbia avuto incidenza causale determinante nella conclusione dell’affare, che si è perfezionato per effetto dell’attività svolta in via autonoma da altra agenzia; (c) l’art. 1758 c.c. (sul diritto pro quota alla provvigione in caso di pluralità di mediatori) sia inapplicabile.

Il ricorso in cassazione è affidato a quattro motivi, illustrati da memoria. Resistono R.F. e M.N. con due controricorsi, illustrati rispettivamente da memorie.

 

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1. – Con il primo motivo, proposto ex art. 360, n. 3 e n. 4 c.p.c., si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 132 e 342 c.p.c., per avere la Corte di appello rigettato il primo motivo di gravame in quanto generico e privo di una specifica indicazione delle parti della sentenza di primo grado oggetto di censura. In particolare, la parte ricorrente assume che il giudice di secondo grado abbia applicato l’art. 342 c.p.c. nella versione vigente dal 2012, mentre il giudizio d’appello de quo è sottoposto ancora al vecchio regime, essendo stato instaurato nel 2011.

1.2. – Il primo motivo non è fondato. Il giudice di secondo grado non ha applicato l’art. 342 c.p.c., che sancisce l’inammissibilità dell’appello privo dei requisiti ivi previsti. E’ vero che la Corte ha parlato di “assenza di una specifica indicazione delle parti della motivazione oggetto di censura” e che, nell’esprimersi così, può ben essere stata influenzata dalla nuova versione dell’art. 342 c.p.c., ma si tratta di un accidentale condizionamento imitativo-lessicale, privo di effetti giuridico-processuali, che altrimenti si sarebbero tradotti in termini di dichiarazione d’inam-missibilità del motivo d’appello. Invece, esso è stato dichiarato infondato nel merito, con un’argomentazione che la ricorrente sottopone a censura con il secondo motivo di ricorso, oggetto di esame nel successivo paragrafo.

In conclusione, il primo motivo è rigettato.

2.1. – Con il secondo motivo, proposto ex art. 360, n. 3, n. 4 e n. 5 c.p.c., si deduce, sotto un primo profilo, la violazione e falsa applicazione degli artt. 1754,1755 e 1758 c.c.; si deduce inoltre, sotto un secondo profilo, la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2729 c.c., nonché di conseguenza la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4 c.p.c.; si deduce infine, sotto un terzo profilo, l’omesso esame di fatti decisivi.

E’ opportuno innanzitutto distinguere nettamente tra di loro il primo profilo del motivo dagli altri due, non tanto perché il secondo e il terzo profilo hanno un ruolo ancillare rispetto al primo (e quindi saranno esaminati successivamente), ma soprattutto perché è il primo che solleva la centrale questione di violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto sostanziale. In particolare, alla stregua di tale profilo del secondo motivo, la Corte d’appello avrebbe applicato falsamente gli artt. 1754,1755 c.c. poiché ha escluso che il diritto del mediatore sorga sol che questi abbia messo in relazione le parti e così abbia posto l’antecedente indispensabile per pervenire alla conclusione del contratto, secondo i principi della causalità adeguata, quand’anche egli non intervenga poi in ogni fase della trattativa e il processo di formazione della volontà negoziale delle parti sia complesso e articolato nel tempo.

2.2. – La quaestio iuris è la seguente: al fine di considerare che la conclusione dell’affare sia l’effetto dell’intervento del mediatore, è sufficiente o meno che questi abbia messo in relazione le parti e così abbia posto l’antecedente indispensabile per pervenire alla conclusione del contratto? La tesi giuridica sostenuta dalla ricorrente si risolve sostanzialmente nella risposta positiva a questa domanda, come si può desumere dall’accento che costei pone sulla “messa in relazione” delle parti da parte del mediatore, mentre è fatto scivolare in secondo piano il carattere adeguato dell’apporto causale di quest’ultimo, al fine di affermare che la conclusione dell’affare sia l’effetto dell’intervento del mediatore.

2.3. – Il Collegio reputa che tale tesi – pur argomentata con valorizzazione defensionale degli indirizzi giurisprudenziali a proprio vantaggio – non possa essere condivisa.

La tesi non può essere accolta – si badi bene – non già solo a cagione dell’intervento autonomo di un secondo mediatore (al quale un peso nella vicenda dovrà pur essere accordato). Infatti, l’intervento di un secondo mediatore non spezza di per sé il nesso di causalità tra l’opera del primo mediatore e la conclusione dell’affare. Ciò si ricava univocamente e direttamente dalla disciplina legislativa, cioè dalla presenza di una disposizione quale l’art. 1758 c.c., e trova conferma in giurisprudenza (così, tra le altre, Cass. 25762 del 2018).

La tesi non può incontrare consenso, poiché altrettanto univoco, in quanto direttamente desumibile dalla disciplina legislativa, è che la messa “in relazione di due o più parti per la conclusione di un affare” (art. 1754 c.c.) non è elemento sufficiente, di per sé, a far ritenere che l’affare sia “concluso per effetto” dell’intervento del mediatore (art. 1755 c.c.).

Ciò si ricava dalla interdipendente distinzione di ruolo e di portata normativa tra l’art. 1754 c.c. e l’art. 1755, comma 1 c.c. In sé considerata, la prima disposizione si limita a definire la figura del mediatore come “colui che mette in relazione due o più parti per la conclusione di un affare, senza essere legato ad alcuna di esse da rapporti di collaborazione, di dipendenza o di rappresentanza”. Considerato invece nella sua relazione con l’art. 1755, comma 1 c.c., l’art. 1754 c.c. consegue una portata normativa ulteriore rispetto al carattere esclusivamente defini-torio che gli è proprio in sé. La portata è di ordine negativo: diretta a negare, per l’appunto, che la semplice messa in relazione delle parti sia requisito idoneo, di per sé, a far reputare l’affare concluso per effetto dell’intervento del mediatore.

2.4. – Ci si persuade di ciò già se si pensa al circolo essenzialmente vizioso in cui si risolverebbe l’art. 1755, comma 1 c.c., ove fosse riscritto alla luce della tesi criticata. La riscrittura suonerebbe così: “colui che mette in relazione due o più parti per la conclusione di un affare ha diritto alla provvigione (…), se l’affare è concluso per effetto della semplice messa in relazione delle parti”. In altre parole, due e distinte sono le domande: (a) chi è il mediatore (art. 1754 c.c.); b) che cosa deve fare il mediatore per avere diritto alla provvigione (art. 1755, comma 1 c.c.). Non si può rispondere alla seconda domanda, evocando più o meno sic et simpliciter la risposta alla prima, altrimenti il senso normativo dell’art. 1755, comma 1 c.c. si appiattirebbe su quello dell’art. 1754 c.c. La nozione di causalità efficiente dell’intervento del mediatore accolta dall’art. 1755, comma 1 c.c. si ridurrebbe a considerare quest’ultimo una condicio sine qua non della conclusione dell’affare.

Di ciò è consapevole la giurisprudenza di questa Corte, come si può ricavare in controluce dalla stessa analisi condotta dalla parte ricorrente, ove si restituisca in primo piano ciò che quest’ultima, in una prospettiva defensionale, richiama fuggevolmente: il concetto di causalità adeguata, cioè la portata normativa della qualificazione di adeguatezza dell’opera del mediatore, laddove la giurisprudenza ricostruisce nel caso concreto l’efficienza causale dell’intervento del mediatore rispetto alla conclusione dell’affare (cfr., fra le più recenti, Cass. 11443 del 2022, 3134 del 2022, 7029 del 2021, 5495 del 2021, 4644 del 2021, 3055 del 2020).

2.5. – E’ appena il caso di ricordare che la nozione di “causalità adeguata” è stata sviluppata proprio al fine di mitigare la rigorosa imputazione dell’evento in base alla causalità condizionalistica (o della con-dicio sine qua non), nel senso che non tutte le condizioni sono considerate cause. Mutato ciò che si deve mutare nel passaggio da una branca del diritto all’altra, nel quadro dei rapporti tra art. 1754 e art. 1755, comma 1 c.c., il riferimento giurisprudenziale alla causalità adeguata assolve alla medesima funzione: di evitare che la causalità efficiente dell’intervento del mediatore di cui all’art. 1755, comma 1 c.c. si riduca alla causalità condizionalistica, si appiattisca cioè sulla definizione della figura del mediatore di cui all’art. 1754 c.c.

In altri termini, la nozione di causalità adeguata serve a rendere elastico il termine “effetto” di cui all’art. 1755, comma 1 c.c., nonostante sia prima facie percepibile la sua sudditanza linguistica alla teoria della causalità condizionalistica, se non della causalità naturale (“causa-effetto”). Il concetto di “effetto” si arricchisce della qualità della “adeguatezza”.

2.6. – Con sguardo riassuntivo che si volge al caso di specie, si devono riconoscere infatti due dati.

In primo luogo, la ricostruzione di “effetto adeguato” o di “efficienza causale adeguata” dell’intervento del mediatore rispetto alla conclusione dell’affare si muove elasticamente all’interno di un campo delimitato, ai due capi opposti, da due elementi rigidi, di ordine negativo: (a) di per sé, la semplice messa in relazione delle parti ad opera del primo mediatore non è sufficiente ad integrare l’efficienza causale adeguata ex art. 1755, comma 1 c.c.; (b) di per sé, il semplice intervento di un secondo mediatore non è sufficiente a privare ex post l’opera del primo mediatore della sua qualità di adeguatezza ex art. 1755, comma 1 c.c.

Il secondo dato è che la ricostruzione in positivo dell’efficienza causale adeguata dell’opera del mediatore è frutto dell’applicazione di un termine elastico, qual è quello di effetto adeguato di cui all’art. 1755, comma 1 c.c., nel senso precisato nel capoverso precedente.

2.7. – A proposito dell’adeguatezza dell’effetto di cui all’art. 1755, comma 1 c.c., si può richiamare pertanto il consolidato orientamento sul sindacato delle norme elastiche (rectius, delle disposizioni con parole o sintagmi elastici): esse sono “disposizion(i) di contenuto precettivo ampio e polivalente, destinato ad essere progressivamente precisato, nell’estrinsecarsi della funzione nomofilattica della Corte di Cassazione, fino alla formazione del diritto vivente mediante puntualizzazioni di carattere generale ed astratto”, per cui “l’operazione valutativa, compiuta dal giudice di merito (…) non sfugge ad una verifica in sede di giudizio di legittimità” (così, tra le molte, Cass. 12789 del 2022).

Orbene, l’osservazione del caso di specie non offre al Collegio occasione di compiere puntualizzazioni correttive dell’applicazione compiuta dai giudici di merito. Al fine di escludere l’efficienza causale adeguata dell’opera del primo mediatore rispetto alla conclusione della compravendita pesano in particolare le seguenti circostanze, così come correttamente apprezzate dai giudici nelle due istanze di merito: (a) la parte interessata all’acquisto che è stata messa in relazione con il venditore dalla ditta Cogi in esecuzione dell’incarico ricevuto da quest’ultimo è la signora P. (madre di M.N.), che non coincide con la parte acquirente nella compravendita de qua ( M.N., che ha accompagnato la madre nelle visite all’immobile svoltesi nel periodo di efficacia dell’incarico alla ditta Cogi); (b) l’affare si è concluso dopo un lasso di tempo significativo dalla scadenza dell’incarico conferito al primo mediatore; (c) il venditore si è rivolto ad un secondo mediatore, la cui opera – autonoma rispetto a quella del primo – ha avuto un ruolo di efficienza causale adeguata rispetto alla conclusione dell’affare.

Merita di sottolineare che – ad avviso del Collegio – nessuna di queste circostanze isolatamente considerata è in grado di giustificare un giudizio di correttezza dell’operazione ermeneutica dei giudici di merito. Esse cospirano a fondare un tale giudizio solo nella loro concomitanza nell’intero arco temporale della vicenda, nonché nel loro intreccio.

2.8. – La forza persuasiva che tale concomitante intreccio conferisce all’apprezzamento compiuto dai giudici di merito non è scalfita dalle censure articolate nel secondo e terzo profilo del secondo motivo. Alla stregua del secondo profilo, la ricorrente si lamenta che la seconda visita dell’immobile da parte di M.N. non sia stata valutata come un indizio grave, preciso e concordante con altri indizi (ex art. 2729 c.c.), idoneo a contribuire a provare l’efficienza causale dell’atti-vità del mediatore adeguata all’effetto della successiva conclusione dell’affare. Tale difetto di valutazione ridonderebbe nella violazione dell’art. 2697 c.c., poiché la Corte ha ritenuto che la ditta Cogi abbia mancato di fornire prove sufficienti del fatto costitutivo del diritto alla provvigione, e si rifletterebbe anche nell’omessa motivazione.

Alla stregua del terzo profilo del secondo motivo, la ricorrente censura che la Corte abbia omesso di esaminare ulteriori circostanze dalle quali si desumerebbe la consapevolezza che gli altri partecipanti della vicenda (le parti della compravendita, il secondo mediatore) hanno avuto del ruolo determinante del primo mediatore nella conclusione dell’affare. Si tratta in particolare delle circostanze che il secondo mediatore ha rinunciato a percepire la provvigione da parte del venditore ed ha concesso uno sconto anche all’acquirente.

