Categoria: Successioni e donazioni

Testamento olografo.  E’ valido un testamento redatto con “mano guidata” ?

 

Secondo  Cass. civile, sez. VI, 06/03/2017 n. 5505   in presenza di aiuto e di guida della mano del testatore da parte di una terza persona, per la redazione di un testamento olografo, tale intervento del terzo, di per sè, escluda il requisito dell’autografia di tale testamento, indispensabile per la validità del testamento olografo, a nulla rilevando l’eventuale corrispondenza del contenuto della scheda alla volontà del testatore. Nella fattispecie  un amico di vecchia data del defunto  lo aveva aiutato a scrivere il testamento, avendo preso la mano destra del de cuius,  guidandola mentre l’altro dettava, atteso che il D.F. aveva un tremolio e non riusciva a scrivere da solo.

Occorre in proposito ricordare che è affermazione ricorrente nella giurisprudenza di legittimità  che il testatore, il quale a causa del suo stato di salute o per carenza di istruzione, redige il testamento olografo con l’aiuto di altra persona che gli guida la mano, indubbiamente collabora alla materiale compilazione del documento, quanto meno sorreggendo la penna e contribuendo alla formulazione delle lettere, tuttavia, ciò comporta la mancanza dell’autografia, elemento indispensabile per la validità del testamento olografo, nel quale si richiede che data, testo dell’atto e sottoscrizione provengano esclusivamente dal testatore e qualora il de cuius, per redigere il testamento olografo, abbia fatto ricorso all’aiuto materiale di altra persona che ne abbia sostenuto e guidato la mano nel compimento di tale operazione, tale circostanza è sufficiente ad escludere il requisito della autografia, a nulla rilevando l’eventuale corrispondenza del contenuto della scheda testamentaria alla reale volontà del testatore.

 

Testo della sentenza

Cassazione civile, sez. VI, 06/03/2017, (ud. 13/01/2017, dep. 06/03/2017)

Fatto

Motivi In Fatto Ed In Diritto Della Decisione

Il Tribunale di Vercelli e la Corte d’Appello di Torino, poi, per quanto ancora rileva in questa sede, hanno concordemente ravvisato la nullità del testamento olografo recante la data del 29/9/1997, con il quale il defunto D.F.G. disponeva in favore della moglie V.E.T. del castello di sua proprietà, con tutti i suoi arredi e della tenuta in località (OMISSIS).

Per l’effetto hanno accolto la domanda proposta dalle sorelle (e loro aventi causa) del de cuius, affermando che la successione era totalmente regolata dalla legge, con il concorso quindi su tutti i beni relitti sia del coniuge che delle sorelle.

In particolare la Corte d’Appello, nel confermare la valutazione già espressa dal giudice di prime cure, ha ritenuto che il testamento di cui sopra era stato redatto con “mano guidata”, e che per l’effetto fosse nullo in quanto privo del requisito dell’olografia, atteso che, come emergeva dalla deposizione del teste M.E., amico di vecchia data del defunto, questi lo aveva aiutato a scrivere il testamento, avendo preso la mano destra del de cuius, guidandola mentre l’altro dettava, atteso che il D.F. aveva un tremolio e non riusciva a scrivere da solo.

In motivazione la sentenza di appello ha altresì aggiunto che dalla deposizione del M. emergeva che non appariva del tutto chiaro se si fosse limitato solo a guidare la mano del testatore ovvero se avesse scritto il testo dell’atto mortis causa sotto dettatura, ma che tale dubbio non era idoneo ad immutare la conclusione circa l’assenza di autografia dell’atto.

In punto di diritto ha infatti osservato che in ragione del particolare rigore formale richiesto dal legislatore per il testamento, e tenuto conto della particolare semplicità di redazione del testamento olografo che deve indurre a prevenire la possibilità di interventi perturbatori della volontà del testatore, deve privilegiarsi la tesi maggioritaria nella giurisprudenza secondo cui il testamento a mano guidata dal terzo deve ritenersi affetto da nullità.

Dopo avere riepilogato i precedenti di legittimità che hanno sposato la tesi più rigorosa, la Corte d’Appello si è fatta anche carico di evidenziare il precedente contrario costituito da Cass. n. 32/1992, che però non riteneva di condividere, proprio in ragione delle esposte esigenze di natura formalistica immanenti al sistema legislativo in materia testamentaria.

