Categoria: Successioni e donazioni

Impugnazione di testamento olografo e azione di riduzione nei confronti dei chiamati all’eredità

 

Con la sentenza che si annota il Tribunale ha affermato, tra gli altri il seguente principio di diritto: “Qualora la testatrice abbia previsto una preferenza nell’ambito della disposizione a favore di un figlio,  in applicazione del disposto dell’art. 558 secondo comma c.c. la disposizione testamentaria a suo favore si riduce solo nel caso in cui il valore delle altre non sia sufficiente ad integrare la quota riservata al legittimario pretermesso.”

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE ORDINARIO DI REGGIO EMILIA SEZIONE PRIMA CI VILE

Il Tribunale, in composizione collegiale nelle persone dei seguenti magistrati:

dott. Luciano Varotti                                                                                 Presidente

dott. Annamaria Casadonte                                                                     Giudice Relatore

dott. Giovanni Fanticini                                                                             Giudice

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa civile di I Grado iscritta al n. RG 1963/2011 promossa da:

TIZIO con il patrocinio dell’avv. ……

ATTORE

CONTRO

CAIO elettivamente domiciliato in CORSO MAZZINI N.15 a CORREGGIO presso il difensore Avv. GIOVANNI ORLANDI

MEVIO, con il patrocinio dell’avv. ….

SEMPRONIA   con  il patrocinio  dell’avv…….

CONVENUTI

CONCLUSIONI

Per l’attore

contrariis reiectis voglia l’Onorevole Tribunale di Reggio Emilia, accertare e dichiarare l’inefficacia del testamento di De Cuius nei confronti dell’attore Tizio ridurre conseguentemente le disposizioni testamentarie della medesima affinché Tizio venga dichiarato erede di De Cuius nella misura di un terzo, in subordine determinarsi la diversa quota di eredità di De Cuius, spettante allo stesso Tizio.

In ogni caso dichiarare che a Tizio spetta la quota di un terzo di quanto dal De Cuius disposto in favore di Cicero,

Infine ricostruire l’asse ereditario di per De Cuius, ordinando a Caio e a chi emerga essere in possesso di beni ereditari, l’inventario e/o la ricostruzione dei medesimi.

Con vittoria di spese, competenze ed onorari di legge.

Si riporta alle istanze istruttorie già formulate insistendo per l’ammissione delle stesse.

Per il convenuto Caio:

Piaccia al Tribunale di Reggio Emilia, contrpriis reiectis:

  • in via principale respingere, in quanto in fondate in fatto e in diritto, le domande tutte articolate dall’attore con atto di citazione notificato in data 21 marzo2011;
  • in subordine accertare che la quota disponibile del relictum, per volontà testamentaria della defunta è devoluta a favore di Caio, stante l’azione di riduzione delle volontà testamentarie svolta da Tizio ;
  • accertare e dichiarare, operate le dovute detrazioni e la riunione fittizia delle donazioni e quant’altro, quale sia la quota del relictum spettante all’attore alla luce dette disposizioni testamentarie;
  • in via riconvenzionale, accertare che l’attore occupa senza titolo l’immobile posto in Novellara via G G , facente parte del relictum e condannare lo stesso al rilascio dell’immobile vuoto e libero di persone e cose;
  • in via riconvenzionale, accertare e dichiarare che l’autore occupa abusivamente e comunque fa uso esclusivo dell’mmobi1e caduto in successione e per l’effetto condannarlo al pagamento di un equo indennizzo a favore di Caio;
  • in via riconvenzionale accertare e dichiarare che l’immobile caduto in successione, per lo stato di abbandono e di incuria in cui versa, ha subito un degrado e per l’effetto condannare l’attore a risarcimento dei danni patiti dal fratello convenuto;
  • condannare altresì l’attore al risarcimento di ogni ulteriore danno il pregiudizio arrecato alle ragioni del convenuto.

Con vittoria di spese competenze d’onorari di causa oltre le spese di CTU e CTP nessuna esclusa. ln via subordinata istruttoria, come da foglio di precisazione delle conclusioni depositato all’udienza del 6 febbraio 2014:

Per i convenuti Sempronia e Mevio:

Piaccia al Tribunale di Reggio Emilia, in composizione monocratica, contrariis reiectis:

in via principale:

  • rigettare, in quanto infondata in fatto di diritto, le domande tutte svolte dall’autore Tizio, con atto di citazione notificato in data 18 marzo 2011:
  • in via subordinata, accertare e dichiarare, operate le dovute detrazioni e la riunione fittizia delle donazioni e quant’altro, quale sia la quota del relitto spettante all’attore alla luce delle disposizioni

In vie riconvenzionale :

  • condannare l’attore a lasciare l’immobile sito in Novellara via G G libero da persone e cose e alla riconsegna ai legittimi proprietari ;

In via riconvenzionale subordinato:

  • condannare l’attore a risarcire ai signori Sempronia e Mevio il danno, secondo l’importo che verrà determinata in corso di causa, anche eventualmente in via equitativa, dovuto all’omesso compimento delle ordinarie opere di conservazione dell’edificio caduto in successione e per il degrado che lo stesso dovesse subire;

In via riconvenzionale ulteriormente subordinata:

  • condannare l’attore a versare ai signori Sempronia e Mevio l’importo che verrà determinato in corso di causa ed anche eventualmente in via equitativa, a titolo indennizzo per l’occupazione abusiva dell’immobile e per il suo uso esclusivo.

Con vittoria di spese competenze d’onorari di causa oltre a spese di c.t.u. e CTP nessuna esclusa.

In via subordinata istruttoria, come da figlio di precisazione delle conclusioni depositato all’udienza del 6 febbraio 2014.

Concisa esposizione delle regioni di fatto e di diritto della decisione

  1. Il presente giudizio trae origine dall’atto di citazione notificato il 18 marzo 2011 da Tizio al fratello Caio nonché al figlio  Mevio in proprio e unitamente alla ex moglie Sempronia, anche in qualità di erede del figlio Cicero.
  2. Esponeva di essere figlio del De Cuius, deceduta in data 17 marzo 2010; che in data 8 giugno 2010 veniva pubblicato avanti al notaio X il testamento olografo vergato dalla defunta ed avente il seguente contenuto: “Io De Cuius, nomino quale erede per 1/2 il figlio Caio per la restante metà i nipoti Cicero e Mevio, la disposizione a favore di Caio ha preferenza in caso di riduzione. Correggio 7 marzo 2000 De Cuius.”
  3. Allegava che in applicazione delle disposizioni civilistiche alla defunta succedevano quali eredi legittimati i figli legittimi e che in virtù dell’articolo 537 del codice civile, gli spettava quantomeno un terzo dell’asse ereditario lamentava pertanto che le disposizioni testamentarie suddette fossero lesive della riserva di legittima a suo favore e pertanto conveniva i beneficiari delle disposizioni testamentarie al fine di conseguire la dichiarazione di inefficacia delle medesime nella parte lesiva della sua
  4. Aggiungeva, inoltre, che a seguito dell’intervenuto prematuro decesso del figlio Cicero, in data 16 giugno 2010, egli aveva altresì titolo per ottenere l’assegnazione della quota di un terzo dell’eredità che la testatrice De Cuius aveva devoluta in favore del figlio
  5. Infine, l’attore dopo aver richiamato le tre azioni distinte ed autonome riconosciute al legittimario pretermesso dalle disposizioni di cui all’articolo 553 – 564 c., formulata la domanda di ricostruzione giudiziale dell’asse ereditario di De Cuius tramite l’ordine a Caio e a chi emerga essere in possesso di beni ereditari, di redigere l’inventario e /o la ricostruzione dei medesimi.
  6. A seguito della notifica dell’atto di citazione si sono costituiti i convenuti Sempronia e Mevio che hanno contestato la fondatezza delle domande attoree rappresentando come l’attore fosse stato destinatario di ingenti aiuti ed elargizioni economiche da parte sia dell’ex moglie Sempronia che da parte della madre, aiuti economici stimabili in oltre € 000. Tali donazioni andavano imputate ai sensi dell’articolo 556 c.c. e 564 secondo comma c. c.
  7. Inoltre i convenuti formulavano in via riconvenzionale domanda di condanna dell’attore al rilascio dell’immobile sito in Novellara, oggetto di abusiva occupazione oltre che domanda riconvenzionale per il riconoscimento di un equo indennizzo per l’occupazione abusiva dello stesso esercitata dall’attore.
  8. Si è pure costituito il convenuto Caio che ha contestato la fondatezza della domanda attorea eccependo come l’attore avesse già in vita della madre defunta ottenuto più di quanto gli competerebbe in virtù della quota riservata.
  9. Eccepiva, altresì, che la testatrice aveva disposto che ”la disposizione a favore di Caio ha preferenza in caso di riduzione” con la conseguenza che doveva ritenersi assegnata al medesimo la porzione disponibile dell’eredità .
  10. Inoltre allegava come ai fini della determinazione detta porzione disponibile dovesse preventivamente operarsi la detrazione dei debiti ed in particolare delle spese funerarie per euro 5747,08 dallo stesso anticipate.
  11. In via riconvenzionale il medesimo convenuto Caio allegava – come già sostenuto dagli altri convenuti – che il fratello Tizio occupava senza titolo l’immobile sito in Novellara, facente parte del relictum e oltre a chiedere l’accertamento di tale abusiva occupazione, chiedeva la condanna dell’attore al pagamento di un equo indennizzo a proprio favore.
  12. Da ultimo e sempre in via riconvenzionale chiedeva l’accertamento dello stato di abbandono e di incuria in cui l’immobile versava a causa della condotta inadempiente alla cura del medesimo imputabile all’attore, il quale, conseguentemente doveva essere condannato al risarcimento di ogni ulteriore danno e pregiudizio arrecato alle sue ragioni proprietarie.
  13. La causa così articolata è stata istruita a mezzo dell’interrogatorio formale delle parti dopodiché è stata posta in decisione previa precisazione delle conclusioni come in epigrafe trascritta e rimessa al collegio per la decisione.
  14. Vanno preliminarmente richiamati i rimedi previsti dall’ordinamento a favore dell’erede legittimario pretermesso. Tali rimedi sono costituiti, in particolare, dall’azione di riduzione in senso stretto, avente lo scopo di far dichiarare l’inefficacia delle disposizioni testamentarie e delle donazioni lesive della legittima; dall’azione di restituzione contro i beneficiari delle disposizioni lesive ridotte e dall’azione di restituzione contro i terzi acquirenti da questi ultimi, aventi entrambe lo scopo di recuperare, previo vittorioso esperimento dell’azione di riduzione, i beni costituenti l’oggetto delle disposizioni lesive riportandoli nel patrimonio del legittimario; e ció in conformità al principio del diritto alla reintegrazione della quota di legittima in natura desumibile  dalla  lettura  sistematica  delle  norme  contenute  nella  sezione  recante  “la reintegrazione della quota riservata ai legittimari” con particolare riguardo alle disposizioni degli 560, 561 e 563 c.c.

15.            In tale prospettiva la domanda svolta dall’attore va ricondotta al primo dei suddetti rimedi, volto cioè a far accertare il suo diritto personale a  partecipare alla successione necessaria in qualità di figlio della defunta al quale spetta la riserva di un terzo.

  1. Poichè con la disposizione testamentaria la madre ha disposto del  suo patrimonio assegnandolo per metà al figlio Caio e per la restante metà ai nipoti Mevio e Cicero, è evidente la lesione patita dalla quota di legittima che per legge spetta all’altro figlio, odierno attore, al quale non residua alcunché.
  2. (Omissis)…..
  3. Va peraltro osservato come la testatrice abbia previsto una preferenza nell’ambito della disposizione a favore del figlio Caio, con la conseguenza che in applicazione del disposto dell’art. 558 secondo comma c.c. la disposizione testamentaria a suo favore si riduce solo nel caso in cui il valore delle altre non sia sufficiente ad integrare la quota riservata al  legittimario .    In altre parole, la testatrice ha ritenuto che la parte di riserva ed una parte della disponibile siano devolute al figlio Caio e che solo quanto devoluto ai nipoti potesse, in caso di riduzione, essere inciso.
  4. Ebbene, poiché la quota assegnata ai nipoti Cicero e Mevio è pari alla metà dell’eredità della defunta, ed è quindi superiore al terzo, deve ritenersi che la riduzione di tale disposizione sia sufficiente ad assicurare la legittima spettante all’attore.
  5. Pertanto le disposizioni testamentarie vanno dichiarate inefficaci per la sola parte relativa ai nipoti Cicero e Mevio, disponendo che esse siano inefficaci nei confronti dell’attore per la parte in cui prevedono la devoluzione ad essi della quota di un terzo dell’eredità della defunta De Cuius.
  6. Ne deriva che l’attore va considerato chiamato all’eredità del De Cuius nella misura di un terzo, unitamente al fratello Caio, che è, peró, erede per la metà ed ai figli Mevio e Cicero che restano eredi per la residua parte di un sesto.
  7. Per quanto riguarda poi l’accertamento della quota di eredità spettante all’attore sulla quota ereditata dal figlio Cicero, deceduto dopo l’apertura dell’eredità, deve rilevarsi che in mancanza di discendenti, da un canto, non opera l’istituto della rappresentazione di cui all’art. 468 c.c. mentre , dall’altro, ed attesa la mancanza di testamento opera la successione legittima.
  8. Né può fondatamente invocarsi l’accrescimento tra coeredi posto che esso presuppone l’istituzione di più eredi nell’universalità dei beni senza determinazione di parti o in parti uguali, presupposto di fatto che nel caso di specie non ricorre.
  9. Pertanto, in applicazione delle disposizioni sulla successione legittima e, in particolare, dell’art. 571 c.c. che regola la fattispecie del concorso di genitori o ascendenti con fratelli e sorelle, la quota di Cicero, pari ad un dodicesimo, deve essere ripartita per capi fra i tre eredi legittimi in modo che ai genitori spettino i 2/36 (superiore alla metà come richiesto dalla norma applicata) ed al fratello Mevio 1/36. All’autore in questo caso spetterà la quota di 1/36 sulla parte di eredità del De Cuius devoluta a Cicero.
  10. In definitiva e ricapitolando, deve concludersi che l’eredità di De Cuius deve essere ripartita fra Caio nella misura di l8/36, Tizio nella misure di 13/36 ( 12/36 quale coerede in proprio e 1/36 quale erede legittimo di Cicero), Mevio per 4/36 ( 3/36 quale coerede in proprio e I/36 quale erede legittimo del fratello Cicero) e fra Sempronia nella misura di 1/36 quale erede legittimo del figlio Cicero.

( Omissis)

P.Q.M

Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni altra istanza ed eccezione disattesa o assorbita, così dispone:

  1. dichiara l’inefficacia delle disposizioni testamentarie del testamento di De Cuius nella parte in cui devolvono a favore dei nipoti Mevio e Cicero la quota di eredità pari ad un mezzo;
  2. accerta che l’eredità di De Cuius deve essere ripartita fra Caio nella misura di 18/36, Tizio nella misura di 13/36 ( 12/36 quale coerede in proprio e 1/36 quale erede legittimo di Cicero), Mevio per 4/36 ( 3/36 quale coerede in proprio e 1/36 quale erede legittimo del fratello Cicero) e Sempronia nella misura di 1/36 quale erede legittimo del figlio Cicero;
  3. dichiara inammissibili tutte le altre domande proposte dalle parti;
  4. compensa integralmente fra le parti le spese di

REGGIO EMILIA, 21 agosto 2014

Il Giudice Relatore

dott. Annamaria Casadonte

 

Come può il creditore rivalersi sui beni  ereditari se l’erede/debitore  non ha  formalmente accettato l’eredità ?

 

Per principio espresso dall’art.2740 del codice civile  “ il debitore risponde dell’adempimento dell’obbligazione con tutti i suoi beni presenti e futuri.
Tuttavia  sovente chi è gravato da debiti,  spesso consapevolmente, per sottrarre i beni alle pretese dei creditori, omette di compiere gli atti necessari per portare a compimento la pratica successoria. In questo modo il creditore non ha la possibilità di aggredire i beni dell’eredità fino a quando gli stessi rimangono intestati al defunto (gli immobili in particolare) e non risulta intervenuta l’accettazione dell’eredità.
La soluzione del problema può essere rappresentata – come nel caso di specie – dalla declaratoria di “accettazione tacita” dell’eredità laddove sussistano atti compiuti dall’erede/debitore che lascino presumere l’intervenuta  accettazione di fatto dell’eredità.
Ove tale prova non potesse essere disponibile occorrerebbe ricorrere al diverso procedimento previsto dall’art.481 c.c. perchè il giudice  assegni un termine all’erede per dichiarare se accetta l’eredità.
Con la sentenza che si annota il Tribunale di Reggio Emilia (I  sezione civile, Sentenza n. 383 del 22.03.2022  ), ha accolto la domanda avanzata dall’impresa creditrice che intendeva sottoporre a pignoramento il bene immobile, caduto in successione, destinato al debitore, affermando tra l’altro, il seguente principio:
“ Il possesso dei beni ereditari da parte del chiamato (all’eredità), pur non presupponendo di per sé la volontà di chi li possiede di accettare l’eredità (potendo anche dipendere da un mero intento conservativo del chiamato), rappresenta tuttavia circostanza valutabile, unitamente alla mancata redazione dell’inventario, ai fini dell’accertamento dell’accettazione “ex lege“, di cui sono elementi costitutivi, appunto, l’apertura della successione, la delazione ereditaria, il possesso dei beni ereditari e la mancata tempestiva redazione dell’inventario (Cass. civ. 19.7.2006, n. 16507).” 

IL CASO. Con atto di citazione regolarmente notificato la Alfa Srl conveniva in giudizio Tizio, tra altri, chiedendo che fosse accertata e dichiarata l’intervenuta accettazione dell’eredità da parte di Tizio, nella sua qualità di chiamato all’eredità relitta dalla madre defunta Sempronia.
La domanda proposta da parte attrice nei confronti di Tizio è stata ritenuta fondata e accolta.
Tizio, infatti, successivamente alla morte della madre Sempronia, pur ponendo in essere comportamenti concludenti che presupponevano necessariamente la sua volontà di accettare tacitamente l’eredità della madre, aveva omesso l’espletamento degli adempimenti di legge  inerenti la dichiarazione di successione apertasi oltre 10 anni addietro.
In particolare Tizio aveva affidato nel corso dell’anno 2017 alla Alfa Srl l’appalto per l’esecuzione di lavori di manutenzione straordinaria dell’appartamento nel quale aveva stabilito la propria residenza ininterrottamente per almeno nove anni dopo l’apertura della successione di Sempronia, atti che lo stesso convenuto non avrebbe dovuto compiere se avesse scelto di rinunciare all’eredità; lo stesso, del resto, essendo nel possesso dei beni ereditari non aveva provveduto a redigere l’inventario entro tre mesi dal giorno dell’apertura della successione.