I due profili si risolvono sostanzialmente nel questionare la prudenza o ragionevolezza dell’accertamento del giudice di merito circa i fatti rilevanti. Ciò vale in modo manifesto per il terzo profilo, che riguarda appunto l’omesso esame di circostanze decisive. Ma non vale in misura minore per il secondo motivo, ché l’episodica questione di violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto colà proposta – sotto specie di censura relativa agli artt. 2729 e 2697 c.c. – concerne pur sempre il mancato apprezzamento di un fatto (la seconda visita) come fatto secondario fonte di presunzioni idonee alla prova dell’efficienza causale adeguata dell’attività del mediatore.

E’ evidente che il giudizio che si fonda sul concomitante intreccio delle circostanze elencate nel paragrafo precedente non può essere scalfito nel suo carattere di prudenza e di ragionevolezza dalla valutazione del peso da attribuire alle circostanze di una seconda visita all’immobile, dell’esonero dalla corresponsione della provvigione, che il venditore ottiene dal secondo mediatore, e dello sconto praticato da quest’ultimo all’acquirente. Pertanto, gli apprezzamenti giudiziali bersagliati dal secondo e terzo profilo del secondo motivo di ricorso non potrebbero essere ribaltati in sede di legittimità se non al prezzo che questa Corte indebitamente sostituisca sic et simpliciter il proprio accertamento a quello proprio del giudice di merito (cfr. il significativo aggettivo possessivo “suo” impiegato dall’art. 116, comma 1 c.p.c.).

In conclusione, il secondo motivo non è fondato nel suo complesso ed è pertanto rigettato.

  1. – Con il terzo motivo, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 4, si deduce la nullità della sentenza e del procedimento per violazione e falsa applicazione degli artt. 112,132 e 246 c.p.c. per avere la Corte d’appello “con decisione sul punto del tutto priva di motivazione, confermato una incapacità (della teste L.B. a testimoniare) non pronunciata dal primo giudice e fondato immotivatamente ed apoditticamente il suo convincimento su tale inesistente presupposto”.

Il motivo è da dichiarare inammissibile. Dal brano rilevante della sentenza di primo grado emerge che: “non è invece stato efficacemente dimostrato in causa che tale prima visita sia stata seguita da una seconda (…), stante la ritenuta incapacità a testimoniare dell’unica teste dedotta dalla attrice ( L.B.). Sul punto si osserva quanto segue: anche a ritenere che non ricorresse nella fattispecie interesse concreto della teste tale da prefigurare la incapacità a testimoniare ex art. 246 c.p.c., reputa questo giudice che alla luce dei dati tutti di giudizio emergenti agli atti la testimonianza sia da valutarsi superflua ai fini del decidere”.

Il motivo di ricorso muove dal presupposto erroneo che il giudice di primo grado non si sia pronunciato nel senso della incapacità della teste L.B. a testimoniare. In realtà, come si è potuto constatare dalla lettura del brano rilevante, la decisione di non ammettere la deposizione della teste si fonda vuoi sulla “ritenuta incapacità a testimoniare”, vuoi sulla valutazione di superfluità della testimonianza ai fini del decidere. Viceversa, l’argomentazione del terzo motivo concentra le proprie censure solo sui vizi da cui sarebbe affetta la decisione ba-santesi “semplicemente” sulla seconda delle due ragioni (la superfluità della testimonianza).

Orbene, si osserva che ove una pronuncia sia sorretta da una pluralità di ragioni, distinte ed autonome, ciascuna delle quali giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata, l’omessa impugnazione di una di esse (nel caso di specie: di quella relativa all’incapacità a testimoniare) rende inammissibile la censura relativa alle altre. Infatti, quand’anche tale censura fosse fondata, essa non potrebbe sfociare nell’annullamento della sentenza sul punto incompletamente censurato, essendo divenuta definitiva l’autonoma motivazione non impugnata (in questo senso, tra le molte, cfr. Cass. 17182 del 2020).

In conclusione, il terzo motivo è inammissibile.

  1. – Con il quarto motivo, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362,1363,1365,1366 e 1369 c.c. per avere la Corte d’appello trascurato di applicare una clausola contrattuale dell’accordo tra la ditta Cogi e R.F.. Pertanto, il quarto motivo coinvolge soltanto la posizione di quest’ultimo.

Con tale motivo si deduce in particolare che la Corte d’appello abbia trascurato di applicare una clausola contrattuale dell’accordo tra la ditta Cogi e R.F.. Tale clausola prevede: “In caso di vendita effettuata direttamente nel periodo dell’incarico, in caso di vendita effettuata direttamente dopo la scadenza a clienti da Voi presentati nel periodo dell’incarico e per revoca del presente, Vi sarà corrisposta una somma, a titolo di penale, pari al 75% del compenso pattuito”.

Il quarto motivo di ricorso è fondato nel senso specificato di seguito. Esso è stato già proposto come motivo di gravame e la Corte d’appello lo ha rigettato poiché, alla stregua di una interpretazione secondo buona fede, ha ritenuto che la clausola non dovesse applicarsi al caso di specie, in cui il venditore non ha effettuato una vendita direttamente, ma si è avvalso dell’opera di un secondo mediatore. Viceversa, la clausola avrebbe potuto trovare applicazione nel caso in cui R. avesse approfittato dell’attività svolta dalla ditta Cogi per concludere direttamente la compravendita, dopo la scadenza dell’incarico, senza l’ap-porto di alcun altro mediatore. Al contrario, nel caso di esame – conclude la Corte d’appello – la conclusione dell’affare è avvenuta, a distanza di un apprezzabile lasso di tempo rispetto alla scadenza del primo incarico, con l’intervento di un secondo mediatore, incaricato in modo autonomo dal primo.

Con tale argomentazione, il giudice d’appello ha violato innanzitutto l’art. 1362 c.c., privilegiando unilateralmente l’interpretazione letterale dell’avverbio “direttamente” rispetto alla comune intenzione delle parti, quale può essere ricostruita in modo relativamente agevole dalla qualificazione giuridica che costoro hanno attribuito alla clausola de qua, dal contenuto negoziale di quest’ultima, nonché dal comportamento delle parti anche posteriore alla conclusione dell’accordo. Con ciò la Corte d’appello ha sostanzialmente rovesciato l’ordine di priorità fissato dall’art. 1362 c.c. per l’impiego dei canoni ermeneutici dei contratti.

Innanzitutto, le parti hanno espressamente qualificato la clausola come “penale”. La qualificazione è corretta, con la precisazione che essa è diretta a determinare previamente e in modo forfettario l’am-montare della cifra dovuta a titolo di indennizzo per l’attività svolta dal mediatore nell’interesse del venditore nel periodo di vigenza dell’inca-rico, indipendentemente dal fatto che l’affare si sia successivamente concluso per effetto dell’intervento del mediatore. L’irrilevanza del contributo causale dato dall’attività del mediatore alla posteriore conclusione della compravendita emerge dall’elemento portante della fattispecie cui la clausola collega l’obbligo del pagamento al 75% del compenso pattuito. L’elemento è che il compratore rientri nel novero delle persone che il mediatore ha presentato al venditore. Infatti, nella struttura e nella funzione della clausola, fondamentale è il contributo dato dal mediatore all’individuazione della controparte, non già la mera modalità (diretta o indiretta, merce’ l’intervento di un secondo mediatore) con cui si è concluso l’affare.

In primo luogo, tale elemento è indizio che la funzione della penale non è afflittiva (a cagione d’un ipotetico inadempimento, che invece non esiste nemmeno nella supposizione delle parti, come si può desumere dall’aggiunta “per revoca del presente”: in realtà ultronea, ma pur sempre indice dell’intenzione), bensì indennitaria delle spese incontrate dal mediatore nel mettere in contatto le parti. In secondo luogo, tale elemento nel suo essere condizione necessaria e sufficiente al sorgere dell’obbligo pecuniario esclude la rilevanza di qualsiasi altro aspetto. Esso rende cioè irrilevante che la conclusione dell’affare sia l’effetto dell’intervento del primo mediatore (come invece hanno ritenuto i giudici di primo e di secondo grado, condizionati dall’idea che il nesso di causalità sia sotteso anche all’operatività della clausola penale), sia l’effetto dell’opera del secondo mediatore, oppure sia dovuta all’attività diretta del venditore. Cosicché l’aspetto che la Corte d’ap-pello ha reputato centrale (cioè che la vendita sia avvenuta “direttamente”, nel significato attribuito) si rivela in realtà come una modalità accidentale.

Che questa sia l’interpretazione maggiormente persuasiva si profila anche alla luce di aspetti complementari, attinenti al comportamento successivo delle parti, in particolare del venditore, dal momento che egli si è dato premura di ottenere l’esonero dal pagamento della provvigione al secondo mediatore. Con ciò l’interpretazione così determinata è in linea con gli altri canoni ermeneutici di cui agli artt. 1362 ss. c.c., quali l’interpretazione secondo buona fede (art. 1366 c.c.), la conservazione degli effetti della clausola (art. 1367 c.c.), l’equo contemperamento degli interessi delle parti (art. 1371 c.c.).

Le ragioni sottese alla fondatezza del quarto motivo di ricorso lasciano impregiudicata, e pertanto affidata al giudice di rinvio, la valutazione se la già menzionata clausola, nei termini in cui è stato teste’ ricostruito il suo valore giuridico, rivesta o meno un carattere vessatorio ai sensi degli artt. 33 ss. cod. cons.

In conclusione, il quarto motivo è accolto.

  1. – In relazione al rigetto del secondo motivo di ricorso, il Collegio enuncia il seguente principio di diritto:

“Al fine del sorgere del diritto alla provvigione ex art. 1755, comma 1 c.c., è necessario che la conclusione dell’affare sia effetto causato adeguatamente dal suo intervento, senza che il mettere in relazione delle parti tra di loro ad opera del mediatore sia sufficiente di per sé a conferire all’intervento di questi il carattere di adeguatezza, né che l’intervento di un secondo mediatore sia sufficiente di per sé a privare ex post l’opera del primo mediatore di tale qualità di adeguatezza”.

  1. – In conclusione, è accolto il quarto motivo di ricorso; è dichiarato inammissibile il terzo motivo; sono rigettati i primi due motivi; è cassata con rinvio la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto.

 

P.Q.M.

La Corte accoglie il quarto motivo di ricorso nei sensi di cui in motivazione; dichiara inammissibile il terzo motivo; rigetta i primi due motivi; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la causa alla Corte d’appello di Bologna in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 25 maggio 2022.

Depositato in Cancelleria il 2 febbraio 2023

 

Per i vizi dell’opera rispondono in via solidale l’appaltatore e il direttore dei lavori?

 

Cassazione civile sez. II – 19/07/2022 n. 22575

L’annotata ordinanza della Sprema Corte ha affermato il seguente principio: “ qualora il danno subito dal committente rientri nell’ambito dell’articolo 1669 c.c., e sia conseguenza dei concorrenti inadempimenti dell’appaltatore e del direttore dei lavori “entrambi rispondono solidalmente dei danni, essendo sufficiente, per la sussistenza della solidarieta’, che le azioni e le omissioni di ciascuno abbiano concorso in modo efficiente a produrre l’evento, a nulla rilevando che le stesse costituiscano autonomi e distinti fatti illeciti, o violazioni di norme giuridiche diverse” (Cass. 18521/2016), trovando il vincolo di responsabilita’ solidale “fondamento nel principio di cui all’articolo 2055 c.c.” (Cass. 18289/2020)”

IL CASO.  A rivolgersi agli ermellini è la ditta appaltatrice chiamata in causa dall’architetto direttore dei lavori in uno stabile.
Il condominio assumeva che i lavori erano stati mal eseguiti e chiedeva un cospicuo risarcimento.
Il direttore dei lavori faceva notare tra l’altro che l’azione di risarcimento era stata avanzata dal condominio solo nei suoi confronti, non della ditta esecutrice, che si difendeva assumendo di non essere tenuta al vincolo di solidarietà nei confronti del direttore dei lavori esterno.
Secondo la Corte la diversa natura contrattuale delle due prestazioni non incide quando entrambe le attività possono concorrere alla produzione del danno.
Non incide neppure il dato della scarsa presenza del direttore dei lavori nel cantiere. Indipendentemente dalla frequenza dei controlli, il direttore dei lavori avrebbe potuto contestare le modalità esecutive dell’opera rispetto al progetto anche con un’unica visita all’interno dell’edificio.
Responsabilità condivisa quindi e risarcimento da corrispondere al condominio danneggiato.
E il ruolo dell’amministratore? Il contratto di appalto è deciso dall’assemblea condominiale e l’amministratore deve curare la sua esecuzione, in base all’articolo 1130 del Codice civile non trascurando gli articoli 90 e 93 del decreto legislativo 81/2008 sulla sicurezza sul lavoro che obbligano il committente a verificare l’idoneità tecnica professionale della ditta appaltatrice e ad acquisirne la relativa visura camerale e il Durc, il documento unico di regolarità contributiva.
Attenzione soprattutto al contratto: l’appaltatore deve eseguire i lavori a regola d’arte, in conformità al contratto d’appalto, capitolati, computi metrici, normative in tema di sicurezza del lavoro.
Nell’ambito dei lavori del 110% e comunque dei bonus edilizi si devono verificare e collaudare gli interventi alla presenza dell’appaltatore, del committente e/o del direttore dei lavori, in occasione dei vari Sal (stati avanzamento lavori) da inviare all’Enea e all’agenzia delle Entrate.
Verifica che può portare ad accettazione dei lavori senza riserve, ad accettazione con riserva per riscontrati vizi o difetti o a una dichiarazione di non accettazione.
In questi due ultimi casi, vanno indicate le motivazioni, supportate da idonea documentazione.
In caso di riscontrati vizi e/o difetti imputabili all’appaltatore, lo stesso dovrà porvi rimedio.
Gli amministratori committenti devono prestare attenzione alle clausole contrattuali che escludono le responsabilità dell’appaltatore per danni indiretti, che escludono o limitano le eventuali garanzie di risultato (performance) indicate nel contratto e negli allegati, o che escludono responsabilità per ogni mancato guadagno e/o perdita per mancata e/o limitata commerciabilità e/o redditività degli immobili oggetto dei lavori.

