Categoria: Successioni e donazioni

Polizze vita a favore degli eredi legittimi. Come individuare i beneficiari

La Corte di Cassazione,  in tema di assicurazione sulla vita in favore di un terzo, è stata ripetutamente  investita della questione concernente l’individuazione dei beneficiari. Tuttavia, si sono manifestate divergenze di opinioni al punto da generare un vero e proprio contrasto.  Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, pertanto, sono state chiamate a comporre il  conflitto ( con l’ordinanza n. 33195 del 16 dicembre 2019).

Un primo orientamento, più risalente ma   prevalente, tendeva a considerare  che il diritto del beneficiario alla prestazione trova fondamento nel contratto, ed è autonomo, e quindi non derivato da quello del contraente. Anche recentemente una Sezione della Corte  è tornata a riaffermare questa opinione.

Secondo l’opposto orientamento, ove la polizza prevedesse la corresponsione dell’indennizzo agli eredi testamentari o legittimi, alla morte dello stipulante, bisognava intendere che le parti (del contratto assicurativo) avessero: a) voluto individuare i beneficiari dei diritti nascenti dal negozio; b) determinare l’attribuzione dell’indennizzo in misura proporzionale alla quota in cui ciascuno è succeduto. Sempre secondo tale orientamento, in assenza di specificazioni, lo scopo perseguito dallo stipulante va interpretato come se avesse inteso assegnare il beneficio nella stessa misura regolata dalla successione, conformemente alla natura del contratto.

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione chiamate a comporre il contrasto sorto tra le varie Sezioni, con la recentissima sentenza n. 11421 del 30 Aprile 2021 che è possibile leggere in versione integrale al seguente link:

https://www.cortedicassazione.it/cassazione-resources/resources/cms/documents/11421_05_2021_no-index.pdf

hanno affermato i seguenti principi di diritto:

“ La designazione generica degli <<eredi>> come beneficiari di un contratto di assicurazione sulla vita, in una delle forme previste dal secondo comma dell’art. 1920 c.c., comporta l’acquisto di un diritto proprio ai vantaggi dell’assicurazione da parte di coloro che, al momento della morte del contraente, rivestano tale qualità in forza del titolo della astratta delazione indicata all’assicuratore per individuare i creditori della prestazione.

– La designazione generica degli <eredi> come beneficiari di un contratto di assicurazione sulla vita, in difetto di una inequivoca volontà del contraente in senso diverso, non comporta la ripartizione dell’indennizzo tra gli aventi diritto secondo le proporzioni della successione ereditaria, spettando a ciascuno dei creditori, in forza della eadem causa obligandi, una quota uguale dell’indennizzo assicurativo.

– Allorché uno dei beneficiari di un contratto di assicurazione sulla vita premuore al contraente, la prestazione, se il beneficio non sia stato revocato o il contraente non abbia disposto diversamente, deve essere eseguita a favore degli eredi del premorto in proporzione della quota che sarebbe spettata a quest’ultimo”.

La tutela dei diritti dei legittimari lesi nel loro diritto a partecipare alla successione ereditaria

L’azione di riduzione è lo specifico mezzo di tutela dei legittimari ovvero di coloro che debbono in ogni caso, perché la legge riserva loro questo diritto, partecipare alla successione del defunto. Con questa azione il legittimario potrà ottenere la declaratoria di inefficacia delle disposizioni testamentarie e/o delle donazioni che hanno leso la sua quota di legittima. L’azione di riduzione, invero, si compone di tre diverse azioni, strettamente collegate tra loro, e per l’esattezza: a) l’azione di riduzione in senso stretto con la quale si accerta la sussistenza o meno della lesione e la sua entità al fine di fare dichiarare l’inefficacia, in tutto in parte, delle disposizioni  lesive; b) c)  mentre con le altre due azioni, più propriamente dette di restituzione logicamente e cronologicamente successive alla prima, si persegue la finalità di recuperare quanto fuoriuscito dal patrimonio del defunto, in seguito alla declaratoria di inefficacia delle disposizioni lesive conseguente all’esperimento  vittorioso dell’azione di riduzione.

Corte di Cassazione, Sez. 2 – , Sentenza n. 30079 del 19/11/2019 (Rv. 656200 – 01)

La sentenza della Corte di Cassazione qui commentata, offre l’opportunità di fare chiarezza su alcune problematiche inerenti l’azione di riduzione che come sopra è stato illustrato costituisce lo strumento del quale può avvalersi l’erede escluso ( il legittimario pretermesso) in tutto o in parte, per la tutela dei propri diritti.

Il caso

Nella fattispecie una donna aveva ceduto le quote di una società (99%) a due figli. All’apertura della sua successione i restanti figli (pretermessi) avevano  accertato l’assenza di beni relitti. Avevano quindi esperito l’azione di simulazione (dell’atto di cessione delle quote) – per l’accertamento della nullità del negozio dissimulato – preordinata all’azione di riduzione

I principi affermati dalla pronuncia

Il legittimario pretermesso non è chiamato alla successione per il solo fatto della morte del de cuius, potendo acquistare i suoi diritti solo dopo l’esperimento delle azioni di riduzione o di annullamento del testamento. Ne consegue che la condizione della preventiva accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario, stabilita dell’art. 564 c.c., comma 1, per l’esercizio dell’azione di riduzione, vale soltanto per il legittimario che abbia in pari tempo la qualità di erede, e non anche per il legittimario totalmente pretermesso dal testatore .

Chiariscono gli ermellini, altresì, che una totale pretermissione del legittimario può aversi tanto nella successione testamentaria, quanto nella successione ab intestato e, precisamente: a) nella successione testamentaria, se il testatore ha disposto a titolo universale dell’intero asse a favore di altri, in base alla considerazione che, a norma dell’art. 457 c.c., comma 2, questi non è chiamato all’eredità fino a quando l’istituzione testamentaria di erede non venga ridotta nei suoi confronti; b) nella successione ab intestato (in assenza di testamento), qualora il de cuius si sia spogliato in vita dell’intero suo patrimonio con atti di donazione, sul rilievo che, per l’assenza di beni relitti, il legittimario viene a trovarsi nella necessità di esperire l’azione di riduzione a tutela della situazione di diritto sostanziale che la legge gli riconosce.

Da qui, l’ulteriore conseguenza che il legittimario totalmente pretermesso che impugna per simulazione un atto compiuto dal de cuius a tutela del proprio diritto alla reintegrazione della quota di legittima, agisce, sia nella successione testamentaria, che nella successione ab intestato, in qualità di terzo e non in veste di erede, la cui qualità acquista solo in conseguenza del positivo esercizio dell’azione di riduzione, e non è, come tale, tenuto alla preventiva accettazione dell’eredità con beneficio di inventario.  Viceversa, se si tratta di azione di simulazione relativa proposta da chi già è erede in ordine ad un atto di disposizione patrimoniale del de cuius stipulato con un terzo, che si assume lesivo della quota di legittima ed abbia tutti i requisiti di validità del negozio dissimulato (come una donazione in favore di un altro erede), l’ammissibilità dell’azione, proposta esclusivamente in funzione dell’azione di riduzione prevista dall’art. 564 c.c., è condizionata dalla preventiva accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario: tale condizione non ricorre, infatti, soltanto quando l’erede agisca per far valere una simulazione assoluta od anche relativa, ma finalizzata a far accertare la nullità del negozio dissimulato, in quanto, in tale ipotesi, l’accertamento della realtà effettiva consente al legittimario di recuperare alla massa ereditaria i beni donati, mai usciti dal patrimonio del defunto.


Testo integrale della sentenza

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –

Dott. SABATO Raffaele – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato il 27 luglio 2009 Z.B. evocava, dinanzi al Tribunale di Milano, Z.G., Z.A., Z.M.G., Z.L.A., Z.P.E. e Z.G.M. svolgendo domanda di accertamento della simulazione dei contratti di cessione di quote della società Algia Immobiliare a r.l. stipulati in data (OMISSIS) e (OMISSIS) da G.M. in favore dei figli Z.G. ed A. e per l’effetto dichiarare la nullità delle dissimulate donazioni, con conseguente dichiarazione che la quota del 99% della Algia Immobiliare era di proprietà della de cuius G.M. al momento del decesso, per cui la stessa andava calcolata e divisa tra gli eredi per quote; in via subordinata, chiedeva accertarsi la natura di contratti misti con donazione delle suddette cessioni e per l’effetto, ritenuta prevalente quella liberale, dichiarare la nullità delle donazioni per difetto di forma; in via ulteriormente subordinata, chiedeva pronunciarsi declaratoria di inefficacia delle cessioni per violazione dell’art. 2479 c.c., all’epoca vigente.

Instaurato il contraddittorio, nella resistenza dei convenuti Z.G. ed A., che eccepivano la carenza di legittimazione e di interesse ad agire dell’attore, nonchè la insussistenza della dedotta simulazione ovvero la prescrizione, nonchè l’acquisto per usucapione dei diritti, con conseguente infondatezza delle domande, mentre aderiva alla domanda attorea Z.M.G., ed in seguito anche la germana Z.L.A., veniva disposta l’integrazione del contraddittorio nei confronti della Algia Immobiliare s.r.l.. L’incombente veniva assolto dall’attore ed il Tribunale adito, rimasta contumace la società chiamata in giudizio e dichiarata l’inammissibilità delle domande riconvenzionali proposte da Z.L.A. per intervenuta decadenza ex artt. 166 e 167 c.p.c., accertava la carenza di legittimazione attiva di Z.B. e M.G. rispetto alle domande di simulazione, di nullità e di accertamento della riferibilità del 99% delle quote della chiamata alla de cuius, nonchè di divisione, giacchè trattandosi di soggetti totalmente pretermessi dall’eredità di G.M., nessuna domanda di reintegrazione della legittima ovvero di accertamento della qualità di erede pretermesso o di riduzione della donazioni era stata dagli stessi proposta.

In virtù di rituale appello interposto, con separati atti di citazione, da Z.B., da una parte, e dalle germane, dall’altra, poi riuniti nel corso del giudizio, con il quale lamentavano che il giudice di prime cure avesse dichiarato inammissibili le domande sull’erroneo presupposto del difetto di interesse ad agire, la Corte di appello di Milano, nella resistenza degli appellati Z.G. ed A., rimaste contumaci Z.P.E. e G.M., nonchè l’Algia Immobiliare s.r.l., accoglieva parzialmente gli appelli proposti da Z.M.G. e B., mentre dichiarava inammissibile quello di L.A. (per tardività della riconvenzionale) e le restanti domande, e in parziale riforma della decisione impugnata dichiarava che gli atti di cessione di 19.800 quote ciascuno della Algia Immobiliare, pari al complessivo valore del 99% del capitale sociale, da parte di G.M. in favore di Z.G. ed A. costituivano vendite simulate, dissimulando donazioni nulle per vizio di forma e per l’effetto le indicate quote sociali appartenevano al compendio immobiliare di G.M. vedova Z., deceduta l'(OMISSIS), dal quale erano da considerare come mai fuoriuscite; dichiarava interamente compensate fra le parti costituite le spese di entrambi i gradi di giudizio.

A sostegno della adottata sentenza la Corte distrettuale evidenziava, in via preliminare, il difetto di legittimazione attiva delle parti appellanti quanto alla divisione del compendio ereditario, spettante solo a chi già riveste la posizione di coerede; nel merito, accoglieva i motivi di gravame relativi all’accertamento della simulazione, in quanto preferito l’orientamento giurisprudenziale che non prevedeva come necessario l’esercizio contestuale dell’azione di riduzione, per avere il legittimario pretermesso già un proprio attuale interesse a far accertare l’effettiva consistenza e composizione del patrimonio ereditario nonchè del donatum.

Aggiungeva che il carattere simulato delle alienazioni emergeva dal fatto che gli apparenti acquirenti non avevano minimamente allegato elementi di prova idonei a comprovare l’avvenuto pagamento, limitandosi a riferire di avere versato per contanti le rendite, non sufficienti al riguardo le dichiarazioni dell’alienante di essere stato pagato, ancorchè rese in un atto pubblico, provenendo da una delle parti dell’accordo simulatorio. Concludeva che la fattispecie integrava una ipotesi di compravendita dissimulante un’effettiva donazione, che però era nulla per difetto di forma.

Infine quanto alla pretesa usucapione delle quote sociali dedotta dagli appellanti, veniva rilevato che solo dai verbali di assemblea successivi al 1989 si faceva chiaro riferimento all’esistenza di tre soci; aggiungeva che comunque Z.A. e G. avevano preso parte all’accordo simulatorio inerente alla cessione delle predette quote per cui non poteva ritenersi il loro possesso acquisito in buona fede ex art. 1611 c.c..

Avverso l’indicata sentenza della Corte di Appello di Milano hanno proposto ricorso per cassazione Z.G. ed A., che risulta articolato su sette motivi, al quale hanno resistito Z.B., da una parte, e Z.L.A. e M.G., dall’altra, con due separati controricorso.

In prossimità della pubblica udienza le parti controricorrenti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

Va pregiudizialmente rilevato il mancato perfezionamento della notificazione del ricorso alla ALGIA Immobiliare s.r.l., in ordine alla quale carenza il Collegio ritiene di non dover assumere alcun provvedimento ai sensi degli artt. 291 e 331 c.p.c.. Infatti pur trattandosi di una parte rimasta contumace per l’intero giudizio (sia in primo sia in secondo grado), per cui i fatti allegati da parte attrice non possono ritenersi non contestati ovvero escludere che l’attore debba fornire la prova di tutti i fatti costituitivi del diritto dedotto in giudizio, tuttavia sulla base della medesima prospettazione delle parti costituite nel giudizio non viene allegato che la società sia titolare della posizione passiva relativa al diritto di cui parte attrice ha chiesto l’affermazione (cfr. Cass., Sez. Un., 16 febbraio 2016 n. 2951).

In altri termini, l’azione di simulazione è esercitata nei confronti degli eredi della de cuius, Z.A. e G., per far valere la natura di donazione degli atti di cessione della Algia Immobiliare, ragione per la quale le quote della società costituiscono l’oggetto del diritto fatto valere, ma la cui titolarità passiva grava esclusivamente sui germani Z. convenuti.

Del resto è consolidata ed univoca la giurisprudenza per cui la carenza di legittimazione, attiva o passiva che sia, può essere eccepita in ogni grado e stato del giudizio e può essere rilevata dal giudice d’ufficio (da ultimo, Cass. 4 dicembre 2018 n. 31313).

Passando al merito del ricorso, con il primo motivo i ricorrenti lamentano la violazione e la falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., per avere il giudice distrettuale disposto la compensazione delle spese di lite anche rispetto alla posizione di Z.M.G. totalmente soccombente in entrambi i gradi di giudizio.

Il motivo è privo di fondamento.

Lo stesso si rivolge nei confronti della decisione della Corte di appello di compensare integralmente – per entrambi i gradi – le spese di lite pur non ricorrendo l’ipotesi della reciproca soccombenza, che insieme all’assoluta novità della questione trattata o del mutamento della giurisprudenza, ai sensi dell’art. 92 c.p.c., così come modificato dal D.L. 12 settembre 2014, n. 132, convertito dalla L. 10 novembre 2014, n. 162 (applicabile ai procedimenti introdotti a decorrere dall’11 dicembre 2014), avrebbe potuto legittimare un simile provvedimento. Prima ancora di verificare se le ragioni ravvisate dalla Corte di appello di Milano siano ascrivibili ad una delle ipotesi tipiche previste dalla norma testè citata, occorre rilevare che, con sentenza del 19 aprile 2018, n. 77, la Corte costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 92 c.p.c., comma 2, nella parte in cui non consente, nelle ipotesi di soccombenza totale, di compensare parzialmente o per intero le spese di lite anche ove ricorrano gravi ed eccezionali ragioni, diverse da quelle tipizzate dal legislatore.

Gli effetti della pronuncia di illegittimità costituzionale retroagiscono fino al momento dell’introduzione nell’ordinamento della norma dichiarata illegittima. Pertanto, l’apprezzamento della sussistenza del vizio denunciato con il ricorso dev’essere fatto con riferimento alla situazione normativa determinata dalla pronuncia di incostituzionalità.

Questa Corte – a seguito della pronuncia del giudice delle leggi – ha affermato il principio di diritto secondo cui: “Poichè gli effetti della dichiarazione di incostituzionalità retroagiscono alla data di introduzione nell’ordinamento del testo di legge dichiarato costituzionalmente illegittimo, nel caso in cui con un ricorso per cassazione sia denunciata ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 – la violazione dell’art. 92 c.p.c., comma 2 (nel testo modificato dal D.L. 12 settembre 2014, n. 132, art. 13, comma 1, convertito, con modificazioni, nella L. 10 novembre 2014, n. 162), che la Corte costituzionale, con sentenza 19 aprile 2018, n. 77, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede che il giudice possa compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni, la valutazione della fondatezza o meno del ricorso deve farsi con riferimento alla situazione normativa determinata dalla pronuncia di incostituzionalità, essendo irrilevante che la decisione impugnata o addirittura la stessa proposizione del ricorso siano anteriori alla pronuncia del Giudice delle leggi” (Cass. 14 febbraio 2019 n. 4360).