Testo integrale della sentenza

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE ORDINARIO DI REGGIO EMILIA

SEZIONE PRIMA CIVILE

Il Tribunale, nella persona del Giudice dott. Damiano Dazzi ha pronunciato ex art. 281 sexies c.p.c. la seguente

SENTENZA

nella causa civile di I° Grado iscritta al n. r.g. 678/2021 promossa da:

ALFA SRL, in persona del legale rappresentante pro tempore ……….., con il patrocinio dell’avv. ORLANDI GIOVANNI;

ATTRICE

contro

TIZIO

CAIO

CONVENUTI

 

CONCLUSIONI

Parte attrice ha così precisato le conclusioni:

“Piaccia all’Ill.mo Sig. Giudice unico, contrariis reiectis:

Nel merito:

1)         dichiarare aperta la successione di SEMPRONIA nata a ………… il ………. e qui ivi deceduta …………..;

2)         dichiarare che TIZIO, ha accettato l’eredità del defunto genitore SEMPRONIA, avendo lo stesso compiuto atti manifestanti la volontà di accettazione riguardanti l’immobile posto in ………, Via ……… n. …….., int.6., unità censita al Catasto Urbano dello stesso Comune al Foglio 39, mappale 299, sub. 42, cat. A3, Cl. 3, vani 7, R.C. 578,43 e Foglio 39 mappale 299 sub. 56, Cat. C6, Cl. 4, mq 17, R.C. 71,99, immobile caduto nell’asse ereditario;

3)         accertare e dichiarare, pertanto, il subentro, ab intestato o a diverso titolo, dello stesso TIZIO, quale unico erede, nella titolarità del compendio ereditario facente capo alla Sig.ra SEMPRONIA del quale faceva parte la quota indivisa di 3/4 dell’appartamento afferente l’edificio condominiale posto in ………, Via ………. n. …, int. 6 , unità censita al Catasto Urbano dello stesso Comune al

–           Foglio 39, mappale 299, sub. 42, cat. A3, Cl. 3, vani 7, R.C. 578,43 e

–           Foglio 39 mappale 299 sub. 56, Cat. C6, Cl. 4, mq 17, R.C. 71,99 ;

4)         accertare e dichiarare che CAIO, in qualità di comproprietario dell’appartamento con annesso garage, afferente l’edificio condominiale sito in …….., Via  ………. n. …, int. 6 , unità censita al Catasto Urbano dello stesso Comune al Foglio 39, mappale 299, sub. 42 e al Foglio 39 mappale 299 sub. 56, è obbligato in solido con il padre, TIZIO, all’adempimento degli oneri derivanti dal contratto d’appalto da quest’ultimo stipulato con la ALFA srl e, per l’effetto, condannarlo al pagamento del corrispettivo dovuto alla Società attrice per l’opera dalla stessa prestata, ammontante ad € 62.578,23, o a quella diversa maggiore o minore somma che fosse accertata in corso di causa, oltre interessi di mora e maggior danno da ritardato pagamento;

5)         in via subordinata, dirsi tenuto CAIO a pagare alla ALFA Srl, in persona del suo legale rappresentante pro tempore, la somma di € 62.578,23 oltre interessi, o quella maggiore o minore che dovesse essere accertata e determinata nel corso del giudizio, a titolo di indennizzo per indebito arricchimento;

6)         ordinare al Conservatore dei RR.II. di Reggio Emilia di provvedere, ai sensi dell’art. 2648 c.c., alla trascrizione della presente sentenza con esonero da sua responsabilità;

7)         pronunciare sentenza provvisoriamente esecutiva ex lege;

8)         condannare delle parti convenute al pagamento delle spese e dei compensi professionali di causa oltre IVA e C.p.a. se e in quanto dovuti, nonché a eventuali spese di CTU e CTP”.

 

MOTIVI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE

1.

Con atto di citazione notificato il 02/02/2021, ALFA Srl conveniva in giudizio, dinanzi all’intestato

Tribunale, TIZIO e CAIO, chiedendo che fosse accertata e dichiarata l’intervenuta accettazione dell’eredità da parte di TIZIO, nella sua qualità di chiamato all’eredità relitta dalla madre defunta SEMPRONIA.

Chiedeva inoltre di accertare e dichiarare che l’altro convenuto, CAIO, “in qualità di comproprietario dell’appartamento sito in ……….., int. 6 , unità censita al Catasto Urbano dello stesso Comune al foglio 29, mappale 299”, fosse “obbligato in solido con il padre, TIZIO, all’adempimento degli oneri derivanti dal contratto d’appalto da quest’ultimo stipulato con la ALFA srl e, per l’effetto, condannarlo al pagamento del corrispettivo dovuto alla Società attrice per l’opera dalla stessa prestata, ammontante ad € 62.578,23, o a quella diversa maggiore o minore somma che fosse accertata in corso di causa, oltre interessi di mora e maggior danno da ritardato pagamento”.

In via subordinata, chiedeva la condanna di CAIO al pagamento della “somma di € 62.578,23 oltre interessi, o quella maggiore o minore che dovesse essere accertata e determinata nel corso del giudizio, a titolo di indennizzo per indebito arricchimento”.

I convenuti non si costituivano in giudizio, di talché all’udienza del 20/05/2021 ne veniva dichiarata la contumacia.

Assegnati i termini di cui all’art. 183, comma 6, c.p.c., la causa –  istruita solo documentalmente –  veniva rinviata all’odierna udienza per discussione orale e contestuale decisione ex art. 281 sexies c.p.c.

 

Fatte queste premesse, la domanda proposta da parte attrice nei confronti di TIZIO è fondata e deve essere accolta.

TIZIO, infatti, successivamente alla morte della madre SEMPRONIA, deceduta a ……….il ………, ha posto in essere comportamenti concludenti che presupponevano necessariamente la sua volontà di accettare tacitamente l’eredità della madre.

Sul punto, giova rammentare che l’art. 476 c.c. dispone che “..l’accettazione è tacita quando il chiamato all’eredità compie un atto che presuppone necessariamente la sua volontà di accettare e che non avrebbe il diritto di fare se non nella qualità di erede..”, e che la giurisprudenza di legittimità è ferma nel ritenere che detta accettazione tacita possa essere desunta anche dal comportamento del chiamato che abbia compiuto atti incompatibili con la volontà di rinunciare o che siano concludenti e significativi della volontà di accettare (cfr. ex multis Cass. n. 22317/2014; Cass. n. 10796/2009; Cass. n. 5226/2002; Cass. n. 7075/1999).

In effetti, il comportamento di TIZIO, emergente dalle produzioni documentali, consente di ritenere provati i fatti posti da parte attrice a fondamento della domanda di accertamento dell’accettazione tacita di eredità, dovendosi in particolare ritenere, in adesione alle argomentazioni svolte sul punto dalla ALFA Srl e sulla base della documentazione prodotta, che TIZIO, affidando nel corso dell’anno 2017 alla ALFA Srl l’appalto per l’esecuzione di lavori di manutenzione straordinaria dell’appartamento, in cui egli è rimasto residente con la moglie anche dopo la morte della madre quantomeno sino al 17/12/2020 (doc. 31) ed ancora sino al 02/02/2021 (data di ricezione della notifica della citazione), abbia compiuto atti che presupponevano necessariamente la sua volontà di accettare l’eredità della madre SEMPRONIA, come si è detto deceduta il 01/12/2011 (doc. 26), trattandosi di atti che lo stesso convenuto non avrebbe avuto il diritto di compiere se non nella sua qualità di erede.

L’appartamento nel quale sono stati effettuati i lavori in questione (unità censita in catasto al foglio 29, particella 299) era in comproprietà della de cuius SEMPRONIA, madre di TIZIO, per la quota di 3/4 (cfr. visura catastale di cui al doc. 32),

Si consideri che la ALFA Srl –   per i lavori commissionati da TIZIO ed eseguiti presso il succitato immobile, iniziati nel mese di giugno 2017 (cfr. comunicazione di inizio lavori del 12/06/2017  di cui al doc. 6) –  ha emesso nei confronti di TIZIO la fattura n. 8 del 13/03/2019, pari ad € 62.578,23 Iva compresa (€ 56.889,30 + Iva), e lo stesso

TIZIO è stato condannato da questo Tribunale a pagare alla ALFA Srl, a titolo di compenso per tali opere appaltate, la somma di € 54.118,98 + Iva con la sentenza n. 1048/2021 pubblicata il 21/09/2021 (procedimento RG 3392/2019), la quale ha accertato l’esistenza di contratto di appalto tra la ALFA Srl e TIZIO, avente ad oggetto proprio i predetti lavori di manutenzione straordinaria eseguiti nell’appartamento.

A ciò si aggiunga che, avendo TIZIO mantenuto la propria residenza presso tale immobile ininterrottamente per almeno nove anni dopo il decesso della de cuius SEMPRONIA, egli fosse nel possesso del predetto bene immobile, come si evince sia dai certificati di residenza in atti, sia dall’esito della notifica del 02/02/2021 della citazione introduttiva del presente giudizio.

Ciò posto, si rileva che, secondo costante giurisprudenza (v. Cass. n. 21436/2018), “in tema di successioni “mortis causa”, la delazione che segue l’apertura della successione, pur rappresentandone un presupposto, non è da sola sufficiente all’acquisto della qualità di erede, essendo necessaria l’accettazione da parte del chiamato, mediante “aditio” o per effetto di una “pro herede gestio”, oppure la ricorrenza delle condizioni di cui all’art. 485 c.c.”

E’ stato affermato che “l’immissione in possesso dei beni ereditari non comporta accettazione tacita dell’eredità, poiché non presuppone necessariamente, in chi la compie, la volontà di accettare, cionondimeno, se il chiamato nel possesso o compossesso anche di un solo bene ereditario non forma l’inventario nel termine di tre mesi decorrenti dal momento di inizio del possesso, viene considerato erede puro e semplice; tale onere condiziona, non solo, la facoltà di accettare con beneficio d’inventario, ma anche quella di rinunciare all’eredità in maniera efficace nei confronti dei creditori del “de cuius” (v. Cass. n. 15690/2020).

In definitiva, come affermato dalla giurisprudenza di legittimità, il possesso dei beni ereditari da parte del chiamato, pur non presupponendo di per sé la volontà di chi li possiede di accettare l’eredità (potendo anche dipendere da un mero intento conservativo del chiamato), rappresenta tuttavia circostanza valutabile, unitamente alla mancata redazione dell’inventario, ai fini dell’accertamento dell’accettazione “ex lege”, di cui sono elementi costitutivi, appunto, l’apertura della successione, la delazione ereditaria, il possesso dei beni ereditari e la mancata tempestiva redazione dell’inventario (Cass. civ. 19.7.2006, n. 16507)

La norma contenuta nell’art. 485 c.c. contempla, dunque, un’ipotesi di accettazione ex lege dell’eredità, prevedendo che il chiamato all’eredità che si trovi, a qualunque titolo, nel possesso dei beni ereditari assuma la qualità di erede puro e semplice qualora non provveda a redigere l’inventario entro tre mesi dal giorno dell’apertura della successione o della notizia della devoluta eredità.

Nel caso di specie, ad avviso di questo Giudice, risultano integrati i requisiti della fattispecie di cui

all’art. 485 c.c.:  non risulta infatti agli atti essersi effettuato inventario ai sensi dell’art. 485 c.c.; sono provate l’apertura della successione e la delazione ereditaria; inoltre è dimostrata la circostanza del possesso dell’immobile oggetto dell’eredità materna da parte di TIZIO, tenuto conto delle certificazioni anagrafiche di residenza, che hanno un indubbio valore presuntivo, delle risultanze della notifica della citazione introduttiva del presente giudizio, e dei lavori in appalto commissionati nel 2017 alla ALFA Srl dallo stesso TIZIO, riguardanti l’abitazione nel quale risiede e di cui era comproprietaria la madre per la quota di 3/4, dai quali è agevole far discendere che TIZIO è stato, sin dalla data della morte della madre (01/12/2011), e quantomeno sino al 02/02/2021 (quindi per circa 9 anni), residente nell’immobile oggetto di successione e, quindi, nel possesso dell’immobile rilevante ai sensi dell’art. 485 c.c.

E’ dunque corretto ritenere presuntivamente provata l’avvenuta accettazione tacita dell’eredità da parte dello stesso quale erede puro e semplice (in mancanza di redazione dell’inventario).

Deve essere altresì accolta la richiesta di trascrizione della presente sentenza in presenza delle condizioni di cui all’art. 2648 c.c.

 

3.

Non è invece fondata la domanda svolta nei confronti di CAIO (figlio di TIZIO).

Va innanzitutto premesso che il contratto di appalto, come accertato nella summenzionata sentenza del Tribunale di Reggio Emilia n. 1048/2021, passata in giudicato, è stato stipulato tra TIZIO (committente) e ALFA Srl (appaltatrice), e dunque CAIO, pur se di fatto informato dei lavori, non era parte di tale rapporto negoziale.

La fonte della sua obbligazione non può pertanto essere di natura contrattuale.

Parte attrice ha sostenuto –  a fondamento di detta domanda di condanna di CAIO al pagamento della somma di € 62.578,23 quale compenso dell’appalto stipulato tra TIZIO e ALFA Srl –  l’assunto secondo cui CAIO, quale comproprietario dell’immobile sul quale erano stati eseguiti i lavori di manutenzione straordinaria commissionati dal padre alla ALFA Srl, sarebbe “obbligato in solido per le obbligazioni contratte per la cosa comune”.

L’assunto non può essere condiviso.

Infatti, con riferimento alle obbligazioni assunte da TIZIO nell’interesse della cosa comune nei confronti di terzi – in difetto di un’espressa previsione normativa che stabilisca il principio della solidarietà, trattandosi di un’obbligazione avente ad oggetto una somma di denaro, e perciò divisibile –  la responsabilità dei comunisti è retta dal criterio della parziarietà e non già della solidarietà, per cui le obbligazioni assunte nell’interesse della cosa comune si imputano ai singoli comproprietari soltanto in   proporzione delle rispettive quote, secondo criteri simili a quelli dettati dagli artt. 752 e 1295 cod. civ. per le obbligazioni ereditarie (cfr. Cass. SS.UU., Sentenza n. 9148 del 08/04/2008).

Contrariamente dunque a quanto sostenuto dalla difesa attorea, non sussiste alcuna solidarietà passiva dei partecipanti alla comunione con riguardo alle obbligazioni assunte nell’interesse della cosa comune nei confronti di terzi.

La sentenza della Suprema citata da parte attrice (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 21907 del 21/10/2011) riguarda la ben diversa fattispecie dei comproprietari di un’unità immobiliare sita in condominio che sono tenuti in solido, nei confronti del condominio medesimo, al pagamento degli oneri condominiali, e nella specie, la Suprema Corte ha chiarito che il principio espresso non si pone in contrasto con quello già enunciato dalle summenzionate Sez. Un. n. 9148 del 2008, riguardando quest’ultima pronuncia la diversa problematica delle obbligazioni contratte dal rappresentante del condominio verso i terzi e non la questione relativa al se le obbligazioni dei comproprietari inerenti le spese condominiali ricadano o meno nella disciplina del condebito ad attuazione solidale.

Improponibile risulta infine, sotto il profilo della sussidiarietà, la domanda subordinata svolta nei confronti di CAIO di arricchimento senza causa ex art. 2041 c.c., ostando il carattere sussidiario dell’azione generale di arricchimento (artt. 2041 e 2042 cod. civ.). Si rammenta infatti che, ai sensi dell’art. 2041 cod. civ., uno dei presupposti per la proposizione dell’azione generale di arricchimento senza causa è rappresentato dalla sussidiarietà dell’azione (art. 2042 c.c.). L’azione di arricchimento senza causa ha carattere sussidiario ed è quindi inammissibile, ai sensi dell’art. 2042 cod. civ., allorché chi la eserciti, secondo una valutazione da compiersi in astratto e perciò prescindendo dalla previsione del suo esito, abbia a disposizione, come avvenuto in specie, un’altra azione per farsi indennizzare il pregiudizio subito (cfr. Sezioni Unite n. 28042 del 25/11/2008).

Sulla base delle superiori considerazioni, la domanda principale svolta nei confronti di CAIO va quindi respinta in quanto infondata, e la domanda subordinata di arricchimento senza causa va dichiarata inammissibile in ragione del carattere sussidiario dell’azione generale di arricchimento (artt.

2041 e 2042 cod. civ.).

 

4.

Quanto infine alla regolamentazione delle spese d lite, nel rapporto processuale tra ALFA Srl e

TIZIO, le spese di lite, seguendo la soccombenza, vanno poste a carico di quest’ultimo.

Le spese si liquidano secondo i parametri di cui al D.M. n. 55 del 2014, come modificato dal D.M. n.

37 del 2018.

Alla luce del valore indeterminabile della domanda svolta nei confronti di TIZIO, e della

bassa complessità delle questioni sottese a detta domanda, si applica lo scaglione da € 26.001,00 ad € 52.000,00; le fasi da prendere in considerazione sono quelle di studio, introduttiva, istruttoria e decisoria; la natura non particolarmente complessa delle questioni di diritto e di fatto trattate, la natura documentale della causa, la mancata assunzione di prove costituende e l’adozione del modulo decisorio semplificato della discussione orale e contestuale decisione ex art. 281 sexies c.p.c., giustificano una riduzione del 50% dei compensi di tutte le fasi, corrispondenti, rispettivamente, ad € 810,00, ad €

574,00, ad € 860,00 e ad € 1.384,00.

Anche il contributo unificato da riconoscere a parte attrice va parametrato al valore indeterminabile della domanda svolta nei confronti di TIZIO (€ 518,00), a cui occorre aggiungere la marca da bollo pari ad € 27,00.

Nulla invece deve disporsi in ordine alle spese nel rapporto processuale tra parte attrice e l’altro convenuto CAIO.

 

P.Q.M.

Il Tribunale di Reggio Emilia in composizione monocratica, definitivamente decidendo, ogni diversa istanza, eccezione e deduzione disattese o assorbite, così provvede:

1)         Accerta e dichiara l’accettazione tacita dell’eredità di SEMPRONIA, deceduta a …….il……… , da parte di TIZIO, e conseguentemente che TIZIO è erede di SEMPRONIA.

2)         Ordina al Conservatore dei R.R.I.I. competente per territorio di provvedere alla trascrizione della presente sentenza con esonero da ogni sua responsabilità.

3)         Rigetta la domanda svolta in via principale da parte attrice nei confronti del convenuto CAIO.

4)         Dichiara inammissibile la domanda svolta in via subordinata da parte attrice nei confronti del convenuto CAIO.

5)         Condanna il convenuto TIZIO al pagamento, in favore di ALFA Srl, delle spese di lite, che liquida in € 3.628,00 per compenso, in € 545,00 per anticipazioni, oltre IVA e CPA come per legge e rimborso delle spese forfettarie nella misura del 15% del compenso ex art. 2 del D.M. 55/2014.