 

Il testo della sentenza

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGILIO    Rosa Maria                    –  Presidente   –

Dott. GRASSO         Giuseppe                      –  Consigliere  –

Dott. ABETE          Luigi                         –  Consigliere  –

Dott. DONGIACOMO     Giuseppe                      –  Consigliere  –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara                   –  rel. Consigliere  –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 13395/2017 proposto da:

B.G., TITOLARE DI IMPRESA S. di  B.G.,

elettivamente domiciliato in ROMA,

– ricorrente –

contro

CONDOMINIO (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro

tempore elettivamente domiciliato in ROMA,

– controricorrente –

e contro

R.G.S., elettivamente domiciliato in ROMA, V

– controricorrente e ricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 826/2017 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 27/02/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

25/02/2022 dal Consigliere CHIARA BESSO MARCHEIS.

PREMESSO IN FATTO

CHE

  1. Il Condominio di (OMISSIS) conveniva in giudizio l’architetto R.G.S., direttore dei lavori di manutenzione straordinaria effettuati nello stabile condominiale, al fine di ottenerne la condanna al risarcimento dei danni asseritamente collegati agli eseguiti interventi. Si costituiva l’architetto R. chiamando in causa B.G., quale titolare della ditta individuale S. di B.Gche aveva eseguito i lavori, chiedendo che, in caso di accertamento dei vizi lamentati dall’attore e in considerazione dell’addebitabilità degli stessi all’appaltatore, questo fosse condannato a indennizzarlo della eventuale condanna. Si costituiva B., che eccepiva come rispetto ai vizi denunciati fossero ormai decorsi i termini di cui agli artt. 1667,1668 e 1669 c.c.; il chiamato evidenziava anche l’avvenuto svolgimento di un giudizio arbitrale da egli instaurato per ottenere il pagamento da parte del Condominio di ulteriori lavori non previsti nel contratto, giudizio arbitrale che si era concluso con l’accoglimento della sua domanda e il rigetto delle domande riconvenzionali del Condominio relative alla “cattiva esecuzione” del contratto d’appalto.

Il Tribunale di Milano, con sentenza n. 3070/2015, ha parzialmente accolto la domanda del Condominio e, accertato l’inadempimento del convenuto all’incarico professionale, lo ha condannato al risarcimento del danno quantificato in Euro 64.073,30; ha poi parzialmente accolto la domanda di regresso dell’architetto R. e ha condannato l’appaltatore a tenerlo indenne nella misura del 70%.

  1. La sentenza è stata impugnata in via principale da B.; R. ha impugnato in via incidentale, chiedendo di accertare la responsabilità esclusiva dell’appaltatore. La Corte d’appello di Milano con sentenza 27 febbraio 2017, n. 826 – ha rigettato sia l’appello principale che quello incidentale.
  2. Avverso la sentenza della Corte d’appello B.G. ricorre per cassazione.

Resiste con controricorso R.G.S., che propone ricorso incidentale.

Resiste con distinti atti di controricorso avverso il ricorso principale e quello incidentale il Condominio di (OMISSIS).

Il ricorrente incidentale ha depositato memoria.

Con atto datato 2 aprile 2021 il difensore di B. ha comunicato di avere rinunciato al mandato conferitogli; con atto del 21 luglio 2021 si è costituito il nuovo difensore.

 

CONSIDERATO IN DIRITTO

CHE:

  1. Il ricorso principale è articolato in quattro motivi, che ripropongono doglianze già sottoposte al giudice d’appello con i motivi di gravame.

1) Il primo motivo contesta “violazione del divieto del ne bis in idem, violazione del pur riconosciuto obbligo di astenersi dal deliberare intorno alla responsabilità del deducente nei confronti del Condominio, in relazione al compromesso e al lodo munito di esecutorietà”: il giudice d’appello ha ritenuto che gli effetti del lodo non fossero opponibili a R. perché la decisione arbitrale non poteva vincolarlo, ma “i fatti accertati nel lodo, per quanto circoscritti all’attività dell’impresa appaltatrice, sono estensibili al direttore dei lavori, il quale potrà giovarsi in giudizio, salvo ove ci fosse la responsabilità di quest’ultimo nell’espletamento dell’incarico assegnatogli dal Condominio, la quale del resto è oggetto di precisa domanda nei suoi confronti”; rileva quindi la netta distinzione tra le responsabilità dell’appaltatore e del direttore dei lavori, evidentemente dipendenti da due negozi distinti.

2) Il secondo motivo contesta “violazione degli artt. 99,100 e 101 c.p.c., per avere il giudice proceduto ad autonoma qualificazione della domanda proposta dal convenuto nei confronti dell’impresa; violazione degli artt. 88,100 e 101 c.p.c., per avere il giudice di prime cure qualificato la domanda proposta dal Condominio addirittura contra dicta e quindi contro la proclamata volontà dell’interessato”: il Condominio non ha mai avanzato alcuna domanda nei confronti dell’impresa appaltatrice, avendo agito in giudizio nei confronti del solo direttore dei lavori “per fatti propri”.

3) Il terzo motivo fa valere “violazione degli artt. 1292 e 2055 c.c., per avere la Corte d’appello asserito l’esistenza di responsabilità solidale e di conseguente regresso a favore del preteso coobbligato, senza avere competenza per delibare sulla responsabilità del deducente nei confronti del Condominio”: nel caso di specie non vi è alcuna responsabilità solidale tra il direttore dei lavori e l’appaltatore, con conseguente inapplicabilità dell’art. 2055 c.c..

4) Il quarto motivo contesta, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, “mancata delibazione in ordine alle numerose eccezioni preliminari e di merito spiegate dal deducente, che è andato oltre le eccezioni preliminari ed aveva ritualmente proposto eccezioni di prescrizione e di infondatezza delle pretese spiegate nei suoi confronti”: la Corte d’appello, nel rigettare il motivo di gravame, sarebbe partita da un presupposto “fuorviante”, ossia che l’azione nei confronti dell’impresa appaltatrice non è stata proposta dal Condominio, ma dal direttore dei lavori, quando ciò che rileva sarebbe che “il Condominio si è astenuto dal rivolgere qualunque domanda nei confronti del deducente”, fatto decisivo che sarebbe stato omesso dal giudice d’appello.

I motivi, tra loro strettamente connessi, non possono essere accolti. Il terzo motivo nega la sussistenza del vincolo di solidarietà tra il direttore dei lavori e l’appaltatore e l’inapplicabilità dell’art. 2055 c.c., negazione della solidarietà che è sottesa anche al secondo, al primo e al quarto motivo. Il ricorrente in tal modo non considera che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, qualora il danno subito dal committente rientri nell’ambito dell’art. 1669 c.c., e sia conseguenza dei concorrenti inadempimenti dell’appaltatore e del direttore dei lavori come nel caso in esame ha accertato il giudice d’appello (cfr. le pp. 10 e 11 del provvedimento impugnato) – “entrambi rispondono solidalmente dei danni, essendo sufficiente, per la sussistenza della solidarietà, che le azioni e le omissioni di ciascuno abbiano concorso in modo efficiente a produrre l’evento, a nulla rilevando che le stesse costituiscano autonomi e distinti fatti illeciti, o violazioni di norme giuridiche diverse” (Cass. 18521/2016), trovando il vincolo di responsabilità solidale “fondamento nel principio di cui all’art. 2055 c.c.” (Cass. 18289/2020), “a nulla rilevando in contrario la natura e la diversità dei contratti cui si ricollega la responsabilità”, essendo sia l’appaltatore che il direttore dei lavori, con le rispettive azioni od omissioni, “entrambi autori dell’unico illecito extracontrattuale, e perciò rispondendo, a detto titolo, del danno cagionato” (Cass. 8016/2012); infatti le attività dell’appaltatore come quella del direttore dei lavori “pur essendo i contratti ai quali si ricollegano di diverse. natura possono concorrere tutte alla produzione del danno, con la conseguenza che gli indicati soggetti (indipendentemente dalla graduazione delle rispettive colpe nei rapporti interni) sono tenuti a risarcire integralmente i danneggiati” (Cass. 4900/1993).

Per quanto concerne specificamente la censura, di cui al primo motivo, di violazione del ne bis in idem in relazione al lodo reso nel giudizio arbitrale, correttamente la Corte d’appello ha rilevato che l’architetto R. era estraneo al contratto d’appalto e pertanto la clausola compromissoria a questo apposto non poteva vincolarlo e il lodo non poteva avere nei suoi confronti alcun effetto. Al riguardo va precisato che il titolare dell’impresa appaltatrice è stato chiamato in causa con la proposizione nei suoi confronti dell’azione di regresso da parte del direttore dei lavori (come puntualizza la Corte d’appello, correttamente e non in modo “fuorviante” come deduce il ricorrente nel quarto motivo) e che l’art. 1306 c.c., si applica nei soli rapporti tra creditore e coobbligato solidale e non ai rapporti di regresso tra i vari condebitori. Ne consegue che nell’azione di regresso del condebitore nei confronti dell’altro coobbligato, il coobbligato convenuto (il ricorrente) non può “opporre altro e contrastante giudicato, col quale sia stata rigettata la pretesa creditoria nei suoi confronti” (Cass. 16117/2013).

Il ricorso principale va pertanto rigettato.

  1. Il ricorso incidentale è articolato in due motivi.

1) Il primo motivo denuncia “violazione e falsa applicazione dell’art. 1669 c.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5, per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione in ordine alla mancata sorveglianza dei lavori eseguiti dall’impresa appaltatrice”.

Il motivo non può essere accolto. In rubrica, anzitutto, viene richiamato un parametro – l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione – non applicabile ratione temporis alla fattispecie. Nello sviluppo del motivo si lamenta poi che la Corte d’appello abbia “del tutto ignorato” dati di fatto che confuterebbero l’assunto della mancata vigilanza sui lavori da parte di R., dati di fatto di cui non si ravvisa il carattere della decisività alla luce dell’accertamento di fatto posto in essere dal giudice d’appello, secondo cui, “indipendentemente dalla frequenza in cantiere di R., quello che è certo è che non risulta alcun intervento da parte sua volto alla contestazione delle modalità esecutive dell’opera anche per la parte non rispondente a progetto” (p. 12 della sentenza impugnata). Nella parte finale del motivo, infine, si contesta che il ricorrente, pur non avendo alcuna responsabilità per i vizi lamentati o comunque una responsabilità pari solo al 30%, sia stato condannato al risarcimento integrale in favore del Condominio, così non considerando la solidarietà della responsabilità dell’appaltatore e del direttore dei lavori (supra, sub I).

2) Il secondo motivo contesta “violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., omessa motivazione in ordine alla condanna al pagamento delle spese processuali dei due gradi di giudizio”: il ricorrente non doveva essere condannato al pagamento delle spese in favore del Condominio, in quanto il processo “non è causalmente riconducibile ad alcun suo comportamento”.

Il motivo non può essere accolto. Il ricorso per cassazione è infatti rivolto nei confronti della pronuncia del giudice di secondo grado, che ha integralmente rigettato l’appello incidentale di R., così che – in corretta applicazione dell’art. 91 c.p.c. – ha condannato quest’ultimo al pagamento delle spese in favore del Condominio.

Il ricorso incidentale va quindi rigettato.

III. Considerata la reciproca soccombenza vanno compensate le spese tra i due ricorrenti, che vanno condannati in solido al rimborso delle spese del giudizio di legittimità nei confronti del Condominio.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale e di quello incidentale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

 

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso principale e quello incidentale, compensa le spese del presente giudizio tra il ricorrente principale e il ricorrente incidentale e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese in favore del controricorrente, che liquida in Euro 5.800, di cui Euro 200 per esborsi, oltre spese generali (15%) e accessori di legge.

Sussistono,D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13, comma 1 quater, i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale e di quello incidentale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella adunanza camerale della Sezione Seconda Civile, il 25 febbraio 2022.

Depositato in Cancelleria il 19 luglio 2022

E’ dovuto l’indennizzo in caso di assicurazione privata per malattia e “garanzia per l’invalidità permanente” in caso di malattie mortali ?