In applicazione di tale principio, deve rilevarsi, pertanto, che le ragioni poste a fondamento della decisione impugnata rispondono certamente alle caratteristiche di gravità ed eccezionalità che, a seguito della sentenza della Corte costituzionale, giustificano la compensazione delle spese processuali.

Del resto, quanto partitamente a Z.M.G., per tutta la durata del giudizio la convenuta non è mai stata destinataria di una domanda nei suoi confronti, ed anzi la stessa ha aderito alla domanda attorea svolta nei confronti dei soli ricorrenti, per cui non può nella specie neanche invocarsi il principio della soccombenza.

Con il secondo motivo è denunciata la violazione o la falsa applicazione dell’art. 81 c.p.c., artt. 1414 e 1415 c.c., nonchè dell’art. 554 c.c., per avere la corte territoriale ritenuto legittimati ad agire Z.B. e M.G. senza che gli stessi avessero mai esercitato azione di riduzione. Ad avviso dei ricorrenti, infatti, la mancanza di legittimazione ad agire per la reintegrazione della massa ereditaria discenderebbe proprio dal mancato esercizio nel presente giudizio di un’azione di riduzione.

Con il terzo mezzo i ricorrenti nel denunciale la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1414,1415,1417,2697 e 2729 c.c., insistono nel sostenere che in caso di mancato contestuale esercizio dell’azione di simulazione e dell’azione di riduzione, il legittimario pretermesso non potrebbe beneficiare del regime probatorio che l’art. 1417 c.c., riservato ai terzi e ai creditori, con la conseguenza che non potrebbe provare l’esistenza del negozio dissimulato nè a mezzo di testimoni, nè a mezzo di presunzioni e neanche si potrebbe avvantaggiare dell’inversione dell’onere della prova circa l’effettivo pagamento del prezzo del corrispettivo pattuito nel negozio dissimulato. I due motivi di ricorso, che possono essere esaminati congiuntamente in quanto parzialmente sovrapponibili, oltre che argomentativamente conseguenziali, sono infondati.

Come questa Corte ha già avuto modo di precisare, il legittimario pretermesso non è chiamato alla successione per il solo fatto della morte del de cuius, potendo acquistare i suoi diritti solo dopo l’esperimento delle azioni di riduzione o di annullamento del testamento. Ne consegue che la condizione della preventiva accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario, stabilita dell’art. 564 c.c., comma 1, per l’esercizio dell’azione di riduzione, vale soltanto per il legittimario che abbia in pari tempo la qualità di erede, e non anche per il legittimario totalmente pretermesso dal testatore (Cass. n. 28632 del 2011). Ora, una totale pretermissione del legittimario può aversi tanto nella successione testamentaria, quanto nella successione ab intestato e, precisamente: a) nella successione testamentaria, se il testatore ha disposto a titolo universale dell’intero asse a favore di altri, in base alla considerazione che, a norma dell’art. 457 c.c., comma 2, questi non è chiamato all’eredità fino a quando l’istituzione testamentaria di erede non venga ridotta nei suoi confronti; b) nella successione ab intestato, qualora il de cuius si sia spogliato in vita dell’intero suo patrimonio con atti di donazione, sul rilievo che, per l’assenza di beni relitti, il legittimario viene a trovarsi nella necessità di esperire l’azione di riduzione a tutela della situazione di diritto sostanziale che la legge gli riconosce (Cass. n. 19527 del 2005; Cass. n. 13804 del 2006; Cass. n. 28632 del 2011; Cass. n. 16635 del 2013).

Di qui, l’ulteriore conseguenza che il legittimario totalmente pretermesso che impugna per simulazione un atto compiuto dal de cuius a tutela del proprio diritto alla reintegrazione della quota di legittima, agisce, sia nella successione testamentaria, che nella successione ab intestato, in qualità di terzo e non in veste di erede, la cui qualità acquista solo in conseguenza del positivo esercizio dell’azione di riduzione, e non è, come tale, tenuto alla preventiva accettazione dell’eredità con beneficio di inventario (Cass. n. 16635 del 2013; in senso conf., Cass. n. 12496 del 2007). Viceversa, se si tratta di azione di simulazione relativa proposta da chi già è erede in ordine ad un atto di disposizione patrimoniale del de cuius stipulato con un terzo, che si assume lesivo della quota di legittima ed abbia tutti i requisiti di validità del negozio dissimulato (come una donazione in favore di un altro erede), l’ammissibilità dell’azione, proposta esclusivamente in funzione dell’azione di riduzione prevista dall’art. 564 c.c., è condizionata dalla preventiva accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario (Cass. n. 15546 del 2017, in motiv.: “l’azione di simulazione relativa proposta dall’erede in ordine ad un atto di disposizione patrimoniale del “de cuius” stipulato con un terzo, che si assume lesivo della quota di legittima ed abbia tutti i requisiti di validità del negozio dissimulato (nella specie una donazione in favore di un altro erede), deve ritenersi proposta esclusivamente in funzione dell’azione di riduzione prevista dall’art. 564 c.c., con la conseguenza che l’ammissibilità dell’azione è condizionata dalla preventiva accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario”): tale condizione non ricorre, infatti, soltanto quando l’erede agisca per far valere una simulazione assoluta od anche relativa, ma finalizzata a far accertare la nullità del negozio dissimulato, in quanto, in tale ipotesi, l’accertamento della realtà effettiva consente al legittimario di recuperare alla massa ereditaria i beni donati, mai usciti dal patrimonio del defunto (Cass. n. 15546 del 2017: “l’esigenza del rispetto di tale condizione non ricorre quando l’erede agisca per far valere una simulazione assoluta od anche relativa, ma finalizzata a far accertare la nullità del negozio dissimulato, in quanto, in tale ipotesi, l’accertamento della realtà effettiva dell’atto consente al legittimario di recuperare alla massa ereditaria i beni donati, in realtà mai usciti dal patrimonio del defunto”; conf., Cass. n. 4400 del 2011).

Nel caso di specie, come in precedenza esposto, i giudici del merito hanno accertato che la de cuius, con gli atti dispositivi del suo patrimonio, aveva, in realtà, esaurito l’intero asse ereditario, in assenza di altri beni relitti.

Con la conseguenza che la corte di merito ha fatto buon governo dei principi sopra illustrati, non avendo i ricorrenti contestato con le critiche mosse che si versi in ipotesi di legittimari totalmente pretermessi dalla successione della de cuius, ragione per la quale va escluso che l’attore avrebbe dovuto accettarne l’eredità con beneficio di inventario ai fini dell’esperimento dell’azione di simulazione dei contratti di cessione di quote della società Algia Immobiliare s.r.l., stipulati il (OMISSIS) ed il (OMISSIS), in quanto preordinati esclusivamente al successivo eventuale esercizio dell’azione di riduzione delle donazioni che tale atti, in ipotesi, dissimulano.

Per completezza va osservato, altresì, che nella sentenza (pagg. 14 e 15 della decisione impugnata) viene dato atto che Z.M.G. ha precisato che era pendente dinanzi al Tribunale di Milano altro giudizio in cui lei e Z.B. avevano impugnato con azione di riduzione il testamento olografo di G.M. vedova Z. del (OMISSIS) pubblicato l’1.10.1999, che li aveva totalmente pretermessi, nominando quali unici eredi Z.A. e G., causa che era stata sospesa in attesa di definizione del presente giudizio.

Con il quarto mezzo i ricorrenti lamentano – in via di subordine l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, in particolare l’avere la corte territoriale ritenuto non provato l’effettivo pagamento del prezzo pattuito per la cessione delle quote della Algia s.r.l. omettendo completamente di esaminare un’ulteriore e significativa richiesta istruttoria, reiterata in appello, circa l’effettivo pagamento della rendita vitalizia. Di tutto ciò non vi è alcuna menzione nella sentenza impugnata, che oltre a non riportare la corposa prova per testi, non riporta neanche il dedotto interrogatorio formale.

Anche il quarto motivo è privo di fondamento.

Occorre muovere dal rilievo che – come questa Corte ha affermato a più riprese (ex multis, Cass. n. 13375 del 2009) – il giudice del merito non è tenuto ad ammettere i mezzi di prova dedotti dalle parti ove ritenga sufficientemente istruito il processo e ben può, nell’esercizio dei suoi poteri discrezionali insindacabili in cassazione, non ammettere la dedotta prova testimoniale quando, alla stregua di tutte le altre risultanze di causa, valuti la stessa come inconducente. Trattasi di valutazione demandata al potere discrezionale del giudice di merito con apprezzamento che, se congruamente motivato, si sottrae al sindacato di legittimità.

A detta regola fa da pendant il principio – anch’esso ripetutamente affermato da questa Corte (cfr., ex pluribus, Cass. n. 828 del 2007; Cass. n. 2272 del 2007; Cass. n. 16499 del 2009) – per cui spetta al giudice di merito, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, fra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei falli ad esse sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova. In questo potere discrezionale rientra anche la facoltà di escludere la rilevanza di una prova mediante un giudizio che può essere anche implicito, cioè risultante dal tenore della motivazione, non essendo il giudice obbligato ad esplicitare per ogni mezzo istruttorie le ragioni per cui egli lo ritenga irrilevante, ovvero, più in generale, ad enunciare specificamente che la controversia può essere decisa senza l’assunzione dei mezzi di prova richiesti dalle parti oppure in base a quelli già assunti e senza necessità di ulteriori acquisizioni (cfr. Cass. n. 2404 del 2000; Cass. n. 9942 del 1998).

Nella specie la corte territoriale, nel ritenere non assolto l’onere della prova dai convenuti/appellati, per il c.d. principio di prossimità della prova, ha in via preliminare focalizzato la propria attenzione sulla circostanza che non potessero essere sufficienti le dichiarazioni dell’alienante di essere stato pagato, quand’anche contenute in un atto pubblico – in cui peraltro si dava atto che il versamento del corrispettivo delle cessioni avveniva nella forma di costituzione di rendite vitalizie a favore della venditrice – in quanto provenienti da una delle parti partecipanti all’accordo simulatorio. Inoltre ha aggiunto che non potevano essere considerate a tal fine le attestazioni, coeve alle cessioni, di avvenuto pagamento in via definitiva riportate sul libro soci, nè la successiva (in data 06.06.1999) costituzione in pegno delle quote sociali a favore di G.M., in quanto anche in detti casi si trattava comunque di atti provenienti e formati dagli stessi soggetti partecipanti all’accordo simulatorio. A fronte di ciò la corte distrettuale rilevava una serie di elementi di giudizio di natura indiziaria che, di converso, deponevano per la natura di donazione degli atti di cessione in contestazione: la nomina, financo nel testamento, dei ricorrenti quali unici eredi del suo patrimonio, pretermettendo totalmente gli altri cinque figli; la circostanza che nella costituzione del pegno aveva partecipato anche l’attore che pure non aveva preso parte alle cessioni del 1981 e del 1983.

Orbene, il procedimento logico – giuridico sviluppato nell’impugnata decisione a sostegno delle riportate conclusioni è ineccepibile in quanto logico e razionale, oltre ad essere frutto di una completa valutazione delle risultanze di causa.

Coerentemente, quindi, il giudice di merito non ha ammesso i mezzi di prova chiesti dai ricorrenti volti a dimostrare circostanze di fatto che, seppure con motivazione non espressa, ma desumibile per implicito dal complesso delle argomentazioni offerte in sentenza, sono state ritenute nella sostanza inattendibili, alla stregua degli elementi emergenti dagli atti processuali: si tratta di un giudizio sorretto da congrua e non apparente motivazione che sfugge quindi ai sindacato in questa sede di legittimità.

Con il quinto motivo i ricorrenti nel lamentare l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio censurano la sentenza per non avere ritenuto provato l’esercizio di un possesso ad usucapendum delle quote societarie in oggetto prima del 1989. In altri termini, sarebbero stato omesso l’esame di tutte le ulteriori e significative richieste istruttorie circa la prova della presenza alle assemblee sociali della Algia dei ricorrenti in qualità di soci effettivi della stessa sin dal 1981 ovvero dal 1983, circostanza ampiamente discussa tra le parti nel corso del giudizio.

Con il sesto motivo è denunciata la violazione e la falsa applicazione dell’art. 1161 c.c., per avere escluso la corte territoriale la buona fede possessoria, senza tenere conto che nella specie l’esercizio del possesso sulle quote della Algia da parte dei ricorrenti corrispondeva alla concreta volontà manifestata dalla de cuius, tant’è che il loro possesso si era protratto per oltre dieci anni proprio nel lasso di tempo in cui la donante era ancora in vita.

I due motivi – suscettibili di trattazione congiunta, data la loro connessione tematica ed argomentativa – risultano privi di pregio.

Premesso che la denunciata violazione dell’art. 1161 c.c., presuppone una ricostruzione fattuale alternativa, smentita dalla sentenza, oramai l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia).

Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie; in definitiva la norma in parola consente il ricorso solo in presenza di omissione della motivazione su un punto controverso e decisivo (dovendosi assimilare alla vera e propria omissione le ipotesi di “motivazione apparente”, di “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e di “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione: così Cass., Sez. Un., 7 aprile 2014 n. 8053 e n. 8054; Cass. 8 ottobre 2014 n. 21257), omissione che qui non si rileva affatto, avendo la Corte locale motivato la propria decisione sia quanto alla ritenuta mala fede dei ricorrenti al momento della sottoscrizione delle simulate vendite sia in relazione al dies a quo per il computo del ventennio necessario al possesso ad usucapionem.

Va osservato, infatti, che la Corte di merito ha chiaramente precisato che il possesso dei fratelli Z.A. e G. non poteva che essere stato acquistato in mala fede, ponendo in essere una vendita apparente in luogo della donazione dissimulata, ben consapevoli di arrecare un futuro pregiudizio ai diritti dei fratelli quali legittimari.

Inoltre, sulla base dell’esame complessivo dei plurimi elementi di giudizio (tutti riportati) la pronuncia ha valorizzato nella motivazione, quanto al dies a quo, la circostanza che nei verbali di assemblea solo dopo il 1989 si facesse chiaro riferimento all’esistenza di tre soci, Z.A., G. e B., mentre tutti gli altri erano contraddetti, come la lettera del 27.4.1987 del Dott. Gi.Fr., consulente della de cuis, all’avv. Fagetti, in cui verrebbe adombrata ancora una proprietà della Algia s.r.l. in capo a G.M..

Appare quindi evidente che la mala fede e l’epoca del decorso utile del tempo ad usucapionem sono stati individuati senza margini di incertezza, mentre il dissenso dei ricorrenti risiede in una valutazione alternativa del materiale probatorio e per tali ragioni i vizi denunciati non possono essere emendato in sede di legittimità.

Con il settimo ed ultimo motivo i ricorrenti denunciano la violazione o la falsa applicazione dell’art. 1161 c.c., comma 2 e art. 1165 c.c., per avere la corte di merito ritenuto interrotto il decorso del termine di esercizio del possesso ad usucapendum con la introduzione da parte dei legittimari pretermessi di un giudizio volto alla riduzione delle diposizioni testamentarie di G.M. e dunque di un’azione genericamente volta al recupero dell’intero asse ereditario, mentre sarebbe stato necessario l’esperimento di una domanda giudiziale specificamente volta al recupero del bene determinato sul quale il possesso medesimo veniva esercitato. Nella specie la domanda giudiziale volta alla reintegrazione nel possesso delle quote sociali della Algia è stata avanzata dai legittimari pretermessi solo con l’introduzione del presente giudizio (atto di citazione notificato il 27.07.2009/03.08.2009) mentre la stessa corte colloca la data di inizio del possesso nel maggio 1989.

Il motivo va accolto nei limiti di seguito illustrati.

Rileva il Collegio che correttamente la corte ha ravvisato il rapporto di pregiudizialità tra il giudizio di riduzione delle disposizioni testamentarie di G.M. vedova Z. introdotto dai legittimari pretermessi Z.M.G. e B. con atto di citazione notificato il 27.07.2000, disponendone la sospensione ex art. 295 c.p.c.; tuttavia per ottenere che siffatto atto produca anche l’effetto interruttivo di cui l’art. 1165 c.c., laddove fa rinvio all’art. 2943 c.c. (previsione la quale stabilisce che le regole generali sulla prescrizione e quelle relative alle cause di sospensione, d’interruzione ed al computo dei termini, si osservano, in quanto applicabili, all’usucapione) occorre un puntuale accertamento sulla circostanza che l’atto che ha instaurato il giudizio contenga la manifestazione di volontà – anche in forma implicita – di riacquistare il possesso delle quote cedute della Algia al patrimonio della de cuius.

Diversamente, in ipotesi di difetto di una volontà in tal senso, il dies a quo dell’interruzione del possesso ad usucapionem va fatto risalite alla data di introduzione del presente giudizio, 27.07/03.08.2009, con esigenza di un accertamento specifico della data dei verbali di assemblea dai quali è stato desunto un possesso delle quote sociali.