 

Reggio Emilia, 22 marzo 2022

Il Giudice

dott. Damiano Dazzi

Eredità e polizze vita: qual è il rapporto? La giurisprudenza della Cassazione. (Cass. Civ., n. 29583 del 22 ottobre 2021)

 

La Corte di Cassazione è intervenuta per dirimere una complessa vicenda successoria, che aveva dato luogo ad una controversia tra gli eredi del contraente di una polizza vita. In particolare la disputa  concerneva i premi relativi ai contratti di assicurazione sulla vita a favore di un erede, che i ricorrenti pretermessi intendevano assoggettare a  collazione.
Nella fattispecie una polizza assicurativa di tipo index “mista” caso vita e morte, era stata stipulata dal defunto padre sulla vita del figlio (assicurato di polizza) e avente  il contraente quale beneficiario caso vita ( e dunque nel caso di sopravvivenza di entrambi alla scadenza del contratto), e  gli eredi dell’assicurato (figlio) quali beneficiari caso morte (nel caso di decesso dell’assicurato stesso).
Va detto che la polizza prevedeva quale ulteriore condizione che in caso di premorienza del contraente padre rispetto all’assicurato figlio, prima della scadenza del contratto, l’assicurato avrebbe preso posto del contraente deceduto.
E’ accaduto che  il padre è premorto al figlio e quest’ultimo è subentrato, in forza della summenzionata prescrizione, nella posizione di contraente di polizza continuando ad esserne anche assicurato.
La Corte ha riaffermato un principio ormai ricorrente nella giurisprudenza di legittimità, statuendo, in estrema sintesi, che al momento della morte del contraente, il figlio è tenuto al conferimento del premio per il “caso di vita”, nell’ipotesi, di fatto verificatasi, di premorienza del contraente rispetto all’assicurato. Allo stesso obbligo di conferimento è tenuto  anche per quanto concerne i premi  per il “caso di morte”, in forza dell’art. 741 del codice civile, pur essendo egli l’assicurato e non il beneficiario dei vantaggi della polizza, destinati agli eredi di lui, ossia del medesimo assicurato.
In entrambi i casi si viene a configurare una donazione indiretta.
Mette conto di osservare che l’obbligo di collazione, cioè del conferimento della donazione fatta dal defunto nei confronti di un legittimario per il calcolo della massa ereditaria, riguarda la minore somma tra l’ammontare dei premi pagati e il capitale, non potendo la collazione avere per oggetto che il vantaggio conseguito dal discendente.

Se poi l’evento, condizionante il diritto all’indennizzo, non si sia ancora verificato all’apertura della successione, il discendente è intanto tenuto al conferimento del premio, salva la necessità, in favore del discendente stesso o dei suoi eredi, di procedere a un nuovo conteggio qualora l’indennità si rilevi in seguito inferiore.

La Corte ha  quindi espresso il seguente principio di diritto: “L’obbligo di collazione previsto dall’art. 741 c.c. relativamente a ciò che il defunto ha speso a favore dei suoi discendenti, per soddisfare, tra l’altro, premi relativi a contratti sulla vita a loro favore, riguarda tanto l’ipotesi dell’assicurazione stipulata dal discendente sulla propria vita, “sub specie” di pagamento del debito altrui, quanto quella di assicurazione sulla vita del discendente (o del “de cuius”), che rientra nello schema della donazione indiretta, quale contratto a favore di terzo. Peraltro, giacché il capitale assicurato può rivelarsi, di fatto, inferiore ai premi – che costituiscono, in linea di principio, l’oggetto del conferimento ex art. 2923, comma 2, c.c. – l’obbligo di collazione va precisato nel senso che, indipendentemente dalla natura cd. tradizionale o finanziaria della polizza, il conseguente conferimento riguarda la minore somma tra l’ammontare dei premi pagati ed il capitale, non potendo la collazione avere ad oggetto che il vantaggio conseguito dal beneficiario (o dai suoi discendenti), sul quale grava l’onere della relativa prova.”

Testo integrale della sentenza

Cassazione civile sez. II – 22/10/2021, n. 29583

Intestazione

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

FATTI DI CAUSA

  1. La presente causa riguarda la successione legittima di B.A., deceduto il (OMISSIS), lasciando i figli S., Sa., G., R. e i discendenti del figlio premorto A.: B.F.A. e B.R.F.. In corso di causa è deceduta B.T., lasciando eredi I.R., I.M., I.E.R., I.U..

Per quanto interessa in questa sede, il Tribunale di Catania, adito da Ba.Sa., G. e R., con sentenza non definitiva, riconosceva, con riferimento a una polizza vita stipulata dal de cuius con la Fideuram, nella quale le attrici avevano ravvisato una donazione del genitore in favore di B.S., che non ricorrevano i presupposti della collazione invocata dalle attrici, in difetto delle condizioni richieste per poter ravvisare nella fattispecie una liberalità del genitore in favore del figlio.

Il Tribunale rigettava inoltre la domanda ulteriore della attrici, che avevano richiesto il conferimento di una gestione patrimoniale, intestata al defunto e al figlio S.. Anche in questo caso il primo giudice riteneva che non ci fossero i presupposti della collazione, non essendoci prova che l’intestazione congiunta costituisse una donazione.

Il Tribunale rigettava ancora la domanda, proposta dalle attrici, di annullamento per incapacità naturale del genitore della vendita di quote della B. s.r.l., intercorsa fra il de cuius e il figlio S.; rigettava altresì la domanda volta a fare accertare la simulazione del medesimo contratto, rilevando che non ricorrevano, nella specie, le condizioni per riconoscere alle legittimarie attrici la qualità di terzo ai fini della prova della simulazione e, in ogni caso, in difetto della deduzione di elementi presuntivi idonei nel termine concesso per le deduzioni istruttorie.

Il primo giudice, in accoglimento della domanda riconvenzionale di B.S., riconosceva che le attrici e B.T. erano tenuti al conferimento della somma di Lire 100.000.000 ricevuta in donazione del de cuius.

  1. La Corte d’appello di Catania, adita con appello principale dalle originarie attrici e in procedimento separato, poi riunito, dagli eredi di B.T., nonché con appello incidentale da B.S., ha riformato in parte la sentenza.

2.1. In relazione al contratto del 2 aprile 2001, con il quale il de cuius aveva venduto al figlio S. le quote di sua proprietà della B. s.r.l., la Corte d’appello ha innanzitutto rigettato la domanda, con la quale le attrici Ba.Sa., B.G. e B.R. avevano chiesto disporsi l’annullamento del contratto per incapacità naturale del disponente. Essa ha osservato in proposito che gli elementi addotti al fine della prova della incapacità, consistenti nelle dichiarazioni testimoniali della persona di servizio del de cuius, non erano idonei a tal fine, emergendo da tali dichiarazioni emergevano solo disturbi e malesseri tipici dell’età avanzata.

2.2. La Corte d’appello ha poi esaminato la domanda di simulazione, proposta dalle attrice con riferimento al medesimo atto. In relazione a tale domanda la corte di merito ha negato che le attrici potessero fruire delle agevolazioni probatorie accordate al legittimario che agisce per fare accertare la simulazione di atti, apparentemente onerosi, compiuti dal defunto. Essa ha osservato che le attrici non avevano agito in qualità di legittimari con l’azione di riduzione, ma avevano agito quali eredi legittimi al fine della ricostruzione del patrimonio in funzione della collazione della donazione dissimulata. In verità, ha proseguito la Corte d’appello, le stesse attrici avevano chiesto, in via subordinata, la riduzione della donazione dissimulata sotto l’apparenza della vendita; tuttavia, la domanda, in quanto non accompagnata dalla richiesta di volere conseguire la quota di riserva, non poteva ritenersi idoneo esercizio dell’azione di riduzione, avuto riguardo agli stringenti oneri di deduzione imposti a colui che proponga la relativa domanda, secondo consolidati principi della giurisprudenza di legittimità.

La Corte d’appello ha proseguito nell’analisi, ponendo in luce che le appellanti non avevano impugnato la statuizione della sentenza di primo graddella parte in cui il Tribunale aveva rimarcato che le attrici non avevano indicato, entro i termini fissati per le preclusioni istruttorie, alcune/elemento presuntivo volto a dimostrare la pretesa simulazione. In proposito la Corte d’appello, richiamando le, previsione di cui all’art. 342 c.p.c., ha rilevato che le appellanti si erano inammissibilmente limitate a riproporre la tesi sostenuta in primo grado, senza sottoporre a una effettiva revisione critica la decisione impugnata. Solo nel grado le appellanti avevano indicato gli elementi presuntivi volti a comprovare l’esistenza di donazioni indirette.

2.3. La corte d’appello, in accoglimento della ragione di censura proposta dalle originarie attrici, ha riconosciuto che B.A. era tenuto al conferimento del premio versato dal defunto relativo alla polizza stipulata da de cuius. In proposito essa ha osservato che si trattava di polizza indicizzata a premio unico, che era stata stipulata da de cuius sulla vita del figlio B.S.; che la polizza aveva quali beneficiari, per il “caso vita”, il contraente e, per il “caso morte”, gli eredi testamentari o legittimi dell’assicurato B.S.; che il meccanismo della polizza prevedeva, per l’ipotesi che l’assicurato fosse ancora in vita al decesso del contraente, il subentro dell’assicurato nella posizione del medesimo contraente, con preclusione di poter variare i beneficiari caso vita e caso morte.

Così identificato il meccanismo di polizza, la Corte d’appello ha ravvisato in essa una liberalità realizzata dal defunto in favore de6iglio, subentrato al contraente e restando pertanto beneficiario in “caso vita”. E’ vero – ha proseguito la Corte d’appello – che lo strumento prescelto del defunto corrispondeva a un interesse finanziario e non per sé stesso a un fine di liberalità; tuttavia, “tenuto conto dell’età dell’originario contraente e della tipologia dello strumento prescelto con scadenza a lungo termine, della possibilità di far subentrare nel contratto la persona scelta come contraente, rende evidente il fine di liberalità perseguito dal defunto”. In quanto alla possibilità, già ventilata dal primo giudice, che il premio pagato avrebbe potuto non coincidere con il premio, la Corte d’appello ha riconosciuto, visto che la Compagnia non aveva dato una risposta esauriente sul contenuto della polizza “per ragioni di tutela della privacy del nuovo contraente, che l’onere di provare il minore beneficio era a carico dell’assicurato, “trattandosi dell’unico soggetto che avrebbe potuto dimostrare l’effettivo valore dell’importo ricevuto (in misura maggiore o minore dell’importo versato dal de cuius)”.

La Corte di merito, in esito a tale ricostruzione, ha imposto a B.S. l’obbligo di conferire in collazione il premio versato dal de cuius, pari a Euro 800.000,00.

2.4. E’ stato invece rigettato il motivo d’appello, con il quale le attrici originarie avevano censurato la decisione di primo grado nella parte in cui il Tribunale aveva negato che costituisse donazione l’intestazione, in nome del de cuius e del figlio, dei titoli esistenti presso la Banca Fideuram. Il primo giudice aveva negato che fosse stata data la prova della provenienza della provvista da parte del solo defunto. In relazione a tale statuizione la Corte d’appello ha osservato che le appellanti si erano limitate e ribadire la provenienza esclusiva della provvista dal solo defunto, senza neanche censurare l’ulteriore considerazione del primo giudice “in ordine al fatto che la gestione in parola è oggetto di un’apertura di credito in conto corrente, concessa ai due cointestatari della gestione”.

2.5. La Corte d’appello, infine, ha riformato la sentenza di primo grado in ordine a un ulteriore aspetto.

Il primo giudice, in accoglimento della domanda riconvenzionale proposta da B.S., aveva riconosciuto che il genitore aveva donato alle figlie Lire 100.000.000, imponendo l’obbligo del conferimento a carico delle attrici e di B.T.. La Corte d’appello, accogliendo l’appello proposto sul punto dalle originarie attrici, ha esteso l’obbligo di collazione a B.S., riconoscendo che il defunto aveva elargito identico importo a favore di ciascuno dei sei figli.

  1. Per la cassazione della sentenza B.S. ha proposto ricorso affidato a quattro motivi.

Ba.Sa., B.G. e B.R. hanno resistito con controricorso, contenente ricorso incidentale affidato a quattro motivi.

B.F.A. e B.R.F. hanno resistito con controricorso.

Hanno resistito con controricorso anche I.U., I.E.R., I.R. e I.M..

In vista dell’udienza camerale del 21 gennaio 2021, B.S. ha depositato memoria. Hanno depositato memoria anche I.U., I.E.R., I.R. e I.M.. La causa, con ordinanza di pari data, è stata rimessa alla pubblica udienza.

Il ricorrente ha depositato ulteriore memoria in prossimità della pubblica udienza.

 

RAGIONI DELLA DECISIONE

  1. Il primo motivo del ricorso principale denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 342 e 346 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

Si premette, da parte del ricorrente, che il primo giudice, in relazione alla polizza Fideuram, aveva rigettato la domanda di collazione proposta dai coeredi sulla base di una duplice ratio: a) l’inidoneità dello strumento utilizzato al fine di realizzare una liberalità; b) il rilievo che “i soggetti indicati come beneficiari sono altri e diversi da quello che si assume essere stato il donatario (e cioè il convenuto B.S.”). Ciò posto, il ricorrente evidenzia che, nel proporre il gravame, le appellanti avevano proposto considerazioni generiche, in parte anche improprie (così quella con la quale si assumeva che l’assicurato, avendo assunto la qualità di contraente alla morte del de cuius, avesse acquisito il potere di variare i beneficiari, laddove tale facoltà era espressamente esclusa dalle previsioni di polizza). Pertanto, assenza di idonee critiche verso la rafia decidendi della decisione di primo grado 1 l’appello doveva essere dichiarato inammissibile ai sensi dell’art. 342 c.p.c..

Il motivo è infondato. Risulta dalla trascrizione dell’atto di appello operata nel ricorso, che le appellanti avevano sostenuto che l’operazione realizzata dal genitore, seppure avesse ad oggetto un investimento finanziario, fu concepita e voluta dal de cuius al fine di favorire il figlio B.S. e non gli apparenti beneficiari della polizza ovvero i figli del medesimo B.S.. Avevano poi precisato che, secondo le previsioni della polizza, l’assicurato, alla morte dello stipulante, aveva assunto la qualità di contraente, vale a dire quella qualità in considerazione della quale la Corte d’appello ha riconosciuto che la fattispecie aveva realizzato una donazione del de cuius in favore del figlio. Non è vero perciò che la Corte d’appello abbia definito la lite sulla base di circostanze non dedotte. La Corte d’appello ha soltanto dato una qualificazione giuridica di un fatto dedotto. Del resto, costituisce orientamento pacifico nella giurisprudenza della Corte quello secondo cui “ai fini della specificità dei motivi d’appello richiesta dall’art. 342 c.p.c., l’esposizione delle ragioni di fatto e di diritto, invocate a sostegno del gravame, può sostanziarsi anche nella prospettazione delle medesime ragioni addotte nel giudizio di primo grado, non essendo necessaria l’allegazione di profili fattuali e giuridici aggiuntivi, purché ciò determini una critica adeguata e specifica della decisione impugnata e consenta al giudice del gravame di percepire con certezza il contenuto delle censure, in riferimento alle statuizioni adottate dal primo giudice” (Cass. n. 23781/2020).

Il rilievo che le appellanti avessero erroneamente sostenuto che colui che era subentrato al contraente aveva acquisito la facoltà di variare i beneficiari, nulla toglie all’idoneità della critica mossa alla sentenza di primo grado. Infatti, l’essenza della critica non è in tale aspetto, ma nel non avere il tribunale colto che il genitore aveva fatto ricorso a un meccanismo negoziale comunque idoneo a beneficiare il figlio, che diveniva destinatario del capitale assicurato “per il caso di vita”.

  1. Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 346 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

Si pone in luce che le appellanti non avevano formulato alcuna censura contro la statuizione della sentenza di primo grado, laddove il primo giudice aveva negato l’obbligo di collazione, a carico di B.S., argomentando che i beneficiari della polizza erano soggetti diversi dal supposto donatario. Secondo il ricorrente, la carenza di un’apposita censura su questa statuizione, identificata quale autonoma ratio decidendi idonea a giustificare il rigetto della domanda, imponeva alla Corte d’appello di dichiarare inammissibile l’impugnazione.

Il motivo è infondato. La censura contro la supposta ratio deddendi era stata in effetti formulata, in quanto al rilievo del primo giudice, fondato sulla diversa identità dei beneficiari, le appellanti avevano obiettato che l’operazione fu attuata dal genitore non con il fine di favorire i beneficiari, ma il figlio S., a carico del quale permaneva l’obbligo di conferimento del premio (Cass. n. 3194/2019; n. 12280/2016).

  1. Il terzo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e art. 115 c.p.c..

La sentenza è oggetto di censura nella parte in cui la corte di merito ha posto a carico dell’attuale ricorrente l’onere di provare “l’effettivo valore dell’importo ricevuto (in misura maggiore o minore del premio versato dal de culla)”.

La Corte d’appello, in questo modo, ha violato il criterio di riparto dell’onere probatorio, in base al quale era onere delle attrici, le quali avevano dedotto l/esistenza della liberalità, fornire la prova dei fatti costitutivi della pretesa. Alla carenza di sufficienti e adeguate informazioni da parte della Compagnia, le attrici ben avrebbero potuto supplire con istanza di esibizione.

Il quarto motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 737 e 741 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

La Corte d’appello, nell’imporre all’attuale ricorrente, il conferimento in collazione del premio unico versato dal defunto, ha violato le norme in materia, sotto una molteplicità di profili: a) perché B.S. non era il beneficiario della polizza, ma solo il soggetto subentrato al contrante, privo peraltro del potere di variazione; b) perché egli non aveva ricevuto alcunché dal defunto, e non potendosi imporre a suo carico l’obbligo di collazione di un premio volto in ipotesi a procurare un beneficio in favore di soggetti diversi; c) perché la natura del contratto rendeva persino aleatoria ed incerta l’esistenza e la misura beneficio.

  1. Il terzo e il quarto motivo, da esaminare congiuntamente, sono infondati.
  2. Si può ritenere acquisito che l’assicurazione di cui si discute nella presente causa fu stipulata dal de cuius non sulla propria vita, ma sulla vita del figlio B.S..

Si trattava inoltre di una polizza c.d. mista sulla vita del terzo, sia “per il caso di vita” sia “per il caso di morte”.

Si intende per assicurazione sulla vita “per il caso di vita” quella in cui l’assicuratore è obbligato a pagare se a un dato momento una data persona (nel caso in esame B.S.) è ancora in vita. Nell’assicurazione sulla vita “per il caso di morte” l’assicuratore è obbligato a pagare se a un dato momento una data persona è morta.

Nel caso in esame, il de cuius (contraente), per il caso di vita, aveva riservato a sé il beneficio; per il caso di morte la polizza fu stipulata a favore di terzo: secondo la sentenza gli eredi testamentari o legittimi dell’assicurato B.S., secondo gli scritti difensivi di parte “de nipoti del sig. B.A.” (pag. 17 del ricorso), “figli di B.S.” (pag. 5 del controricorso delle ricorrenti incidentali). Agli effetti che rilevano in questa sede la divergenza non incide minimamente sul significato giuridico dell’operazione. Si prevedeva ancora che, in caso di premorienza dello stipulante, nella posizione di contraente sarebbe subentrato l’assicurato.