Avverso questa sentenza la convenuta ha proposto ricorso per cassazione sulla base di due motivi, cui hanno resistito, con controricorso le parti vittoriose in grado di appello.

Con il primo motivo di ricorso si denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt. 602 e 606 c.c., ritenendosi che la conclusione della Corte distrettuale sarebbe erronea nell’affermare la nullità anche nel caso di testamento a mano guidata, nel caso in cui il terzo collabori solo nella redazione del gesto grafico, sorreggendo la mano del testatore, che comunque è consapevole dell’atto che sta compiendo e del suo effettivo contenuto.

Nella fattispecie ricorreva appunto tale situazione, in quanto era emerso dalla stessa deposizione del teste M. che al D.F. era interamente riconducibile il contenuto del testamento, dovendo quindi escludersi sia l’allografia dell’atto sia il pericolo che risultino tradite le effettive volontà.

Al fine di sorreggere tale assunto si è richiamato il precedente di questa Corte n. 32/1992 che ha appunto ritenuto valido il testamento in un caso in cui la mano del testatore era stata accompagnata dal terzo al fine di eliminare scarti e tremoli nel gesto grafico.

Ritiene il Collegio che le puntuali indicazioni fornite dalla Corte distrettuale a favore della tesi più rigorosa, corredate di precisi riferimenti alla giurisprudenza di questa Corte, che nella quasi totalità dei casi in cui si è occupata della fattispecie della mano del testatore, guidata dal terzo, è pervenuta alla conclusione della nullità del testamento, non consentano di ravvisare la sussistenza del dedotto errore di diritto.

In tal senso, come già affermato dalla Cassazione nella recente ordinanza della Sesta sezione n. 24882/2013, deve ritenersi che, in presenza di aiuto e di guida della mano del testatore da parte di una terza persona, per la redazione di un testamento olografo, tale intervento del terzo, di per sè, escluda il requisito dell’autografia di tale testamento, indispensabile per la validità del testamento olografo, a nulla rilevando l’eventuale corrispondenza del contenuto della scheda alla volontà del testatore (cfr. Cass. 17.3.1993 n. 3163; cfr. anche Cass. n. 681 del 1949; Cass. n. 7636 del 1991; Cass. n. 11733 del 2002; Cass. 30.10.2008 n. 26258).

In tale ultimo precedente, la Corte si è premurata anche di fornire una condivisibile lettura della portata della sentenza n. 32 del 7.1.1992, che parte ricorrente pone a fondamento della richiesta di rivalutazione dell’orientamento maggioritario, sposato anche dal giudice di merito nel provvedimento gravato, osservando che nel caso deciso in quella circostanza il testatore si era fatto guidare la mano solo per vergare la data della scheda con maggiore chiarezza, sicchè la validità di tale testamento era dipesa dal fatto che il difetto di autografia concerneva solo la data, ovvero un elemento la cui mancanza comporta solo l’annullabilità e non la nullità del testamento ex art. 606 c.c., commi 1 e 2.

In ogni caso, anche a voler soprassedere alle giustamente segnalate diversità di cui alla vicenda decisa nel 1992, deve ritenersi decisamente più corrispondente alla ratio della norma la soluzione che perviene alla nullità per difetto di olografia per ogni ipotesi di intervento del terzo che guidi la mano del testatore, trattandosi di condotta che appare in ogni caso idonea ad alterare la personalità e l’abitualità del gesto scrittorio, requisiti indispensabili perchè possa parlarsi di autografia, laddove la diversa soluzione auspicata da parte della ricorrente, condizionerebbe l’accertamento della validità o meno del testamento alla verifica di ulteriori circostanze, quali la effettiva finalità dell’aiuto del terzo, ovvero la verifica della corrispondenza effettiva del testo scritto alla volontà dell’adiuvato, che minerebbero in maniera evidente le finalità di chiarezza e semplificazione che sono alla base della disciplina del testamento olografo.

Ne discende che deve darsi continuità alla prevalente giurisprudenza di legittimità cui ha aderito anche la Corte di merito, non palesandosi la necessità, contrariamente a quanto richiesto dalla ricorrente, della rimessione della questione alle Sezioni Unite.

Nel caso di specie, emerge poi che l’intervento della mano del M. – come accertato adeguatamente in fatto dalla Corte torinese – ha interessato l’intero testo della scheda, dovendosi quindi reputare corretta la conclusone cui è pervenuto il giudice di merito, circa la nullità per difetto di autografia.