Infatti, costituisce orientamento consolidato di questa Corte il principio secondo cui in tema di possesso ad usucapionem, con il rinvio fatto dall’art. 1165 c.c. all’art. 2943 c.c., la legge elenca tassativamente gli atti interruttivi, cosicchè non è consentito attribuire efficacia interruttiva ad atti diversi da quelli stabiliti dalla norma, per quanto con essi si sia inteso manifestare la volontà di conservare il diritto, giacchè la tipicità dei modi di interruzione della prescrizione non ammette equipollenti (Cass. 12 settembre 2000 n. 12024; Cass. 21 maggio 2001 n. 6910; Cass. 1 aprile 2003 n. 4892; Cass. 11 giugno 2009 n. 13625). D’altra parte, come pure ripetutamente affermato da questa Corte, non può riconoscersi efficacia interruttiva del possesso se non ad atti giudiziali diretti ad ottenere “ope iudicis” la privazione del possesso nei confronti del possessore usucapente (v. Cass. 23 dicembre 2010 n. 26018) o comunque ad atti che comportino, per il possessore, la perdita materiale del potere di fatto sulla cosa; proprio dal limite di compatibilità con la natura dell’usucapione che l’art. 1165 c.c., pone all’applicazione del rinvio alle disposizioni generali sulla prescrizione, si ricava che non può esservi interruzione dell’usucapione senza la perdita materiale del potere di fatto sulla cosa o senza atti giudiziari diretti a privare il possessore del possesso. In coerenza agli evidenziati principi questa Corte (Cass. 19 giugno 2003 n. 9845) ha rilevato che neppure la messa in mora o la diffida (pur considerati interruttivi della prescrizione dall’art. 2943 c.c., richiamato dall’art. 1165 c.c.) possono costituire atti interruttivi dell’usucapione.

Ne discende che il giudice di appello nel riconoscere all’introduzione del giudizio di riduzione efficacia di atto interruttivo dell’usucapione avrebbe dovuto argomentare il convincimento non essendo sufficiente il riferimento ad una richiesta “genericamente formulata”.

– E d’altro canto, nella diversa ipotesi sopra riportata, diverrebbe assolutamente necessario la individuazione della data di inizio del possesso.

In conclusione, va accolto il settimo motivo di ricorso, rigettati tutti i restanti.

La sentenza impugnata va cassata in relazione alla censura accolta, con rinvio ad altra Sezione della Corte di appello di Milano che, ai fini dell’eccezione di usucapione, procederà all’esame delle risultanze istruttorie alla luce dei principi sopra illustrati.

Il giudice del rinvio provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità, a norma dell’art. 385 c.p.c., u.p..

PQM

La Corte, accoglie il settimo motivo di ricorso, respinti i restanti;

cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità, ad altra Sezione della Corte di appello di Milano.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte di Cassazione, il 2 aprile 2019.

Depositato in Cancelleria il 19 novembre 2019

 

Successione ereditaria. Il divieto di alienazione imposto con il testamento e la divisione dei beni ereditari

Corte di Cassazione n. 26351 del 7 novembre 2017

Prima di affrontare il tema specifico oggetto della pronuncia in esame, pare opportuno osservare che anteriormente alla riforma del diritto di famiglia (attuata con la Legge 151 del 1975), l’art. 692 u.c. c.c. sanzionava espressamente con la nullità ogni clausola testamentaria diretta a vietare le guerre sono quelli su cui si legge quanto di seguito 22301 molto interessante che serie facendo sulla responsabilità da un difetto di un italiano di leggerezza, di riforma del 75, la giurisprudenza di legittimità ha riconosciuto che la nullità della clausola testamentaria con la quale si imponga all’erede il divieto di alienazione a pena di risoluzione della relativa istituzione, vada affermata nel vigore dell’attuale codice civile, in quanto il divieto in parola sarebbe ancora deducibile dalla generalizzata proibizione normativa del fedecommesso, al di fuori della specifica ipotesi di legge ( Corte di Cass. sent. n. 6005/1981).

Va detto, che secondo parte della giurisprudenza il divieto di alienazione può considerarsi valido se contenuto entro ragionevoli limiti di tempo, purché sia sorretto da un apprezzabile interesse del testatore, secondo il principio generale di cui all’art. 1379 c.c., mentre la deve considerarsi nulla la clausola testamentaria che contiene un divieto di alienazione senza limiti temporali, e dunque perpetuo, ponendosi in insanabile contrasto con il principio secondo cui il diritto di proprietà non tollera limitazioni o compressioni, sia nella facoltà di godimento che in quella di disposizione, che non siano quelle espressamente previste dalla legge

Tanto premesso con la pronuncia in oggetto la Corte di Cassazione è giunta ad affermare che la divisione ( rectius, lo scioglimento della comunione ereditaria) con assegnazione di un bene ai condividenti non è qualificabile come atto di alienazione e, quindi, non viola il relativo divieto imposto dal testatore, in quanto l’effetto “dichiarativo-retroattivo” della divisione rende ogni comproprietario titolare di quanto attribuitogli fin dall’epoca di apertura della successione. Il divieto di alienare imposto dal testatore non impedisce la divisione dei beni in quanto l’atto ha natura dichiarativa e non di atto di disposizione, sia che la divisione sia compiuta in forma giudiziale che convenzionale.

Successione di testamenti nel tempo e incompatibilità  delle disposizioni

(Massima)  Fuori dell’ipotesi di revoca espressa di un testamento, può ricorrere un caso di incompatibilità oggettiva o intenzionale fra il testamento precedente e quello successivo, sussistendo la prima allorchè, indipendentemente da un intento di revoca, sia materialmente impossibile dare contemporanea esecuzione alle disposizioni contenute nel testamento precedente ed a quelle contenute nel testamento successivo e configurandosi, invece, incompatibilità intenzionale quando, esclusa tale materiale inconciliabilità di disposizioni, dal contenuto del testamento successivo sia dato ragionevolmente inferire la volontà del testatore di revocare, in tutto o in parte il testamento precedente e dal raffronto del complesso delle disposizioni o di singole disposizioni contenute nei due atti, sia dato desumere un atteggiamento della volontà del de cuius incompatibile con quello che risultava dall’antecedente testamento.   (Cass. Civ., Sez. II, sent. n. 11587 dell’11 maggio 2017)

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONESEZIONE SECONDA CIVILEComposta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:Dott. MAZZACANE Vincenzo                           – Presidente   -Dott. ORICCHIO Antonio                             – Consigliere -Dott. FEDERICO Guido                          – rel. Consigliere -Dott. COSENTINO Antonello                           – Consigliere -Dott. ABETE     Luigi                               – Consigliere -ha pronunciato la seguente:ORDINANZA

(omissis)

Fatto

ESPOSIZIONE DEL FATTO

M.T. ed B.E. e D.L., quale erede di D.F., convennero innanzi al Tribunale di Torino L.A.M. esponendo:

che il 3 aprile 2005 era deceduto in (OMISSIS) L.G., istituendo con un primo testamento del 7/9/2003 la convenuta erede universale, mentre, con successivo testamento del 18/1/2005, aveva revocato il primo testamento ed aveva costituito la convenuta quale semplice legataria, sottraendole l’assegnazione dell’immobile sito in (OMISSIS).

Su detto cespite si era pertanto aperta la successione ab intestato ed instaurata la comunione ereditaria tra i chiamati ex lege.

Secondo la prospettazione degli attori tra i due testamenti sussisteva un’incompatibilità sia oggettiva che soggettiva, in quanto, da un lato l’imposizione nel testamento più recente dell’onere di vendere la casa e devolvere il 20% del ricavato alla badante del de cuius S.Z. era incompatibile con il lascito incondizionato in favore della convenuta ed inoltre, dallo stesso tenore del secondo testamento, risultava che il de cuius aveva inteso attribuire alla cugina, L.A.M., due soli beni a titolo di legato a fronte dell’istituzione di erede contenuta nel primo testamento.

La convenuta costituendosi si oppose, negando la dedotta incompatibilità tra le due disposizioni testamentarie.

Il Tribunale di Torino, con sentenza non definitiva, accolse la domanda, affermando che, limitatamente alla casa sita in (OMISSIS), si era aperta la successione ex lege ed instaurata la comunione ereditaria tra gli attori.

La Corte d’Appello di Torino con la sentenza n. 1521/2012, depositata il 26 settembre 2012, rigettò l’appello della signora L. confermando integralmente la sentenza impugnata.

La Corte d’Appello di Torino, richiamato il principio della conservazione delle disposizioni di ultima volontà così come affermato dalla consolidata giurisprudenza di legittimità, dopo aver compiuto un raffronto tra i due testamenti ha accertato la volontà del de cuius di revocare il primo testamento redigendo il secondo ed ha concluso affermando la validità del secondo testamento e l’apertura della successione legittima con riferimento all’immobile sito in (OMISSIS).

Per la cassazione di detta sentenza propone ricorso per cassazione la signora L.A., con un unico motivo, nei confronti di A. e L.G., M.T. ed B.E. e D.L..

M.T. ed B.E. si sono costituiti con controricorso, mentre A. e L.G. non hanno svolto, nel presente giudizio, attività difensiva.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

Deve preliminarmente disattendersi l’eccezione di nullità della notifica del ricorso nei confronti di G. ed Li.An., deceduti rispettivamente in data (OMISSIS) e (OMISSIS), sollevata nel controricorso dagli altri resistenti.

Secondo la prospettazione dei controricorrenti, poichè l’evento della morte di G. ed Li.An. era stata dichiarata dall’unico procuratore nel giudizio in prosecuzione, tuttora pendente innanzi al Tribunale di Torino, la notifica del ricorso per cassazione effettuata nel presente giudizio nei loro confronti presso il procuratore domiciliatario doveva ritenersi nulla, poichè il decesso si era verificato anteriormente alla stessa sentenza impugnata ed il ricorso non era stato notificato nè ai singoli eredi, nè agli eredi impersonalmente e collettivamente.

Si osserva in contrario che secondo il più recente indirizzo di questa Corte, a partire dalla nota pronuncia delle sezioni unite n. 15295/2014, la morte o perdita di capacità della parte costituita a mezzo di procuratore, dallo stesso non dichiarate in udienza o notificate alle altre parti comportano, per la regola dell’ultrattività del mandato, che il difensore continui a rappresentare la parte come se l’evento non si fosse verificato, onde è ammissibile la notificazione dell’impugnazione presso di lui, ai sensi dell’art. 330 c.p.c., comma 1, senza che rilevi la conoscenza “aliunde” di uno degli eventi previsti dall’art. 299 c.p.c. da parte del notificante (Cass. Ss.Uu. 15295/2014; 710/9016).

Risulta dunque irrilevante, in mancanza della formale dichiarazione o notifica del decesso della parte rappresentata, da parte del procuratore costituito, nell’ambito del presente procedimento, la dichiarazione resa in altro procedimento, quale quello, in prosecuzione (a seguito di ordinanza di rimessione in istruttoria, emessa dal tribunale di Torino, contestualmente alla sentenza di primo grado) tuttora pendente tra le medesime parti.

Una volta poi che si sia ritualmente instaurato il contraddittorio a seguito della notifica del ricorso, poichè nel giudizio di cassazione, com’è noto, non trova applicazione l’istituto della interruzione del processo per uno degli eventi di cui all’art. 299 c.p.c., la morte dell’intimato non produce l’interruzione del processo, neppure se, come nel caso di specie, sia intervenuta prima della notifica del ricorso effettuata preso il difensore costituito nel processo di merito, dalla cui relata non emerga il decesso del patrocinato (Cass. 1757/2015).

Ciò premesso, con l’unico motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 457, 682 e 1362 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 e l’insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 deducendo l’omessa o insufficiente motivazione in relazione all’accertamento della volontà del testatore, risultante dal secondo testamento, di revocare il precedente.

Il motivo è infondato.

Occorre premettere che, secondo il consolidato indirizzo interpretativo di questa Corte in tema di interpretazione degli atti mortis causa, l’interpretazione del testamento è caratterizzata da un’intensa ricerca della volontà del testatore e il risultato concreto dell’indagine condotta dal giudice del merito, con motivazione congrua e conforme al diritto, si sottrae al sindacato di legittimità (Cass. Civ. Sez. 2 sent. del 4-10-2013 n. 23278).

Orbene nel caso di specie, la Corte, nel richiamare il principio di conservazione espresso dall’art. 682 c.c., ha però ritenuto, con valutazione di merito, fondata su motivazione logica, coerente ed adeguata, che si sottrae dunque al sindacato di legittimità, che vi fosse una strutturale incompatibilità tra le due disposizioni testamentarie, sì che la seconda disposizione doveva ritenersi interamente sostituiva della prima.

Ed invero, come questa Corte ha già affermato, fuori dell’ipotesi di revoca espressa di un testamento, può ricorrere un caso di incompatibilità oggettiva o intenzionale fra il testamento precedente e quello successivo, sussistendo la prima allorchè, indipendentemente da un intento di revoca, sia materialmente impossibile dare contemporanea esecuzione alle disposizioni contenute nel testamento precedente ed a quelle contenute nel testamento successivo e configurandosi, invece, incompatibilità intenzionale quando, esclusa tale materiale inconciliabilità di disposizioni, dal contenuto del testamento successivo sia dato ragionevolmente inferire la volontà del testatore di revocare, in tutto o in parte il testamento precedente e dal raffronto del complesso delle disposizioni o di singole disposizioni contenute nei due atti, sia dato desumere un atteggiamento della volontà del de cuius incompatibile con quello che risultava dall’antecedente testamento. L’indagine al riguardo involge apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito e non censurabile in sede di legittimità se sorretti da congrua e corretta motivazione (Cass. 6745/1983).

Orbene, nel caso di specie, secondo quanto accertato con argomentazione logica e coerente dal giudice di merito, oltre alla incompatibilità oggettiva di diverse disposizioni del secondo testamento rispetto al primo, risulta una differenza strutturale tra le due schede testamentarie, in quanto, a fronte della istituzione di erede universale della odierna ricorrente, cui venivano attributi tutti i beni immobili (analiticamente indicati) e mobili, contenuta nel primo testamento, il secondo è invece caratterizzato dalla disaggregazione patrimoniale, con destinazione dei beni a diversi beneficiari, e specifica attribuzione soltanto di taluni beni immobili alla odierna ricorrente.

Avuto riguardo, in particolare, alla casa su cui s’incentra la materia del contendere, nella seconda scheda testamentaria il de cuius non la attribuisce più alla cugina, disponendo invece che “la stessa dovrà essere venduta, ed il 20% del ricavato attribuito alla badante S.Z.”.

Più in generale, secondo la ricostruzione della Corte territoriale, che come si è detto in quanto logicamente ed adeguatamente motivata non è censurabile nel presente giudizio, nel testamento successivo è ravvisabile non già la sostituzione di talune disposizioni ma un ripensamento ed un riassetto complessivo della destinazione dei beni e dunque una “incompatibilità intenzionale”, con la conseguente conclusione che il de cuius con il secondo testamento ha inteso revocare il primo.

In particolare, secondo quanto ritenuto dal giudice di merito, sussiste una evidente inconciliabilità, anche alla luce della complessiva formulazione della scheda testamentaria, tra l’attribuzione della casa all’unica erede del primo testamento L.A. e la disposizione secondo cui, ferma la già menzionata disaggregazione dei beni del patrimonio ereditario, e la specifica attribuzione di determinati beni a L.A., la casa avrebbe dovuto essere venduta, attribuendone il 20% del ricavato alla S..

Tale conclusione, in quanto conforme ai canoni interpretativi richiamati in materia di testamento, e fondata, oltre che sull’esame globale della scheda testamentaria e le differenti modalità di redazione dell’atto, anche su elementi estrinseci alla scheda, come la cultura, la mentalità e l’ambiente di vita del testatore, appare idonea ad esprimere, in modo adeguato e coerente, la reale intenzione del “de cuius” (Cass. 24637/2010).

Deve pertanto ritenersi che la casa, unico bene che non viene attribuito ad un beneficiario, sia stato sottoposto a successione legittima, che, pacificamente può coesistere con quella testamentaria.

Il ricorso va dunque respinto e la ricorrente va condannata alla refusione in favore degli intimati costituiti delle spese del presente giudizio.

Nulla sulle spese in relazione agli altri intimati.

ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

PQM

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente alla refusione, in favore di E. e B.M.T., nonchè De Filippi Luciano delle spese del presente giudizio, che liquida in complessivi 5.200,00 Euro, di cui 200,00 Euro per imborso spese vive, oltre a rimborso forfettario spese generali in misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 7 aprile 2014.

Depositato in Cancelleria il 11 maggio 2017

Successioni e donazioni: E’ nulla la donazione effettuata mediante bonifico bancario. Cass.civ., sezioni unite, sentenza del 27 luglio 2017, n. 18725  

Non è infrequente che tra persone legate da vincolo di parentela e non solo, avvengano trasferimenti di denaro o  altri valori a titolo gratuito, per  mera liberalità.

Da quando poi è invalsa la prassi di compiere operazioni mediante home banking comodamente  operando dalla consolle del computer o tramite smartphone, si assiste al trasferimento con bonifico di denaro o altri strumenti finanziari ( e cosìpure  titoli, mediante bancogiro) con crescente frequenza, senza che di tali atti siano soppesate le implicazioni dal punto di vista giuridico.