  1. Si deve ora chiarire che la designazione di uno o più terzi beneficiari è sempre possibile e mai necessaria nel contratto di assicurazione sulla vita, in quanto anche al di fuori dei casi in cui il contraente riservi espressamente a sé stesso la somma assicurata, una designazione generica o specifica di uno o più beneficiari può sempre mancare, senza che il contratto ne soffra. Insomma, la designazione del beneficiario (che può essere coeva o successiva alla sottoscrizione del contratto: art. 1920 c.c., comma 2), è elemento normale del contratto di assicurazione sulla vita, ma non essenziale. Potrà darsi il caso che il contraente decida, ab origine, di riservare a proprio vantaggio il capitale o la rendita assicurata; è anche perfettamente concepibile che la designazione del terzo beneficiario manchi in toto: nell’uno e nell’altro caso, evidentemente, il diritto alla somma assicurata, entrerà nel patrimonio del contraente e si trasferisce ai suoi eredi, secondo le comuni norme sulla successione ereditaria (Cass. n. 7683/2015 in motivazione). Lo stesso dicasi quando l’originaria designazione venga revocata (art. 1921 c.c.), senza essere, in seguito, sostituita da una nuova. Il punto è controverso in dottrina.
  2. Si deve dare inoltre per acquisito che la polizza stipulata dal de cuius aveva contenuto finanziario. Per polizze vita a contenuto finanziario si intendono le polizze in cui la componente vita e di investimento risulta preponderante rispetto a quella demografica-previdenziale tipica delle polizze di assicurazioni sulla vita c.d. “tradizionali” di cui all’art. 1882 c.c. Senza che sia minimamente necessario approfondire la tematica, ai fini che interessano in questa sede, è sufficiente il rilievo che, nelle polizze di tipo classico, l’assicurato mira generalmente a garantire la disponibilità di una somma a familiari ovvero a terzi al momento della propria morte ed il rischio di perdita del capitale è pari a zero, essendo predeterminato l’importo da erogare al contraente o al beneficiario alla scadenza del contratto. Invece, nelle polizze a contenuto finanziario, al posto dell’obbligo restitutorio in capo all’impresa di assicurazione, viene conferito una sorta di mandato di gestione del denaro investito e l’investitore matura il diritto al mero risultato di gestione che quindi varia in base a una serie di fattori: l’andamento del mercato, dei titoli investiti, eccetera. Il riferimento è in particolare alle polizze unit e index linked, il cui rendimento, nel primo caso, è parametrato all’andamento di fondò comuni di investimento e, nel secondo, ad indici di vario tipo, generalmente titoli azionari. L’elemento caratterizzante tale tipologie di polizze è dunque il rischio finanziario, che, nelle così dette linked “pure” grava interamente sull’assicurato, poiché la compagnia non garantisce né la restituzione del capitale, né eventuali rendimento minimi.
  3. Costituisce principio acquisito che, in tema di polizza vita, la designazione dà luogo a favore del beneficiario a un acquisto iure proprio ai vantaggi dell’assicurazione (art. 1920 c.c.), anche se sottoposto alla condizione risolutiva della mancata revoca della designazione (Cass. n. 3263/2016). Iure proprio vuol dire che il diritto trova la sua fonte nel contratto e non entra a far parte del patrimonio ereditario dello stipulante (Cass., S.U., n. 11421/2021; n. 25635/2018; n. 15407/2000). E’ opinione unanime, in dottrina e in giurisprudenza, che la designazione del beneficiario sia un negozio unilaterale, personalissimo e non recettizio, con cui il contraente individua in modo generico o specifico il destinatario della prestazione dell’assicuratore (Cass. n. 4833/1978).
  4. Ex art. 1923 c.c., comma 2, in tema di assicurazione sulla vita a favore di un terzo, le norme sulla collazione e sulla riduzione sono fatte salve in riferimento ai primi pagati dallo stipulante non alle somme percepite dal beneficiario.

La Suprema Corte ha chiarito che le polizze sulla vita, aventi contenuto finanziario, nelle quali sia designato come beneficiario un soggetto terzo non legato al contraente da vincolo di mantenimento, sono configurabili, fino a fino a prova contraria, come “donazioni indirette” a favore dei beneficiari delle polizze stesse (Cass. n. 3263/2016). Si rileva che è il pagamento del premio che costituisce pertanto il c.d. “negozio mezzo” (l’assicurazione) utilizzato per conseguire gli effetti del “negozio fine” (la donazione). Sono i premi pagati, pertanto, che comportano liberalità atipica, non il contratto di assicurazione, che non può considerarsi quale uno degli atti di liberalità contemplati dall’art. 809 c.c. (Cass. n. 7683/2015).

Il rilievo è esatto, perché, la natura finanziaria delle polizze pone problemi diversi, ad esempio se sia applicabile l’art. 1923 c.c., comma 1, secondo cui le somme dovute dall’assicuratore in base a un’assicurazione sulla vita “non possono essere sottoposte ad azione esecutiva o cautelare”. Si osserva che questo regime di favore per l’assicurato consistente nella impignorabilità e nella insequestrabilità della prestazione assicurativa – si giustificherebbe in base al fatto che le polizze vita sono strumenti volti alla previdenza e al risparmio. Ove, per contro, una polizza sia contratta a fini esclusivamente speculativi (ravvisabili, anche solo in parte, nei contratti linked), essa non potrà godere della specifica tutela riconosciuta dalla norma. Ora, e senza che sia minimamente necessario in questa sede indagare oltre su tale questione, si può tranquillamente riconoscere che il dibattito sulla natura delle polizze aventi contenuto finanziario non riguarda l’idoneità dello strumento a realizzare una donazione indiretta, “che può realizzarsi nei modi più vari, essendo caratterizzata dal fine perseguito di realizzare una liberalità e non già dal mezzo, che può essere il più vario nei limiti consentito dall’ordinamento (Cass. n. 21449/2015; n. 3134/2012; n. 5333/2004). In quanto all’aleatorietà del beneficio, si nota in dottrina che, nelle assicurazioni sulla vita in genere, l’arricchimento del beneficiario non sta nell’indennità, che è sempre eventuale e aleatoria, ma nell’acquisto del diritto ai vantaggi economici dell’operazione, cui corrisponde il depauperamento del donante. Le successive diminuzioni possono essere considerate ai fini della collazione, ma non fanno perdere all’atto il carattere di donazione. Tanto questo è vero che è applicabile alla designazione l”art. 775 c.c. e “se compiuta da un incapace naturale, è annullabile a prescindere dal pregiudizio che quest’ultimo possa averne risentito” (Cass. n. 7683/2015 cit..).

  1. L’art. 741 c.c., dice soggetto a collazione ciò che il defunto ha speso a favore dei suoi discendenti per assegnazioni fatte a causa di matrimonio, per avviarli all’esercizio di un’attività produttiva o professionale, per soddisfare premi relativi a contratti di assicurazione sulla vita a loro favore o per pagare i loro debiti.

Quanto alle spese fatte per soddisfare premi relativi a contratti di assicurazione, a favore dei discendenti (propria o dei discendenti medesimi), è opinione concorde degli interpreti che la norma comprende sia l’ipotesi dell’assicurazione stipulata dal discendente sulla propria vita, sub specie di pagamento del debito altrui, sia l’assicurazione sulla vita del discendente (o del de cuius), che rientra nello schema della donazione indiretta, sub specie di contratto a favore di terzo. Per il discendente, infatti, ottenere l’indennizzo o assicurarlo ai propri familiari, dopo la propria morte, può infatti rappresentare un vantaggio non meno rilevante che l’intraprendere un’attività lucrativa. Si avrebbe invece donazione diretta in ipotesi di messa a disposizione del discendente delle somme necessarie per pagare i premi di assicurazione sulla vita di lui. In generale si rileva che l’art. 741 c.c., risulterebbe meramente indicativo di singole elargizioni da ritenersi comprese nell’ampia dizione dell’art. 737 c.c., facente riferimento a tutto ciò che i discendenti o il coniuge hanno ricevuto per donazione, direttamente o indirettamente, e pertanto privo di autonoma portata normativa, perché le elargizioni prevista dalla norma ricadrebbero sotto lo schema generale dell’art. 737 c.c..

  1. E’ incontroverso che la polizza stipulata dal de cuius prevedeva che, in caso di premorienza del contraente rispetto all’assicurato, il posto del contraente fosse preso dall’assicurato medesimo, il quale diveniva beneficiario della polizza per il “caso di vita”.
  2. In conclusione, la fattispecie negoziale, al momento della morte dello stipulante, vedeva B.S. tenuto al conferimento del premio per il “caso di vita”, nell’ipotesi, di fatto verificatasi, di premorienza del contraente rispetto all’assicurato. Lo vedeva inoltre tenuto al conferimento anche per il “caso di morte”, in forza dell’art. 741 c.c., pur essendo egli l’assicurato e non il beneficiario dei vantaggi della polizza, destinati agli eredi di lui, ossia del medesimo B.S.. E’ stato chiarito che, ai fini della collazione e della riunione fittizia, il pagamento dei premi di un’assicurazione per conto di un terzo, è avvicinabile all’adempimento di un obbligo altrui, al quale e’, appunto, apparentato dall’art. 741 c.c..
  3. Nelle polizze vita in genere, anche fuori dall’ambito delle polizze a contenuto finanziario, potrà avvenire che il capitale assicurato si rilevi di fatto inferiore ai premi, che costituiscono in linea di principio l’oggetto del conferimento ex art. 2923 c.c., comma 2. L’obbligo di collazione va precisato nel senso che si deve conferire la minore somma tra l’ammontare dei premi pagati e il capitale, non potendo la collazione avere per oggetto che il vantaggio conseguito dal discendente. Se poi l’evento, condizionante il diritto all’indennizzo, non si sia ancora verificato all’apertura della successione, il discendente è intanto tenuto al conferimento del premio, salva la necessità, in favore del discendente stesso o dei suoi eredi, di procedere a un nuovo conteggio qualora l’indennità si rilevi in seguito inferiore. E’ naturale che l’onere3.di provare conseguimento di un vantaggio minore rispetto al premio, sia a carico del beneficiario o degli eredi di lui subentrati nell’obbligo di conferimento. La Corte d’appello, nel rilevare che B.S. non aveva dato la prova di un arricchimento minore rispetto al premio pagato dal defunto, ha fatto esatta applicazione del generale principio di vicinanza della prova (Cass. n. 9099/2012; n. 8018/2021).
  4. Il quinto motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 737 c.p.c., in relazione all’arto. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

La sentenza è oggetto di censura laddove la corte d’appello ha imposto a carico dell’attuale ricorrente l’obbligo di collazione della somma di Lire 100.000.000. Si sostiene che il principio, applicato dalla sentenza impugnata, circa l’insorgenza automatica dell’obbligo di collazione anche in assenza di apposita domanda, implica pur sempre l’individuazione, ad opera della parte, della specifica donazione da conferire. Il ricorrente rileva che le attrici, nel proporre la domanda, non avevano dedotto alcunché, né avevano lamentato lesione di legittima. In effetti la donazione era stata dedotta dall’attuale ricorrente con la domanda riconvenzionale proposta in primo grado.

Il motivo è infondato. La donazione di denaro, come riconosce la Corte d’appello, era stata ammessa dall’attuale ricorrente in sede di interrogatorio formale. Al cospetto di una tale ammissione la Corte d’appello ha fatto corretta applicazione del principio, consolidato nella giurisprudenza della Corte, secondo cui l’obbligo della collazione sorge automaticamente a seguito dell’apertura della successione e i beni donati devono essere conferiti indipendentemente da una espressa domanda dei condividenti, mentre chi eccepisce un fatto ostativo alla collazione ha l’onere di fornirne la prova (Cass. n. 1159/1995; n. 18625/2010; n. 8507/2011).

  1. Il primo motivo del ricorso incidentale denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1147 e 553 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

La sentenza è oggetto di censura nella parte in cui la corte d’appello ha negato alle legittimarie attrici la qualità di terzi ai fini della prova della simulazione dell’atto di disposizione compiuto dal de cuius, nonostante esse avessero proposto anche domanda di riduzione. Si sostiene che i principi che hanno indotto la Corte di merito a dichiarare inammissibile la domanda operano nella successione testamentaria, non nella successione legittima.

Il motivo è infondato. In relazione agli oneri di deduzione imposti al legittimario che agisce in riduzione, la Corte d’appello ha richiamato il principio secondo “il legittimario che proponga l’azione di riduzione ha l’onere di indicare entro quali limiti sia stata lesa la sua quota di riserva, determinando con esattezza il valore della massa ereditaria nonché quello della quota di legittima violata dal testatore. A tal fine, l’attore ha l’onere di allegare e comprovare tutti gli elementi occorrenti per stabilire se, ed in quale misura, sia avvenuta la lesione della sua quota di riserva (potendo solo in tal modo il giudice procedere alla sua reintegrazione), oltre che di proporre, sia pure senza l’uso di formule sacramentali, espressa istanza di conseguire la legittima, previa determinazione della medesima mediante il calcolo della disponibile e la susseguente riduzione delle donazioni compiute in vita dal de cuium (Cass. n. 1357/2017; n. 14473/2011).

Questo orientamento è stato di recente oggetto di significative precisazioni da parte della recente giurisprudenza della Corte, per la quale “I principi di giurisprudenza sugli oneri di deduzione imposti al legittimario che agisce in riduzione non possono essere intesi nel senso che il legittimario è tenuto a precisare nella domanda la entità monetaria della lesione, ma piuttosto che la richiesta della riduzione di disposizioni testamentarie o donazioni deve essere giustificata alla stregua di una rappresentazione patrimoniale tale da rendere verosimile, anche sulla base di elementi presuntivi, la sussistenza della lesione di legittima” (Cass. n. 17926/2020; n. 18199/2020).

Si chiarisce che, nel proporre la domanda di riduzione, il legittimario, senza l’uso di formule sacramentali, deve denunciare la lesione di legittima; che, a sua volta, la denuncia della lesione implica un confronto fra quanto il legittimario consegue, come erede legittimo o testamentario, e quanto avrebbe diritto di ricevere come erede necessario; che il confronto, per forza di cose, avviene in base a una certa rappresentazione patrimoniale, che il legittimario deve indicare nei suoi estremi essenziali già nella domanda, perché la lesione di legittima deve essere enunciata in termini concreti e non come pura eventualità (Cass. n. 276/1964).

Gli oneri imposti al legittimario che propone l’azione di riduzione si atteggiano allo stesso modo tanto nella successione legittima, quanto nella successione testamentaria; mentre è vero solo che questi oneri subiscono una ulteriore semplificazione nel caso di domanda di riduzione proposta dal legittimario preterito (Cass. n. 5458/2017) e nella ipotesi di domanda di riduzione proposta dal legittimario, erede ab intestato, nel caso di integrale esaurimento del patrimonio mediante donazioni (Cass. n. 16535/2020).

La Corte d’appello, seppure si sia riferita al precedente orientamento della giurisprudenza di legittimità, ha posto l’accento, nello stesso tempo, sulla genericità della domanda di riduzione proposta dalle attuali ricorrenti incidentali. Si evidenzia che, con la stessa domanda non era stata ” addotta alcuna lesione di legittima”. Grazie a tale rilievo, la sentenza impugnata rimane in linea con la giurisprudenza di legittimità anche a volere considerare le precisazioni fatte dalle più recenti pronunce intervenute in materia, che escludono anch’esse l’ammissibilità di domande di riduzione, nelle quali la lesione sia solo genericamente enunciata.

1.1. Con il motivo in esame, le ricorrenti richiamano i principi giurisprudenziali in base ai quali, ai fini della prova della simulazione di atti di disposizione compiuti dal de cuius, il legittimario potrebbe assumere la veste di terzo anche se non sia stata proposta domanda di riduzione e pure in assenza di disposizioni testamentarie (Cass. n. 12317/2019). Il principio è certamente esatto, ma il suo richiamo non giova alla tesi delle ricorrenti incidentali. E’ esatto che la qualità di terzo è riconosciuta al legittimario in quanto tale, anche se non si ponga una questione di riduzione, ma questo non vuol dire che il legittimario, solo perché legittimario, quando impugni per simulazione un atto compiuto dal de cuius, venga a trovarsi sempre e comunque nella veste di terzo e non in quella del contraente (Cass. n. 7134/2001). Perché gli sia riconosciuta la veste di terzo occorre che l’accertamento della simulazione sia richiesto dal legittimario in tale specifica veste, per rimediare a una lesione di legittima, intesa l’espressione in senso ampio, modo da comprendere non solo la reintegrazione in senso proprio, tramite la riduzione della donazione dissimulata, ma anche il recupero all’asse ereditario del bene oggetto di alienazione simulata ovvero di donazione dissimulata nulla per difetto di forma (Cass. n. 8215/2013; n. 19468/2005).

La motivazione data dalla Corte di merito, nella parte in cui ha posto in luce la genericità della deduzione della lesione di legittima, è in linea con la giurisprudenza di legittimità da questo diverso punto di vista.

  1. Il secondo motivo denuncia violazione dell’art. 342 c.p.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio.

Le ricorrenti si dolgono perché la corte d’appello ha ritenuto che non fosse stata da loro impugnata la statuizione del primo giudice nella parte in cui questi aveva ritenuto che fossero stati indicati, nel termine accordato per le deduzioni istruttorie, gli elementi presuntivi idonei a confermare la simulazione della vendita delle quote sociali intercorsa fra il defunto e il figlio. Si sostiene che in appello furono indicati una pluralità di elementi idonei dare corpo all’ipotesi della simulazione.

Il motivo è inammissibile, perché si dirige contro ratio aggiuntiva priva di effettiva incidenza sulla decisione, che si regge interamente sulla riconosciuta mancanza delle condizioni per accordare al legittimario la qualità di terzo: quindi sulla riconosciuta inammissibilità della prova per presunzioni già in linea di principio. Si sa che la censura che investa una considerazione della sentenza impugnata che non abbia spiegato alcuna rilevanza sul dispositivo è inammissibile per difetto di interesse (Cass. n. 10420/2005; n. 8087/2007).

  1. Il terzo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 428 c.c. in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

E’ oggetto di censura il rigetto della domanda di annullamento, per incapacità naturale del defunto, della vendita di quote sociale intercorsa fra il genitore e B.S.. Si sostiene che, in base agli elementi istruttori, la domanda andava invece accolta, essendo stata raggiunta sia la prova dell’incapacità, sia la prova della mala fede dell’altro contraente.

Il motivo è inammissibile: si censura la valutazione delle prove da parte della Corte d’appello, intendendosi accreditare in questa sede una lettura degli elementi istruttori diversa rispetto a quella compiuta dal giudice di merito (Cass., S.U., n. 34476/2019), che ha dato congrua e adeguata valutazione del proprio convincimento. La Corte d’appello, infatti, ha esaminato la deposizione testimoniale ritenendo che da questa emergessero solo i disturbi e i malesseri tipici dell’età avanzata. Si legge nella sentenza impugnata che “il B. dimenticava dove posava gli oggetti e aveva difficoltà a scrivere e di faceva aiutare, ma dettava gli importi degli assegni e li sottoscriveva, evidenziando, quindi la piena consapevolezza delle proprie scelte e disposizioni”.

Tale apprezzamento, esente da vizi logici o giuridici, è incensurabile in questa sede (Cass. n. 17977/2011; n. 515/2004).