 

Cassazione civile sez. III – 17/03/2015, n. 5197

Con un arresto non recentissimo la Suprema Corte di Cassazione ha affermato il seguente principio: “L’invalidità permanente costituisce uno stato menomativo, stabile e non remissibile, che si consolida soltanto all’esito di un periodo di malattia e non può quindi sussistere prima della sua cessazione; ne consegue che, se un contratto di assicurazione prevede il pagamento di un indennizzo nel caso di invalidità permanente conseguente a malattia, nessun indennizzo è dovuto se la malattia, senza guarigione clinica, abbia avuto esito letale

IL CASO. Parte attrice chiedeva in giudizio il pagamento di un indennizzo, affermando che il proprio congiunto aveva stipulato una polizza assicurativa a copertura del rischio di invalidità permanente causata da malattia, nonché che aveva poi contratto un tumore allo stomaco, malattia che lo condusse a morte.
La Suprema Corte, rifacendosi a principi medico legali, ribadisce che l’esistenza di una malattia in atto e l’esistenza di uno stato di invalidità permanente non sono tra loro compatibili: sinché durerà la malattia, permarrà uno stato di invalidità temporanea, ma non v’è ancora invalidità permanente; se la malattia guarisce con postumi permanenti si avrà uno stato di invalidità permanente, ma non vi sarà più invalidità temporanea; se la malattia dovesse condurre a morte dell’ammalato, essa avrà causato solo un periodo di invalidità temporanea. Secondo i principi medicolegali, a qualsiasi lesione dell’integrità psicofisica consegue sempre un periodo di invalidità temporanea, alla quale può conseguire talora un’invalidità permanente. La nozione medicolegale di invalidità permanente presuppone che la malattia sia cessata, e che l’organismo abbia riacquistato il suo equilibrio, magari alterato, ma stabile.
Ciò non avviene quando, come nel caso in questione, l’evoluzione della malattia porta alla morte.

 

Il testo della sentenza 

Cassazione civile sez. III – 17/03/2015, n. 5197

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RUSSO     Libertino Alberto                 –  Presidente   –

Dott. SPIRITO   Angelo                            –  Consigliere  –

Dott. STALLA    Giacomo Maria                     –  Consigliere  –

Dott. CARLUCCIO Giuseppa                          –  Consigliere  –

Dott. ROSSETTI  Marco                        –  rel. Consigliere  –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 20873/2011 proposto da:

F.C.   (OMISSIS),                    F.G.

(OMISSIS),                F.A.  (OMISSIS),  tutti

nella loro qualità di eredi dei defunti            F.R. E      S.

M.L.,  elettivamente domiciliati in ROMA

– ricorrenti –

contro

H ASSICURAZIOII

(OMISSIS),  in  persona del procuratore  speciale  Dott.      T.

R.,  elettivamente domiciliata in ROMA

– controricorrente –

avverso  la  sentenza  n. 90/2011 della CORTE  D’APPELLO  di  MILANO,

depositata il 17/01/2011, R.G.N. 2301/2006;

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

  1. Nel 2003 i sigg.ri S.M.L., F.C., F.A. e F.G. convennero dinanzi al Tribunale di Milano la società “H ASSICURAZIONI, esponendo che:

(-) nel 1995 il proprio congiunto F.R. aveva stipulato una polizza assicurativa a copertura:

(a) del rischio di invalidità permanente causata da malattia;

(b) del rischio di degenza ospedaliera causata da malattia;

(-) nel 2001 F.R. contrasse un tumore allo stomaco;

venne perciò ricoverato ed operato; la malattia tuttavia lo condusse a morte nel 2002;

(-) l’assicuratore aveva rifiutato il pagamento sia dell’indennizzo dovuto per l’ipotesi di invalidità permanente, sia di quello dovuto per l’ipotesi di malattia.

  1. Con sentenza 28.2.2006 il Tribunale di Milano accolse la domanda.

La sentenza venne impugnata dalla H ASSICURAZIONI.

Con sentenza 17.1.2011 la Corte d’appello Milano confermò la condanna dell’assicuratore al pagamento dell’indennizzo dovuto per il rischio di degenza ospedaliera; rigettò invece la domanda di condanna al pagamento dell’indennizzo dovuto per il rischio di invalidità permanente.

Ritenne la Corte d’appello che rispetto alla copertura per invalidità permanente il rischio assicurato nella specie non si fosse mai avverato, perchè la malattia contratta dall’assicurato ebbe esito letale: di conseguenza, non essendo mai avvenuta la guarigione clinica, mai potevano essersi consolidati postumi permanenti di sorta.

  1. La sentenza d’appello è stata impugnata per cassazione (in base a tre motivi di ricorso) da F.C., F.A. e F.G., i quali hanno dichiarato di agire anche quali eredi di S.M.L., deceduta nelle more del giudizio.

Ha resistito con controricorso la H ASSICURAZIONI.

MOTIVI DELLA DECISIONE

  1. Il primo motivo di ricorso.

1.1. Col primo motivo di ricorso i ricorrenti lamentano che la sentenza impugnata sia affetta dal vizio di violazione di legge, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3.. Assumono violati gli artt. 1325 e 1882 c.c..

Espongono, al riguardo, che il contratto di assicurazione stipulato da F.R. copriva il rischio di “invalidità permanente”, definito nelle condizioni generali come la “perdita o diminuzione, definitiva irrimediabile, della capacità dell’esercizio della propria professione (…) e di ogni altro lavoro (…), conseguente a malattia”.

Nel caso di specie l’assicurato, a causa del tumore, perse la capacità di lavoro: e dunque si era avverato il rischio assicurato.

La Corte d’appello invece, aveva – errando – ritenuto che nella specie nessuna “invalidità permanente” fosse insorta, perchè quest’ultima è concepibile solo quando, guarita la malattia, questa abbia lasciato postumi permanenti all’ammalato.

1.2. Il motivo è inammissibile.

Ad onta della sua intitolazione formale, infatti, il motivo pone esclusivamente una questione di interpretazione del contratto: ovvero quale dovesse essere il senso da attribuire all’espressione “invalidità permanente” in esso contenuta.

Le norme che i ricorrenti assumono violate (gli artt. 1325 e 1882 c.c.) sono del tutto irrilevanti nel presente giudizio, nel quale mai si è fatta questione nè di quali fossero gli elementi essenziali del contratto (art. 1325 c.c.), nè del fatto che quello stipulato tra le parti fosse un contratto di assicurazione (art. 1882 c.c.).

Nè ovviamente è consentito a questa Corte supplire a carenze motivazionali dei ricorsi, andando a ricercare d’ufficio quali fossero le norme che il ricorrente intendeva assumere come violate.

  1. Il secondo motivo di ricorso.

2.1. Col secondo motivo di ricorso i ricorrenti lamentano, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, che la sentenza impugnata abbia violato le regole legali di ermeneutica di cui agli artt. 1362, 1363 e 1366 c.c..

2.1.1. Il criterio di interpretazione letterale sarebbe stato violato a causa del senso attribuito dalla Corte d’appello all’espressione “invalidità permanente”. Espongono i ricorrenti che secondo l’interpretazione del giudice di merito una invalidità permanente può concepirsi solo quando la malattia sia esaurita ed il paziente sia guarito con postumi: ma tale interpretazione sarebbe in contrasto con la chiara lettera del contratto, che definiva l’invalidità come la perdita definitiva della capacità di lavoro, perdita che nel caso di specie si è verificata già nel corso della malattia patita dall’assicurato, a nulla rilevando che la malattia stessa fosse inguaribile ed abbia condotto a morte l’assicurato, e quindi che non sia mai avvenuta una guarigione clinica.

2.1.2. La Corte d’appello avrebbe trascurato, poi, di valutare la condotta delle parti successiva alla conclusione del contratto: ed infatti nella fase stragiudiziale la H ASSICURAZIONI aveva rifiutato il pagamento dell’indennizzo assumendo che il diritto all’indennizzo non fosse trasferibile agli eredi, mentre nulla aveva eccepito circa la sussistenza nella specie d’un danno da invalidità temporanea.

2.1.3. La Corte d’appello avrebbe violato altresì il criterio di interpretazione complessiva del contratto (art. 1363 c.c.), là dove ha desunto la nozione di “invalidità permanente” posta a fondamento della decisione dalla clausola contrattuale che impediva l’accertamento della suddetta invalidità prima del decorso d’un anno dalla denuncia della malattia: clausola che, secondo i ricorrenti, disciplinava il quantum dell’indennizzo e non l’indennizzabilità dell’infortunio.

2.1.4. Infine, i ricorrenti lamentano che la decisione del Tribunale abbia violato il criterio di interpretazione del contratto secondo buona fede (art. 1366 c.c.), perchè escluderebbe l’indennizzabilità di tutte le malattie ad esito infausto, alterando l’equilibrio contrattuale e “l’equo contemperamento degli interessi delle parti”.

2.2. Il motivo è manifestamente infondato in tutti e quattro i profili in cui si articola.

Non vi è stata, in primo luogo, alcuna violazione del criterio di interpretazione letterale.

La Corte d’appello era chiamata infatti ad interpretare un contratto di assicurazione contro le malattie.

L’assicuratore, in forza di tale contratto, si era obbligato al pagamento in favore dell’assicurato d’un indennizzo nel caso in cui la malattia avesse causato una “invalidità permanente”.

Quest’ultima era contrattualmente definita come la “perdita o diminuzione, definitiva e irrimediabile, della capacità dell’esercizio della propria professione (…) e di ogni altro lavoro (…), conseguente a malattia”.

Secondo la Corte d’appello, la suddetta “perdita o diminuzione” non potrebbe che concepirsi una volta esaurita la fase acuta della malattia.

Secondo i ricorrenti, invece, una “invalidità permanente” potrebbe concepirsi anche a malattia in corso, quando questa sia destinata ad avere un esito infausto.

2.3. L’interpretazione letterale propugnata dai ricorrenti è erronea.

Un contratto è un testo giuridico.

Le espressioni in esso contenute, se potenzialmente ambivalenti, vanno interpretate secondo il senso che è loro proprio nel contesto giuridico, non certo secondo il buon senso od il linguaggio comune.

Il lemma “invalidità” è un lemma tecnico. Esso è frutto di una elaborazione ormai quasi secolare in ambito medico legale.

Essa designa uno stato menomativo che può essere transeunte (invalidità temporanea) o permanente (invalidità permanente).

L’espressione “invalidità temporanea” designa lo stato menomativo causato da una malattia, durante il decorso di questa.

L’espressione “invalidità permanente” designa lo stato menomativo che residua dopo la cessazione d’una malattia.

L’esistenza d’una malattia in atto e l’esistenza di uno stato di invalidità permanente non sono tra loro compatibili: sinchè durerà la malattia, permarrà uno stato di invalidità temporanea, ma non v’è ancora invalidità permanente; se la malattia guarisce con postumi permanenti si avrà uno stato di invalidità permanente, ma non vi sarà più invalidità temporanea; se la malattia dovesse condurre a morte l’ammalato, essa avrà causato solo un periodo di invalidità temporanea.

2.4. I principi appena esposti sono stati mutuati dal legislatore in numerosissime norme. Per tutte, basterà ricordare:

(a) il D.Lgs. 7 settembre 2005, n. 209, art. 137, comma 1, (codice delle assicurazioni), il quale distinguendo il danno patrimoniale da inabilità temporanea rispetto a quello da invalidità permanente, implicitamente conferma che quest’ultima presuppone l’avvenuta guarigione, con postumi, della vittima;

(b) il D.Lgs. n. 209 del 2005, art. 138, comma 2, cit., il quale distingue anch’esso il danno non patrimoniale temporaneo da quello permanente (definito “invalidità permanente”), in tal modo dimostrando che l’invalidità permanente non può cominciare a computarsi sinchè duri l’invalidità temporanea;

(c) le infinite norme assicurative e previdenziali che, stabilendo la misura della invalidità permanente oltre la quale è dovuto il trattamento indennitario (due terzi, quattro quinti, eco), lasciano anch’esse intendere che in tanto è concepibile e misurabile una “invalidità permanente”, in quanto la malattia che l’ha causata sia cessata ed i postumi si siano stabilizzati: sarebbe infatti concepibile misurare i “due terzi” d’una validità instabile ed in divenire (cfr., ex permultis, l’art. 302, comma 2, cod. ass., in tema di danni indennizzabili dal fondo di garanzia vittime della caccia;

la L. 20 ottobre 1990, n. 302, art. 1, comma 1, in tema di provvidenze alle vittime del terrorismo).

2.5. I principi appena esposti, infine, sono già stati affermati da questa Corte, sia pure in fattispecie concrete diverse.

Infatti, chiamata a stabilire se spettasse o meno il risarcimento del danno biologico da invalidità permanente in un caso in cui le lesioni patite dalla vittima avevano causato la morte di questa a distanza di tempo dall’infortunio, questa Corte ha già stabilito che “se la morte della vittima è stata causata dalle lesioni, l’unico danno biologico risarcibile è quello correlato dall’inabilità temporanea, in quanto per definizione non è in questo caso concepibile un danno biologico da invalidità permanente. Infatti, secondo i principi medico-legali, a qualsiasi lesione dell’integrità psicofisica consegue sempre un periodo di invalidità temporanea, alla quale può conseguire talora un’invalidità permanente. Per l’esattezza l’invalidità permanente si considera insorta allorchè, dopo che la malattia ha compiuto il suo decorso, l’individuo non sia riuscito a riacquistare la sua completa validità.