Ebbene, le Sezioni Unite della Cassazione, chiamate a  dirimere un contrasto   fonte di conflittualità e di incertezze, hanno  stabilito che simili operazioni, a meno che non si tratti di trasferimenti di modico valore, devono essere considerate vere e proprie donazioni in forma diretta e perciò nulle in difetto di un atto pubblico  di donazione (alla presenza di testimoni) tra beneficiante e beneficiario.

Nella fattispecie ad una banca era stato impartito l’ordine di  trasferire  valori mobiliari (per l’importo di circa 241.000,00 euro) da un uomo, malato, a favore di una donna con la quale aveva un rapporto sentimentale, la quale lo aveva curato durante la malattia.
Apertasi la successione ab intestato, la figlia del de cuius chiedeva, per la quota di un terzo  che le spettava per legge sul patrimonio ereditario, la restituzione del valore degli strumenti finanziari, ammontanti complessivamente, alla data dell’esecuzione dell’operazione, a Euro 241.040, sulla scorta del  presupposto della nullità del negozio siccome privo della forma solenne richiesta per la validità della donazione.
Il Tribunale di Trieste accoglieva la domanda, ma la Corte d’Appello di Trieste, in riforma della sentenza di primo grado riteneva che il negozio rientrasse nel perimetro delle liberalità indirette e, come tale, svincolato da ogni formalismo.
La Corte di Cassazione ha cassato la sentenza della C. d’Appello sulla scorta del principio sopra enunciato, ritenendo che non di una donazione indiretta si è trattato, bensì di una donazione tipica, seppure a esecuzione indiretta, da cui la necessità della forma dell’atto pubblico (ex art. 782 c.c.)

Per il testo integrale della sentenza vedansi:

http://www.cortedicassazione.it/cassazione-resources/resources/cms/documents/18725_07_2017_no-index.pdf

Successioni. Beni non compresi nel testamento

Secondo la Corte di legittimità (Corte di Cassazione, Sezione III civile, – SENTENZA 11 giugno 2015, n.12158 )  “La Corte di appello ha ricompreso la somma depositata sul conto corrente nell’asse ereditario in quanto ‘non oggetto di legato’, escludendoci conseguenza, il concorso con la successione testamentaria di quella legittima quanto all’attribuzione di detta somma, inclusa correttamente nella quota spettante agli eredi universali, stante la capacità attrattiva della quota stessa rispetto ad un bene patrimoniale non contemplato specificamente dalla testatrice; non potendosi, inoltre, ex art. 457 c.c., far luogo alla successione legittima se non quando manca, in tutto o in parte, quella testamentaria ed in particolare nel caso di testamento che, senza contenere istituzione di erede, contenga solo attribuzione di legati (Cass. n. 2968/1997). Non è dato, peraltro, ravvisare la violazione dell’art. 734, 2 co. c.c., una volta accertata la qualità di legataria dell’attuale ricorrente per la quale non può, quindi, configurarsi la qualità di erede legittima.”

Testo della sentenza

CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. II CIVILE – SENTENZA 11 giugno 2015, n.12158 – Pres. Piccialli – est. Nuzzo

Motivi della decisione

la ricorrente deduce:

1) insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine alla interpretazione delle disposizioni testamentarie; la volontà attribuita dalla Corte di appello alla testatrice di assegnare il bene immobile di via (OMISSIS) come quota del patrimonio, ovvero come istituzione ereditaria ex re certa, ai sensi dell’art. 588, 2 co. c.c, era sorretta pressoché esclusivamente da un’inesatta comparazione tra l’alto valore dell’immobile stesso rispetto al minor valore degli altri beni ereditari, circostanza priva di riscontro nelle risultanze processuali e non veritiera;

2) violazione e/o falsa applicazione degli artt. 588 c.c. e 457, 2 co. c.c.; la Corte di merito non aveva tenuto conto del principio fondamentale previsto dall’art. 457 2 co. c.c., secondo cui la parte dei beni non ricompresa nel testamento si trasferisce agli eredi legittimi e, nella specie il testamento non conteneva alcuna espressione che estendeva al lascito in favore di Z.M. e C.D. il cespite rappresentato dalle somme depositate sul conto corrente della de cuius;

3) violazione e/o falsa applicazione degli artt. 588 c.c. e 734, 2 co. c.c.; in base al disposto di quest’ultima norma, quand’anche Z.M. e C.D. potessero ritenersi eredi e non legatari essa ricorrente doveva considerarsi chiamata all’eredità, quale erede legittima, in virtù dell’art. 734, 2 co. c.c., che, nell’ipotesi di vocazione testamentaria incompleta, prevede la devoluzione dei beni non espressamente individuati nel testamento secondo le norme della successione legittima, con la conseguenza che, nella specie, il denaro depositato sul conto corrente della de cuius, non incluso nell’assegnazione dei beni effettuata dalla testatrice, doveva distribuirsi fra gli eredi legittimi;

4) omessa e insufficiente motivazione in ordine alla mancata applicazione degli artt. 477, 2 co. c.c. e 734, 2 co. c.c.; la Corte di merito aveva omesso di motivare sull’incidenza di tali norme nella fattispecie in esame, comportanti, a fronte di una vocazione e/o divisione testamentaria incompleta, che la somma depositata sul conto corrente bancario, intestato alla de cuius alla data del 21.4.2000, fosse distribuita pro quota fra tutti gli eredi legittimi.

Il primo motivo di ricorso è infondato.

Secondo il costante orientamento giurisprudenziale di questa Corte, l’interpretazione della volontà del testatore espressa nel testamento, si risolve in un accertamento in fatto demandato al giudice di merito cui è riservata la scelta e la valutazione degli elementi di giudizio più idonei a ricostruire detta volontà, con la possibilità di avvalersi, in tale attività interpretativa, delle regole ermeneutiche di cui all’art. 1362 c.c., con gli opportuni adattamenti per la particolare natura dell’atto, con la conseguenza che ove tale operazione è aderente a dette regole e la statuizione è sorretta da congrua e logica motivazione, la stessa esula dal sindacato di legittimità (Cfr. Cass. n. 468/2010; n. 7422/2005).

Va aggiunto che, in tema di distinzione tra erede e legatario, ex art. 588 c.c., l’assegnazione di beni determinati configura una successione a titolo universale (‘institutio ex re certa’) ove il testatore abbia inteso chiamare l’istituito nella universalità dei beni o in una quota del patrimonio relitto, mentre deve interpretarsi come legato se egli abbia voluto attribuire singoli, determinati beni (Cass. n. 24163/2013; n. 13835/2007).

Tanto premesso, deve ritenersi che la motivazione del giudice di appello su tale questione, come riportata nella parte dedicata allo ‘svolgimento del processo’, sia immune da vizi logico- giuridici, essendo stata la distinzione tra istituzione di erede e legato fondata sul tenore letterale e tecnico delle espressioni utilizzate dal testatore nella scheda testamentaria, laddove si specifica: ‘istituisco miei eredi universali’…., espressione contrapposta a quella relativa all’attribuzione di determinati beni a ‘titolo di legato’.

Contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, la sentenza impugnata non ha, quindi, interpretato la volontà della testatrice di assegnare il bene immobile di via (OMISSIS) come quota di patrimonio, ovvero come un’istituzione ex re certa ex art. 588, 2 co. c.c., solo sulla base di una inesatta comparazione tra l’alto valore dell’immobile stesso e lo scarso valore degli altri beni ereditari, avendo, fra l’altro, la Corte di merito evidenziato che detta terminologia utilizzata dalla de cuius era diretta ad indicare ‘quello che nella mente della testatrice costituiva… il nucleo centrale del suo patrimonio, l’universum ius una volta sottratti i beni mobili fatti oggetto dei vari legati’ (V. pag. 8 sent. imp.).

Gli altri motivi di ricorso, da esaminarsi congiuntamente per la loro evidente connessione, sono anch’essi privi di fondamento. La Corte di appello ha ricompreso la somma depositata sul conto corrente nell’asse ereditario in quanto ‘non oggetto di legato’, escludendoci conseguenza, il concorso con la successione testamentaria di quella legittima quanto all’attribuzione di detta somma, inclusa correttamente nella quota spettante agli eredi universali, stante la capacità attrattiva della quota stessa rispetto ad un bene patrimoniale non contemplato specificamente dalla testatrice; non potendosi, inoltre, ex art. 457 c.c., far luogo alla successione legittima se non quando manca, in tutto o in parte, quella testamentaria ed in particolare nel caso di testamento che, senza contenere istituzione di erede, contenga solo attribuzione di legati (Cass. n. 2968/1997). Non è dato, peraltro, ravvisare la violazione dell’art. 734, 2 co. c.c., una volta accertata la qualità di legataria dell’attuale ricorrente per la quale non può, quindi, configurarsi la qualità di erede legittima, come invece sostenuto nel motivo sub 3).

La Corte di Appello, sulla base della interpretazione globale del testamento, ha, pertanto, correttamente escluso il ricorso ad una successione legittima quanto alla somma di denaro suddetta, ricomprendendola nella quota relitta a titolo universale, avuto riguardo alla c.d. forza espansiva della istituzione ‘ex re certa’ per Ì beni ignorati dal testatore o sopravvenuti ed implicitamente riconoscendo la volontà della testatrice in tal senso. In conclusione il ricorso va rigettato. Consegue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali che si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali che si liquidano in euro 2700,00 di cui euro 200,00 per esborsi oltre accessori di legge.

 

 

Testamento olografo.  E’ valido un testamento redatto con “mano guidata” ?

 

Secondo  Cass. civile, sez. VI, 06/03/2017 n. 5505   in presenza di aiuto e di guida della mano del testatore da parte di una terza persona, per la redazione di un testamento olografo, tale intervento del terzo, di per sè, escluda il requisito dell’autografia di tale testamento, indispensabile per la validità del testamento olografo, a nulla rilevando l’eventuale corrispondenza del contenuto della scheda alla volontà del testatore. Nella fattispecie  un amico di vecchia data del defunto  lo aveva aiutato a scrivere il testamento, avendo preso la mano destra del de cuius,  guidandola mentre l’altro dettava, atteso che il D.F. aveva un tremolio e non riusciva a scrivere da solo.

Occorre in proposito ricordare che è affermazione ricorrente nella giurisprudenza di legittimità  che il testatore, il quale a causa del suo stato di salute o per carenza di istruzione, redige il testamento olografo con l’aiuto di altra persona che gli guida la mano, indubbiamente collabora alla materiale compilazione del documento, quanto meno sorreggendo la penna e contribuendo alla formulazione delle lettere, tuttavia, ciò comporta la mancanza dell’autografia, elemento indispensabile per la validità del testamento olografo, nel quale si richiede che data, testo dell’atto e sottoscrizione provengano esclusivamente dal testatore e qualora il de cuius, per redigere il testamento olografo, abbia fatto ricorso all’aiuto materiale di altra persona che ne abbia sostenuto e guidato la mano nel compimento di tale operazione, tale circostanza è sufficiente ad escludere il requisito della autografia, a nulla rilevando l’eventuale corrispondenza del contenuto della scheda testamentaria alla reale volontà del testatore.

 

Testo della sentenza

Cassazione civile, sez. VI, 06/03/2017, (ud. 13/01/2017, dep. 06/03/2017)

Fatto

Motivi In Fatto Ed In Diritto Della Decisione

Il Tribunale di Vercelli e la Corte d’Appello di Torino, poi, per quanto ancora rileva in questa sede, hanno concordemente ravvisato la nullità del testamento olografo recante la data del 29/9/1997, con il quale il defunto D.F.G. disponeva in favore della moglie V.E.T. del castello di sua proprietà, con tutti i suoi arredi e della tenuta in località (OMISSIS).

Per l’effetto hanno accolto la domanda proposta dalle sorelle (e loro aventi causa) del de cuius, affermando che la successione era totalmente regolata dalla legge, con il concorso quindi su tutti i beni relitti sia del coniuge che delle sorelle.

In particolare la Corte d’Appello, nel confermare la valutazione già espressa dal giudice di prime cure, ha ritenuto che il testamento di cui sopra era stato redatto con “mano guidata”, e che per l’effetto fosse nullo in quanto privo del requisito dell’olografia, atteso che, come emergeva dalla deposizione del teste M.E., amico di vecchia data del defunto, questi lo aveva aiutato a scrivere il testamento, avendo preso la mano destra del de cuius, guidandola mentre l’altro dettava, atteso che il D.F. aveva un tremolio e non riusciva a scrivere da solo.

In motivazione la sentenza di appello ha altresì aggiunto che dalla deposizione del M. emergeva che non appariva del tutto chiaro se si fosse limitato solo a guidare la mano del testatore ovvero se avesse scritto il testo dell’atto mortis causa sotto dettatura, ma che tale dubbio non era idoneo ad immutare la conclusione circa l’assenza di autografia dell’atto.

In punto di diritto ha infatti osservato che in ragione del particolare rigore formale richiesto dal legislatore per il testamento, e tenuto conto della particolare semplicità di redazione del testamento olografo che deve indurre a prevenire la possibilità di interventi perturbatori della volontà del testatore, deve privilegiarsi la tesi maggioritaria nella giurisprudenza secondo cui il testamento a mano guidata dal terzo deve ritenersi affetto da nullità.

Dopo avere riepilogato i precedenti di legittimità che hanno sposato la tesi più rigorosa, la Corte d’Appello si è fatta anche carico di evidenziare il precedente contrario costituito da Cass. n. 32/1992, che però non riteneva di condividere, proprio in ragione delle esposte esigenze di natura formalistica immanenti al sistema legislativo in materia testamentaria.

Avverso questa sentenza la convenuta ha proposto ricorso per cassazione sulla base di due motivi, cui hanno resistito, con controricorso le parti vittoriose in grado di appello.

Con il primo motivo di ricorso si denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt. 602 e 606 c.c., ritenendosi che la conclusione della Corte distrettuale sarebbe erronea nell’affermare la nullità anche nel caso di testamento a mano guidata, nel caso in cui il terzo collabori solo nella redazione del gesto grafico, sorreggendo la mano del testatore, che comunque è consapevole dell’atto che sta compiendo e del suo effettivo contenuto.

Nella fattispecie ricorreva appunto tale situazione, in quanto era emerso dalla stessa deposizione del teste M. che al D.F. era interamente riconducibile il contenuto del testamento, dovendo quindi escludersi sia l’allografia dell’atto sia il pericolo che risultino tradite le effettive volontà.

Al fine di sorreggere tale assunto si è richiamato il precedente di questa Corte n. 32/1992 che ha appunto ritenuto valido il testamento in un caso in cui la mano del testatore era stata accompagnata dal terzo al fine di eliminare scarti e tremoli nel gesto grafico.

Ritiene il Collegio che le puntuali indicazioni fornite dalla Corte distrettuale a favore della tesi più rigorosa, corredate di precisi riferimenti alla giurisprudenza di questa Corte, che nella quasi totalità dei casi in cui si è occupata della fattispecie della mano del testatore, guidata dal terzo, è pervenuta alla conclusione della nullità del testamento, non consentano di ravvisare la sussistenza del dedotto errore di diritto.

In tal senso, come già affermato dalla Cassazione nella recente ordinanza della Sesta sezione n. 24882/2013, deve ritenersi che, in presenza di aiuto e di guida della mano del testatore da parte di una terza persona, per la redazione di un testamento olografo, tale intervento del terzo, di per sè, escluda il requisito dell’autografia di tale testamento, indispensabile per la validità del testamento olografo, a nulla rilevando l’eventuale corrispondenza del contenuto della scheda alla volontà del testatore (cfr. Cass. 17.3.1993 n. 3163; cfr. anche Cass. n. 681 del 1949; Cass. n. 7636 del 1991; Cass. n. 11733 del 2002; Cass. 30.10.2008 n. 26258).

In tale ultimo precedente, la Corte si è premurata anche di fornire una condivisibile lettura della portata della sentenza n. 32 del 7.1.1992, che parte ricorrente pone a fondamento della richiesta di rivalutazione dell’orientamento maggioritario, sposato anche dal giudice di merito nel provvedimento gravato, osservando che nel caso deciso in quella circostanza il testatore si era fatto guidare la mano solo per vergare la data della scheda con maggiore chiarezza, sicchè la validità di tale testamento era dipesa dal fatto che il difetto di autografia concerneva solo la data, ovvero un elemento la cui mancanza comporta solo l’annullabilità e non la nullità del testamento ex art. 606 c.c., commi 1 e 2.

In ogni caso, anche a voler soprassedere alle giustamente segnalate diversità di cui alla vicenda decisa nel 1992, deve ritenersi decisamente più corrispondente alla ratio della norma la soluzione che perviene alla nullità per difetto di olografia per ogni ipotesi di intervento del terzo che guidi la mano del testatore, trattandosi di condotta che appare in ogni caso idonea ad alterare la personalità e l’abitualità del gesto scrittorio, requisiti indispensabili perchè possa parlarsi di autografia, laddove la diversa soluzione auspicata da parte della ricorrente, condizionerebbe l’accertamento della validità o meno del testamento alla verifica di ulteriori circostanze, quali la effettiva finalità dell’aiuto del terzo, ovvero la verifica della corrispondenza effettiva del testo scritto alla volontà dell’adiuvato, che minerebbero in maniera evidente le finalità di chiarezza e semplificazione che sono alla base della disciplina del testamento olografo.