  1. Il quarto motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

La sentenza è oggetto di censura laddove i giudici d’appello hanno negato la natura liberale della intestazione congiunta dei titoli, in nome del de cuius e del figlio B.S., presso la Banca Fideuram. Si richiamano in proposito i principi di giurisprudenza sulla insorgenza automatica dell’obbligo di collazione all’apertura della successione. Tali principi sono intesi dalle ricorrenti incidentali nel senso che spettava al donatario provare l’esistenza di un fatto ostativo alla collazione, mentre la Corte d’appello ha invece posto a carico delle attuali ricorrenti incidentali l’onere di dare la prova di un effetto (la collazione, appunto) che, in base alla giurisprudenza, consegue automaticamente dall’apertura dalla successione.

Il motivo è infondato. Esso è ispirato a una improponibile interpretazione del principio secondo cui “In presenza di donazioni fatte in vita dal de cuius, la collazione ereditaria – in entrambe le forme previste dalla legge, per conferimento del bene in natura ovvero per imputazione – è uno strumento giuridico volto alla formazione della massa ereditaria da dividere al fine di assicurare l’equilibrio e la parità di trattamento tra i vari condividenti, così da non alterare il rapporto di valore tra le varie quote, da determinarsi, in relazione alla misura del diritto di ciascun condividente, sulla base della sommatoria del relictum e del donatum al momento dell’apertura della successione, e quindi garantire a ciascuno degli eredi la possibilità di conseguire una quantità di beni proporzionata alla propria quota. Ne consegue che l’obbligo della collazione sorge automaticamente a seguito dell’apertura della successione (salva l’espressa dispensa da parte del de cuius nei limiti in cui sia valida) e che i beni donati devono essere conferiti indipendentemente da una espressa domanda dei condividenti, essendo sufficiente a tal fine la domanda di divisione e la menzione in essa dell’esistenza di determinati beni, facenti parte dell’asse ereditario da ricostruire, quali oggetto di pregressa donazione. Incombe in tal caso sulla parte che eccepisca un fatto ostativo alla collazione l’onere di fornirne la prova nei confronti di tutti gli altri condividenti” (Cass. n. 15131/2005).

Infatti, tale principio vuol dire che la collazione opera in presenza di donazioni, senza necessità di domanda, incombendo a colui che neghi l’operatività dell’istituto di fornire la prova del fatto impeditivo. Ma, appunto, il principio opera a condizione che risulti l’esistenza di donazioni. Queste, qualora non risultino in modo palese, debbono essere provare da chi le deduce. Insomma, si presume l’obbligo del conferimento della donazione che risulti oggettivamente o sia stata provata, non si presume invece l’esistenza della donazione solo perché ne sia stato chiesto il conferimento. Le ricorrenti intendono invece il principio come se dicesse che chi chieda la collazione può limitarsi a dedurre la esistenza di donazioni, spettando agli altri fornire la prova del contrario: il che, in verità, è conclusione che nessuno ha mai pensato di sostenere.

  1. In conclusione, sono rigettati sia il ricorso principale, sia il ricorso incidentale.

Avuto riguardo alla particolarità della vicenda si ravvisa la sussistenza di giusti motivi per compensare, fra tutte le parti, le spese di lite.

Ci sono le condizioni per dare atto D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13, comma 1-quater, della “sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale e delle ricorrenti incidentali, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto”.

 

P.Q.M.

rigetta il ricorso principale e il ricorso incidentale; dichiara compensate fra tutte le parti le spese del presente giudizio; ai sensi delD.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale e delle ricorrenti incidentali, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 10 giugno 2021.

Depositato in Cancelleria il 22 ottobre 2021

L’immobile “abusivo” entra a far parte del patrimonio ereditario?

 

Corte di Cassazione , sez. III, ud. 21 febbraio 2023 (dep. 17 aprile 2023), n. 16141

Con questo arresto gli ermellini hanno ribadito il principio, già affermato dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 25021/2009, che l’immobile abusivo oggetto di demolizione è parte dell’asse ereditario, si trasmette agli eredi e su di esso si forma la comunione ereditaria, salvo il caso della rinuncia.  Pertanto l’ordine di demolizione del manufatto abusivo, anche nell’ipotesi di acquisto dell’immobile per successione a causa di morte, conserva la sua efficacia nei confronti dell’erede del condannato, stante la preminenza dell’interesse paesaggistico e urbanistico.

Il caso.  Due coniugi in qualità di proprietari, furono condannati– per i reati ex artt. 20, lett. c), L. n. 47 del 1985, 1-sexies L. n. 431 del 1985, 734 c.p  –  per avere realizzato, in assenza di concessione edilizia e di ogni autorizzazione, in area sottoposta a vincolo ambientale, un immobile di un piano di 91 mq., 4 verande di varie dimensioni, una scala ed una recinzione.

Gli eredi dei proprietari, nell’ambito di un successivo procedimento  nei loro confronti, sorto a seguito del provvedimento della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Foggia, di esecuzione dell’ordine di demolizione contenuto nella sentenza del primo giudice, chiesero di essere estromessi sostenendo  di non avere acquistato l’immobile mortis causa in quanto sorto su terreni occupati abusivamente e quindi sconosciuto ai registri immobiliari. Trattandosi, a loro giudizio, di bene inesistente non avrebbero ereditato alcunchè e nemmeno avrebbero potuto rinunciare all’eredità. Avverso il provvedimento di rigetto i prefati hanno proposto ricorso in Cassazione.

Con  la decisione che si annota la Suprema Corte ha  affermato che i condannati (i genitori, per l’appunto, dei ricorrenti) dovevano essere considerati proprietari dell’immobile oggetto di causa, che non può pertanto essere considerato “fantasma”, bensì una cosa già oggetto di diritto di proprietà con le dimensioni ben descritte nell’imputazione della sentenza.

Testo integrale della sentenza

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ANDREAZZA   Gastone      –  Presidente   –

Dott. PAZIENZA    Vittorio     –  Consigliere  –

Dott. SEMERARO    Luca    –  rel. Consigliere  –

Dott. REYNAUD     Gianni F.    –  Consigliere  –

Dott. CORBO       Antonio      –  Consigliere  –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

B.G., nato a (Omissis);

B.M., nato a (Omissis);

avverso l’ordinanza del 10/10/2022 del TRIBUNALE di FOGGIA;

udita la relazione svolta dal Consigliere LUCA SEMERARO;

lette le conclusioni del PG RAFFAELE GARGIULO;

Il PG conclude per il rigetto del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

  1. Con l’ordinanza del 10 ottobre 2022 il Tribunale di Foggia ha rigettato l’istanza presentata da B.G. e B.M. di estromissione dal procedimento sorto a seguito del provvedimento della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Foggia del 7 giugno 2021 di esecuzione dell’ordine di demolizione contenuto nella sentenza della Pretura di Lucera del 23 maggio 1997, irrevocabile il 17 giugno 1997, di applicazione della pena nei confronti di B.M. e A.A., per i reati ex artt. 20, lett. c), L. n. 47 del 1985, 1-sexies L. n. 431 del 1985, 734 c.p., perché, in qualità di proprietari, realizzarono, in assenza di concessione edilizia e di ogni autorizzazione, in area sottoposta a vincolo ambientale, un immobile di un piano di 91 mq., 4 verande di varie dimensioni, una scala ed una recinzione.
  2. Avverso tale ordinanza ha proposto ricorso per cassazione il difensore di B.G. e B.M., eredi dei condannati, deducendo con l’unico motivo il vizio di motivazione.

Il Tribunale di Foggia avrebbe errato nel ritenere che i ricorrenti abbiano acquistato l’immobile mortis causa.

La zona su cui insiste l’immobile abusivo sarebbe stata interessata da occupazioni abusive del terreno, di proprietà di terzi, in seguito oggetto di più edificazioni. I soggetti occupanti sarebbero stati condannati per i reati edilizi commessi, con il relativo ordine di ripristino.

Per effetto dell’occupazione abusiva, l’unico diritto esercitato sugli immobili sarebbe il possesso: o perché mantenuto nel tempo o perché acquistato attraverso atti in forma di scrittura privata.

L’immobile de quo, come gli altri, sarebbe “sconosciuto ai pubblici registri immobiliari”; nel caso esaminato, la successione dei genitori non avrebbe avuto alcun bene da trasferire; non vi sarebbe stato un testamento che abbia disposto sull’immobile abusivo né i ricorrenti avrebbero ereditato o acquisito il possesso dell’immobile. Per l’assenza di beni, non avrebbero potuto neanche rinunciare all’eredità. Dunque, contrariamente a quanto sostenuto dall’ordinanza, non vi sarebbe stato alcun acquisto iure hereditatis dell’immobile abusivo, non avendo ereditato alcunché.

La giurisprudenza richiamata dall’ordinanza in tema di demolizione di opere abusive ereditate sarebbe inconferente, perché l’immobile sarebbe un “bene fantasma, non censito, non ereditabile”, non oggetto di possesso da parte dei ricorrenti. L’autorità avrebbe dovuto accertare l’effettivo proprietario del bene.

L’ordinanza avrebbe ritenuto irrilevante la questione relativa alla presenza di ulteriori eredi della sig.ra B.C. omettendo di considerare che nella fattispecie de qua sarebbe coinvolto un minore che, per il solo fatto di essere orfano della madre, sarebbe obbligato a partecipare alle spese di abbattimento di un immobile, pur non avendone il possesso.

CONSIDERATO IN DIRITTO

  1. Il ricorso infondato.

1.1. I ricorrenti deducono il vizio di motivazione rispetto ad una questione di diritto relativa al se l’immobile costruito in assenza di permesso di costruire (o di concessione edilizia) ed autorizzazione paesistica faccia parte dell’asse ereditario, ed è pertanto inammissibile ex art. 606, comma 3, c.p.p.; il vizio di motivazione denunciabile nel giudizio di legittimità è soltanto quello attinente alle questioni di fatto, non anche a quelle di diritto (Sez. U, n. 29541 del 16/07/2020, Filardo, Rv. 280027 – 01).

1.2. In ogni caso, è infondata la tesi in diritto proposta con il ricorso.

Risulta anche dall’istanza di incidente di esecuzione (p. 2) che i ricorrenti sono gli eredi di B.M. e A.A., che erano i loro genitori, e nei confronti dei quali fu emessa dal Pretore di Lucera il 23 maggio 1997, irrevocabile il 17 giugno 1997 la sentenza ex art. 444 c.p.p. contenente l’ordine di demolizione dell’immobile abusivo. E’, dunque, incontestata la qualità di eredi dei ricorrenti, come indicato nell’ordinanza impugnata.

1.3. I ricorrenti affermano erroneamente che l’immobile abusivo non possa rientrare nell’asse ereditario e che non si trasmetta iure hereditatis, in base alla argomentazione per cui l’immobile, essendo abusivo, sarebbe “sconosciuto” ai registri immobiliari ed inidoneo a far parte dell’asse ereditario.

1.4. Dalla sentenza definitiva risulta che i condannati erano i proprietari dell’immobile abusivo, che ha una sua chiara consistenza, secondo quanto emerge dal titolo esecutivo, come prima indicato. Dunque, non è un “immobile fantasma”, ma una cosa già oggetto di diritto di proprietà con le dimensioni ben descritte nell’imputazione della sentenza.

1.5. Come affermato dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite Civili (cfr. Sez. U Civili, n. 25021 del 16/04/2019, in motivazione), l’immobile abusivo oggetto di demolizione è parte dell’asse ereditario, si trasmette agli eredi e su di esso si forma la comunione ereditaria, salvo il caso della rinuncia, che nel caso in esame non risulta effettuata.

1.5.1. Secondo le Sezioni Unite Civili, la comunione ereditaria “… ha ad oggetto i beni che componevano il patrimonio del de cuius e si costituisce ipso iure tra gli eredi quando, a seguito dell’apertura di una successione mortis causa, vi siano una pluralità di chiamati all’eredità ed una pluralità di accettazioni (espresse o tacite). La comunione ereditaria e’, perciò, indipendente dalla volontà dei chiamati alla eredità (non è una comunione “volontaria”, mancando un atto negoziale diretto a costituirla) e va annoverata tra le comunioni “incidentali” (“communio incidens”), in quanto sorge per il verificarsi del mero “fatto giuridico” della pluralità di acquisti della medesima eredità…”.

1.5.2. Secondo la giurisprudenza, la nullità ex art. 46 D.P.R. n. 380 del 2001 e’, infatti, relativa ai soli atti tra vivi, restando esclusi gli acquisti di beni immobili abusivi mortis causa.

Tale norma prevede che “Gli atti tra vivi, sia in forma pubblica, sia in forma privata, aventi per oggetto trasferimento o costituzione o scioglimento della comunione di diritti reali, relativi ad edifici, o loro parti, la cui costruzione è iniziata dopo il 17 marzo 1985, sono nulli e non possono essere stipulati ove da essi non risultino, per dichiarazione dell’alienante, gli estremi del permesso di costruire o del permesso in sanatoria…”.

Cfr. Sez. U Civili, n. 8230 del 22/03/2019, Rv. 653283, che hanno affermato il principio per cui “la nullità comminata dall’art. 46 del D.P.R. n. 380 del 2001 e dagli artt. 17 e 40 della L n. 47 del 1985 va ricondotta nell’ambito del comma 3 dell’art. 1418 c.c., di cui costituisce una specifica declinazione, e deve qualificarsi come nullità “testuale”, con tale espressione dovendo intendersi, in stretta adesione al dato normativo, un’unica fattispecie di nullità che colpisce gli atti tra vivi ad effetti reali elencati nelle norme che la prevedono, volta a sanzionare la mancata inclusione in detti atti degli estremi del titolo abilitativo dell’immobile, titolo che, tuttavia, deve esistere realmente e deve esser riferibile, proprio, a quell’immobile”.

Nello stesso senso, la sentenza citata n. 25021 del 16/04/2019, per cui “restano fuori dal campo di applicazione dell’art. 40, comma 2, della L. n. 47 del 1985, così come – d’altra parte – dal campo di applicazione dell’art. 46, comma 1, del D.P.R. n. 380 del 2001 (e prima dell’art. 17, comma 1, della L. n. 47 del 1985), gli atti mortis causa e, tra quelli inter vivos, gli atti privi di efficacia traslativa reale (ossia quelli ad effetti meramente obbligatori), gli atti costitutivi, modificativi o estintivi di diritti reali di garanzia o di servitù (espressamente esclusi dalle richiamate disposizioni) e – come si vedrà nel prosieguo – gli atti derivanti da procedure esecutive immobiliari individuali o concorsuali (artt. 46, comma 5, del D.P.R. n. 380 del 2001 e 40, commi 5 e 6, della L. n. 47 del 1985)”.

1.6. L’ordinanza impugnata, che ha confermato l’ingiunzione a demolire nei confronti degli eredi dei soggetti condannati per i reati edilizi, ha correttamente ritenuto che l’immobile sia parte del patrimonio ereditario di cui sono titolari i ricorrenti.

1.7. Secondo il costante orientamento giurisprudenziale, l’ordine di demolizione delle opere abusive emesso dal giudice penale ha carattere reale ed ha natura di sanzione amministrativa a contenuto ripristinatorio e deve, pertanto, essere eseguito nei confronti di tutti i soggetti che sono in rapporto col bene e vantano su di esso un diritto reale o personale di godimento, anche se si tratti di soggetti estranei alla commissione del reato (Sez. 3, n. 47281 del 21/10/2009, Arrigoni, Rv. 245403; Sez. 3, n. 37120 del 11/05/2005, Morelli, Rv. 232175).

1.8. Pertanto, l’ordine di demolizione del manufatto abusivo, anche nell’ipotesi di acquisto dell’immobile per successione a causa di morte, conserva la sua efficacia nei confronti dell’erede del condannato, stante la preminenza dell’interesse paesaggistico e urbanistico, alla cui tutela è preordinato il provvedimento amministrativo emesso dal giudice penale, rispetto a quello privatistico, alla conservazione del manufatto, dell’avente causa del condannato.

1.9. Generico ed irrilevante appare il riferimento ad eventuali eredi minori della sig.ra B.C., terza figlia di B.M. e A.A., deceduta il giorno (Omissis), prima che la sentenza di condanna diventasse irrevocabile. Come correttamente rilevato dall’ordinanza, l’eventuale notifica dell’ingiunzione di demolizione agli eredi di B.C. non incide in alcun modo sulla decisione nei confronti dei ricorrenti.

  1. Pertanto, i ricorsi devono essere rigettati. Ai sensi dell’art. 616 c.p.p. si condannano i ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento.

 

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 21 febbraio 2023.

Depositato in Cancelleria il 17 aprile 2023

Polizze vita a favore degli eredi legittimi. Come individuare i beneficiari

La Corte di Cassazione,  in tema di assicurazione sulla vita in favore di un terzo, è stata ripetutamente  investita della questione concernente l’individuazione dei beneficiari. Tuttavia, si sono manifestate divergenze di opinioni al punto da generare un vero e proprio contrasto.  Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, pertanto, sono state chiamate a comporre il  conflitto ( con l’ordinanza n. 33195 del 16 dicembre 2019).

Un primo orientamento, più risalente ma   prevalente, tendeva a considerare  che il diritto del beneficiario alla prestazione trova fondamento nel contratto, ed è autonomo, e quindi non derivato da quello del contraente. Anche recentemente una Sezione della Corte  è tornata a riaffermare questa opinione.

Secondo l’opposto orientamento, ove la polizza prevedesse la corresponsione dell’indennizzo agli eredi testamentari o legittimi, alla morte dello stipulante, bisognava intendere che le parti (del contratto assicurativo) avessero: a) voluto individuare i beneficiari dei diritti nascenti dal negozio; b) determinare l’attribuzione dell’indennizzo in misura proporzionale alla quota in cui ciascuno è succeduto. Sempre secondo tale orientamento, in assenza di specificazioni, lo scopo perseguito dallo stipulante va interpretato come se avesse inteso assegnare il beneficio nella stessa misura regolata dalla successione, conformemente alla natura del contratto.

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione chiamate a comporre il contrasto sorto tra le varie Sezioni, con la recentissima sentenza n. 11421 del 30 Aprile 2021 che è possibile leggere in versione integrale al seguente link:

https://www.cortedicassazione.it/cassazione-resources/resources/cms/documents/11421_05_2021_no-index.pdf

hanno affermato i seguenti principi di diritto:

“ La designazione generica degli <<eredi>> come beneficiari di un contratto di assicurazione sulla vita, in una delle forme previste dal secondo comma dell’art. 1920 c.c., comporta l’acquisto di un diritto proprio ai vantaggi dell’assicurazione da parte di coloro che, al momento della morte del contraente, rivestano tale qualità in forza del titolo della astratta delazione indicata all’assicuratore per individuare i creditori della prestazione.

– La designazione generica degli <eredi> come beneficiari di un contratto di assicurazione sulla vita, in difetto di una inequivoca volontà del contraente in senso diverso, non comporta la ripartizione dell’indennizzo tra gli aventi diritto secondo le proporzioni della successione ereditaria, spettando a ciascuno dei creditori, in forza della eadem causa obligandi, una quota uguale dell’indennizzo assicurativo.

– Allorché uno dei beneficiari di un contratto di assicurazione sulla vita premuore al contraente, la prestazione, se il beneficio non sia stato revocato o il contraente non abbia disposto diversamente, deve essere eseguita a favore degli eredi del premorto in proporzione della quota che sarebbe spettata a quest’ultimo”.