Il consolidarsi di postumi permanenti può quindi mancare in due casi: o quando, cessata la malattia, questa risulti guarita senza reliquati; ovvero quando la malattia si risolva con esito letale. La nozione medicolegale di invalidità permanente presuppone, dunque, che la malattia sia cessata, e che l’organismo abbia riacquistato il suo equilibrio, magari alterato, ma stabile.

Si intende, pertanto, come nell’ipotesi di morte causata dalla lesione, non sia configurabile alcuna invalidità permanente in senso medicolegale: la malattia, infatti, non si risolve con esiti permanenti, ma determina la morte dell’individuo” (sono parole di Sez. 3, Sentenza n. 7632 del 16/05/2003, Rv. 563159, p.3.3 dei “Motivi della decisione”).

A tale decisione possono, infine, affiancarsi tutte le altre – numerosissime – le quali hanno negato che l’invalidità permanente e quella temporanea possano sovrapporsi (ad es., ai fini del decorso della prescrizione o della quantificazione del risarcimento): in tutte queste decisioni si è costantemente affermato che sino a quando perdura l’invalidità temporanea, non sorge quella permanente;

e quando viene ad esistenza quest’ultima, è necessariamente cessata la prima (così, ex aliis, Sez. 3, Sentenza n. 3806 del 25/02/2004, Rv. 570534, secondo cui “in tema di danno biologico, la cui liquidazione deve tenere conto della lesione dell’integrità psicofisica del soggetto sotto il duplice aspetto dell’invalidità temporanea e di quella permanente, quest’ultima è suscettibile di valutazione soltanto dal momento in cui, dopo il decorso e la cessazione della malattia, l’individuo non abbia riacquistato la sua completa validità con relativa stabilizzazione dei postumi. Ne consegue che il danno biologico di natura permanente deve essere determinato soltanto dalla cessazione di quello temporaneo, giacchè altrimenti la contemporanea liquidazione di entrambe le componenti comporterebbe la duplicazione dello stesso danno”).

L’interpretazione del contratto adottata dalla Corte d’appello, in conclusione, lungi dall’essere arbitraria rispetto al testo della polizza, è la sola coerente con quello, alla luce del seguente principio di diritto:

L’espressione “invalidità permanente” designa uno stato menomativo divenuto stabile ed irremissibile, consolidatosi all’esito di un periodo di malattia: pertanto, prima della cessazione di questa, non può esistere alcuna “invalidità permanente”. Ne consegue che, ove in un contratto di assicurazione contro i rischi di malattia, sia previsto il pagamento di un indennizzo nel caso di invalidità permanente conseguente a malattia, alcun indennizzo è dovuto nel caso in cui la malattia patita dall’assicurato, senza mai pervenire a guarigione clinica, abbia esito letale.

2.6. Nemmeno sussiste la violazione, da parte della Corte d’appello, del criterio di interpretazione fondato sulla condotta tenuta dalle parti dopo la stipula del contratto.

La circostanza che la H ASSICURAZIONI, nella fase delle trattative stragiudiziali, non abbia ritenuto di sollevare l’eccezione di non indennizzabilità del danno da invalidità permanente, è infatti irrilevante ai fini dell’interpretazione del contratto:

– sia perchè tale scelta costituisce frutto di una facoltà del debitore, ovviamente non preclusiva della facoltà di sollevare la suddetta eccezione in giudizio;

– sia perchè la “condotta delle parti” cui fa riferimento l’art. 1362 c.c., è quella esecutiva del contratto, non certo quella consistita nel replicare alla pretesa di adempimento formulata ex adverso;

– sia, soprattutto, perchè la condotta delle parti quale criterio interpretativo del contratto può venire in rilievo quando il testo non sia sufficientemente chiaro, e come si è visto nel caso di specie il testo contrattuale era chiarissimo.

2.7. Inammissibile, per difetto di concreta rilevanza, è poi l’allegazione secondo cui la Corte avrebbe violato il criterio dell’interpretazione complessiva (art. 1363 c.c.), là dove ha ritenuto di suffragare la propria decisione facendo leva sulla clausola contrattuale che impediva l’accertamento dell’invalidità permanente prima d’un anno dalla denuncia della malattia.

Nella struttura della sentenza impugnata, infatti, tale argomento viene utilizzato dalla Corte d’appello ad abundantiam, e dunque quale che ne fosse la correttezza, l’espunzione di esso dalla motivazione della sentenza, impugnata non renderebbe quest’ultima immotivata.

2.8. Insussistente, infine, è la violazione del criterio di interpretazione secondo buona fede: sia perchè anche tale criterio è suppletivo, e non viene in rilievo quando la lettera del contratto sia inequivoca; sia perchè è proprio l’interpretazione propugnata dai ricorrente a sovvertire l’equilibrio contrattuale, pretendendo il pagamento dell’indennizzo dovuto per l’invalidità permanente in un caso in cui la malattia dell’assicurato aveva causato la morte dell’assicurato, non la sua invalidità: così trasformando una polizza malattia in una polizza vita.

  1. Il terzo motivo di ricorso.

3.1. Col terzo motivo di ricorso i ricorrenti lamentano che la sentenza impugnata sia affetta da un vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5.

Espongono, al riguardo, che la Corte d’appello avrebbe adottato una motivazione lacunosa, non indicando la fonte della nozione di “invalidità permanente” da essa adottata.

3.2. Il motivo è tanto inammissibile quanto infondato.

E’ inammissibile perchè il vizio di motivazione è concepibile solo con riferimento all’accertamento di fatti, e nel presente giudizio non si controverte sull’accertamento del contenuto oggettivo del contratto (il quale soltanto costituirebbe un accertamento di fatto), ma sul senso da attribuire ad una clausola contrattuale il cui terso non è in discussione e sul rispetto, da parte del giudicante, dei criteri ermeneutici di cui all’art. 1362 c.c. e ss.: il che costituisce una questione di diritto, rispetto alla quale non è concepibile il vizio di motivazione, ma solo la violazione di legge.

Il motivo è tuttavia anche infondato, giacchè per quanto detto la nozione di “invalidità permanente” fatta propria dalla Corte d’appello è quella condivisa dalla unanime dottrina medico legale, dal legislatore e da questa Corte.

  1. Le spese.

Le spese del giudizio di legittimità vanno poste a carico dei ricorrenti, ai sensi dell’art. 385 c.p.c., comma 1.

 

P.Q.M.

la Corte di cassazione:

-) rigetta il ricorso;

-) condanna F.C., F.A. e F. G., in solido, alla rifusione in favore di H ASSICURAZIONI delle spese del presente grado di giudizio, che si liquidano nella somma di Euro 7.200, di cui 200 per spese vive, oltre I.V.A. ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 19 novembre 2014.

Depositato in Cancelleria il 17 marzo 2015

 

STUDIO © Copyright Giuffrè Francis Lefebvre S.p.A. 2023 14/06/2023

 

 

Donazioni e vendite fittizie di beni immobili, quali i rimedi esperibili dal creditore.

I casi del nostro studio

 Tutela del credito. Donazioni e vendite fittizie di beni immobili, quali i rimedi esperibili dal creditore.

Tribunale ordinario di Reggio Emilia, sezione civile I, sentenza n. 724 del 09.06.2022

Con la sentenza che si annota il Tribunale di Reggio Emilia accogliendo la domanda avanzata dalla parte istante, ha affermato i seguenti principi:

“Per l’accoglimento dell’azione revocatoria ordinaria (ndr. per l’annullamento dell’atto di disposizione compiuto dal debitore in frode ai creditori)  è sufficiente l’esistenza di una legittima ragione o aspettativa di credito, non occorrendo necessariamente un credito certo, liquido ed esigibile accertato in sede giudiziale. Anche il credito eventuale, in veste di credito litigioso, è idoneo a determinare l’insorgere della qualità di creditore che abilita all’esperimento dell’azione revocatoria, ai sensi dell’art. 2901 c.c. avverso l’atto di disposizione compiuto dal debitore.”

“In tema di azione revocatoria, per l’integrazione del profilo oggettivo dell’eventus damni (cioè del  requisito  del pregiudizio alle ragioni del creditore)  non è necessario che l’atto di disposizione del debitore abbia reso impossibile la soddisfazione del credito, determinando la perdita della garanzia patrimoniale del creditore, ma è sufficiente che abbia determinato o aggravato il pericolo dell’incapienza dei beni del debitore.”

“Ad integrare il requisito del pregiudizio (eventus damni) è sufficiente una variazione sia quantitativa che meramente qualitativa del patrimonio del debitore, e, pertanto, pure la mera trasformazione di un bene in altro meno agevolmente aggredibile in sede esecutiva, com’è tipico del denaro.”

“Nell’ipotesi di atto a titolo oneroso se esso è posteriore alla nascita del credito, l’art. 2901 c.c. richiede soltanto che il debitore ed il terzo fossero consapevoli (scientia damni) del fatto che attraverso l’atto il debitore diminuiva la garanzia spettante ai creditori, arrecando pregiudizio alle ragioni di questi ultimi.”

IL CASO. Con atto di citazione regolarmente notificato CAIO conveniva in giudizio TIZIO, SEMPRONIA, LIVIA e MEVIA per sentire dichiarare, in via principale l’inefficacia ex art. 2901 c.c. (domanda revocatoria) nei propri confronti di una serie di atti di disposizione (tra i quali atti di donazione e vendita) di beni immobili a favore di alcuni parenti, ed in via subordinata per sentire dichiarare la simulazione assoluta di tali atti.

Resistevano i convenuti disponenti, assumendo, tra l’altro, che i restanti beni di loro proprietà potevano rappresentare garanzia sufficiente a vantaggio del debito.

Il Tribunale di Reggio Emilia sulla scorta dei superiori enunciati principi, ha dichiarato l’inefficacia ex art. 2901 c.c. nei confronti di CAIO dei suddetti atti; ordinato la trascrizione ed ogni altra formalità conseguente al provvedimento e condannato, in solido tra loro, i convenuti a rifondere a CAIO le spese di lite.

Il testo della sentenza

REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE ORDINARIO DI REGGIO EMILIA PRIMA SEZIONE CIVILE

Il Tribunale civile e penale di Reggio Emilia, in persona del giudice Stefano Rago, ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa civile di I grado iscritta al n. 2634/2021 R.G. promossa

da

CAIO, rappresentato e difeso dall’avv. Giovanni Orlandi      come da procura in calce all’atto di citazione ed elettivamente domiciliato presso il suo studio in Correggio (RE), Corso Mazzini n. 15

-attore-

contro

TIZIO, SEMPRONIA, LIVIA, MEVIA,

tutti rappresentati e difesi dall’avv.……………. come da procura allegata alla comparsa di costituzione e risposta ed elettivamente domiciliati presso il suo studio in ……… (RE).

-convenuti-

OGGETTO: revocatoria ordinaria; azione di simulazione.

CONCLUSIONI

Per CAIO:

Piaccia All’Ill.mo Sig. Giudice unico, contrariis reiectis:

  1. A) In via principale per le causali di cui in narrativa, revocare ex art 2901 cc e dichiarare nulli e privi di efficacia,

nei confronti dell’attore, i seguenti atti pubblici:

  • atto di donazione con riserva di diritto di abitazione, compiuto da TIZIO e SEMPRONIA a favore della nipote MEVIA, in data 27/03/2019, rep. 805, a ministero Notaio X, di bene immobile sito in Comune di Correggio (RE);
  • atto di vendita dei diritti di nuda proprietà da parte di TIZIO e SEMPRONIA a favore della figlia LIVIA, in data 17/05/2019, rep. 841, a ministero Notaio X, di consistenza immobiliare sita in Comune di Correggio (RE);
  • atto di vendita dei diritti di nuda proprietà, da parte di TIZIO e SEMPRONIA a favore della nipote MEVIA, in data 17/05/2019, rep 840, a ministero Notaio X, di cespite immobiliare, sito nel Comune di Correggio (RE).
  • B) In via subordinata, per le causali di cui in narrativa, accertare la simulazione assoluta, e per l’effetto dichiarare nulli e/o inesistenti i seguenti atti pubblici:
  • atto di donazione con riserva di diritto di abitazione, compiuto da TIZIO e SEMPRONIA a favore della nipote MEVIA, in data 27/03/2019, rep. 805, a ministero Notaio X, di bene immobile sito in Comune di Correggio (RE).
  • atto di vendita dei diritti di nuda proprietà da parte di TIZIO e SEMPRONIA a favore della figlia LIVIA, in data 17/05/2019, rep. 841, a ministero Notaio X, di consistenza immobiliare sita nel Comune di Correggio (RE);
  • atto di vendita dei diritti di nuda proprietà, da parte di TIZIO e SEMPRONIA a favore della nipote MEVIA in data 17/05/2019, rep 840, a ministero Notaio X, di cespite immobiliare, sito nel Comune di Correggio (RE);
  • C) Ordinare al Conservatore dei Registri Immobiliari di Reggio Emilia di provvedere alla trascrizione della presente sentenza con esonero da sua responsabilità.

Con vittoria di spese e compensi professionali comprese le eventuali spese di CTU e CTP.

Per TIZIO, SEMPRONIA, LIVIA, MEVIA:

Ogni diversa istanza, eccezione e deduzione respinta, voglia l’Ill.mo Tribunale adito:

In via principale:

integralmente respingere perché infondate in fatto e in diritto le domande formulate da CAIO nei confronti di TIZIO, SEMPRONIA, LIVIA, MEVIA.
In via subordinata istruttoria:

ammettere la C.T.U. richiesta dalla difesa dei convenuti nella memoria depositata ai sensi dell’art.183 comma VI n.2 c.p.c.