Ne discende che deve darsi continuità alla prevalente giurisprudenza di legittimità cui ha aderito anche la Corte di merito, non palesandosi la necessità, contrariamente a quanto richiesto dalla ricorrente, della rimessione della questione alle Sezioni Unite.

Nel caso di specie, emerge poi che l’intervento della mano del M. – come accertato adeguatamente in fatto dalla Corte torinese – ha interessato l’intero testo della scheda, dovendosi quindi reputare corretta la conclusone cui è pervenuto il giudice di merito, circa la nullità per difetto di autografia.

Il rigetto del primo motivo, e la conseguente affermazione della correttezza della conclusione in punto di nullità in caso di testamento redatto da mano guidata, rende poi del tutto evidente anche l’assorbimento del secondo motivo di ricorso che investe l’omessa disamina da parte della Corte distrettuale di un fatto decisivo, costituito dalla permanenza in capo al de cuius alla data di redazione del testamento, della capacità di scrivere, in quanto, anche laddove fosse accertato che la stessa permaneva, ai fini della risoluzione della vicenda rileva unicamente la circostanza che poi il testamento sia stato redatto con modalità che ne determinano la nullità.

In definitiva deva ravvisarsi la manifesta infondatezza del ricorso (con riferimento a tutti i motivi), essendo state decise nella sentenza impugnata questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e non offrendo l’esame dei motivi elementi per mutare l’orientamento di detta giurisprudenza, ravvisandosi, altresì, l’adeguatezza e la logicità della disamina delle circostanze di fatto.

Il ricorso deve pertanto essere rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto l’art. 13, comma 1 quater, del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

PQM

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso delle spese in favore delle controricorrenti che liquida per ognuno dei due gruppi di controricorrenti in complessivi Euro 5.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15 sui compensi, ed accessori come per legge;

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente del contributo unificato dovuto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, art. 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 13 gennaio 2017.

Depositato in Cancelleria il 6 marzo 2017

 

 

 

 

 

Testamento olografo. A chi compete l’onere della prova in caso di contestazione dell’autenticità ?

Con sentenza 15 giugno 2015 n. 12307 le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno composto il contrasto sorto in giurisprudenza e dottrina, a proposito della contestazione dell’autenticità del testamento olografo e individuazione dello strumento processuale richiesto.

Il caso di specie riguarda un testamento olografo in base al quale una vedova risultava unica beneficiaria dell’intero patrimonio del marito. Gli altri quattro eredi legittimi, sostenendo che il defunto versava in stato di incoscienza nel momento in cui risultava redatto il testamento, perché colpito da ictus, convenivano in giudizio la vedova beneficiaria impugnando il testamento che ritenevano apocrifo per mancanza di autenticità. Invocavano, quindi, il riconoscimento della loro qualità di eredi e l’attribuzione dei beni del de cuius, oltre alla declaratoria di indegnità della vedova e alla condanna della medesima alla restituzione dei frutti percepiti.

La soluzione prospettata dalla Corte rappresenta una terza via, intermedia tra le due che si erano contrapposte. Secondo  gli ermellini il successore legittimo che sia intenzionato a impugnare il testamento olografo per difetto di autenticità non può limitarsi a disconoscerlo e neppure è tenuto a proporre querela di falso, ma è comunque onerato di dimostrare il fondamento del proprio assunto in ossequio al principio che nelle azioni di accertamento negativo l’onere della prova compete a chi intende sostenere la nullità della scheda testamentaria. Riguarderà  chi invochi tale nullità, dunque l’eventuale erede pregiudicato dall’esistenza del testamento, provarne la non genuinità senza che per ciò sia necessario promuovere il giudizio di falso.

In questo modo secondo la Corte la soluzione consente di rispondere alle seguenti esigenze :

  • mantenere il testamento olografo definitivamente circoscritto nell’orbita delle scritture private;
  • evitare la necessità di attuare un difficile criterio di distinzione fra la categoria delle scritture private e non equiparare l’olografo a una qualsivoglia scrittura proveniente da terzi con quel che ne consegue in tema di prova;
  • evitare che il semplice disconoscimento di un atto caratterizzato da tale peculiarità ed efficacia dimostrativa renda troppo gravosa la posizione processuale dell’attore che si professa erede, riversando su di lui l’intero onere probatorio del processo;
  • evitare le lungaggini di un defatigante procedimento incidentale quale quello previsto per la querela di falso.

Va incidentalmente osservato che una sentenza di accertamento negativo dell’esistenza del requisito dell’olografia, una volta divenuta definitiva, fa stato solo fra le parti del giudizio, i loro eredi e aventi causa, mentre e il procedimento di falso produrrebbe  il risultato della definitiva eliminazione dal mondo giuridico della scheda, . Vero è, tuttavia, che è difficilmente immaginabile l’evenienza di un soggetto terzo, portatore di interesse, che sia rimasto estraneo all’ambito di applicazione della pronuncia di accertamento negativo dell’autenticità del testamento.

Testo integrale della sentenza

CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE – SENTENZA 15 giugno 2015, n.12307 –

Pres. Rovelli – est. Travaglino

Motivi della decisione

6. Per quanto di rilievo nel presente giudizio di rimessione a queste sezioni unite, A.B. ha lamentato (con il secondo motivo di ricorso) la violazione e falsa applicazione degli artt. 214 e seguenti e 221 e seguenti, cod. proc. civ., anche in relazione agli artt. 163, 345 e 112 cod. proc. civ. (art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.) sostenendo che, se la pronuncia impugnata avesse inteso confermare la sentenza di primo grado nella parte in cui individuava nella querela di falso e non anche nella verificazione di scrittura l’unico mezzo per infirmare il testamento olografo, tale motivazione doveva ritenersi censurabile alla luce del più corretto orientamento giurisprudenziale che riconosceva la possibilità di ricorso ad entrambi gli strumenti processuali (querela di falso e disconoscimento seguito dalla verificazione) per contestare la genuinità del testamento

6.1. Formulava, a tal fine, il seguente quesito di diritto:

Dica la Corte se all’erede legittimo deve ritenersi consentita la facoltà di disconoscere, ai sensi e per gli effetti degli arti. 214 e seguenti c.p.c., il testamento olografo fatto valere contro di lui, e se tale disconoscimento può essere esercitato anche in sede di azione di petitio heraeditatis, nel corso della quale l’erede legittimo esplicitamente contesti l’autenticità del predetto testamento.

6.2. Dello stesso tenore i motivi di impugnazione di B.A.G. , che, nella (più ampia) formulazione del quesito, chiede tra l’altro a questa Corte la conferma del principio di diritto secondo il quale il testamento olografo può essere disconosciuto ex artt. 214 e segg. c.p.c. dall’erede legittimo che disconosca l’autenticità del testamento e che l’onere della proposizione dell’istanza di verificazione del documento contestato incombe su chi vanti diritti in forza di esso.

7. Con ordinanza di rimessione n. 28586 del 20 dicembre 2013, la seconda sezione, investita dei ricorsi riuniti, e con riguardo al comune motivo relativo allo strumento processuale utilizzabile per contestare l’autenticità del testamento olografo, ha rimesso gli atti al Primo Presidente, che li ha a sua volta trasmessi a queste sezioni unite, ritenendo opportuna la risoluzione del contrasto esistente nella giurisprudenza della Corte di legittimità in subiecta materia.

7.1. Con il citato provvedimento interlocutorio si rileva che, sulla questione, si sono diacronicamente contrapposti due orientamenti.

7.2. Secondo un primo indirizzo, il testamento olografo, nonostante i requisiti di forma previsti dall’art. 602 cod. civ., trova comunque la sua legittima collocazione tra le scritture private, sicché, sul piano della efficacia sostanziale, è necessario e sufficiente che colui contro il quale sia prodotto disconosca (rectius, non riconosca) la scrittura, da ciò derivando l’onere della controparte, che alla efficacia di quella scheda abbia invece interesse (perché fonte della delazione ereditaria), di dimostrare la sua provenienza dall’autore apparente.

7.2.1. Si evidenzia in particolare che, alla luce di tale orientamento nell’ipotesi di conflitto tra l’erede legittimo che disconosca l’autenticità del testamento e colui il quale vanti diritti in forza di esso, l’onere della proposizione dell’istanza di verificazione del documento contestato incombe su quest’ultimo, cui spetta la dimostrazione della qualità di erede, mentre nessun onere, oltre quello del disconoscimento, grava sul primo, con l’ulteriore conseguenza che, sulla ripartizione dell’onere probatorio, nessuna rilevanza può attribuirsi alla posizione processuale delle parti – ossia se la falsità del documento sia fatta valere in via principale dall’erede legittimo che a tal fine abbia proposto l’azione, oppure se, introdotto dall’erede testamentario un giudizio per il riconoscimento dei propri diritti ereditari in forza della scheda testamentaria, questa sia stata disconosciuta dall’erede legittimo.

7.3. Un secondo orientamento, pur senza iscrivere il testamento olografo nella categoria degli atti pubblici, ne evidenzia tuttavia la (particolarmente elevata) rilevanza sostanziale e processuale, di talché la contestazione della sua autenticità si risolve in un’eccezione di falso, e deve essere sollevata soltanto nei modi e con le forme di cui all’art. 221 e ss. cod. proc. civ., con il conseguente onere probatorio a carico della parte che contesti la genuinità della scheda testamentaria.

7.4. L’ordinanza di rimessione non tralascia di osservare come queste stesse sezioni unite, con la sentenza n. 15169 del 23 giugno 2010, chiamate a risolvere un altro contrasto insorto sui modi di contestazione delle scritture private provenienti da terzi estranei alla lite, ebbero modo di indicare, sia pur in obiter, nella querela di falso lo strumento processuale idoneo a privare di ogni efficacia il testamento olografo, anche se proprio il detto carattere di obiter dictum ha impedito il superamento della contrapposizione tra i due indirizzi – tanto che in epoca successiva ad essa si leggono pronunce ancora orientate in un senso o nell’altro, pur nella consapevolezza del dictum delle sezioni unite.

7.5. Dalla constatazione dell’apparente insanabilità di un ormai pluridecennale contrasto tra i due orientamenti l’ordinanza di rimessione della seconda sezione civile ha tratto motivo per rimettere la questione a queste sezioni unite affinché provvedano alla sua ricomposizione, anche alla luce degli studi e delle conclusioni (a loro volta non univoci) cui è pervenuta la dottrina specialistica.

7.5.1. Non può tacersi che le singole indagini ermeneutiche sfociate nell’adesione all’uno o all’altro indirizzo appaiono ciascuna sorretta da argomentazioni che, singolarmente valutate, si caratterizzano tutte e parimenti per autorevolezza e persuasività, così che l’odierna questione non pare potersi ricondurre, sic et simpliciter, ad una superficiale scelta dello strumento processuale cui ricorrere per contraddire o impedire che il testamento acquisti efficacia nei riguardi di chi non ne è menzionato quale beneficiario, ovvero, su di un piano del tutto speculare, perché possa farsi valere nei confronti di chi, potenziale erede ab intestato, dalla efficacia di quell’atto veda compromesse, le proprie pretese ereditarie, consacrando definitivamente i diritti del successore chiamato nella scheda olografa.

7.5.2. La scelta de qua postula, difatti, la parallela indagine in ordine al valore, anche probatorio, delle scritture private che non provengono da nessuna delle parti in causa, e in ordine al riparto dell’onere probatorio.

7.5.3. E ciò perché il testamento olografo non è solo un documento che fonda, o contribuisce a fondare, sul piano probatorio, le ragioni della parte in causa, ma costituisce esso stesso il titolo in forza del quale il soggetto ivi menzionato diviene titolare di diritti soggettivi, e in ragione del quale si realizza la successione in locum et ius defuncti.

8. Ricostruendo funditus i termini del contrasto, emerge come parte della giurisprudenza di questa Corte, nel riconoscere al testamento olografo natura giuridica di scrittura privata, ammetta che la contestazione della autenticità della sua sottoscrizione possa legittimamente compiersi attraverso il semplice disconoscimento (i.e. il non riconoscimento) della scheda testamentaria.

8.1. La tesi trova un suo risalente precedente nella pronuncia di cui a Cass. n. 3371 del 16 ottobre 1975, secondo cui la parte che intenda contestare l’autenticità di una scrittura privata non riconosciuta non deve proporre querela di falso, occorrendo invece impugnare, in via di eccezione, la sottoscrizione mediante il disconoscimento, con la conseguenza che graverebbe sulla controparte l’onere di chiedere la verificazione e di dimostrare l’autenticità della scheda testamentaria. A fondamento di tale decisione la Corte pose la considerazione secondo cui lo strumento della querela di falso si rende indispensabile solo quando la scrittura abbia acquistato l’efficacia di piena prova ai sensi dell’art. 2702 cod. civ. per riconoscimento tacito o presunto, ovvero all’esito del procedimento di verificazione (e ciò anche nell’ipotesi in cui, contro l’erede istituito con un precedente testamento, sia prodotto un successivo testamento istitutivo di altro erede).

8.2. La giurisprudenza favorevole allo strumento processuale della verificazione ex art. 214 c.p.c., peraltro, non esclude tout court il ricorso alla querela di falso, riconosciuta come strumento alternativo rispetto al semplice disconoscimento (così, tra le altre, Cass. n. 3883 del 22 aprile 1994), ma mette a sua volta in rilievo – sulla premessa per cui l’onere probatorio ricade sulla parte che del testamento voglia servirsene e che a tal fine propone l’istanza di verificazione (salvo la diversa scelta della controparte di promuovere azione di querela di falso) – la non incidenza sull’onere probatorio della posizione processuale assunta dalle parti stesse (e cioè se l’azione sia esperita dall’erede legittimo che adduca in via principale la falsità del documento, ovvero dall’erede testamentario che voglia far valere i propri diritti ereditari e si trovi di fronte alla contestazione dell’autenticità del documento da parte dell’erede legittimo: Cass. n. 7475 del 12 aprile 2005 e n. 26943 dell’11 novembre 2008).

8.3. Tracce dell’orientamento in parola si rinvengono anche in epoca successiva al ricordato obiter di queste sezioni unite.

8.3.1. Secondo Cass. n. 28637 del 23 dicembre 2011, difatti – riaffermatosi in premessa che querela di falso e disconoscimento sono istituti preordinati a finalità diverse e del tutto indipendenti tra loro -, il testamento olografo non perderebbe la sua natura di scrittura privata per il fatto di dover rispondere ai requisiti di forma imposti dalla legge (ex art. 602 c.c.), volta che esso deriva la sua efficacia dal riconoscimento, espresso o tacito, che ne compia il soggetto contro il quale la scrittura è prodotta: quest’ultimo, per impedire tale riconoscimento e contestare tout court l’intera scheda testamentaria, deve dunque proporre l’azione di disconoscimento, che pone a carico della controparte l’onere di dimostrare, in contrario, che la scrittura non è stata contraffatta e proviene, invece, effettivamente dal suo autore apparente.

9. A questo indirizzo si contrappone l’orientamento che, pur non attribuendo valore di atto pubblico al testamento olografo, postula, per la contestazione della sua autenticità, la proposizione della querela di falso.

9.1 Anche tale filone interpretativo ha origini assai risalenti: si legge in Cass. n. 2793 del 3 agosto 1968 che la contestazione dell’erede legittimo si risolve in una eccezione di falso, da sollevarsi esclusivamente nelle forme di cui agli artt. 221 cod. proc. civ. e segg., atteso che il disconoscimento può provenire soltanto da chi sia autore dello scritto o da un suo erede – in tal senso, e prima ancora, Cass. n. 766 del 18 marzo 1966, secondo la quale il principio sostanziale dell’art. 2702 cod. civ. volto a disciplinare l’efficacia in giudizio della scrittura privata riconosciuta effettivamente o presupposta tale, e la procedura di disconoscimento e di verificazione regolata dagli artt. 214 e ss. c.p.c., sono istituti applicabili solo alle scritture provenienti dai soggetti del processo e alla ipotesi di negazione della propria scrittura o della propria firma da parte di quel soggetto contro il quale sia stato prodotto lo scritto. Quando invece l’atto non sia attribuibile alla parte contro cui viene prodotto, la contestazione della sua autenticità, risolvendosi in una eccezione di falso, necessita della relativa querela.

9.2. Sarà proprio questo risalente insegnamento a costituire a lungo una delle più solide basi su cui si fonda l’indirizzo giurisprudenziale favorevole al ricorso allo strumento disciplinato dagli artt. 221 e segg. cit.. Gli eredi legittimi che contestano l’autenticità della scheda olografa, secondo questa interpretazione (fatta propria anche da una parte della dottrina), devono, difatti, ritenersi soggetti estranei alla scrittura testamentaria, onde la loro esclusione anche dallo schema dell’art. 214, secondo comma, c.p.c..