La tutela dei diritti dei legittimari lesi nel loro diritto a partecipare alla successione ereditaria

L’azione di riduzione è lo specifico mezzo di tutela dei legittimari ovvero di coloro che debbono in ogni caso, perché la legge riserva loro questo diritto, partecipare alla successione del defunto. Con questa azione il legittimario potrà ottenere la declaratoria di inefficacia delle disposizioni testamentarie e/o delle donazioni che hanno leso la sua quota di legittima. L’azione di riduzione, invero, si compone di tre diverse azioni, strettamente collegate tra loro, e per l’esattezza: a) l’azione di riduzione in senso stretto con la quale si accerta la sussistenza o meno della lesione e la sua entità al fine di fare dichiarare l’inefficacia, in tutto in parte, delle disposizioni  lesive; b) c)  mentre con le altre due azioni, più propriamente dette di restituzione logicamente e cronologicamente successive alla prima, si persegue la finalità di recuperare quanto fuoriuscito dal patrimonio del defunto, in seguito alla declaratoria di inefficacia delle disposizioni lesive conseguente all’esperimento  vittorioso dell’azione di riduzione.

Corte di Cassazione, Sez. 2 – , Sentenza n. 30079 del 19/11/2019 (Rv. 656200 – 01)

La sentenza della Corte di Cassazione qui commentata, offre l’opportunità di fare chiarezza su alcune problematiche inerenti l’azione di riduzione che come sopra è stato illustrato costituisce lo strumento del quale può avvalersi l’erede escluso ( il legittimario pretermesso) in tutto o in parte, per la tutela dei propri diritti.

Il caso

Nella fattispecie una donna aveva ceduto le quote di una società (99%) a due figli. All’apertura della sua successione i restanti figli (pretermessi) avevano  accertato l’assenza di beni relitti. Avevano quindi esperito l’azione di simulazione (dell’atto di cessione delle quote) – per l’accertamento della nullità del negozio dissimulato – preordinata all’azione di riduzione

I principi affermati dalla pronuncia

Il legittimario pretermesso non è chiamato alla successione per il solo fatto della morte del de cuius, potendo acquistare i suoi diritti solo dopo l’esperimento delle azioni di riduzione o di annullamento del testamento. Ne consegue che la condizione della preventiva accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario, stabilita dell’art. 564 c.c., comma 1, per l’esercizio dell’azione di riduzione, vale soltanto per il legittimario che abbia in pari tempo la qualità di erede, e non anche per il legittimario totalmente pretermesso dal testatore .

Chiariscono gli ermellini, altresì, che una totale pretermissione del legittimario può aversi tanto nella successione testamentaria, quanto nella successione ab intestato e, precisamente: a) nella successione testamentaria, se il testatore ha disposto a titolo universale dell’intero asse a favore di altri, in base alla considerazione che, a norma dell’art. 457 c.c., comma 2, questi non è chiamato all’eredità fino a quando l’istituzione testamentaria di erede non venga ridotta nei suoi confronti; b) nella successione ab intestato (in assenza di testamento), qualora il de cuius si sia spogliato in vita dell’intero suo patrimonio con atti di donazione, sul rilievo che, per l’assenza di beni relitti, il legittimario viene a trovarsi nella necessità di esperire l’azione di riduzione a tutela della situazione di diritto sostanziale che la legge gli riconosce.

Da qui, l’ulteriore conseguenza che il legittimario totalmente pretermesso che impugna per simulazione un atto compiuto dal de cuius a tutela del proprio diritto alla reintegrazione della quota di legittima, agisce, sia nella successione testamentaria, che nella successione ab intestato, in qualità di terzo e non in veste di erede, la cui qualità acquista solo in conseguenza del positivo esercizio dell’azione di riduzione, e non è, come tale, tenuto alla preventiva accettazione dell’eredità con beneficio di inventario.  Viceversa, se si tratta di azione di simulazione relativa proposta da chi già è erede in ordine ad un atto di disposizione patrimoniale del de cuius stipulato con un terzo, che si assume lesivo della quota di legittima ed abbia tutti i requisiti di validità del negozio dissimulato (come una donazione in favore di un altro erede), l’ammissibilità dell’azione, proposta esclusivamente in funzione dell’azione di riduzione prevista dall’art. 564 c.c., è condizionata dalla preventiva accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario: tale condizione non ricorre, infatti, soltanto quando l’erede agisca per far valere una simulazione assoluta od anche relativa, ma finalizzata a far accertare la nullità del negozio dissimulato, in quanto, in tale ipotesi, l’accertamento della realtà effettiva consente al legittimario di recuperare alla massa ereditaria i beni donati, mai usciti dal patrimonio del defunto.


Testo integrale della sentenza

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –

Dott. SABATO Raffaele – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato il 27 luglio 2009 Z.B. evocava, dinanzi al Tribunale di Milano, Z.G., Z.A., Z.M.G., Z.L.A., Z.P.E. e Z.G.M. svolgendo domanda di accertamento della simulazione dei contratti di cessione di quote della società Algia Immobiliare a r.l. stipulati in data (OMISSIS) e (OMISSIS) da G.M. in favore dei figli Z.G. ed A. e per l’effetto dichiarare la nullità delle dissimulate donazioni, con conseguente dichiarazione che la quota del 99% della Algia Immobiliare era di proprietà della de cuius G.M. al momento del decesso, per cui la stessa andava calcolata e divisa tra gli eredi per quote; in via subordinata, chiedeva accertarsi la natura di contratti misti con donazione delle suddette cessioni e per l’effetto, ritenuta prevalente quella liberale, dichiarare la nullità delle donazioni per difetto di forma; in via ulteriormente subordinata, chiedeva pronunciarsi declaratoria di inefficacia delle cessioni per violazione dell’art. 2479 c.c., all’epoca vigente.

Instaurato il contraddittorio, nella resistenza dei convenuti Z.G. ed A., che eccepivano la carenza di legittimazione e di interesse ad agire dell’attore, nonchè la insussistenza della dedotta simulazione ovvero la prescrizione, nonchè l’acquisto per usucapione dei diritti, con conseguente infondatezza delle domande, mentre aderiva alla domanda attorea Z.M.G., ed in seguito anche la germana Z.L.A., veniva disposta l’integrazione del contraddittorio nei confronti della Algia Immobiliare s.r.l.. L’incombente veniva assolto dall’attore ed il Tribunale adito, rimasta contumace la società chiamata in giudizio e dichiarata l’inammissibilità delle domande riconvenzionali proposte da Z.L.A. per intervenuta decadenza ex artt. 166 e 167 c.p.c., accertava la carenza di legittimazione attiva di Z.B. e M.G. rispetto alle domande di simulazione, di nullità e di accertamento della riferibilità del 99% delle quote della chiamata alla de cuius, nonchè di divisione, giacchè trattandosi di soggetti totalmente pretermessi dall’eredità di G.M., nessuna domanda di reintegrazione della legittima ovvero di accertamento della qualità di erede pretermesso o di riduzione della donazioni era stata dagli stessi proposta.

In virtù di rituale appello interposto, con separati atti di citazione, da Z.B., da una parte, e dalle germane, dall’altra, poi riuniti nel corso del giudizio, con il quale lamentavano che il giudice di prime cure avesse dichiarato inammissibili le domande sull’erroneo presupposto del difetto di interesse ad agire, la Corte di appello di Milano, nella resistenza degli appellati Z.G. ed A., rimaste contumaci Z.P.E. e G.M., nonchè l’Algia Immobiliare s.r.l., accoglieva parzialmente gli appelli proposti da Z.M.G. e B., mentre dichiarava inammissibile quello di L.A. (per tardività della riconvenzionale) e le restanti domande, e in parziale riforma della decisione impugnata dichiarava che gli atti di cessione di 19.800 quote ciascuno della Algia Immobiliare, pari al complessivo valore del 99% del capitale sociale, da parte di G.M. in favore di Z.G. ed A. costituivano vendite simulate, dissimulando donazioni nulle per vizio di forma e per l’effetto le indicate quote sociali appartenevano al compendio immobiliare di G.M. vedova Z., deceduta l'(OMISSIS), dal quale erano da considerare come mai fuoriuscite; dichiarava interamente compensate fra le parti costituite le spese di entrambi i gradi di giudizio.

A sostegno della adottata sentenza la Corte distrettuale evidenziava, in via preliminare, il difetto di legittimazione attiva delle parti appellanti quanto alla divisione del compendio ereditario, spettante solo a chi già riveste la posizione di coerede; nel merito, accoglieva i motivi di gravame relativi all’accertamento della simulazione, in quanto preferito l’orientamento giurisprudenziale che non prevedeva come necessario l’esercizio contestuale dell’azione di riduzione, per avere il legittimario pretermesso già un proprio attuale interesse a far accertare l’effettiva consistenza e composizione del patrimonio ereditario nonchè del donatum.

Aggiungeva che il carattere simulato delle alienazioni emergeva dal fatto che gli apparenti acquirenti non avevano minimamente allegato elementi di prova idonei a comprovare l’avvenuto pagamento, limitandosi a riferire di avere versato per contanti le rendite, non sufficienti al riguardo le dichiarazioni dell’alienante di essere stato pagato, ancorchè rese in un atto pubblico, provenendo da una delle parti dell’accordo simulatorio. Concludeva che la fattispecie integrava una ipotesi di compravendita dissimulante un’effettiva donazione, che però era nulla per difetto di forma.

Infine quanto alla pretesa usucapione delle quote sociali dedotta dagli appellanti, veniva rilevato che solo dai verbali di assemblea successivi al 1989 si faceva chiaro riferimento all’esistenza di tre soci; aggiungeva che comunque Z.A. e G. avevano preso parte all’accordo simulatorio inerente alla cessione delle predette quote per cui non poteva ritenersi il loro possesso acquisito in buona fede ex art. 1611 c.c..

Avverso l’indicata sentenza della Corte di Appello di Milano hanno proposto ricorso per cassazione Z.G. ed A., che risulta articolato su sette motivi, al quale hanno resistito Z.B., da una parte, e Z.L.A. e M.G., dall’altra, con due separati controricorso.

In prossimità della pubblica udienza le parti controricorrenti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

Va pregiudizialmente rilevato il mancato perfezionamento della notificazione del ricorso alla ALGIA Immobiliare s.r.l., in ordine alla quale carenza il Collegio ritiene di non dover assumere alcun provvedimento ai sensi degli artt. 291 e 331 c.p.c.. Infatti pur trattandosi di una parte rimasta contumace per l’intero giudizio (sia in primo sia in secondo grado), per cui i fatti allegati da parte attrice non possono ritenersi non contestati ovvero escludere che l’attore debba fornire la prova di tutti i fatti costituitivi del diritto dedotto in giudizio, tuttavia sulla base della medesima prospettazione delle parti costituite nel giudizio non viene allegato che la società sia titolare della posizione passiva relativa al diritto di cui parte attrice ha chiesto l’affermazione (cfr. Cass., Sez. Un., 16 febbraio 2016 n. 2951).

In altri termini, l’azione di simulazione è esercitata nei confronti degli eredi della de cuius, Z.A. e G., per far valere la natura di donazione degli atti di cessione della Algia Immobiliare, ragione per la quale le quote della società costituiscono l’oggetto del diritto fatto valere, ma la cui titolarità passiva grava esclusivamente sui germani Z. convenuti.

Del resto è consolidata ed univoca la giurisprudenza per cui la carenza di legittimazione, attiva o passiva che sia, può essere eccepita in ogni grado e stato del giudizio e può essere rilevata dal giudice d’ufficio (da ultimo, Cass. 4 dicembre 2018 n. 31313).

Passando al merito del ricorso, con il primo motivo i ricorrenti lamentano la violazione e la falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., per avere il giudice distrettuale disposto la compensazione delle spese di lite anche rispetto alla posizione di Z.M.G. totalmente soccombente in entrambi i gradi di giudizio.

Il motivo è privo di fondamento.

Lo stesso si rivolge nei confronti della decisione della Corte di appello di compensare integralmente – per entrambi i gradi – le spese di lite pur non ricorrendo l’ipotesi della reciproca soccombenza, che insieme all’assoluta novità della questione trattata o del mutamento della giurisprudenza, ai sensi dell’art. 92 c.p.c., così come modificato dal D.L. 12 settembre 2014, n. 132, convertito dalla L. 10 novembre 2014, n. 162 (applicabile ai procedimenti introdotti a decorrere dall’11 dicembre 2014), avrebbe potuto legittimare un simile provvedimento. Prima ancora di verificare se le ragioni ravvisate dalla Corte di appello di Milano siano ascrivibili ad una delle ipotesi tipiche previste dalla norma testè citata, occorre rilevare che, con sentenza del 19 aprile 2018, n. 77, la Corte costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 92 c.p.c., comma 2, nella parte in cui non consente, nelle ipotesi di soccombenza totale, di compensare parzialmente o per intero le spese di lite anche ove ricorrano gravi ed eccezionali ragioni, diverse da quelle tipizzate dal legislatore.

Gli effetti della pronuncia di illegittimità costituzionale retroagiscono fino al momento dell’introduzione nell’ordinamento della norma dichiarata illegittima. Pertanto, l’apprezzamento della sussistenza del vizio denunciato con il ricorso dev’essere fatto con riferimento alla situazione normativa determinata dalla pronuncia di incostituzionalità.

Questa Corte – a seguito della pronuncia del giudice delle leggi – ha affermato il principio di diritto secondo cui: “Poichè gli effetti della dichiarazione di incostituzionalità retroagiscono alla data di introduzione nell’ordinamento del testo di legge dichiarato costituzionalmente illegittimo, nel caso in cui con un ricorso per cassazione sia denunciata ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 – la violazione dell’art. 92 c.p.c., comma 2 (nel testo modificato dal D.L. 12 settembre 2014, n. 132, art. 13, comma 1, convertito, con modificazioni, nella L. 10 novembre 2014, n. 162), che la Corte costituzionale, con sentenza 19 aprile 2018, n. 77, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede che il giudice possa compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni, la valutazione della fondatezza o meno del ricorso deve farsi con riferimento alla situazione normativa determinata dalla pronuncia di incostituzionalità, essendo irrilevante che la decisione impugnata o addirittura la stessa proposizione del ricorso siano anteriori alla pronuncia del Giudice delle leggi” (Cass. 14 febbraio 2019 n. 4360).

In applicazione di tale principio, deve rilevarsi, pertanto, che le ragioni poste a fondamento della decisione impugnata rispondono certamente alle caratteristiche di gravità ed eccezionalità che, a seguito della sentenza della Corte costituzionale, giustificano la compensazione delle spese processuali.

Del resto, quanto partitamente a Z.M.G., per tutta la durata del giudizio la convenuta non è mai stata destinataria di una domanda nei suoi confronti, ed anzi la stessa ha aderito alla domanda attorea svolta nei confronti dei soli ricorrenti, per cui non può nella specie neanche invocarsi il principio della soccombenza.

Con il secondo motivo è denunciata la violazione o la falsa applicazione dell’art. 81 c.p.c., artt. 1414 e 1415 c.c., nonchè dell’art. 554 c.c., per avere la corte territoriale ritenuto legittimati ad agire Z.B. e M.G. senza che gli stessi avessero mai esercitato azione di riduzione. Ad avviso dei ricorrenti, infatti, la mancanza di legittimazione ad agire per la reintegrazione della massa ereditaria discenderebbe proprio dal mancato esercizio nel presente giudizio di un’azione di riduzione.

Con il terzo mezzo i ricorrenti nel denunciale la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1414,1415,1417,2697 e 2729 c.c., insistono nel sostenere che in caso di mancato contestuale esercizio dell’azione di simulazione e dell’azione di riduzione, il legittimario pretermesso non potrebbe beneficiare del regime probatorio che l’art. 1417 c.c., riservato ai terzi e ai creditori, con la conseguenza che non potrebbe provare l’esistenza del negozio dissimulato nè a mezzo di testimoni, nè a mezzo di presunzioni e neanche si potrebbe avvantaggiare dell’inversione dell’onere della prova circa l’effettivo pagamento del prezzo del corrispettivo pattuito nel negozio dissimulato. I due motivi di ricorso, che possono essere esaminati congiuntamente in quanto parzialmente sovrapponibili, oltre che argomentativamente conseguenziali, sono infondati.

Come questa Corte ha già avuto modo di precisare, il legittimario pretermesso non è chiamato alla successione per il solo fatto della morte del de cuius, potendo acquistare i suoi diritti solo dopo l’esperimento delle azioni di riduzione o di annullamento del testamento. Ne consegue che la condizione della preventiva accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario, stabilita dell’art. 564 c.c., comma 1, per l’esercizio dell’azione di riduzione, vale soltanto per il legittimario che abbia in pari tempo la qualità di erede, e non anche per il legittimario totalmente pretermesso dal testatore (Cass. n. 28632 del 2011). Ora, una totale pretermissione del legittimario può aversi tanto nella successione testamentaria, quanto nella successione ab intestato e, precisamente: a) nella successione testamentaria, se il testatore ha disposto a titolo universale dell’intero asse a favore di altri, in base alla considerazione che, a norma dell’art. 457 c.c., comma 2, questi non è chiamato all’eredità fino a quando l’istituzione testamentaria di erede non venga ridotta nei suoi confronti; b) nella successione ab intestato, qualora il de cuius si sia spogliato in vita dell’intero suo patrimonio con atti di donazione, sul rilievo che, per l’assenza di beni relitti, il legittimario viene a trovarsi nella necessità di esperire l’azione di riduzione a tutela della situazione di diritto sostanziale che la legge gli riconosce (Cass. n. 19527 del 2005; Cass. n. 13804 del 2006; Cass. n. 28632 del 2011; Cass. n. 16635 del 2013).

Di qui, l’ulteriore conseguenza che il legittimario totalmente pretermesso che impugna per simulazione un atto compiuto dal de cuius a tutela del proprio diritto alla reintegrazione della quota di legittima, agisce, sia nella successione testamentaria, che nella successione ab intestato, in qualità di terzo e non in veste di erede, la cui qualità acquista solo in conseguenza del positivo esercizio dell’azione di riduzione, e non è, come tale, tenuto alla preventiva accettazione dell’eredità con beneficio di inventario (Cass. n. 16635 del 2013; in senso conf., Cass. n. 12496 del 2007). Viceversa, se si tratta di azione di simulazione relativa proposta da chi già è erede in ordine ad un atto di disposizione patrimoniale del de cuius stipulato con un terzo, che si assume lesivo della quota di legittima ed abbia tutti i requisiti di validità del negozio dissimulato (come una donazione in favore di un altro erede), l’ammissibilità dell’azione, proposta esclusivamente in funzione dell’azione di riduzione prevista dall’art. 564 c.c., è condizionata dalla preventiva accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario (Cass. n. 15546 del 2017, in motiv.: “l’azione di simulazione relativa proposta dall’erede in ordine ad un atto di disposizione patrimoniale del “de cuius” stipulato con un terzo, che si assume lesivo della quota di legittima ed abbia tutti i requisiti di validità del negozio dissimulato (nella specie una donazione in favore di un altro erede), deve ritenersi proposta esclusivamente in funzione dell’azione di riduzione prevista dall’art. 564 c.c., con la conseguenza che l’ammissibilità dell’azione è condizionata dalla preventiva accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario”): tale condizione non ricorre, infatti, soltanto quando l’erede agisca per far valere una simulazione assoluta od anche relativa, ma finalizzata a far accertare la nullità del negozio dissimulato, in quanto, in tale ipotesi, l’accertamento della realtà effettiva consente al legittimario di recuperare alla massa ereditaria i beni donati, mai usciti dal patrimonio del defunto (Cass. n. 15546 del 2017: “l’esigenza del rispetto di tale condizione non ricorre quando l’erede agisca per far valere una simulazione assoluta od anche relativa, ma finalizzata a far accertare la nullità del negozio dissimulato, in quanto, in tale ipotesi, l’accertamento della realtà effettiva dell’atto consente al legittimario di recuperare alla massa ereditaria i beni donati, in realtà mai usciti dal patrimonio del defunto”; conf., Cass. n. 4400 del 2011).