In ogni caso:

Con vittoria di spese e compensi professionali del presente giudizio.

FATTI DI CAUSA

  1. Con atto di citazione regolarmente notificato CAIO conveniva in giudizio i genitori TIZIO e SEMPRONIA, nonché la sorella LIVIA e la nipote ex sorore MEVIA per sentire dichiarare, in via principale l’inefficacia ex art. 2901 c.c. nei propri confronti della donazione di beni immobili con riserva di diritto di abitazione effettuata dai nonni a favore della nipote MEVIA in data 27 marzo 2019, della vendita della nuda proprietà di beni immobili effettuata dai genitori a favore della figlia LIVIA in data 17 maggio 2019, ed altresì della vendita della nuda proprietà di beni immobili effettuata dai nonni a favore della nipote MEVIA in data 17 maggio 2019, ed in via subordinata per sentire dichiarare la simulazione assoluta di tali atti.
  2. Costituiti con un’unica comparsa depositata in data 29 settembre 2021, TIZIO, SEMPRONIA, LIVIA E MEVIA , nel contestare il dedotto avversario, chiedevano il rigetto delle domande attoree.
  3. Alla prima udienza del 28 ottobre 2021 venivano concessi i chiesti termini ex 183, comma 6, c.p.c.

Depositate le memorie, la causa, ritenuta matura per la decisione, veniva rinviata per la precisazione delle conclusioni.

All’udienza del 17 marzo 2022 sulle conclusioni precisate dalle parti come in epigrafe la causa veniva rimessa in decisione con assegnazione dei termini ex art. 190 c.p.c.

RAGIONI DELLA DECISIONE

  1. La controversia ha ad oggetto, in principalità, l’azione revocatoria e, in subordine, l’azione di simulazione assoluta di tre diversi atti (una donazione con riserva del diritto di abitazione e due vendite dei diritti di nuda proprietà) effettuati da TIZIO e SEMPRONIA a favore della figlia LIVIA e della nipote MEVIA.

Si tratta, in particolare, dei seguenti atti:

  • atto di donazione stipulato in data 27 marzo 2019 con il quale TIZIO e SEMPRONIA hanno donato a MEVIA, con riserva di diritto di abitazione, la nuda proprietà dell’immobile sito in Correggio (RE);
  • atto di compravendita stipulato in data 17 maggio 2019 con il quale TIZIO e SEMPRONIA hanno ceduto a LIVIA la nuda proprietà dell’immobile sito in Correggio (RE);
  • atto di compravendita stipulato in data 17 maggio 2019 con il quale TIZIO e SEMPRONIA hanno ceduto a MEVIA la nuda proprietà dell’immobile sito in Correggio (RE).

Preliminarmente, giova ricordare che l’azione di simulazione (assoluta o relativa) e quella revocatoria, pur diverse per contenuto e finalità, possono essere proposte entrambe nello stesso giudizio in forma alternativa tra loro o, anche, eventualmente in via subordinata l’una all’altra, senza che la possibilità di esercizio dell’una precluda la proposizione dell’altra.

L’unica differenza tra la formulazione delle due domande in via alternativa, piuttosto che in via subordinata una all’altra, risiede esclusivamente nella circostanza che, nel primo caso, è l’attore a rimettere al potere discrezionale del giudice la valutazione delle pretese fatte valere sotto una species iuris piuttosto che l’altra, mentre nella seconda ipotesi si richiede, espressamente, che il giudice prima valuti la possibilità di accogliere una domanda e, solo nell’eventualità in cui questa risulti infondata (o, comunque, da rigettare), esamini l’ulteriore richiesta (Cass. 21083/2016 e Cass. 17867/2007).

  • È fondata l’azione revocatoria.

Come noto, la domanda ex art. 2901 c.c. presuppone, per la sua legittima esperibilità, la sussistenza congiunta dei seguenti elementi:

  • l’esistenza di un valido rapporto di credito tra il creditore che agisce in revocatoria e il debitore disponente;
  • l’effettività del danno, inteso come lesione della garanzia patrimoniale a seguito del compimento da parte del debitore dell’atto dispositivo;
  • la ricorrenza in capo al debitore della consapevolezza che, con l’atto di disposizione, venga a diminuire la consistenza delle garanzie spettanti ai creditori (scientia damni), ovvero, laddove l’atto sia anteriore al sorgere del credito, la specifica intenzione di pregiudicare la garanzia del futuro credito (consi/ium fraudis);
  • nel caso in cui l’atto di disposizione sia a titolo oneroso, la ricorrenza di tale consapevolezza/dolosa preordinazione anche in capo al terzo acquirente.
  • Sussiste, anzitutto, il primo presupposto.

In via generale, si osserva che per l’accoglimento dell’azione revocatoria ordinaria è sufficiente l’esistenza di una legittima ragione o aspettativa di credito, non occorrendo necessariamente un credito certo, liquido ed esigibile accertato in sede giudiziale. Detta azione può essere pertanto esperita, unitamente alla sussistenza degli altri requisiti di legge, anche per tutelare crediti condizionali, non scaduti o soltanto eventuali, nonché per tutelare crediti che non siano liquidi, ossia determinabili nel loro ammontare né facilmente liquidabili (Cass. S.U. 9440/2004 e Cass. 1129/2012).

In particolare, anche il credito eventuale, in veste di credito litigioso, è idoneo a determinare – sia che si tratti di un credito di fonte contrattuale oggetto di contestazione giudiziale in separato giudizio, sia che si tratti di credito risarcitorio da fatto illecito – l’insorgere della qualità di creditore che abilita all’esperimento dell’azione revocatoria, ai sensi dell’art. 2901 c.c. avverso l’atto di disposizione compiuto dal debitore (Cass. 11573/2013).

Ciò in coerenza con la funzione propria dell’azione revocatoria, la quale non persegue scopi specificamente restitutori, bensì mira a conservare la garanzia generica sul patrimonio del debitore in favore di tutti i creditori (Cass. 24757/2008).

Nella specie, CAIO – premesso di aver pagato interamente il debito di € 55.000,00 oggetto della transazione conclusa con ALFA in data 5 dicembre 2017 a fronte del maggior credito vantato dal suddetto istituto bancario nei confronti suoi e dei genitori sulla base della sentenza n. 1892/2017 del Tribunale di Modena – ha dedotto di essere creditore di TIZIO e SEMPRONIA quali coobbligati e di avere agito in regresso nei loro confronti chiedendo ed ottenendo dal Tribunale di Reggio Emilia decreto ingiuntivo in data 26 luglio 2018 con il quale era stato ingiunto a ciascuno dei due predetti debitori di pagargli, a tale titolo, la somma di € 18.333,33, oltre interessi e spese della procedura.

Pertanto, ancorché il decreto ingiuntivo sia stato opposto dagli odierni convenuti e sia ancora pendente la causa di opposizione (iscritta al n. 4952/2018 R.G.), il credito vantato dall’attore, seppur litigioso, è idoneo a determinare l’insorgere, in capo a CAIO, della qualità di creditore abilitato all’esperimento dell’azione revocatoria ordinaria avverso gli atti dispositivi compiuti dai debitori, senza che il presente giudizio sia soggetto alla sospensione necessaria ex art. 295 c.p.c. sollecitata dai convenuti (Cass. 3369/2019 e Cass. 2673/2016).

Non possono, invece, considerarsi sussistenti, ai fini della proponibilità dell’azione revocatoria, gli altri crediti prospettati dall’attore, il quale ha riferito di essere debitore, unitamente ai genitori, nei confronti della società cessionaria dei crediti vantati da altre due banche per le somme di € 168.202,14 e di € 107.535,88 in forza di fideiussioni prestate a favore della società (la BETA s.r.l.) di cui sono soci, atteso che, non risultando essere giunta a conclusione l’asserita      transazione con la creditrice, non è    neppure dato comprendere, allo stato, il titolo che legittimerebbe la sua pretesa creditoria nei confronti dei condebitori solidali.

Dunque, l’attore ha agito in revocatoria nei confronti di TIZIO e SEMPRONIA a tutela    del proprio credito che, ancorché litigioso, ammonta ad € 18.333,33 a carico di ciascun debitore.

  • Sussiste, altresì, il requisito dell’eventus damni.

Avendo l’azione revocatoria ordinaria la funzione di ricostituzione della garanzia generica assicurata al creditore dal patrimonio del suo debitore, e non anche della garanzia specifica, ne consegue che deve ritenersi sussistente l’interesse del creditore, da valutarsi ex ante – e non con riguardo al momento dell’effettiva realizzazione -, a far dichiarare inefficace un atto che renda maggiormente difficile e incerta l’esazione del suo credito, sicché per l’integrazione del profilo oggettivo dell’eventus damni non è necessario che l’atto di disposizione del debitore abbia reso impossibile la soddisfazione del credito, determinando la perdita della garanzia patrimoniale del creditore, ma è sufficiente che abbia determinato o aggravato il pericolo dell’incapienza dei beni del debitore, e cioè il pericolo dell’insufficienza del patrimonio a garantire il credito del revocante ovvero la maggiore difficoltà od incertezza nell’esazione coattiva del credito medesimo (Cass. 5105/2006 e Cass. 12144/1999).

Ad integrare il pregiudizio alle ragioni del creditore (eventus damni) è a tale stregua sufficiente una variazione sia quantitativa che meramente qualitativa del patrimonio del debitore (Cass. 5972/2005, Cass. 20813/2004, Cass. 12144/1999), e pertanto pure la mera trasformazione di un bene in altro meno agevolmente aggredibile in sede esecutiva, com’è tipico del danaro (Cass. 966/2007), in tal caso determinandosi il pericolo di danno costituito dalla eventuale infruttuosità di una futura azione esecutiva (Cass. 15310/2007, Cass. 3470/2007, Cass. 7262/2000). Il riconoscimento dell’esistenza dell’eventus damni non presuppone, peraltro, una valutazione sul pregiudizio arrecato alle ragioni del creditore istante, ma richiede soltanto la dimostrazione da parte di quest’ultimo della pericolosità dell’atto impugnato, in termini di una possibile, quanto eventuale, infruttuosità della futura esecuzione sui beni del debitore (Cass. 5105/2006).

Tanto premesso, è evidente che con gli atti compiuti da TIZIO e SEMPRONIA sia stata resa più incerta o difficile la soddisfazione del credito, avendo gli odierni convenuti, coniugi debitori, ceduto (pacificamente) tutti gli immobili di loro proprietà (cfr. pagina 6 della comparsa costitutiva) con conseguente rilevante modifica qualitativa e quantitativa della loro garanzia patrimoniale (tra le molteplici pronunce in cui è stato ravvisato l’eventus damni nel caso di atto dispositivo dell’unico immobile di proprietà del debitore, cfr. Cass. 966/2007 e Cass. 5816/2008).

A fronte di tali atti di per sé idonei a compromettere la garanzia generica del  creditore, i convenuti, nel richiamare (quantomeno implicitamente)      un noto orientamento giurisprudenziale       ( Cass.

21808/2015,       Cass.     17096/2014,               Cass. 4467/2011,      Cass.

24757/2008,       Cass.      7767/2007,                Cass. 5972/2004,      Cass.

11471/2003), hanno eccepito, invero, che i negozi in contestazione non arrecherebbero alcun pregiudizio all’attore, deducendo, a riguardo, di essere soci della GAMMA s.n.c., non gravata da debiti ma, anzi, proprietaria di due vasti attigui capannoni industriali siti a Correggio (RE), aventi un valore solo catastale di € 666.918,00 e di € 517.986,00, nonché di un edificio residenziale non ancora accatastato costruito sul terreno di pertinenza di uno dei capannoni, tutti liberi da ipoteche e trascrizioni pregiudizievoli.

La tesi non è condivisibile.

Anzitutto, premesso che la quota di una società di persone (quale è la GAMMA s.n.c.), se non “liberamente” trasferibile in forza di disposizione dell’atto costitutivo (Cass. 15605/2002), è sottratta, finché dura la società, alle azioni esecutive dei creditori particolari dei soci (quale è CAIO), potendo costoro far valere i loro diritti         sulla  stessa solo quando, esaurita la liquidazione della società, sarà attribuita al socio la quota di liquidazione (art. 2305 c.c.), i convenuti, omettendo la produzione dello statuto della società o comunque della documentazione societaria idonea a verificare le condizioni di libera trasferibilità della loro partecipazioni, non hanno dimostrato l’espropriabilità delle loro quote e, dunque, la possibilità per l’attore di soddisfarsi su di esse (cfr. Cass.       3538/2019  e        Cass. 23743/2011, che hanno precisato come il momento storico in cui deve essere verificata la sussistenza dell’eventus damni, tale da determinare l’insufficienza dei beni del debitore ad offrire la necessaria garanzia patrimoniale, sia quello in cui viene compiuto l’atto di disposizione dedotto in giudizio ed in cui può apprezzarsi se il patrimonio residuo sia tale da soddisfare le ragioni del creditore, restando, invece, assolutamente irrilevanti, al fine anzidetto, le successive vicende patrimoniali del debitore, non collegate direttamente all’atto di disposizione).