9.3. Conferma indiretta della ratio di tale ricostruzione si trova nella pronuncia di cui a Cass. n. 1599 del 28 maggio 1971, la quale, pur concludendo nella specie per la legittimità del solo disconoscimento, a ciò perviene solo in ragione della qualifica di erede attribuita alla parte che in concreto ed in quel giudizio contestava un testamento olografo. Si legge, difatti, in sentenza che l’erede istituito col primo testamento, agendo con la petitio heraeditatis in quanto investito di un valido titolo di legittimazione fino al momento in cui non ne sia dichiarata giudizialmente la caducazione, conserva pur sempre la veste di erede anche nei confronti di altro soggetto che pretenda avere diritto alla eredità in base a successiva disposizione testamentaria, così che egli non può qualificarsi terzo fino al momento del definitivo accertamento della validità del secondo testamento, ed è legittimato a contestare l’efficacia del testamento posteriore mediante il mero disconoscimento, senza necessità di proporre querela, incombendo sull’altra parte che abbia proposto domanda riconvenzionale – tendente a far dichiarare la validità del secondo testamento e la conseguente caducazione delle disposizioni contenute nel primo – l’onere di provare tale domanda chiedendo la verificazione dell’olografo successivo di cui intende avvalersi.

9.4. L’indirizzo favorevole alla querela di falso, che tiene conto della provenienza della scrittura, risulta espresso in seguito da Cass. n. 16362 del 30 ottobre 2003, secondo cui la procedura di disconoscimento e di verificazione di scrittura privata riguarda unicamente le scritture provenienti da soggetti del processo e presuppone che sia negata la propria firma o la propria scrittura dal soggetto contro il quale il documento è prodotto, mentre, per le scritture provenienti da terzi estranei, come nel caso del testamento olografo, la contestazione non può essere sollevata secondo la disciplina dettata dalle predette norme, bensì nelle forme dell’art. 221 e segg. c.p.c., perché si risolve in una eccezione di falso.

9.5. Le argomentazioni a favore dello strumento della querela, principalmente incentrate sull’assunto della terzietà del soggetto rispetto al testamento olografo contro di lui prodotto, trovano una peculiare evoluzione interpretativa nella già ricordata sentenza di queste ss.uu. n. 15169 del 2010 (supra, 7.4).

Intervenendo sul contrasto relativo ai modi di contestazione delle scritture private provenienti da terzi estranei alla lite, la pronuncia ne ricostruisce l’efficacia probatoria inquadrandole tra le prove atipiche dal valore meramente indiziario, e, tenendo conto di tale valore probatorio, afferma che esse possono essere liberamente contestate dalle parti; ma, circoscrivendone l’analisi con particolare riguardo al testamento olografo, nega poi che un simile documento possa annoverarsi tra le prove atipiche per l’incidenza sostanziale e processuale intrinsecamente elevata riconosciutagli, ritenendo (senza che l’affermazione costituisca ratio decidendi della pronuncia) che la sua contestazione necessiti della querela di falso. 9.5.1. L’intero plesso argomentativo della sentenza rende peraltro tale obiter del tutto peculiare, poiché le stesse scritture provenienti da terzi finiscono per distinguersi in due sottocategorie – la prima, contenente la generalità delle scritture, a valenza probatoria ‘debole’, la seconda, comprensiva di atti di particolare incisività perché essi stessi titolo immediatamente esecutivo del diritto fatto valere, a valenza sostanziale e processuale ‘particolarmente pregnante’ -, per la contestazione di ciascuna delle quali si indica uno distinto strumento processuale.

9.6. L’orizzonte della giurisprudenza di legittimità si sposta così, alla luce della soluzione adottata, dal rapporto tra scrittura e soggetto (terzo) contro cui è prodotta al valore intrinseco del documento, in una nuova e più attenta consonanza con la relativa elaborazione dottrinaria.

9.6.1. L’indirizzo favorevole alla tesi della necessità della querela trova, infine, recente conferma nella pronuncia di cui a Cass. n. 8272 del 24 maggio 2012, predicativa della correttezza del rimedio processuale disciplinato dagli artt. 221 e segg. c.p.c. essendo il testamento un documento proveniente da terzi, e riaffermativa, nel solco delle Sezioni Unite, dell’incidenza sostanziale e processuale particolarmente elevata della scheda olografa, che giustifica il ricorso alla querela di falso per contestarne l’autenticità.

10. Il panorama giurisprudenziale si completa con l’antico enunciato di cui a Cass. n. 1545 del 15 giugno 1951, che, premessa la legittimità della proposizione di un’azione di accertamento negativo in ordine alla provenienza delle scritture private e del testamento olografo, afferma che l’onere della prova spetta all’attore che chieda di accertare la non provenienza del documento da chi apparentemente ne risulta l’autore, in consonanza con l’opinione dottrinaria secondo cui la contestazione della genuinità del testamento olografo si traduce in una domanda di accertamento negativo della validità del documento stesso.

10.1. La pronuncia (senza assumere tuttavia posizione esplicita sulla forma di tale accertamento negativo, se, cioè, dovesse o meno seguire le forme della querela di falso), fu oggetto di autorevoli consensi e di penetranti critiche in dottrina (in estrema sintesi, alla tesi secondo cui l’impugnazione per falsità del testamento olografo si risolve in una quaestio nullitatis, con conseguente applicabilità alla fattispecie della norma di cui all’art. 606 cod. civ. dettata in tema di nullità del testamento olografo per mancanza dei requisiti si replicò che l’olografo impugnato per falsità non è nullo per difetto di forma ma inesistente), non trovò ulteriore seguito in giurisprudenza, che vide così contrapporsi, come finora ricordato, la tesi della verificazione a quella della querela, con opposte conseguenze in ordine all’onere della prova, ripartito sul presupposto delle diverse finalità e dell’indipendenza dei due istituti.

11. La questione del riparto degli oneri probatori, in particolare, fu oggetto di approfondita disamina nella sentenza di questa Corte n. 3880 del 18 giugno 1980, ove si legge che la querela postula l’esistenza di una scrittura riconosciuta, mentre il disconoscimento, investendo la provenienza stessa del documento, mira a impedire che la scrittura medesima acquisti efficacia probatoria, con la conseguenza che chi contesti l’autenticità della sottoscrizione della scrittura onde impedire che ali ‘apparente sottoscrittore di essa venga imputata la dichiarazione sottoscritta nella sua totalità, deve disconoscere la sottoscrizione e non già proporre la querela di falso, mentre invece, allorché sia accertata l’autenticità della sottoscrizione, chi voglia contestare la provenienza delle dichiarazioni contenute nella scrittura di colui che, ormai incontrovertibilmente, l’ha sottoscritta, ha l’onere di proporre la querela di falso.

12. In una dimensione del tutto speculare rispetto alle posizioni della giurisprudenza, la dottrina specialistica si è a sua volta divisa tra i due citati e dominanti orientamenti, con argomentazioni che fanno di volta in volta riferimento:

– al rapporto tra provenienza della scrittura e parte in causa contro cui è prodotta;

– alla valutazione del documento per la riconosciuta incidenza sostanziale e processuale intrinsecamente elevata;

– all’esigenza di tener separato il piano del contenuto del testamento (concreto thema probandum) da quello dello strumento mediante il quale esso possa acquisire rilevanza agli effetti processuali.

Su di un piano più generale, ciascuna delle tesi proposte non appare poi insensibile al problema dell’efficacia delle scritture private e dei relativi strumenti di impugnazione.

13. La tesi favorevole all’indirizzo che reputa sufficiente il ricorso al disconoscimento colloca tout court il testamento olografo tra le scritture private.

13.1. Tale ricostruzione della scheda testamentaria è sostanzialmente univoca, salva l’attribuzione ad essa di quel ‘valore intrinsecamente elevato’ evidenziato da questa stesse sezioni unite nel 2010. Distinzione peraltro criticata da chi ne contesta il fondamento normativo, denunciando l’irragionevolezza dell’attribuzione ad alcuni documenti provenienti da terzi di un regime giuridico ‘rafforzato’ rispetto a quanto assicurato alle scritture private provenienti dalle parti – regime del quale si lamenta l’assenza di un efficace riferimento normativo che sostenga l’intrinseco grado di attendibilità del testamento olografo a giustificazione della necessaria proposizione della querela di falso, e la conseguente confusione concettuale tra il piano processuale e quello sostanziale (confondendosi cioè l’aspetto morfologico del documento e del suo contenuto con lo strumento processuale funzionale al suo riconoscimento sul piano della prova in giudizio).

Tale sovrapposizione concettuale conduceva, difatti, secondo tale orientamento, all’errore in cui incorrevano i sostenitori della necessità di ricorrere alla querela di falso, così criticandosi l’assunto secondo cui incombeva su colui che contestava il testamento olografo la prova del suo accertamento negativo, e ritenendosi invece sufficiente, al pari di ogni scrittura privata, il mero disconoscimento del documento.

13.2. L’indirizzo favorevole al semplice disconoscimento della scheda testamentaria apparve, peraltro, illieo et immediate destinato a confrontarsi con due delicate questioni.

13.2.1. La prima questione aveva ad oggetto il rapporto tra autore del testamento e parti in causa, poiché il testamento proviene pur sempre da un terzo rispetto alle parti del processo, perciò solo esulando, secondo i sostenitori della tesi della querela di falso, dalla fattispecie normativa di cui all’art. 214 c.p.c. – a tanto replicandosi che la scheda olografa, pur materialmente proveniente da chi non può assumere la qualità di parte in senso processuale o sostanziale, acquistando efficacia solo con la morte del suo autore, è pur tuttavia caratterizzata da una sua così specifica peculiarità che la posizione di ‘parte’ del destinatario della attribuzione deriva unicamente dalla devoluzione ereditaria, evidenziandosi poi l’esistenza di casi in cui il documento, pur non provenendo da alcuna delle parti in causa, non può essere considerato alla stregua di una scrittura di terzo estraneo alla lite.

13.2.2. Si è ancora opinato, avvertendo l’utilità di circoscrivere la qualità di terzo rispetto alla scrittura privata prodotta in giudizio (e dunque all’olografo), che, dall’esame esegetico degli artt. 2702, 2704 cod. civ., 214 c.p.c., e in una più ampia dimensione di teoria generale del diritto, il concetto di terzo ha natura relazionale, per tale intendendosi chi è estraneo a un qualsiasi rapporto o atto giuridico, così individuandosi tre diverse dimensioni in cui si colloca il concetto di terzo (e, specularmente, quello di parte), e cioè quella proprio della formazione della scrittura (che, considerando la convenzione come fatto storico puntuale, definisce ‘parte’ colui che abbia sottoscritto o vergato di suo pugno la scrittura, e correlativamente terzo chi non abbia né sottoscritto né vergato a mano la medesima), quella negoziale (afferente alla situazione giuridica di diritto sostanziale disciplinata dal contenuto della scrittura privata prodotta in giudizio, in tale prospettiva essendo parte la persona fisica/soggetto autore della dichiarazione), e infine quella processuale (quella, cioè del giudizio in cui la scrittura privata è prodotta, in questa accezione essendo ‘terzo’ la persona fisica che non in giudizio nel processo pendente).

L’espressione ‘eredi o aventi causa’ utilizzata dal secondo comma dell’art. 214 cod. proc. civ. andrebbe, pertanto, intesa in senso ampio, e comprensiva di tutti coloro che si trovino in una ‘generica posizione di dipendenza’.

13.2.3. La critica alla preclusione del disconoscimento imposta all’erede legittimo (formalmente terzo sino alla declaratoria di non autenticità o di falsità dell’olografo), si appunta ancora sull’erronea valorizzazione del nesso processuale tra il documento ed il soggetto, mentre anche il successibile ex lege, in ragione della propria posizione sostanziale, non sarebbe ‘terzo’ bensì soggetto contro il quale l’olografo è prodotto.

13.2.4. La posizione del successibile ex lege (se parte o terzo rispetto al testamento olografo che istituisca erede altro soggetto), dissolta in parte qua la differenza tra erede legittimo e quello testamentario ai fini del mezzo cui ricorrere per contestare una scheda olografa, diviene così oggetto di un accertamento giudiziale circoscritto alla fattispecie successoria (legale o testamentaria) invocata in proprio favore, onde il riparto dell’onere della prova andrebbe riferito unicamente all’effetto giuridico di tale fattispecie: costituendo proprio il negozio testamentario il tema della prova, dell’attore o del convenuto, il relativo onere graverebbe ipso facto su colui che vuoi far valere quel documento, con l’effetto che la parte nei cui confronti l’atto testamentario è prodotto può limitarsi al disconoscimento.

13.2.5. La seconda questione, a sua volta influente sull’elaborazione teorica che ha riguardo all’onere della prova, esplora il rapporto tra successione legittima e successione testamentaria, e la supposta preminenza della seconda sulla prima. Si afferma, così, che il tenore dell’art. 457, secondo comma, c.c. (a mente del quale ‘non si fa luogo alla successione legittima se non quando manca, in tutto o in parte, quella testamentaria’) attribuirebbe alle norme sul testamento valenza dispositiva, a fronte della valenza suppletiva della legittima. Per i fautori della querela di falso, questa preminenza inciderebbe in modo determinante sulla ripartizione dell’onere probatorio, perché la contestazione del testamento olografo si traduce in una azione di accertamento negativo volta che, a fronte della ‘posizione consolidata’ attribuita dal testamento all’erede vocato, chi voglia impugnarlo avrebbe l’onere di dimostrare la falsità della provenienza o la insussistenza dei requisiti di validità, in osservanza dei principi generali di ripartizione dell’onere probatorio prescritti dall’art. 2697 cod. civ.. La preminenza della successione testamentaria è stata, peraltro, autorevolmente contestata, sino ad invertirne il rapporto con quella legittima, attribuendo a quest’ultima funzione primaria (e conseguentemente carattere dispositivo alla sua disciplina), residuando alla vocazione testamentaria un carattere soltanto suppletivo: di qui, la legittimità del (solo) disconoscimento della scheda testamentaria.

14. La tesi favorevole all’indirizzo che reputa necessaria la querela di falso muove dalla premessa secondo cui il testamento olografo, costituendo una autentica prova legale, può essere ‘distrutto’, e oggetto di verifica, soltanto attraverso lo strumento processuale di cui agli artt. 221 ss. c.p.c..

14.1. Le posizioni dottrinarie contrarie al disconoscimento, meno numerose, non appaiono tuttavia meno autorevoli per la dovizia delle argomentazioni addotte, volte ad indagare funditus sugli aspetti, sostanziali e processuali, riconducibili alle peculiarità del testamento olografo.

14.2. Pur non dubitandosi della estraneità del testamento dalla categoria degli atti pubblici, ne viene pur tuttavia evidenziato il carattere sui generis sul piano sostanziale, reso manifesto innanzitutto dalla circostanza che la falsificazione della scheda olografa, nel diritto penale, è equiparata, quoad poenam, al medesimo reato avente ad oggetto gli atti pubblici, secondo quanto previsto dall’art. 491 c.p., mentre la stessa condotta criminosa, a differenza che per le scritture private, è perseguibile d’ufficio ai sensi del successivo art. 493 bis.

14.3. Non si omette poi di considerare che l’olografo produce immediatamente e direttamente effetti nella sfera giuridica del terzo, e costituisce, una volta pubblicato, titolo immediato di acquisto per l’erede e per il legatario, come prescritto dall’art. 620 quinto comma c.c., trattandosi di scrittura la cui efficacia non necessita dell’accertamento della autenticità, e comunque distinta da tutte le altre scritture private, per loro natura inidonee a costituire titolo immediatamente costitutivo di diritti verso i beneficiati.

14.4. AI riconoscimento del suo intrinseco valore sul piano sostanziale contribuisce, secondo tale orientamento, la stessa disciplina delle norme sulla pubblicità degli atti (in particolare, gli artt. 2648 e 2660 cod. civ.), che consentono la trascrizione dell’acquisto a causa di morte per effetto della sola presentazione del testamento e dell’atto di accettazione della eredità, restando così implicitamente confermata la non necessità di verificare l’autenticità della scheda, in evidente contrapposizione con il trattamento riservato alle altre scritture private, che possono trascriversi solo se autenticate o giudizialmente accertate, secondo il disposto dell’art. 2657 cod. civ..

14.5. Si è poi contestato che il procedimento di verificazione sia adeguato al disconoscimento del testamento, trovandosi il documento in deposito presso un notaio per la pubblicazione art. 620 cod. civ.): e se per la querela di falso l’art. 224 prevede il sequestro del documento quale misura più elevata per la sua custodia quando è tenuto presso un depositario, nessuna disposizione così rigorosa è prevista nel procedimento di verificazione.

14.6. Sul piano più squisitamente processuale, si poi affermato che la contestazione della autenticità del testamento andrebbe esercitata servendosi del più rigoroso strumento della querela non tanto per la efficacia probatoria del documento, quanto perché, in materia di contraffazione, l’azione di verificazione si risolverebbe in una iniziativa processuale identica nel contenuto alla querela, ma inammissibilmente libera dalle formalità essenziali che la legge prevede invece nella disciplina dettata dagli artt. 221 e segg. c.p.c.. E si è ancora posto l’accento sulla natura dell’accertamento – per i suoi riflessi sull’onere della prova — e sulla posizione di terzietà del successibile ex lege rispetto al testamento.