Nel caso di specie, come in precedenza esposto, i giudici del merito hanno accertato che la de cuius, con gli atti dispositivi del suo patrimonio, aveva, in realtà, esaurito l’intero asse ereditario, in assenza di altri beni relitti.

Con la conseguenza che la corte di merito ha fatto buon governo dei principi sopra illustrati, non avendo i ricorrenti contestato con le critiche mosse che si versi in ipotesi di legittimari totalmente pretermessi dalla successione della de cuius, ragione per la quale va escluso che l’attore avrebbe dovuto accettarne l’eredità con beneficio di inventario ai fini dell’esperimento dell’azione di simulazione dei contratti di cessione di quote della società Algia Immobiliare s.r.l., stipulati il (OMISSIS) ed il (OMISSIS), in quanto preordinati esclusivamente al successivo eventuale esercizio dell’azione di riduzione delle donazioni che tale atti, in ipotesi, dissimulano.

Per completezza va osservato, altresì, che nella sentenza (pagg. 14 e 15 della decisione impugnata) viene dato atto che Z.M.G. ha precisato che era pendente dinanzi al Tribunale di Milano altro giudizio in cui lei e Z.B. avevano impugnato con azione di riduzione il testamento olografo di G.M. vedova Z. del (OMISSIS) pubblicato l’1.10.1999, che li aveva totalmente pretermessi, nominando quali unici eredi Z.A. e G., causa che era stata sospesa in attesa di definizione del presente giudizio.

Con il quarto mezzo i ricorrenti lamentano – in via di subordine l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, in particolare l’avere la corte territoriale ritenuto non provato l’effettivo pagamento del prezzo pattuito per la cessione delle quote della Algia s.r.l. omettendo completamente di esaminare un’ulteriore e significativa richiesta istruttoria, reiterata in appello, circa l’effettivo pagamento della rendita vitalizia. Di tutto ciò non vi è alcuna menzione nella sentenza impugnata, che oltre a non riportare la corposa prova per testi, non riporta neanche il dedotto interrogatorio formale.

Anche il quarto motivo è privo di fondamento.

Occorre muovere dal rilievo che – come questa Corte ha affermato a più riprese (ex multis, Cass. n. 13375 del 2009) – il giudice del merito non è tenuto ad ammettere i mezzi di prova dedotti dalle parti ove ritenga sufficientemente istruito il processo e ben può, nell’esercizio dei suoi poteri discrezionali insindacabili in cassazione, non ammettere la dedotta prova testimoniale quando, alla stregua di tutte le altre risultanze di causa, valuti la stessa come inconducente. Trattasi di valutazione demandata al potere discrezionale del giudice di merito con apprezzamento che, se congruamente motivato, si sottrae al sindacato di legittimità.

A detta regola fa da pendant il principio – anch’esso ripetutamente affermato da questa Corte (cfr., ex pluribus, Cass. n. 828 del 2007; Cass. n. 2272 del 2007; Cass. n. 16499 del 2009) – per cui spetta al giudice di merito, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, fra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei falli ad esse sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova. In questo potere discrezionale rientra anche la facoltà di escludere la rilevanza di una prova mediante un giudizio che può essere anche implicito, cioè risultante dal tenore della motivazione, non essendo il giudice obbligato ad esplicitare per ogni mezzo istruttorie le ragioni per cui egli lo ritenga irrilevante, ovvero, più in generale, ad enunciare specificamente che la controversia può essere decisa senza l’assunzione dei mezzi di prova richiesti dalle parti oppure in base a quelli già assunti e senza necessità di ulteriori acquisizioni (cfr. Cass. n. 2404 del 2000; Cass. n. 9942 del 1998).

Nella specie la corte territoriale, nel ritenere non assolto l’onere della prova dai convenuti/appellati, per il c.d. principio di prossimità della prova, ha in via preliminare focalizzato la propria attenzione sulla circostanza che non potessero essere sufficienti le dichiarazioni dell’alienante di essere stato pagato, quand’anche contenute in un atto pubblico – in cui peraltro si dava atto che il versamento del corrispettivo delle cessioni avveniva nella forma di costituzione di rendite vitalizie a favore della venditrice – in quanto provenienti da una delle parti partecipanti all’accordo simulatorio. Inoltre ha aggiunto che non potevano essere considerate a tal fine le attestazioni, coeve alle cessioni, di avvenuto pagamento in via definitiva riportate sul libro soci, nè la successiva (in data 06.06.1999) costituzione in pegno delle quote sociali a favore di G.M., in quanto anche in detti casi si trattava comunque di atti provenienti e formati dagli stessi soggetti partecipanti all’accordo simulatorio. A fronte di ciò la corte distrettuale rilevava una serie di elementi di giudizio di natura indiziaria che, di converso, deponevano per la natura di donazione degli atti di cessione in contestazione: la nomina, financo nel testamento, dei ricorrenti quali unici eredi del suo patrimonio, pretermettendo totalmente gli altri cinque figli; la circostanza che nella costituzione del pegno aveva partecipato anche l’attore che pure non aveva preso parte alle cessioni del 1981 e del 1983.

Orbene, il procedimento logico – giuridico sviluppato nell’impugnata decisione a sostegno delle riportate conclusioni è ineccepibile in quanto logico e razionale, oltre ad essere frutto di una completa valutazione delle risultanze di causa.

Coerentemente, quindi, il giudice di merito non ha ammesso i mezzi di prova chiesti dai ricorrenti volti a dimostrare circostanze di fatto che, seppure con motivazione non espressa, ma desumibile per implicito dal complesso delle argomentazioni offerte in sentenza, sono state ritenute nella sostanza inattendibili, alla stregua degli elementi emergenti dagli atti processuali: si tratta di un giudizio sorretto da congrua e non apparente motivazione che sfugge quindi ai sindacato in questa sede di legittimità.

Con il quinto motivo i ricorrenti nel lamentare l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio censurano la sentenza per non avere ritenuto provato l’esercizio di un possesso ad usucapendum delle quote societarie in oggetto prima del 1989. In altri termini, sarebbero stato omesso l’esame di tutte le ulteriori e significative richieste istruttorie circa la prova della presenza alle assemblee sociali della Algia dei ricorrenti in qualità di soci effettivi della stessa sin dal 1981 ovvero dal 1983, circostanza ampiamente discussa tra le parti nel corso del giudizio.

Con il sesto motivo è denunciata la violazione e la falsa applicazione dell’art. 1161 c.c., per avere escluso la corte territoriale la buona fede possessoria, senza tenere conto che nella specie l’esercizio del possesso sulle quote della Algia da parte dei ricorrenti corrispondeva alla concreta volontà manifestata dalla de cuius, tant’è che il loro possesso si era protratto per oltre dieci anni proprio nel lasso di tempo in cui la donante era ancora in vita.

I due motivi – suscettibili di trattazione congiunta, data la loro connessione tematica ed argomentativa – risultano privi di pregio.

Premesso che la denunciata violazione dell’art. 1161 c.c., presuppone una ricostruzione fattuale alternativa, smentita dalla sentenza, oramai l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia).

Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie; in definitiva la norma in parola consente il ricorso solo in presenza di omissione della motivazione su un punto controverso e decisivo (dovendosi assimilare alla vera e propria omissione le ipotesi di “motivazione apparente”, di “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e di “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione: così Cass., Sez. Un., 7 aprile 2014 n. 8053 e n. 8054; Cass. 8 ottobre 2014 n. 21257), omissione che qui non si rileva affatto, avendo la Corte locale motivato la propria decisione sia quanto alla ritenuta mala fede dei ricorrenti al momento della sottoscrizione delle simulate vendite sia in relazione al dies a quo per il computo del ventennio necessario al possesso ad usucapionem.

Va osservato, infatti, che la Corte di merito ha chiaramente precisato che il possesso dei fratelli Z.A. e G. non poteva che essere stato acquistato in mala fede, ponendo in essere una vendita apparente in luogo della donazione dissimulata, ben consapevoli di arrecare un futuro pregiudizio ai diritti dei fratelli quali legittimari.

Inoltre, sulla base dell’esame complessivo dei plurimi elementi di giudizio (tutti riportati) la pronuncia ha valorizzato nella motivazione, quanto al dies a quo, la circostanza che nei verbali di assemblea solo dopo il 1989 si facesse chiaro riferimento all’esistenza di tre soci, Z.A., G. e B., mentre tutti gli altri erano contraddetti, come la lettera del 27.4.1987 del Dott. Gi.Fr., consulente della de cuis, all’avv. Fagetti, in cui verrebbe adombrata ancora una proprietà della Algia s.r.l. in capo a G.M..

Appare quindi evidente che la mala fede e l’epoca del decorso utile del tempo ad usucapionem sono stati individuati senza margini di incertezza, mentre il dissenso dei ricorrenti risiede in una valutazione alternativa del materiale probatorio e per tali ragioni i vizi denunciati non possono essere emendato in sede di legittimità.

Con il settimo ed ultimo motivo i ricorrenti denunciano la violazione o la falsa applicazione dell’art. 1161 c.c., comma 2 e art. 1165 c.c., per avere la corte di merito ritenuto interrotto il decorso del termine di esercizio del possesso ad usucapendum con la introduzione da parte dei legittimari pretermessi di un giudizio volto alla riduzione delle diposizioni testamentarie di G.M. e dunque di un’azione genericamente volta al recupero dell’intero asse ereditario, mentre sarebbe stato necessario l’esperimento di una domanda giudiziale specificamente volta al recupero del bene determinato sul quale il possesso medesimo veniva esercitato. Nella specie la domanda giudiziale volta alla reintegrazione nel possesso delle quote sociali della Algia è stata avanzata dai legittimari pretermessi solo con l’introduzione del presente giudizio (atto di citazione notificato il 27.07.2009/03.08.2009) mentre la stessa corte colloca la data di inizio del possesso nel maggio 1989.

Il motivo va accolto nei limiti di seguito illustrati.

Rileva il Collegio che correttamente la corte ha ravvisato il rapporto di pregiudizialità tra il giudizio di riduzione delle disposizioni testamentarie di G.M. vedova Z. introdotto dai legittimari pretermessi Z.M.G. e B. con atto di citazione notificato il 27.07.2000, disponendone la sospensione ex art. 295 c.p.c.; tuttavia per ottenere che siffatto atto produca anche l’effetto interruttivo di cui l’art. 1165 c.c., laddove fa rinvio all’art. 2943 c.c. (previsione la quale stabilisce che le regole generali sulla prescrizione e quelle relative alle cause di sospensione, d’interruzione ed al computo dei termini, si osservano, in quanto applicabili, all’usucapione) occorre un puntuale accertamento sulla circostanza che l’atto che ha instaurato il giudizio contenga la manifestazione di volontà – anche in forma implicita – di riacquistare il possesso delle quote cedute della Algia al patrimonio della de cuius.

Diversamente, in ipotesi di difetto di una volontà in tal senso, il dies a quo dell’interruzione del possesso ad usucapionem va fatto risalite alla data di introduzione del presente giudizio, 27.07/03.08.2009, con esigenza di un accertamento specifico della data dei verbali di assemblea dai quali è stato desunto un possesso delle quote sociali.

Infatti, costituisce orientamento consolidato di questa Corte il principio secondo cui in tema di possesso ad usucapionem, con il rinvio fatto dall’art. 1165 c.c. all’art. 2943 c.c., la legge elenca tassativamente gli atti interruttivi, cosicchè non è consentito attribuire efficacia interruttiva ad atti diversi da quelli stabiliti dalla norma, per quanto con essi si sia inteso manifestare la volontà di conservare il diritto, giacchè la tipicità dei modi di interruzione della prescrizione non ammette equipollenti (Cass. 12 settembre 2000 n. 12024; Cass. 21 maggio 2001 n. 6910; Cass. 1 aprile 2003 n. 4892; Cass. 11 giugno 2009 n. 13625). D’altra parte, come pure ripetutamente affermato da questa Corte, non può riconoscersi efficacia interruttiva del possesso se non ad atti giudiziali diretti ad ottenere “ope iudicis” la privazione del possesso nei confronti del possessore usucapente (v. Cass. 23 dicembre 2010 n. 26018) o comunque ad atti che comportino, per il possessore, la perdita materiale del potere di fatto sulla cosa; proprio dal limite di compatibilità con la natura dell’usucapione che l’art. 1165 c.c., pone all’applicazione del rinvio alle disposizioni generali sulla prescrizione, si ricava che non può esservi interruzione dell’usucapione senza la perdita materiale del potere di fatto sulla cosa o senza atti giudiziari diretti a privare il possessore del possesso. In coerenza agli evidenziati principi questa Corte (Cass. 19 giugno 2003 n. 9845) ha rilevato che neppure la messa in mora o la diffida (pur considerati interruttivi della prescrizione dall’art. 2943 c.c., richiamato dall’art. 1165 c.c.) possono costituire atti interruttivi dell’usucapione.

Ne discende che il giudice di appello nel riconoscere all’introduzione del giudizio di riduzione efficacia di atto interruttivo dell’usucapione avrebbe dovuto argomentare il convincimento non essendo sufficiente il riferimento ad una richiesta “genericamente formulata”.

– E d’altro canto, nella diversa ipotesi sopra riportata, diverrebbe assolutamente necessario la individuazione della data di inizio del possesso.

In conclusione, va accolto il settimo motivo di ricorso, rigettati tutti i restanti.

La sentenza impugnata va cassata in relazione alla censura accolta, con rinvio ad altra Sezione della Corte di appello di Milano che, ai fini dell’eccezione di usucapione, procederà all’esame delle risultanze istruttorie alla luce dei principi sopra illustrati.

Il giudice del rinvio provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità, a norma dell’art. 385 c.p.c., u.p..

PQM

La Corte, accoglie il settimo motivo di ricorso, respinti i restanti;

cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità, ad altra Sezione della Corte di appello di Milano.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte di Cassazione, il 2 aprile 2019.

Depositato in Cancelleria il 19 novembre 2019

 

Successione ereditaria. Il divieto di alienazione imposto con il testamento e la divisione dei beni ereditari

Corte di Cassazione n. 26351 del 7 novembre 2017

Prima di affrontare il tema specifico oggetto della pronuncia in esame, pare opportuno osservare che anteriormente alla riforma del diritto di famiglia (attuata con la Legge 151 del 1975), l’art. 692 u.c. c.c. sanzionava espressamente con la nullità ogni clausola testamentaria diretta a vietare le guerre sono quelli su cui si legge quanto di seguito 22301 molto interessante che serie facendo sulla responsabilità da un difetto di un italiano di leggerezza, di riforma del 75, la giurisprudenza di legittimità ha riconosciuto che la nullità della clausola testamentaria con la quale si imponga all’erede il divieto di alienazione a pena di risoluzione della relativa istituzione, vada affermata nel vigore dell’attuale codice civile, in quanto il divieto in parola sarebbe ancora deducibile dalla generalizzata proibizione normativa del fedecommesso, al di fuori della specifica ipotesi di legge ( Corte di Cass. sent. n. 6005/1981).

Va detto, che secondo parte della giurisprudenza il divieto di alienazione può considerarsi valido se contenuto entro ragionevoli limiti di tempo, purché sia sorretto da un apprezzabile interesse del testatore, secondo il principio generale di cui all’art. 1379 c.c., mentre la deve considerarsi nulla la clausola testamentaria che contiene un divieto di alienazione senza limiti temporali, e dunque perpetuo, ponendosi in insanabile contrasto con il principio secondo cui il diritto di proprietà non tollera limitazioni o compressioni, sia nella facoltà di godimento che in quella di disposizione, che non siano quelle espressamente previste dalla legge

Tanto premesso con la pronuncia in oggetto la Corte di Cassazione è giunta ad affermare che la divisione ( rectius, lo scioglimento della comunione ereditaria) con assegnazione di un bene ai condividenti non è qualificabile come atto di alienazione e, quindi, non viola il relativo divieto imposto dal testatore, in quanto l’effetto “dichiarativo-retroattivo” della divisione rende ogni comproprietario titolare di quanto attribuitogli fin dall’epoca di apertura della successione. Il divieto di alienare imposto dal testatore non impedisce la divisione dei beni in quanto l’atto ha natura dichiarativa e non di atto di disposizione, sia che la divisione sia compiuta in forma giudiziale che convenzionale.

Successione di testamenti nel tempo e incompatibilità  delle disposizioni

(Massima)  Fuori dell’ipotesi di revoca espressa di un testamento, può ricorrere un caso di incompatibilità oggettiva o intenzionale fra il testamento precedente e quello successivo, sussistendo la prima allorchè, indipendentemente da un intento di revoca, sia materialmente impossibile dare contemporanea esecuzione alle disposizioni contenute nel testamento precedente ed a quelle contenute nel testamento successivo e configurandosi, invece, incompatibilità intenzionale quando, esclusa tale materiale inconciliabilità di disposizioni, dal contenuto del testamento successivo sia dato ragionevolmente inferire la volontà del testatore di revocare, in tutto o in parte il testamento precedente e dal raffronto del complesso delle disposizioni o di singole disposizioni contenute nei due atti, sia dato desumere un atteggiamento della volontà del de cuius incompatibile con quello che risultava dall’antecedente testamento.   (Cass. Civ., Sez. II, sent. n. 11587 dell’11 maggio 2017)

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONESEZIONE SECONDA CIVILEComposta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:Dott. MAZZACANE Vincenzo                           – Presidente   -Dott. ORICCHIO Antonio                             – Consigliere -Dott. FEDERICO Guido                          – rel. Consigliere -Dott. COSENTINO Antonello                           – Consigliere -Dott. ABETE     Luigi                               – Consigliere -ha pronunciato la seguente:ORDINANZA

(omissis)

Fatto

ESPOSIZIONE DEL FATTO

M.T. ed B.E. e D.L., quale erede di D.F., convennero innanzi al Tribunale di Torino L.A.M. esponendo:

che il 3 aprile 2005 era deceduto in (OMISSIS) L.G., istituendo con un primo testamento del 7/9/2003 la convenuta erede universale, mentre, con successivo testamento del 18/1/2005, aveva revocato il primo testamento ed aveva costituito la convenuta quale semplice legataria, sottraendole l’assegnazione dell’immobile sito in (OMISSIS).

Su detto cespite si era pertanto aperta la successione ab intestato ed instaurata la comunione ereditaria tra i chiamati ex lege.