In secondo luogo, anche a prescindere dalla superiore dirimente considerazione, poiché non è richiesta, a fondamento dell’azione revocatoria      ordinaria,    la       totale                     compromissione della consistenza patrimoniale del debitore ma soltanto il compimento di un atto che renda più incerta o difficile la soddisfazione del credito, l’eventus damni continua a sussistere, in quanto le cessioni in contestazione hanno comportato di  per sé  un obiettivo impoverimento del patrimonio dei debitori ed hanno reso in ogni caso più difficile a CAIO il recupero del credito.

Infatti, deve osservarsi – per un verso – che i convenuti, lungi dall’allegare il valore delle loro quote, si sono limitati a richiedere una C.T.U. volta a stimare tale valore, la quale, tuttavia, in assenza di produzione di qualsivoglia documentazione contabile, si palesa assolutamente esplorativa, e – per altro verso – che a seguito degli atti impugnati il patrimonio dei debitori è sicuramente assai meno capiente e più difficilmente aggredibile da parte dell’attore, al quale non resterebbe che fare unicamente affidamento su quote (peraltro minoritarie, pari al 10% ciascuno, essendo le restanti quote intestate a CAIO ed alla di lui figlia) di una società di persone dall’incerta e non attuale liquidazione e, dunque, non sufficienti a costituire una residualità patrimoniale di ampiezza tale da garantire il sicuro soddisfacimento delle ragioni creditorie, non essendo allo stato in alcun modo prevedibile né ipotizzabile se ai soci debitori potrebbe essere in futuro attribuita la quota di liquidazione in natura, mediante l’assegnazione di beni immobili, oppure in denaro, con conseguente maggiore difficoltà di soddisfacimento in sede esecutiva.

Dunque, deve ritenersi provato il concreto pericolo di danno derivante dalle cessioni de quibus.

1.1.3. In ordine allo stato soggettivo di coloro che hanno partecipato al negozio, l’atteggiamento soggettivo del debitore e del terzo (destinatario degli effetti dell’atto di disposizione) acquistano rilievo differente a seconda che si tratti di atto dispositivo anteriore o posteriore al sorgere del credito ed in ragione della onerosità o della gratuità dell’atto.

Come è noto, nell’ipotesi di atto a titolo oneroso:

  • se esso è posteriore alla nascita del credito, l’art. 2901 c.c. richiede soltanto che il debitore ed il terzo fossero consapevoli del fatto che attraverso l’atto il debitore diminuiva la garanzia spettante ai creditori, arrecando pregiudizio alle ragioni di questi ultimi (scientia damni); si prescinde dalla specifica conoscenza del credito per la cui tutela viene esperita l’azione revocatoria (Cass. 987/1989, Cass. 5741/2004, Cass. 10623/2010) e non assume rilevanza anche una collusione fra il debitore ed il terzo, né lo stato d’insolvenza dell’uno, né la conoscenza di tale stato da parte dell’altro (Cass. 1007/1990 e Cass. 11518/1995);
  • se esso è anteriore alla nascita di un credito, è necessaria sia la dolosa preordinazione del debitore (consi/ium fraudis) sia la partecipazione o la conoscenza del terzo in ordine all’intenzione fraudolenta del debitore (partecipatio o scientia fraudis), cioè la conoscenza da parte di questi della dolosa preordinazione dell’alienazione ad opera del disponente rispetto al credito futuro (Cass. 11577/2008); ad integrare l’animus nocendi richiesto dall’art. 2901, comma 1, n. 1, c.c., è tuttavia sufficiente il mero dolo generico, e cioè la mera previsione, da parte del debitore, del pregiudizio dei creditori, e non è, quindi, necessaria la ricorrenza del dolo specifico, e cioè la consapevole volontà del debitore di pregiudicare le ragioni del creditore (Cass. 24757/2008 e Cass. 21338/2010), e tale elemento psicologico può essere accertato anche mediante il ricorso a presunzioni (Cass. 24757/2008); la prova della participatio fraudis del terzo ex 2901, comma 1, n. 2, c.c., può essere ricavata anche da presunzioni semplici (Cass. 11577/2008 cit.), ivi compresa la sussistenza di un vincolo parentale tra il debitore ed il terzo, quando tale vincolo renda estremamente inverosimile che il terzo non fosse a conoscenza della situazione debitoria gravante sul disponente (Cass. 5359/2009).

Nel caso, invece, di atto a titolo gratuito:

  • se esso è posteriore al sorgere del credito, è sufficiente la consapevolezza, da parte del debitore (e non anche del terzo beneficiario), del pregiudizio che, mediante l’atto di disposizione, si sia arrecato alle ragioni del creditore (scientia damni), consapevolezza la cui prova può essere fornita anche mediante presunzioni (Cass. 17867/2007);
  • se esso è anteriore al sorgere del credito, è necessaria la dolosa preordinazione dell’atto da parte del debitore ai fini di pregiudicarne il soddisfacimento (consi/ium fraudis): non è al riguardo necessario il dolo specifico, e cioè la consapevole volontà del debitore (alla data di stipulazione) di pregiudicare le ragioni del creditore e di contrarre debiti ovvero la consapevolezza da parte sua del sorgere della futura obbligazione, e che l’atto dispositivo venga compiuto al fine di porsi in una situazione di totale o parziale impossidenza, in modo da precludere o rendere difficile al creditore l’attuazione coattiva del suo diritto; deve, al contrario ritenersi sufficiente il dolo generico, sostanziantesi nella mera previsione del pregiudizio dei creditori; ad integrare l’animus nocendi previsto dalla norma, ossia l’intenzione del debitore di ledere la garanzia patrimoniale generica del creditore, è da ritenersi sufficiente che il debitore compia l’atto dispositivo nella previsione dell’insorgenza del debito e del pregiudizio (da intendersi anche quale mero pericolo dell’insufficienza del patrimonio a garantire il credito del revocante ovvero la maggiore difficoltà od incertezza nell’esazione coattiva del credito medesimo) per il creditore (Cass. 24757/2008).

In via generale, l’acquisto della qualità di debitore nei confronti del creditore procedente risale al momento della nascita del credito, sicché a tale momento occorre far riferimento per stabilire se l’atto pregiudizievole sia anteriore o successivo al sorgere del credito (Cass. 22465/2006).

Nel caso di specie, è evidente la posteriorità di tutti gli atti impugnati rispetto alle notifiche (ricevute in data 6 settembre 2018: cfr. doc. 8 dell’attore) del decreto ingiuntivo portante i crediti fatti valere dall’odierno attore.

Dunque, pur essendo dirimente rilevare come i convenuti non abbiano minimamente contestato la sussistenza del requisito soggettivo (art. 115 c.p.c.), è sufficiente richiamare il chiaro contenuto delle dichiarazioni testimoniali rese da LIVIA e MEVIA nella succitata causa di opposizione a decreto ingiuntivo al fine di affermare la piena consapevolezza, in capo a tutti gli odierni convenuti, di pregiudicare gli interessi di CAIO (cfr. verbale d’udienza dell’11 novembre 2020 sub doc. 18 dell’attore).

Premesso, poi, che con riguardo alla donazione a favore di MEVIA in data 27 marzo 2019 è sufficiente la mera consapevolezza nei debitori di arrecare pregiudizio agli interessi del creditore, devesi osservare, in ogni caso, che TIZIO e SEMPRONIA non potevano non rendersi conto dell’oggettivo depauperamento del proprio patrimonio e delle conseguenti difficoltà di soddisfacimento delle ragioni di credito ingenerate non solo da tale donazione, posta in essere solo sei mesi dopo il ricevimento del suddetto provvedimento monitorio, ma anche dagli altri due successivi atti di vendita, con i quali è stato portato a compimento il proposito di sottrarre alle ragioni del creditore tutti i beni immobili (cfr. Cass. 7507/2007, secondo cui, in tal caso, l’esistenza e la consapevolezza del debitore del pregiudizio patrimoniale possono ritenersi in re ipsa).

Indubbia essendo la consapevolezza in capo ai disponenti, deve ritenersi che – a prescindere dalle risultanze delle surriferita prova testimoniale – analoga consapevolezza, in relazione alle due vendite in data 17 maggio 2019, avessero anche le acquirenti LIVIA e MEVIA, avuto riguardo:

  • allo stretto rapporto di parentela tra disponenti e beneficiari (LIVIA è figlia di TIZIO e SEMPRONIA, mentre MEVIA è nipote di questi ultimi nonché figlia di LIVIA) (Cass. 1286/2019);
  • alla sequenza temporale degli atti dispositivi, compiuti lo stesso giorno col ministero del medesimo notaio ed a distanza di meno di due mesi dalla donazione conclusa il giorno precedente la prima udienza fissata nella citazione in opposizione a decreto ingiuntivo;
  • alla contestuale vendita di una pluralità di beni che esauriscono il patrimonio immobiliare del debitore (cfr. Cass. 18034/2013, Cass. 7104/2005, Cass. 6248/1999, secondo cui, in tal caso, l’esistenza e la consapevolezza dei terzi acquirenti del pregiudizio patrimoniale sono in re ipsa);
  • alla natura immobiliare dei beni oggetto dei trasferimenti, in assenza di titolarità in capo ai debitori di altri beni immobili sui quali il creditore avrebbe potuto far valere le sue ragioni (Cass. 5359/2009);
  • alla contestuale previsione della riserva del diritto di usufrutto non solo sull’immobile, dove effettivamente i coniugi convenuti risultano risiedere (cfr. notifiche della citazione introduttiva di questo giudizio), ma anche su quello alienato alla figlia che ivi risulta residente, dopo essersi i medesimi disponenti già riservati il diritto di abitazione sull’immobile donato alla nipote che ivi risulta residente (Cass. 13477/2013);
  • all’anomalia della tipologia di vendita in favore di LIVIA, con una lunga dilazione di pagamento, senza interessi (in cinquantasette rate mensili posticipate dell’importo di € 2.000,00 ciascuna, scadenti l’ultimo giorno del mese a partire dal 30 maggio 2019 con scadenza dell’ultima al 28 febbraio 2024), di cui peraltro non è stata fornita alcuna prova, e con rinuncia, altresì, alla ipoteca legale (Cass. 21503/2011);
  • alla mancanza di un motivo oggettivo idoneo a rendere ragione della vendita in favore di MEVIA, che solo un mese e mezzo prima aveva ricevuto in donazione dai nonni l’immobile dove risulta effettivamente risiedere (Cass. 13447/2013).

Pertanto, non può dubitarsi della consapevolezza dei convenuti in ordine al pregiudizio che i predetti atti dispositivi avrebbero arrecato all’attore.

Ne consegue, in base alle argomentazioni sopra svolte, che, ritenuti sussistenti i presupposti oggettivi e soggettivi dell’azione revocatoria proposta ai sensi dell’art. 2901 c.c., va dichiarata come richiesta l’inefficacia nei confronti di CAIO di tutti gli atti in contestazione.

  • L’accoglimento della domanda revocatoria, proposta in via principale, rende superfluo l’esame della domanda subordinata di simulazione dei medesimi atti.
  1. Le spese seguono la soccombenza (art. 91 c.p.c.) e si liquidano in conformità ai parametri di cui al D.M. n. 55 del 2014 e successive modificazioni, secondo i parametri medi delle fasi di studio, introduttiva, istruttoria e decisoria in relazione alle controversie di valore compreso tra € 26.001,00 ed € 52.000,00 determinato in ragione dell’entità economica della ragione di credito alla cui tutela l’azione revocatoria è diretta (art. 5 D.M. cit.) (cfr. Cass. 19989/2021 e Cass. 89/2021, secondo cui la liquidazione delle spese processuali, se contenuta tra il minimo ed il massimo della tariffa, non richiede motivazione specifica).

Pertanto, i convenuti vanno condannati, in solido tra loro, a pagare all’attore la somma di € 7.254,00 per compenso e di € 1.230,35 per esborsi, come da nota spese depositata in allegato alla memoria di replica.

P.Q.M.

Il   Tribunale di Reggio Emilia, definitivamente pronunciando, disattesa ogni ulteriore istanza, eccezione e difesa, così giudica:

  1. dichiara l’inefficacia ex 2901 c.c. nei confronti di CAIO dei seguenti atti:
  • atto di donazione con riserva di diritto di abitazione, stipulato tra TIZIO e SEMPRONIA, da un lato, e MEVIA, dall’altro, a ministero Notaio X, in data 27 marzo 2019 (Rep. n. 805 e Racc. n. 557);
  • atto di vendita della nuda proprietà, stipulato tra TIZIO e SEMPRONIA, da un lato, e LIVIA, dall’altro, a ministero Notaio X, in data 17 maggio 2019 (Rep. n. 841 e Racc. n. 581);
  • atto di vendita della nuda proprietà, stipulato tra TIZIO e SEMPRONIA, da un lato, e MEVIA, dall’altro, a ministero Notaio X, in data 17 maggio 2019 (Repertorio n. 840 Raccolta n. 580);
  1. ordina la trascrizione ed ogni altra formalità conseguente al presente provvedimento;
  2. condanna TIZIO, SEMPRONIA, LIVIA E MEVIA, in solido tra loro, a rifondere a CAIO le spese di lite, che liquida in € 1.230,35 per esborsi ed € 7.254,00 per compenso, oltre rimborso spese forfettarie nella misura del 15%, CPA ed IVA (se dovuta) come per legge.