14.6.1. La soluzione della querela, difatti, conduce, secondo i suoi sostenitori, ad un più corretto riparto dell’onere della prova, che verrebbe a gravare su chi contesta il testamento olografo, in ossequio al disposto dell’art. 2697 e dell’art. 457, secondo comma, c.c., il quale ultimo prevede la successione ex lege solo in mancanza di vocazione testamentaria – risolvendosi la contestazione del documento olografo, come si è detto, in una domanda di accertamento negativo (così aderendosi alla tesi della preminenza della vocazione testamentaria rispetto alla legale). Quanto poi al rapporto tra erede ab intestato e testamento, si afferma che il disconoscimento di una scrittura non può provenire da terzi, poiché tale strumento è riservato alle parti contro cui il documento è rivolto, e agli eredi o aventi causa, che possono limitarsi a non riconoscere la scrittura o la sottoscrizione del suo autore. La fattispecie normativa si riferisce, difatti, ad una scrittura del de cuius prodotta contro gli eredi a fondamento di una pretesa eccepita nei loro riguardi, mentre, prodotto il testamento, deve escludersi che chi lo contesti possa qualificarsi, sic et simpliciter, erede, poiché detta qualifica in capo ai parenti che lo impugnano richiede proprio la dimostrazione della falsità del testamento: per il successibile ex lege non residuerebbe, dunque, che lo strumento della querela di falso per contestare l’autenticità del testamento olografo.

15. Gli arresti giurisprudenziali e il perdurante contrasto che li caratterizza, al pari delle divergenti conclusioni cui è pervenuta la stessa dottrina, sono lo specchio del complessità della questione posta al collegio, la cui soluzione sul piano teorico è destinata ad assumere un determinante rilievo nelle controversie per lesione di legittima ove assai di frequente si sollevano, in via di domanda o di eccezione, doglianze in ordine alla autenticità del testamento.

La peculiarità e la singolarità della questione sta poi nel fatto che tanto gli argomenti che sorreggono quanto le critiche che contestano ciascuna delle possibili soluzioni non mancano di autorevolezza e di forza persuasiva.

16. A sostegno della sufficienza del disconoscimento gli argomenti maggiormente convincenti appaiono quelli predicativi:

– della natura di scrittura privata del testamento olografo;

– della attribuzione al successibile ex lege della qualità di erede dell'(apparente) autore della scheda olografa;

– della netta distinzione tra il piano sostanziale, che riguarda più propriamente il thema probandum, e il piano processuale, che riguarda le modalità con le quali in un processo può trovare ingresso, con dignità di prova, il documento di delazione testamentaria.

17. L’indirizzo a sostegno della necessità della querela di falso trova invece fondamento:

– nella incidenza sostanziale e processuale intrinsecamente elevata che è riconosciuta al testamento, testimoniata da un plesso di norme la cui lettura depone (deporrebbe) in tal senso;

– nella esclusione in capo al successibile ex lege della qualità di erede (almeno sino a quando tale qualità non sia stata processualmente accertata), con conseguente inapplicabilità della fattispecie contemplata nell’art. 214, secondo comma, c.p.c..

18. Non vanno per altro verso trascurate le riflessioni critiche specularmente mosse alle argomentazioni favorevoli all’una e all’altra delle tesi che si propongono oggi come soluzione (senza apparente alternativa) della questione oggetto di giudizio.

18.1. Quanto al rapporto tra successore ex lege e scheda olografa, ed alla posizione dell’erede ab intestato, il vasto dibattito giurisprudenziale e dottrinale che, in seno alla teoria generale del processo, si agita in ordine alla stessa categoria concettuale di ‘terzo’, non sembra del tutto funzionale all’adozione di una soddisfacente soluzione del caso concreto. Non sembra, difatti, seriamente revocabile in dubbio che alcuni successibili, quali i legittimari, difficilmente possano essere qualificati ‘terzi’ ai fini della non riconoscibilità della sottoscrizione del de cuius. Mentre la stessa impugnazione del testamento olografo, la contestazione della sua provenienza e/o autenticità, è spesso proposta proprio da chi, pur beneficiario di una quota inferiore a quella spettantegli, è comunque (anche) un erede testamentario, sicché nei suoi confronti non potrebbe porsi alcuna questione di accertamento della sua qualità di erede.

18.1.1. Di conseguenza, non appare utile prospettare alternative che, a seconda della posizione assunta da chi contesta il testamento (escluso totalmente dalla eredità, erede legittimo compreso nelle categorie dei legittimari, erede testamentario sia pur per quota che non lo soddisfi), postulino poi l’adozione di soluzioni differenziate caso per caso.

18.1.2. Né appare senza significato considerare che una formale disamina del concetto di terzo conduce inevitabilmente a ritenere che quella posizione, ai fini dell’art. 214 cod. proc. civ., non andrebbe esaminata non dal punto di vista del soggetto parte della lite ma dell’autore del documento che si vuoi disconoscere – e sotto tale profilo il de cuius non è mai parte nel giudizio di impugnazione del proprio testamento -, e che l’erede in disconoscimento della scrittura o della sottoscrizione del suo autore sarebbe colui che subentra al de cuius nei suoi rapporti – e ciò presuppone che quel medesimo scritto si sarebbe potuto produrre nei confronti del testatore se ancora in vita.

E tuttavia risulta assai poco agevole affermare che, tra i documenti (siano essi negoziali oppure dichiarazioni di scienza) possa annoverarsi, sic et simpliciter, il testamento, formato dal medesimo de cuius, ma destinato a produrre effetti nella sfera giuridica dei suoi destinatari e non in quella dell’autore, acquistando efficacia dal momento del suo decesso e non prima. La ratio della distinzione tra scritture private, fatta propria dalle sezioni unite di questa Corte nel 2010, secondo cui ad alcune di esse andrebbe attribuito un valore intrinsecamente maggiore, trova proprio in tali considerazioni il suo fondamento, pur senza trascurare la legittimità delle critiche di chi contesta l’irragionevolezza dell’attribuzione ad alcune di esse di un regime giuridico ‘rafforzato’ rispetto a quanto assicurato a quelle provenienti dalle parti, anche alla luce della difficoltà di individuare un criterio da adoperare per la relativa classificazione.

18.2. Parimenti poco esplorabile, ai fini che occupano il collegio, si rivela la altrettanto delicata questione relativa alla preminenza della forma testamentaria su quella legittima o viceversa, secondo la lettura data dell’art. 457, secondo comma, cod. civ., e alle relative conseguenze in ordine all’onere dalla prova. Il percorso interpretativo che la caratterizza appare altrettanto impervio, e conduce a risultati assai poco certi, alla luce dei rilievi sollevati dai fautori dell’indirizzo favorevole al disconoscimento, i quali sottolineano come nella specie non si controverta sul valore della fonte della successione (legale o testamentaria, che resta il thema probandum), ma sullo strumento probatorio utilizzabile per dare ingresso nel processo al documento stesso.

19. L’indagine deve allora indirizzarsi verso l’analisi dei due più rilevanti aspetti della questione:

a) il valore sostanziale da attribuire al testamento;

b) il meccanismo processuale attraverso cui il testamento possa acquistare definitiva efficacia probatoria.

19.1. Privilegiando l’aspetto processuale della questione, sembra potersi concordare con l’assunto secondo cui, qualunque valore possa attribuirsi al testamento olografo, la sua contestazione avrà pur sempre ad oggetto il titolo della successione, e ciò riguarderà propriamente il thema probandum, mentre la opzione tra disconoscimento e successiva (eventuale) verificazione a carico di chi di quel testamento voglia valersi, ovvero querela di falso a carico di chi quel testamento voglia eliminare dalla realtà processuale, riguarda squisitamente il piano della prova, ossia lo strumento processuale funzionale a consentire che il testamento spieghi efficacia nel processo. Con la conseguenza che la sua natura di scrittura privata è destinata a privilegiare la prima soluzione.

19.2. Se invece viene si privilegia l’aspetto sostanziale della vicenda, appare valorizzata l’intrinseca, elevata e peculiare incidenza che il testamento spiega per sua stessa natura. E si è già avuto modo di osservare come, sotto tale profilo, non manchino conferme offerte dal relativo plesso di norme destinate a evidenziarne le differenze rispetto ad una ordinaria scrittura privata (dalla sua immediata esecutività e trascrivibilità, alla disciplina penalistica che ne accomuna le sorti al documento pubblico nella ipotesi di falsificazione). È indiscusso, anche da parte di chi finisce per propendere per la soluzione favorevole al disconoscimento, che il testamento olografo sia una scrittura il cui tratto formalistico, olografo, datato e sottoscritto ai fini della sua validità la rende una scrittura privata sui generis, i cui requisiti tendono a garantire la corrispondenza del contenuto del documento a quello della dichiarazione e la tutela della integrale autenticità di quest’ultima contro le manomissioni del terzo. Proprio all’olografia (di cui non si rinvengono altri riscontri) è attribuita una funzione specifica, ossia la funzione integrativa della ‘conoscenza’ dell’atto, nel senso che con essa vuoi garantirsi che il testo sia stato ‘conosciuto’ dal suo autore, in un significato dunque che va oltre la ‘presunzione di conoscenza’ delle normali scritture.

In favore di questo indirizzo, che conduce alla soluzione favorevole alla querela di falso, si rilevano ancora la maggiore coerenza dello strumento della querela (che, con la partecipazione al processo del Pubblico Ministero, assicurerebbe migliore armonia con la rigorosa disciplina penale prevista per la ipotesi di falsificazione dell’olografo, parificata al reato di falsificazione dell’atto pubblico); la maggiore coerenza in riferimento all’oggetto dell’indagine (poiché con la contestazione della autenticità dell’olografo l’accertamento non si limita mai alla sola sottoscrizione per stabilirne la provenienza, ma all’intero testo, investito di dubbi in ordine alla sua genuinità, e ciò in armonia con l’oggetto dell’indagine per l’ipotesi di querela di falso dell’atto pubblico); la maggiore adeguatezza agli effetti giuridici dell’olografo, il quale, a differenza di ogni altra scrittura privata, è immediatamente esecutivo ed immediatamente costitutivo di situazioni giuridiche soggettive, attive e passive, in capo al chiamato alla successione.

20. È convincimento del collegio che le inevitabili aporie destinate a vulnerare l’una e l’altra ipotesi di soluzione, tra quelle prospettate sino ad oggi in dottrina e in giurisprudenza, possano essere non del tutto insoddisfacentemente superate adottando una terza via, già indicata dalla giurisprudenza di questa Corte con la risalente sentenza del 1951 (Cass. 15.6.1951 n. 1545, Pres. Mandrioli, est. Torrente), e cioè quella predicativa della necessità di proporre un’azione di accertamento negativo della falsità.

20.1. Pur nella consapevolezza delle obiezioni mosse ilio tempore a tale ipotesi di soluzione del problema, è convincimento del collegio che la proposizione di una azione di accertamento negativo che ponga una questio nullitatis in seno al processo (anche se, più correttamente, sarebbe a discorrere di una quaestio inexistentiae) consente di rispondere:

– da un canto, all’esigenza di mantener il testamento olografo definitivamente circoscritto nell’orbita delle scritture private;

• dall’altro, di evitare la necessità di individuare un (assai problematico) criterio che consenta una soddisfacente distinzione tra la categoria delle scritture private la cui valenza probatoria risulterebbe ‘di incidenza sostanziale e processuale intrinsecamente elevata, tale da richiedere la querela di falso’, non potendosi esse ‘relegare nel novero delle prove atipiche’ (così la citata Cass. ss.uu. 15161/2010 al folio 4 della parte motiva); dall’altro, di non equiparare l’olografo, con inaccettabile semplificazione, ad una qualsivoglia scrittura proveniente da terzi, destinata come tale a rappresentare, quoad probationis, una ordinaria forma di scrittura privata non riconducibile alle parti in causa;

– dall’altro ancora, di evitare che il semplice disconoscimento di un atto caratterizzato da tale peculiarità ed efficacia dimostrativa renda troppo gravosa la posizione processuale dell’attore che si professa erede, riversando su di lui l’intero onere probatorio del processo in relazione ad un atto che, non va dimenticato, è innegabilmente caratterizzato da una sua intrinseca forza dimostrativa;

– infine, di evitare che la soluzione della controversia si disperda nei rivoli di un defatigante procedimento incidentale quale quello previsto per la querela di falso, consentendo di pervenire ad una soluzione tutta interna al processo, anche alla luce dei principi affermati di recente da questa stessa Corte con riguardo all’oggetto e alla funzione del processo e della stessa giurisdizione, apertamente definita ‘risorsa non illimitata’ (Cass. ss.uu. 26242/2014).

21. Va pertanto affermato il seguente principio di diritto:

La parte che contesti l’autenticità del testamento olografo deve proporre domanda di accertamento negativo della provenienza della scrittura, e l’onere della relativa prova, secondo i principi generali dettati in tema di accertamento negativo, grava sulla parte stessa.

In questi sensi ed entro tali limiti il ricorso principale va accolto (con conseguente assorbimento di quello incidentale), e il procedimento rinviato alla Corte di appello di Roma che, alla luce del principio di diritto ora esposto, esaminerà le ulteriori questioni conseguenti alla sua applicazione.

P.Q.M.

La Corte riuniti i ricorsi, accoglie il ricorso principale nei limiti di cui in motivazione, assorbito quello incidentale, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di cassazione, alla Corte di appello di Roma in altra composizione.

Successioni e donazioni. Le liberalità d’uso possono essere condizionate dal valore del regalo ?

Cassazione sez, II civ., 19 settembre 2016, n. 18280

La liberalità d’uso prevista dall’art. 770, secondo comma, cod. civ. (non costituente donazione in senso stretto e perciò non soggetta alla forma propria di questa), sussiste quando la elargizione si uniformi, anche sotto il profilo della proporzionalità alle condizioni economiche dell’autore dell’atto, agli usi e costumi propri di una determinata occasione, da vagliarsi anche alla stregua dei rapporti esistenti fra le parti e della loro posizione sociale.  Tali liberalità trovano fondamento negli usi invalsi a seguito dell’osservanza di un certo comportamento nel tempo, e dunque di regola in occasione di quelle festività, ricorrenze, occasioni celebrative che inducono comunemente a elargizioni, soprattutto in considerazione dei legami esistenti tra le parti.    Con queste riflessioni è stata già anticipata la risposta alla parte più rilevante del secondo motivo di ricorso, che contesta l’adeguatezza della motivazione della sentenza, affermando che per le due festività esaminate (la Festa della donna e la festività di San Valentino)  sarebbero concepibili solo regali come mazzi di mimose oppure cioccolatini o inviti a cena.             L’affermazione è smentita dal ricordato insegnamento secondo cui la portata economica delle elargizioni va commisurata alla condizione dei soggetti, che nel caso di specie disponevano, come attestato in sentenza e implicito nelle difese svolte, di ingenti patrimoni e mantenevano un elevatissimo tenore di vita.

Il caso. Nella fattispecie un  abbiente signore aveva regalato alla propria compagna dei quadri d’autore ( tra le quali opere di Klimt, Picasso, Klee e Man Ray)  e alcuni gioielli di tra i quali uno  con diamanti per  13 carati.  In seguito all’interruzione delle relazione, il donante  ha  chiesto la restituzione di tutti i beni in quanto donazioni prive della forma  richiesta dall’art. 782 c.c..(l’atto pubblico). La Corte d’appello solo in parte aveva accolto le domande dell’attore  avendo escluso la natura di liberalità d’uso  in relazione ad un quadro di Picasso e all’anello da 13 carati  avendo ritenuto che solo tali donazioni costituivano apprezzabile depauperamento del patrimonio del donante e avrebbero richiesto forma prevista dall’art. 782 c.c..cioè l’atto pubblico.La Corte di appello aveva quindi condannato la convenuta al pagamento in favore dell’attore del controvalore del bene, che nel frattempo era stato venduto.

La Corte di Cassazione ha sostanzialmente confermato la pronuncia della Corte territoriale.