Secondo la prospettazione degli attori tra i due testamenti sussisteva un’incompatibilità sia oggettiva che soggettiva, in quanto, da un lato l’imposizione nel testamento più recente dell’onere di vendere la casa e devolvere il 20% del ricavato alla badante del de cuius S.Z. era incompatibile con il lascito incondizionato in favore della convenuta ed inoltre, dallo stesso tenore del secondo testamento, risultava che il de cuius aveva inteso attribuire alla cugina, L.A.M., due soli beni a titolo di legato a fronte dell’istituzione di erede contenuta nel primo testamento.

La convenuta costituendosi si oppose, negando la dedotta incompatibilità tra le due disposizioni testamentarie.

Il Tribunale di Torino, con sentenza non definitiva, accolse la domanda, affermando che, limitatamente alla casa sita in (OMISSIS), si era aperta la successione ex lege ed instaurata la comunione ereditaria tra gli attori.

La Corte d’Appello di Torino con la sentenza n. 1521/2012, depositata il 26 settembre 2012, rigettò l’appello della signora L. confermando integralmente la sentenza impugnata.

La Corte d’Appello di Torino, richiamato il principio della conservazione delle disposizioni di ultima volontà così come affermato dalla consolidata giurisprudenza di legittimità, dopo aver compiuto un raffronto tra i due testamenti ha accertato la volontà del de cuius di revocare il primo testamento redigendo il secondo ed ha concluso affermando la validità del secondo testamento e l’apertura della successione legittima con riferimento all’immobile sito in (OMISSIS).

Per la cassazione di detta sentenza propone ricorso per cassazione la signora L.A., con un unico motivo, nei confronti di A. e L.G., M.T. ed B.E. e D.L..

M.T. ed B.E. si sono costituiti con controricorso, mentre A. e L.G. non hanno svolto, nel presente giudizio, attività difensiva.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

Deve preliminarmente disattendersi l’eccezione di nullità della notifica del ricorso nei confronti di G. ed Li.An., deceduti rispettivamente in data (OMISSIS) e (OMISSIS), sollevata nel controricorso dagli altri resistenti.

Secondo la prospettazione dei controricorrenti, poichè l’evento della morte di G. ed Li.An. era stata dichiarata dall’unico procuratore nel giudizio in prosecuzione, tuttora pendente innanzi al Tribunale di Torino, la notifica del ricorso per cassazione effettuata nel presente giudizio nei loro confronti presso il procuratore domiciliatario doveva ritenersi nulla, poichè il decesso si era verificato anteriormente alla stessa sentenza impugnata ed il ricorso non era stato notificato nè ai singoli eredi, nè agli eredi impersonalmente e collettivamente.

Si osserva in contrario che secondo il più recente indirizzo di questa Corte, a partire dalla nota pronuncia delle sezioni unite n. 15295/2014, la morte o perdita di capacità della parte costituita a mezzo di procuratore, dallo stesso non dichiarate in udienza o notificate alle altre parti comportano, per la regola dell’ultrattività del mandato, che il difensore continui a rappresentare la parte come se l’evento non si fosse verificato, onde è ammissibile la notificazione dell’impugnazione presso di lui, ai sensi dell’art. 330 c.p.c., comma 1, senza che rilevi la conoscenza “aliunde” di uno degli eventi previsti dall’art. 299 c.p.c. da parte del notificante (Cass. Ss.Uu. 15295/2014; 710/9016).

Risulta dunque irrilevante, in mancanza della formale dichiarazione o notifica del decesso della parte rappresentata, da parte del procuratore costituito, nell’ambito del presente procedimento, la dichiarazione resa in altro procedimento, quale quello, in prosecuzione (a seguito di ordinanza di rimessione in istruttoria, emessa dal tribunale di Torino, contestualmente alla sentenza di primo grado) tuttora pendente tra le medesime parti.

Una volta poi che si sia ritualmente instaurato il contraddittorio a seguito della notifica del ricorso, poichè nel giudizio di cassazione, com’è noto, non trova applicazione l’istituto della interruzione del processo per uno degli eventi di cui all’art. 299 c.p.c., la morte dell’intimato non produce l’interruzione del processo, neppure se, come nel caso di specie, sia intervenuta prima della notifica del ricorso effettuata preso il difensore costituito nel processo di merito, dalla cui relata non emerga il decesso del patrocinato (Cass. 1757/2015).

Ciò premesso, con l’unico motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 457, 682 e 1362 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 e l’insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 deducendo l’omessa o insufficiente motivazione in relazione all’accertamento della volontà del testatore, risultante dal secondo testamento, di revocare il precedente.

Il motivo è infondato.

Occorre premettere che, secondo il consolidato indirizzo interpretativo di questa Corte in tema di interpretazione degli atti mortis causa, l’interpretazione del testamento è caratterizzata da un’intensa ricerca della volontà del testatore e il risultato concreto dell’indagine condotta dal giudice del merito, con motivazione congrua e conforme al diritto, si sottrae al sindacato di legittimità (Cass. Civ. Sez. 2 sent. del 4-10-2013 n. 23278).

Orbene nel caso di specie, la Corte, nel richiamare il principio di conservazione espresso dall’art. 682 c.c., ha però ritenuto, con valutazione di merito, fondata su motivazione logica, coerente ed adeguata, che si sottrae dunque al sindacato di legittimità, che vi fosse una strutturale incompatibilità tra le due disposizioni testamentarie, sì che la seconda disposizione doveva ritenersi interamente sostituiva della prima.

Ed invero, come questa Corte ha già affermato, fuori dell’ipotesi di revoca espressa di un testamento, può ricorrere un caso di incompatibilità oggettiva o intenzionale fra il testamento precedente e quello successivo, sussistendo la prima allorchè, indipendentemente da un intento di revoca, sia materialmente impossibile dare contemporanea esecuzione alle disposizioni contenute nel testamento precedente ed a quelle contenute nel testamento successivo e configurandosi, invece, incompatibilità intenzionale quando, esclusa tale materiale inconciliabilità di disposizioni, dal contenuto del testamento successivo sia dato ragionevolmente inferire la volontà del testatore di revocare, in tutto o in parte il testamento precedente e dal raffronto del complesso delle disposizioni o di singole disposizioni contenute nei due atti, sia dato desumere un atteggiamento della volontà del de cuius incompatibile con quello che risultava dall’antecedente testamento. L’indagine al riguardo involge apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito e non censurabile in sede di legittimità se sorretti da congrua e corretta motivazione (Cass. 6745/1983).

Orbene, nel caso di specie, secondo quanto accertato con argomentazione logica e coerente dal giudice di merito, oltre alla incompatibilità oggettiva di diverse disposizioni del secondo testamento rispetto al primo, risulta una differenza strutturale tra le due schede testamentarie, in quanto, a fronte della istituzione di erede universale della odierna ricorrente, cui venivano attributi tutti i beni immobili (analiticamente indicati) e mobili, contenuta nel primo testamento, il secondo è invece caratterizzato dalla disaggregazione patrimoniale, con destinazione dei beni a diversi beneficiari, e specifica attribuzione soltanto di taluni beni immobili alla odierna ricorrente.

Avuto riguardo, in particolare, alla casa su cui s’incentra la materia del contendere, nella seconda scheda testamentaria il de cuius non la attribuisce più alla cugina, disponendo invece che “la stessa dovrà essere venduta, ed il 20% del ricavato attribuito alla badante S.Z.”.

Più in generale, secondo la ricostruzione della Corte territoriale, che come si è detto in quanto logicamente ed adeguatamente motivata non è censurabile nel presente giudizio, nel testamento successivo è ravvisabile non già la sostituzione di talune disposizioni ma un ripensamento ed un riassetto complessivo della destinazione dei beni e dunque una “incompatibilità intenzionale”, con la conseguente conclusione che il de cuius con il secondo testamento ha inteso revocare il primo.

In particolare, secondo quanto ritenuto dal giudice di merito, sussiste una evidente inconciliabilità, anche alla luce della complessiva formulazione della scheda testamentaria, tra l’attribuzione della casa all’unica erede del primo testamento L.A. e la disposizione secondo cui, ferma la già menzionata disaggregazione dei beni del patrimonio ereditario, e la specifica attribuzione di determinati beni a L.A., la casa avrebbe dovuto essere venduta, attribuendone il 20% del ricavato alla S..

Tale conclusione, in quanto conforme ai canoni interpretativi richiamati in materia di testamento, e fondata, oltre che sull’esame globale della scheda testamentaria e le differenti modalità di redazione dell’atto, anche su elementi estrinseci alla scheda, come la cultura, la mentalità e l’ambiente di vita del testatore, appare idonea ad esprimere, in modo adeguato e coerente, la reale intenzione del “de cuius” (Cass. 24637/2010).

Deve pertanto ritenersi che la casa, unico bene che non viene attribuito ad un beneficiario, sia stato sottoposto a successione legittima, che, pacificamente può coesistere con quella testamentaria.

Il ricorso va dunque respinto e la ricorrente va condannata alla refusione in favore degli intimati costituiti delle spese del presente giudizio.

Nulla sulle spese in relazione agli altri intimati.

ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

PQM

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente alla refusione, in favore di E. e B.M.T., nonchè De Filippi Luciano delle spese del presente giudizio, che liquida in complessivi 5.200,00 Euro, di cui 200,00 Euro per imborso spese vive, oltre a rimborso forfettario spese generali in misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 7 aprile 2014.

Depositato in Cancelleria il 11 maggio 2017

Successioni e donazioni: E’ nulla la donazione effettuata mediante bonifico bancario. Cass.civ., sezioni unite, sentenza del 27 luglio 2017, n. 18725  

Non è infrequente che tra persone legate da vincolo di parentela e non solo, avvengano trasferimenti di denaro o  altri valori a titolo gratuito, per  mera liberalità.

Da quando poi è invalsa la prassi di compiere operazioni mediante home banking comodamente  operando dalla consolle del computer o tramite smartphone, si assiste al trasferimento con bonifico di denaro o altri strumenti finanziari ( e cosìpure  titoli, mediante bancogiro) con crescente frequenza, senza che di tali atti siano soppesate le implicazioni dal punto di vista giuridico.

Ebbene, le Sezioni Unite della Cassazione, chiamate a  dirimere un contrasto   fonte di conflittualità e di incertezze, hanno  stabilito che simili operazioni, a meno che non si tratti di trasferimenti di modico valore, devono essere considerate vere e proprie donazioni in forma diretta e perciò nulle in difetto di un atto pubblico  di donazione (alla presenza di testimoni) tra beneficiante e beneficiario.

Nella fattispecie ad una banca era stato impartito l’ordine di  trasferire  valori mobiliari (per l’importo di circa 241.000,00 euro) da un uomo, malato, a favore di una donna con la quale aveva un rapporto sentimentale, la quale lo aveva curato durante la malattia.
Apertasi la successione ab intestato, la figlia del de cuius chiedeva, per la quota di un terzo  che le spettava per legge sul patrimonio ereditario, la restituzione del valore degli strumenti finanziari, ammontanti complessivamente, alla data dell’esecuzione dell’operazione, a Euro 241.040, sulla scorta del  presupposto della nullità del negozio siccome privo della forma solenne richiesta per la validità della donazione.
Il Tribunale di Trieste accoglieva la domanda, ma la Corte d’Appello di Trieste, in riforma della sentenza di primo grado riteneva che il negozio rientrasse nel perimetro delle liberalità indirette e, come tale, svincolato da ogni formalismo.
La Corte di Cassazione ha cassato la sentenza della C. d’Appello sulla scorta del principio sopra enunciato, ritenendo che non di una donazione indiretta si è trattato, bensì di una donazione tipica, seppure a esecuzione indiretta, da cui la necessità della forma dell’atto pubblico (ex art. 782 c.c.)

Per il testo integrale della sentenza vedansi:

http://www.cortedicassazione.it/cassazione-resources/resources/cms/documents/18725_07_2017_no-index.pdf

Successioni. Beni non compresi nel testamento

Secondo la Corte di legittimità (Corte di Cassazione, Sezione III civile, – SENTENZA 11 giugno 2015, n.12158 )  “La Corte di appello ha ricompreso la somma depositata sul conto corrente nell’asse ereditario in quanto ‘non oggetto di legato’, escludendoci conseguenza, il concorso con la successione testamentaria di quella legittima quanto all’attribuzione di detta somma, inclusa correttamente nella quota spettante agli eredi universali, stante la capacità attrattiva della quota stessa rispetto ad un bene patrimoniale non contemplato specificamente dalla testatrice; non potendosi, inoltre, ex art. 457 c.c., far luogo alla successione legittima se non quando manca, in tutto o in parte, quella testamentaria ed in particolare nel caso di testamento che, senza contenere istituzione di erede, contenga solo attribuzione di legati (Cass. n. 2968/1997). Non è dato, peraltro, ravvisare la violazione dell’art. 734, 2 co. c.c., una volta accertata la qualità di legataria dell’attuale ricorrente per la quale non può, quindi, configurarsi la qualità di erede legittima.”

Testo della sentenza

CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. II CIVILE – SENTENZA 11 giugno 2015, n.12158 – Pres. Piccialli – est. Nuzzo

Motivi della decisione

la ricorrente deduce:

1) insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine alla interpretazione delle disposizioni testamentarie; la volontà attribuita dalla Corte di appello alla testatrice di assegnare il bene immobile di via (OMISSIS) come quota del patrimonio, ovvero come istituzione ereditaria ex re certa, ai sensi dell’art. 588, 2 co. c.c, era sorretta pressoché esclusivamente da un’inesatta comparazione tra l’alto valore dell’immobile stesso rispetto al minor valore degli altri beni ereditari, circostanza priva di riscontro nelle risultanze processuali e non veritiera;

2) violazione e/o falsa applicazione degli artt. 588 c.c. e 457, 2 co. c.c.; la Corte di merito non aveva tenuto conto del principio fondamentale previsto dall’art. 457 2 co. c.c., secondo cui la parte dei beni non ricompresa nel testamento si trasferisce agli eredi legittimi e, nella specie il testamento non conteneva alcuna espressione che estendeva al lascito in favore di Z.M. e C.D. il cespite rappresentato dalle somme depositate sul conto corrente della de cuius;

3) violazione e/o falsa applicazione degli artt. 588 c.c. e 734, 2 co. c.c.; in base al disposto di quest’ultima norma, quand’anche Z.M. e C.D. potessero ritenersi eredi e non legatari essa ricorrente doveva considerarsi chiamata all’eredità, quale erede legittima, in virtù dell’art. 734, 2 co. c.c., che, nell’ipotesi di vocazione testamentaria incompleta, prevede la devoluzione dei beni non espressamente individuati nel testamento secondo le norme della successione legittima, con la conseguenza che, nella specie, il denaro depositato sul conto corrente della de cuius, non incluso nell’assegnazione dei beni effettuata dalla testatrice, doveva distribuirsi fra gli eredi legittimi;

4) omessa e insufficiente motivazione in ordine alla mancata applicazione degli artt. 477, 2 co. c.c. e 734, 2 co. c.c.; la Corte di merito aveva omesso di motivare sull’incidenza di tali norme nella fattispecie in esame, comportanti, a fronte di una vocazione e/o divisione testamentaria incompleta, che la somma depositata sul conto corrente bancario, intestato alla de cuius alla data del 21.4.2000, fosse distribuita pro quota fra tutti gli eredi legittimi.

Il primo motivo di ricorso è infondato.

Secondo il costante orientamento giurisprudenziale di questa Corte, l’interpretazione della volontà del testatore espressa nel testamento, si risolve in un accertamento in fatto demandato al giudice di merito cui è riservata la scelta e la valutazione degli elementi di giudizio più idonei a ricostruire detta volontà, con la possibilità di avvalersi, in tale attività interpretativa, delle regole ermeneutiche di cui all’art. 1362 c.c., con gli opportuni adattamenti per la particolare natura dell’atto, con la conseguenza che ove tale operazione è aderente a dette regole e la statuizione è sorretta da congrua e logica motivazione, la stessa esula dal sindacato di legittimità (Cfr. Cass. n. 468/2010; n. 7422/2005).

Va aggiunto che, in tema di distinzione tra erede e legatario, ex art. 588 c.c., l’assegnazione di beni determinati configura una successione a titolo universale (‘institutio ex re certa’) ove il testatore abbia inteso chiamare l’istituito nella universalità dei beni o in una quota del patrimonio relitto, mentre deve interpretarsi come legato se egli abbia voluto attribuire singoli, determinati beni (Cass. n. 24163/2013; n. 13835/2007).

Tanto premesso, deve ritenersi che la motivazione del giudice di appello su tale questione, come riportata nella parte dedicata allo ‘svolgimento del processo’, sia immune da vizi logico- giuridici, essendo stata la distinzione tra istituzione di erede e legato fondata sul tenore letterale e tecnico delle espressioni utilizzate dal testatore nella scheda testamentaria, laddove si specifica: ‘istituisco miei eredi universali’…., espressione contrapposta a quella relativa all’attribuzione di determinati beni a ‘titolo di legato’.

Contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, la sentenza impugnata non ha, quindi, interpretato la volontà della testatrice di assegnare il bene immobile di via (OMISSIS) come quota di patrimonio, ovvero come un’istituzione ex re certa ex art. 588, 2 co. c.c., solo sulla base di una inesatta comparazione tra l’alto valore dell’immobile stesso e lo scarso valore degli altri beni ereditari, avendo, fra l’altro, la Corte di merito evidenziato che detta terminologia utilizzata dalla de cuius era diretta ad indicare ‘quello che nella mente della testatrice costituiva… il nucleo centrale del suo patrimonio, l’universum ius una volta sottratti i beni mobili fatti oggetto dei vari legati’ (V. pag. 8 sent. imp.).

Gli altri motivi di ricorso, da esaminarsi congiuntamente per la loro evidente connessione, sono anch’essi privi di fondamento. La Corte di appello ha ricompreso la somma depositata sul conto corrente nell’asse ereditario in quanto ‘non oggetto di legato’, escludendoci conseguenza, il concorso con la successione testamentaria di quella legittima quanto all’attribuzione di detta somma, inclusa correttamente nella quota spettante agli eredi universali, stante la capacità attrattiva della quota stessa rispetto ad un bene patrimoniale non contemplato specificamente dalla testatrice; non potendosi, inoltre, ex art. 457 c.c., far luogo alla successione legittima se non quando manca, in tutto o in parte, quella testamentaria ed in particolare nel caso di testamento che, senza contenere istituzione di erede, contenga solo attribuzione di legati (Cass. n. 2968/1997). Non è dato, peraltro, ravvisare la violazione dell’art. 734, 2 co. c.c., una volta accertata la qualità di legataria dell’attuale ricorrente per la quale non può, quindi, configurarsi la qualità di erede legittima, come invece sostenuto nel motivo sub 3).

La Corte di Appello, sulla base della interpretazione globale del testamento, ha, pertanto, correttamente escluso il ricorso ad una successione legittima quanto alla somma di denaro suddetta, ricomprendendola nella quota relitta a titolo universale, avuto riguardo alla c.d. forza espansiva della istituzione ‘ex re certa’ per Ì beni ignorati dal testatore o sopravvenuti ed implicitamente riconoscendo la volontà della testatrice in tal senso. In conclusione il ricorso va rigettato. Consegue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali che si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali che si liquidano in euro 2700,00 di cui euro 200,00 per esborsi oltre accessori di legge.