Così deciso in Reggio Emilia il 9 giugno 2022.

IL GIUDICE Stefano Rago

L’immobile “abusivo” entra a far parte del patrimonio ereditario?

 

Corte di Cassazione , sez. III, ud. 21 febbraio 2023 (dep. 17 aprile 2023), n. 16141

Con questo arresto gli ermellini hanno ribadito il principio, già affermato dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 25021/2009, che l’immobile abusivo oggetto di demolizione è parte dell’asse ereditario, si trasmette agli eredi e su di esso si forma la comunione ereditaria, salvo il caso della rinuncia.  Pertanto l’ordine di demolizione del manufatto abusivo, anche nell’ipotesi di acquisto dell’immobile per successione a causa di morte, conserva la sua efficacia nei confronti dell’erede del condannato, stante la preminenza dell’interesse paesaggistico e urbanistico.

Il caso.  Due coniugi in qualità di proprietari, furono condannati– per i reati ex artt. 20, lett. c), L. n. 47 del 1985, 1-sexies L. n. 431 del 1985, 734 c.p  –  per avere realizzato, in assenza di concessione edilizia e di ogni autorizzazione, in area sottoposta a vincolo ambientale, un immobile di un piano di 91 mq., 4 verande di varie dimensioni, una scala ed una recinzione.

Gli eredi dei proprietari, nell’ambito di un successivo procedimento  nei loro confronti, sorto a seguito del provvedimento della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Foggia, di esecuzione dell’ordine di demolizione contenuto nella sentenza del primo giudice, chiesero di essere estromessi sostenendo  di non avere acquistato l’immobile mortis causa in quanto sorto su terreni occupati abusivamente e quindi sconosciuto ai registri immobiliari. Trattandosi, a loro giudizio, di bene inesistente non avrebbero ereditato alcunchè e nemmeno avrebbero potuto rinunciare all’eredità. Avverso il provvedimento di rigetto i prefati hanno proposto ricorso in Cassazione.

Con  la decisione che si annota la Suprema Corte ha  affermato che i condannati (i genitori, per l’appunto, dei ricorrenti) dovevano essere considerati proprietari dell’immobile oggetto di causa, che non può pertanto essere considerato “fantasma”, bensì una cosa già oggetto di diritto di proprietà con le dimensioni ben descritte nell’imputazione della sentenza.

Testo integrale della sentenza

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ANDREAZZA   Gastone      –  Presidente   –

Dott. PAZIENZA    Vittorio     –  Consigliere  –

Dott. SEMERARO    Luca    –  rel. Consigliere  –

Dott. REYNAUD     Gianni F.    –  Consigliere  –

Dott. CORBO       Antonio      –  Consigliere  –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

B.G., nato a (Omissis);

B.M., nato a (Omissis);

avverso l’ordinanza del 10/10/2022 del TRIBUNALE di FOGGIA;

udita la relazione svolta dal Consigliere LUCA SEMERARO;

lette le conclusioni del PG RAFFAELE GARGIULO;

Il PG conclude per il rigetto del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

  1. Con l’ordinanza del 10 ottobre 2022 il Tribunale di Foggia ha rigettato l’istanza presentata da B.G. e B.M. di estromissione dal procedimento sorto a seguito del provvedimento della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Foggia del 7 giugno 2021 di esecuzione dell’ordine di demolizione contenuto nella sentenza della Pretura di Lucera del 23 maggio 1997, irrevocabile il 17 giugno 1997, di applicazione della pena nei confronti di B.M. e A.A., per i reati ex artt. 20, lett. c), L. n. 47 del 1985, 1-sexies L. n. 431 del 1985, 734 c.p., perché, in qualità di proprietari, realizzarono, in assenza di concessione edilizia e di ogni autorizzazione, in area sottoposta a vincolo ambientale, un immobile di un piano di 91 mq., 4 verande di varie dimensioni, una scala ed una recinzione.
  2. Avverso tale ordinanza ha proposto ricorso per cassazione il difensore di B.G. e B.M., eredi dei condannati, deducendo con l’unico motivo il vizio di motivazione.

Il Tribunale di Foggia avrebbe errato nel ritenere che i ricorrenti abbiano acquistato l’immobile mortis causa.

La zona su cui insiste l’immobile abusivo sarebbe stata interessata da occupazioni abusive del terreno, di proprietà di terzi, in seguito oggetto di più edificazioni. I soggetti occupanti sarebbero stati condannati per i reati edilizi commessi, con il relativo ordine di ripristino.

Per effetto dell’occupazione abusiva, l’unico diritto esercitato sugli immobili sarebbe il possesso: o perché mantenuto nel tempo o perché acquistato attraverso atti in forma di scrittura privata.

L’immobile de quo, come gli altri, sarebbe “sconosciuto ai pubblici registri immobiliari”; nel caso esaminato, la successione dei genitori non avrebbe avuto alcun bene da trasferire; non vi sarebbe stato un testamento che abbia disposto sull’immobile abusivo né i ricorrenti avrebbero ereditato o acquisito il possesso dell’immobile. Per l’assenza di beni, non avrebbero potuto neanche rinunciare all’eredità. Dunque, contrariamente a quanto sostenuto dall’ordinanza, non vi sarebbe stato alcun acquisto iure hereditatis dell’immobile abusivo, non avendo ereditato alcunché.

La giurisprudenza richiamata dall’ordinanza in tema di demolizione di opere abusive ereditate sarebbe inconferente, perché l’immobile sarebbe un “bene fantasma, non censito, non ereditabile”, non oggetto di possesso da parte dei ricorrenti. L’autorità avrebbe dovuto accertare l’effettivo proprietario del bene.

L’ordinanza avrebbe ritenuto irrilevante la questione relativa alla presenza di ulteriori eredi della sig.ra B.C. omettendo di considerare che nella fattispecie de qua sarebbe coinvolto un minore che, per il solo fatto di essere orfano della madre, sarebbe obbligato a partecipare alle spese di abbattimento di un immobile, pur non avendone il possesso.

CONSIDERATO IN DIRITTO

  1. Il ricorso infondato.

1.1. I ricorrenti deducono il vizio di motivazione rispetto ad una questione di diritto relativa al se l’immobile costruito in assenza di permesso di costruire (o di concessione edilizia) ed autorizzazione paesistica faccia parte dell’asse ereditario, ed è pertanto inammissibile ex art. 606, comma 3, c.p.p.; il vizio di motivazione denunciabile nel giudizio di legittimità è soltanto quello attinente alle questioni di fatto, non anche a quelle di diritto (Sez. U, n. 29541 del 16/07/2020, Filardo, Rv. 280027 – 01).

1.2. In ogni caso, è infondata la tesi in diritto proposta con il ricorso.

Risulta anche dall’istanza di incidente di esecuzione (p. 2) che i ricorrenti sono gli eredi di B.M. e A.A., che erano i loro genitori, e nei confronti dei quali fu emessa dal Pretore di Lucera il 23 maggio 1997, irrevocabile il 17 giugno 1997 la sentenza ex art. 444 c.p.p. contenente l’ordine di demolizione dell’immobile abusivo. E’, dunque, incontestata la qualità di eredi dei ricorrenti, come indicato nell’ordinanza impugnata.

1.3. I ricorrenti affermano erroneamente che l’immobile abusivo non possa rientrare nell’asse ereditario e che non si trasmetta iure hereditatis, in base alla argomentazione per cui l’immobile, essendo abusivo, sarebbe “sconosciuto” ai registri immobiliari ed inidoneo a far parte dell’asse ereditario.

1.4. Dalla sentenza definitiva risulta che i condannati erano i proprietari dell’immobile abusivo, che ha una sua chiara consistenza, secondo quanto emerge dal titolo esecutivo, come prima indicato. Dunque, non è un “immobile fantasma”, ma una cosa già oggetto di diritto di proprietà con le dimensioni ben descritte nell’imputazione della sentenza.

1.5. Come affermato dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite Civili (cfr. Sez. U Civili, n. 25021 del 16/04/2019, in motivazione), l’immobile abusivo oggetto di demolizione è parte dell’asse ereditario, si trasmette agli eredi e su di esso si forma la comunione ereditaria, salvo il caso della rinuncia, che nel caso in esame non risulta effettuata.

1.5.1. Secondo le Sezioni Unite Civili, la comunione ereditaria “… ha ad oggetto i beni che componevano il patrimonio del de cuius e si costituisce ipso iure tra gli eredi quando, a seguito dell’apertura di una successione mortis causa, vi siano una pluralità di chiamati all’eredità ed una pluralità di accettazioni (espresse o tacite). La comunione ereditaria e’, perciò, indipendente dalla volontà dei chiamati alla eredità (non è una comunione “volontaria”, mancando un atto negoziale diretto a costituirla) e va annoverata tra le comunioni “incidentali” (“communio incidens”), in quanto sorge per il verificarsi del mero “fatto giuridico” della pluralità di acquisti della medesima eredità…”.

1.5.2. Secondo la giurisprudenza, la nullità ex art. 46 D.P.R. n. 380 del 2001 e’, infatti, relativa ai soli atti tra vivi, restando esclusi gli acquisti di beni immobili abusivi mortis causa.

Tale norma prevede che “Gli atti tra vivi, sia in forma pubblica, sia in forma privata, aventi per oggetto trasferimento o costituzione o scioglimento della comunione di diritti reali, relativi ad edifici, o loro parti, la cui costruzione è iniziata dopo il 17 marzo 1985, sono nulli e non possono essere stipulati ove da essi non risultino, per dichiarazione dell’alienante, gli estremi del permesso di costruire o del permesso in sanatoria…”.

Cfr. Sez. U Civili, n. 8230 del 22/03/2019, Rv. 653283, che hanno affermato il principio per cui “la nullità comminata dall’art. 46 del D.P.R. n. 380 del 2001 e dagli artt. 17 e 40 della L n. 47 del 1985 va ricondotta nell’ambito del comma 3 dell’art. 1418 c.c., di cui costituisce una specifica declinazione, e deve qualificarsi come nullità “testuale”, con tale espressione dovendo intendersi, in stretta adesione al dato normativo, un’unica fattispecie di nullità che colpisce gli atti tra vivi ad effetti reali elencati nelle norme che la prevedono, volta a sanzionare la mancata inclusione in detti atti degli estremi del titolo abilitativo dell’immobile, titolo che, tuttavia, deve esistere realmente e deve esser riferibile, proprio, a quell’immobile”.

Nello stesso senso, la sentenza citata n. 25021 del 16/04/2019, per cui “restano fuori dal campo di applicazione dell’art. 40, comma 2, della L. n. 47 del 1985, così come – d’altra parte – dal campo di applicazione dell’art. 46, comma 1, del D.P.R. n. 380 del 2001 (e prima dell’art. 17, comma 1, della L. n. 47 del 1985), gli atti mortis causa e, tra quelli inter vivos, gli atti privi di efficacia traslativa reale (ossia quelli ad effetti meramente obbligatori), gli atti costitutivi, modificativi o estintivi di diritti reali di garanzia o di servitù (espressamente esclusi dalle richiamate disposizioni) e – come si vedrà nel prosieguo – gli atti derivanti da procedure esecutive immobiliari individuali o concorsuali (artt. 46, comma 5, del D.P.R. n. 380 del 2001 e 40, commi 5 e 6, della L. n. 47 del 1985)”.

1.6. L’ordinanza impugnata, che ha confermato l’ingiunzione a demolire nei confronti degli eredi dei soggetti condannati per i reati edilizi, ha correttamente ritenuto che l’immobile sia parte del patrimonio ereditario di cui sono titolari i ricorrenti.

1.7. Secondo il costante orientamento giurisprudenziale, l’ordine di demolizione delle opere abusive emesso dal giudice penale ha carattere reale ed ha natura di sanzione amministrativa a contenuto ripristinatorio e deve, pertanto, essere eseguito nei confronti di tutti i soggetti che sono in rapporto col bene e vantano su di esso un diritto reale o personale di godimento, anche se si tratti di soggetti estranei alla commissione del reato (Sez. 3, n. 47281 del 21/10/2009, Arrigoni, Rv. 245403; Sez. 3, n. 37120 del 11/05/2005, Morelli, Rv. 232175).

1.8. Pertanto, l’ordine di demolizione del manufatto abusivo, anche nell’ipotesi di acquisto dell’immobile per successione a causa di morte, conserva la sua efficacia nei confronti dell’erede del condannato, stante la preminenza dell’interesse paesaggistico e urbanistico, alla cui tutela è preordinato il provvedimento amministrativo emesso dal giudice penale, rispetto a quello privatistico, alla conservazione del manufatto, dell’avente causa del condannato.

1.9. Generico ed irrilevante appare il riferimento ad eventuali eredi minori della sig.ra B.C., terza figlia di B.M. e A.A., deceduta il giorno (Omissis), prima che la sentenza di condanna diventasse irrevocabile. Come correttamente rilevato dall’ordinanza, l’eventuale notifica dell’ingiunzione di demolizione agli eredi di B.C. non incide in alcun modo sulla decisione nei confronti dei ricorrenti.

  1. Pertanto, i ricorsi devono essere rigettati. Ai sensi dell’art. 616 c.p.p. si condannano i ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento.

 

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 21 febbraio 2023.

Depositato in Cancelleria il 17 aprile 2023