Testo della sentenza

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE II CIVILE

Sentenza 22 marzo – 19 settembre 2016, n. 18280

REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA CIVILE  Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. MATERA Lina – Presidente – Dott. D’ASCOLA Pasquale – rel. Consigliere – Dott. ORILIA Lorenzo – Consigliere – Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere – Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 16013/2011 proposto da: NELL’INTERESSE DELLA SIGNORA P.M.K.J. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MONTI PARIOLI 8A-10, presso lo studio dell’avvocato ADRIANA BOSCAGLI, che la rappresenta e difende; – ricorrente – Nonchè da: G.F.G. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ATTILIO FRIGGERI 106, presso lo studio dell’avvocato MICHELE TAMPONI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato EMIDIA ZANETTI VITALI; – controricorrente e ricorrente incidentale – avverso la sentenza n. 616/2011 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 03/03/2011; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 22/03/2016 dal Consigliere Dott. PASQUALE D’ASCOLA; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DE RENZIS Luisa, che ha concluso per il rigetto del ricorso principale e per l’accoglimento del quarto motivo e per il rigetto dei restanti motivi del ricorso.
Svolgimento del processo

La causa è sorta nel 2006 e concerne la richiesta di restituzione di tredici oggetti d’arte, tra cui opere di autori famosi quali (OMISSIS), che durante la relazione sentimentale tra le parti, protratta per parecchi anni, l’odierno resistente aveva consegnato alla ricorrente. Il tribunale di Milano nel 2009 ha accolto la domanda limitatamente ad un tavolo in noce intarsiato. La Corte di appello con la sentenza 3 marzo 2011 ha confermato la natura di liberalità d’uso della dazione di quasi tutte le opere, ormai in possesso della convenuta. 1.1) Ha però escluso tale natura quanto ad un quadro di (OMISSIS) del valore stimato di seicentomila Euro, asseritamente donato a chiusura di uno screzio tra le parti, perchè la donazione, avvenuta unitamente al regalo di un brillante da tredici carati, costituiva apprezzabile depauperamento del patrimonio del donante; avrebbe quindi richiesto la forma prevista dall’art. 782 c.c.. La Corte di appello ha conseguentemente condannato la convenuta al pagamento in favore dell’attore del controvalore del bene, alienato nelle more. La donataria ha interposto ricorso per cassazione affidato a un motivo. Il resistente ha svolto ricorso incidentale, affidato a cinque motivi. Fissata per la trattazione, la causa è stata rinviata su richiesta delle parti in vista di un possibile accordo. In vista dell’odierna udienza non è stata depositata alcuna memoria.
Motivi della decisione

2) La censura esposta dalla ricorrente denuncia vizi di motivazione della sentenza impugnata, in relazione alla ratio decidendi riassunta sub p.1. Essa sostiene che il quadro di (OMISSIS) e l’anello erano stati donati con atto qualificabile come liberalità d’uso e che la Corte di appello non avrebbe motivato adeguatamente in ordine alla proporzionalità dei doni con il tenore di vita degli interessati. A tal fine evidenzia tra l’altro che l’opera di (OMISSIS) nel 2006 era stata stimata soltanto 555.380,00 Euro; che la dazione era giustificata anche dalle spese sostenute dalla convenuta per l’organizzazione di una festa in onore dell’attore, da lui ingiustificatamente annullata; che altri due quadri regalati erano del valore di 400 o 450 mila Euro; che il patrimonio dell’attore era all’epoca di diverse decine di milioni di Euro; che il valore dell’anello era stato stimato dalla Corte di appello con immotivata illazione, ipotizzando un complessivo valore dei due beni superiore al milione di Euro. Il motivo di ricorso è da rigettare. La Corte di appello ha scrupolosamente esaminato gli elementi rilevanti per la decisione: la grande consistenza del patrimonio dell’attore; l’abitudine di questi di elargire regali costosi in occasione di ricorrenze; il rilievo della valutazione dei singoli beni. Con insindacabile apprezzamento di merito ha reputato che tra questa abitudine e il regalo di inusitato valore costituito dal quadro di (OMISSIS) e dal prezioso brillante vi sia “un vero iato”. Ha argomentato in proposito sia sulla base dello “sforzo economico” che il dono complessivo richiedeva, sia sulla base delle motivazioni del regalo, che non era di routine, ma era un “presente per ottenere il perdono a fronte di un comportamento incongruo”. 2.1) A fronte di queste esaurienti argomentazioni, le critiche svolte in ricorso costituiscono in sostanza una richiesta di rivisitazione delle valutazioni che spettano al giudice di merito. Ed infatti: non viene indicata alcuna risultanza di causa atta ad attribuire all’anello, che la stessa ricorrente definisce sfavillante, un valore inferiore a quello presunto dalla Corte di appello. Eppure la ricorrente è o almeno è stata in possesso dell’oggetto, avrebbe potuto farlo stimare, avrebbe potuto indicare un valore inferiore, offrendo argomenti atti a svilire un brillante di ben tredici carati, consegnatole nel contesto di relazioni del tipo che ella stessa accredita. Inoltre è incongrua la considerazione dell’annullamento della festa quale metro per commisurare la liberalità d’uso. Se infatti se ne dovesse tenere conto in modo decisivo, la dazione potrebbe essere qualificata come donazione remuneratoria, ugualmente bisognevole di forma pubblica, come prontamente rilevato in controricorso. Ed è la stessa ricorrente ad ammettere (pag. 20) che nel caso in esame si potrebbero configurare entrambe le ipotesi di cui all’art. 770 c.c.. Se ne desume che, una volta riscontrata l’anomalia della causale e l’anomalia del valore rispetto anche ai pur preziosi precedenti regali, la decisione della Corte di appello di qualificare questa elargizione come donazione di grande valore, non riconducibile al secondo comma, costituisce qualificazione correttamente motivata, che ha tenuto conto di tutti i fattori che sono diversamente valutati da parte ricorrente. La Corte di legittimità non può sostituirsi al giudice di merito con un proprio apprezzamento, potendo solo controllare la ragionevolezza e plausibilità delle valutazioni proposte dalla sentenza di appello, che risulta incensurabile. 3) Il primo motivo del ricorso incidentale denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 770 c.c.. Secondo l’attore, la Corte di appello ha errato nel qualificare liberalità d’uso i doni fatti per la ricorrenza della “festa della donna” o “per la festa di San Valentino”. La norma di cui all’art. 770, comma 2, dovrebbe essere applicata sulla base di criteri di rigore, rifacendosi a prassi consolidate nella società, al di là di “eventuali pratiche divenute comuni tra le parti”. Secondo il ricorso la nozione di liberalità d’uso sarebbe quindi rinvenibile, esemplificativamente, nel caso dei regali di Natale, ma non in relazione ad eventuali regali di Pasqua, restando esclusi in ogni caso i regali dovuti a comportamento stravagante, che contrasta con la consuetudine che deve presiedere alla liberalità d’uso. La doglianza, che presenta profili di inammissibilità perchè non risulta svolta in questi termini in appello, atteso che questo profilo non è trattato in sentenza, è comunque infondata. La liberalità d’uso si configura qualora sia disposta in determinate occasioni, quali le nozze, i compleanni, gli anniversari, in cui per consuetudine si è instaurata l’abitualità diffusa di un certo comportamento. La sussistenza delle condizioni per il manifestarsi di questi usi è verificabile diacronicamente, potendosi registrare adattamenti nel costume che sono recepiti dalla natura elastica della norma. Ne consegue che feste e ricorrenze affermatesi nel corso del tempo possono far sorgere e consolidare usi nuovi, che legittimano l’applicazione della disposizione in esame. Ciò è quanto hanno ritenuto i giudici di Milano nel configurare quale liberalità d’uso i regali fatti in occasione di due festività di conio non antico, quali la Festa della donna e la festività di San Valentino, da tempo impostesi con indiscutibile rilevanza in Italia e nel mondo occidentale. In occasione di esse, ma altrettanto potrebbe dirsi per le c.d. festa della mamma o del papà, è invalso l’uso di regali tra gli innamorati o in onore alle donne, in quanto regali che si giustificano, come hanno rilevato tribunale e Corte di appello (cfr sentenza impugnata pag. 21 e 27), in relazione al legame esistente tra le parti. E’ apodittico affermare che si tratti di stravaganti usi non riconducibili al disposto normativo ed è errato infatti affermare che regali di Pasqua – si pensi al regalo abituale dell’uovo di cioccolato, non di rado con sorprese preziose appositamente introdottevi – non corrispondano ad una consuetudine. Che le abitudini attuali registrino, anche in occasione di festività di più recente storia, l’uso del dono di fiori, dolciumi o piccoli gioielli è realtà incontestabile, che appartiene alle comuni conoscenze e che è stata affermata sia pur implicitamente anche nel caso di specie, mediante i richiami svolti a pag. 27. Ivi si è portata l’attenzione al costume sociale e familiare, evidentemente ritenuto sussistente, e alla circostanza che “l’entità dell’attribuzione” va commisurata alla condizione socioeconomica delle parti. Magistralmente Cass. 12142/93, nell’affermare che il rilevante valore dell’oggetto donato non è ostativo alla configurazione di una liberalità d’uso, ha avuto modo di spiegare che usi e costumi propri di una determinata occasione sono da vagliarsi anche alla stregua dei rapporti esistenti fra le parti e della loro posizione sociale. Sulla scorta di precedenti analoghi, la Corte di appello ha valutato la natura di queste elargizioni e il suo apprezzamento è ineccepibile. Il motivo va quindi rigettato ribadendo che: a) una liberalità d’uso prevista dall’art. 770 c.c., comma 2, (non costituente donazione in senso stretto e perciò non soggetta alla forma propria di questa), sussiste quando la elargizione si uniformi, anche sotto il profilo della proporzionalità alle condizioni economiche dell’autore dell’atto, agli usi e costumi propri di una determinata occasione, da vagliarsi anche alla stregua dei rapporti esistenti fra le parti e della loro posizione sociale. b) Tali liberalità trovano fondamento negli usi invalsi a seguito dell’osservanza di un certo comportamento nel tempo, e dunque di regola in occasione di quelle festività, ricorrenze, occasioni celebrative che inducono comunemente a elargizioni, soprattutto in considerazione dei legami esistenti tra le parti. 3) Con queste riflessioni è stata già anticipata la risposta alla parte più rilevante del secondo motivo, che contesta l’adeguatezza della motivazione della sentenza, affermando che per le due festività esaminate sopra sarebbero concepibili solo regali come mazzi di mimose oppure cioccolatini o inviti a cena. L’affermazione è smentita dal ricordato insegnamento secondo cui la portata economica delle elargizioni va commisurata alla condizione dei soggetti, che nel caso di specie disponevano, come attestato in sentenza e implicito nelle difese svolte, di ingenti patrimoni e mantenevano un elevatissimo tenore di vita. Quanto alla circostanza che non sarebbe stata fornita adeguata prova della consegna del quadro di (OMISSIS) per la ricorrenza di san Valentino, la censura si risolve nella richiesta di un inammissibile apprezzamento di merito. Basti dire che essa lamenta che sia stato valorizzato un messaggio di posta elettronica che alludeva a un San Valentino “in ritardo”, circostanza che è stata valutata dalla Corte di appello unendola al fatto che il soggetto del dipinto (“(OMISSIS)”) era coerente con quella festa. Dunque a fronte di una così logica e ineccepibile considerazione degli elementi dati, la Corte di cassazione non può ingerirsi nel giudizio di merito. 4) Con il terzo motivo l’attore deduce che la sentenza impugnata sarebbe affetta da vizi di motivazione perchè inizialmente controparte aveva qualificato liberalità d’uso solo le opere di (OMISSIS), affermando che le altre opere erano proprie. Aggiunge che la convenuta aveva addotto una lettera dell’attore 2001, in cui egli aveva soltanto manifestato la volontà di permettere alla convenuta di trattenere le altre opere, asportate senza il suo consenso. Solo in un secondo tempo la convenuta aveva allegato l’acquisto in forza di “donazioni d’uso”. Deduce che vi sarebbe contraddittorietà tra la lettera che autorizzava a trattenere quanto preso senza il suo consenso e la liberalità e lamenta che la Corte di appello non abbia considerato questo profilo. Anche questa censura è infondata. La lettera riprodotta in ricorso risulta infatti, per quanto si evince dal ricorso stesso (pag. 35), prodotta dalla convenuta a sostegno di legittima proprietà dei beni, non certo a riconoscimento di una precarietà della concessione negando la liberalità. Le correzioni di impostazione difensiva in corso di causa sono consentite se non rivelano intrinseca contraddittorietà. Ed invero non vi è incompatibilità tra negare la restituzione di un bene producendo un documento che esprime, secondo chi se ne avvale, già il titolo a trattenerlo e affermare poi che vi era altro titolo proprietario ex art. 770 c.c.. Il ricorso postula tale incompatibilità dando per scontato che vi fosse il riconoscimento di asportazione abusiva dall’appartamento (flat), secondo la tesi affermata dalla lettera, ma tale riconoscimento non si può certo ravvisare nella produzione della lettera proveniente dal G., che giovava a dimostrare la legittima proprietà. Dunque la risultanza invocata non aveva alcuna portata decisiva per negare che, a prescindere dal consenso alla detenzione già dichiarato nel 2001 dall’attore, la convenuta potesse, completando le difese, negare la restituzione adducendo altro, più confacente, titolo di acquisto. Bene ha quindi fatto la Corte di appello a trascurare questa discrasia difensiva, pienamente spiegabile con l’intreccio singolare dei rapporti tra le parti, l’oggetto (arredi domestici) della contesa e la sua complessità. 5) Fondato è invece il quarto motivo del ricorso incidentale, con il quale, in relazione al pagamento degli interessi sulla somma dovutagli quale controvalore del quadro di (OMISSIS), l’attore lamenta che la decorrenza sia stata fissata dalla sentenza al saldo. Deduce che la decorrenza degli interessi doveva essere fissata a partire dalla notifica dell’atto di citazione, avvenuta il 4 maggio 2006. La censura trova riscontro nel disposto dell’art. 1148 c.c., in forza del quale il possessore di buona fede (profilo su cui il ricorso espressamente dichiara di non voler sollevare doglianza, cfr pag. 40) può trattenere i frutti del bene solo fino al giorno della domanda giudiziale. Dal momento della domanda, una volta che venga riconosciuto il diritto alla restituzione della cosa, i frutti spettano al rivendicante. Sul controvalore del bene, anche secondo la regola generale di cui all’art. 2033 c.c., spettano interessi dalla domanda. Sul punto si può far luogo a decisione nel merito, poichè ex art. 384 c.p.c., non sono necessari altri accertamenti di fatto. 6) Resta respinto il quinto motivo, che invoca la responsabilità processuale aggravata ex art. 96 c.p.c., della ricorrente, non certo ravvisabile nel pur infondato ricorso, che esponeva una critica a un apprezzamento di merito intrinsecamente opinabile. 7) Le spese di causa devono essere compensate con riguardo a tutti i gradi di giudizio: per i primi due riprendendo quanto già ritenuto dalla Corte di appello; quanto al giudizio di legittimità, in considerazione della soccombenza reciproca per la più rilevante parte delle rispettive censure.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso principale. Accoglie il quarto motivo del ricorso incidentale, rigettati gli altri. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito, dichiara spettanti all’attore gli interessi dalla data della domanda. Spese di tutti i gradi di giudizio compensate tra le parti. Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Seconda Civile, il 22 marzo 2016. Depositato in Cancelleria il 19 settembre 2016.

 

 

 

Successione – divisione ereditaria – assegnazione in natura dei beni ereditari – indivisibilità

Sentenza cassazione civile 29 novembre 2011 numero 25332.

La sentenza in esame offre un’occasione di riflessione che riguarda il tema, di grande interesse in materia di divisione ereditaria, concernente la composizione qualitativa delle quote da assegnare ai partecipanti alla comunione, le eventuali deroghe, nel rispetto del principio di proporzionalità quantitativa nella formazione delle porzione (un precedente di riferimento è rappresentato da Cass. 9 ottobre 1971 numero 2813, in Rep. Foro italiano 1971,846,11).

Si tratta in sostanza di stabilire se, ferma necessità del rispetto dell’omogeneità nel contesto della proporzionalità qualitativa, la divisione in natura debba avvenire non solo per categorie di beni, ma in relazione ad ogni singolo bene. In dottrina l’orientamento prevalente, sembra privilegiare la tesi che ritiene inammissibile l’estromissione dalla ripartizione del singolo bene chi di quel bene è contitolare.

La giurisprudenza tuttavia sembra orientata in senso contrario cioè a ritenere che nella divisione ereditaria non deve necessariamente sussistere nella formazione delle porzione, una necessaria omogeneità delle stesse, e, considerata ciascuna categoria di beni immobili, mobili e crediti da dividere, alcuni di essi possono essere attribuiti per intero a una quota, e altri per intero ad altra quota, salvo fare poi luogo a conguaglio, e questo per evitare un eccessivo frazionamento dei beni in comunione, ma facendo pur sempre salvo il diritto di ogni condividente nell’ambito della divisione di ottenere una porzione di valore proporzionalmente corrispondente alla massa da dividere. In tale quadro, quindi, si è affermato in giurisprudenza che può operarsi questo tipo di divisione facendosi applicazione dell’articolo 727 c.c., giusto il richiamo che ne fa l’articolo 718 c.c. Si afferma quindi il principio che, pur dovendosi considerare tendenzialmente inderogabile il principio della divisione in natura, può essere fatta eccezione laddove tale criterio risulti impossibile, come nel caso in cui vi sia un solo bene o nel caso in cui ci si trovi in presenza di una pluralità di beni non comodamente divisibili. In questo caso sarà possibile procedere alla divisione in natura nel modo che risulta più conveniente, avendo cura della necessità di evitare un deprezzamento dei cespiti e di attuare nella misura migliore e più concreta possibile la definitiva separazione degli interessi dei condividenti.

Nella fattispecie tuttavia la Corte si discosta in parte da tali principi (sino al punto da non considerare indivisibile un complesso aziendale) affermando che la deroga alla regola della divisione in natura affermata dall’articolo 718 c.c. è riferibile esclusivamente all’ipotesi in cui singole unità immobiliari siano considerate indivisibili mentre la indivisibilità non può riguardare blocchi di beni in quanto la formazione di blocchi di beni o di lotti ha scopo di rendere più agevole le operazioni divisorie e quindi è dettata da ragioni di opportunità e non da intrinseca infrazionabilità dei singoli beni. Conclude affermando che il diritto a conseguire in natura la sua quota di beni ereditari sarebbe soddisfatta proprio dalla formazione omogenea dei lotti.