Il rigetto del primo motivo, e la conseguente affermazione della correttezza della conclusione in punto di nullità in caso di testamento redatto da mano guidata, rende poi del tutto evidente anche l’assorbimento del secondo motivo di ricorso che investe l’omessa disamina da parte della Corte distrettuale di un fatto decisivo, costituito dalla permanenza in capo al de cuius alla data di redazione del testamento, della capacità di scrivere, in quanto, anche laddove fosse accertato che la stessa permaneva, ai fini della risoluzione della vicenda rileva unicamente la circostanza che poi il testamento sia stato redatto con modalità che ne determinano la nullità.

In definitiva deva ravvisarsi la manifesta infondatezza del ricorso (con riferimento a tutti i motivi), essendo state decise nella sentenza impugnata questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e non offrendo l’esame dei motivi elementi per mutare l’orientamento di detta giurisprudenza, ravvisandosi, altresì, l’adeguatezza e la logicità della disamina delle circostanze di fatto.

Il ricorso deve pertanto essere rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto l’art. 13, comma 1 quater, del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

PQM

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso delle spese in favore delle controricorrenti che liquida per ognuno dei due gruppi di controricorrenti in complessivi Euro 5.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15 sui compensi, ed accessori come per legge;

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente del contributo unificato dovuto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, art. 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 13 gennaio 2017.

Depositato in Cancelleria il 6 marzo 2017

 

 

 

 

 

Testamento olografo. A chi compete l’onere della prova in caso di contestazione dell’autenticità ?

Con sentenza 15 giugno 2015 n. 12307 le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno composto il contrasto sorto in giurisprudenza e dottrina, a proposito della contestazione dell’autenticità del testamento olografo e individuazione dello strumento processuale richiesto.

Il caso di specie riguarda un testamento olografo in base al quale una vedova risultava unica beneficiaria dell’intero patrimonio del marito. Gli altri quattro eredi legittimi, sostenendo che il defunto versava in stato di incoscienza nel momento in cui risultava redatto il testamento, perché colpito da ictus, convenivano in giudizio la vedova beneficiaria impugnando il testamento che ritenevano apocrifo per mancanza di autenticità. Invocavano, quindi, il riconoscimento della loro qualità di eredi e l’attribuzione dei beni del de cuius, oltre alla declaratoria di indegnità della vedova e alla condanna della medesima alla restituzione dei frutti percepiti.

La soluzione prospettata dalla Corte rappresenta una terza via, intermedia tra le due che si erano contrapposte. Secondo  gli ermellini il successore legittimo che sia intenzionato a impugnare il testamento olografo per difetto di autenticità non può limitarsi a disconoscerlo e neppure è tenuto a proporre querela di falso, ma è comunque onerato di dimostrare il fondamento del proprio assunto in ossequio al principio che nelle azioni di accertamento negativo l’onere della prova compete a chi intende sostenere la nullità della scheda testamentaria. Riguarderà  chi invochi tale nullità, dunque l’eventuale erede pregiudicato dall’esistenza del testamento, provarne la non genuinità senza che per ciò sia necessario promuovere il giudizio di falso.

In questo modo secondo la Corte la soluzione consente di rispondere alle seguenti esigenze :

  • mantenere il testamento olografo definitivamente circoscritto nell’orbita delle scritture private;
  • evitare la necessità di attuare un difficile criterio di distinzione fra la categoria delle scritture private e non equiparare l’olografo a una qualsivoglia scrittura proveniente da terzi con quel che ne consegue in tema di prova;
  • evitare che il semplice disconoscimento di un atto caratterizzato da tale peculiarità ed efficacia dimostrativa renda troppo gravosa la posizione processuale dell’attore che si professa erede, riversando su di lui l’intero onere probatorio del processo;
  • evitare le lungaggini di un defatigante procedimento incidentale quale quello previsto per la querela di falso.

Va incidentalmente osservato che una sentenza di accertamento negativo dell’esistenza del requisito dell’olografia, una volta divenuta definitiva, fa stato solo fra le parti del giudizio, i loro eredi e aventi causa, mentre e il procedimento di falso produrrebbe  il risultato della definitiva eliminazione dal mondo giuridico della scheda, . Vero è, tuttavia, che è difficilmente immaginabile l’evenienza di un soggetto terzo, portatore di interesse, che sia rimasto estraneo all’ambito di applicazione della pronuncia di accertamento negativo dell’autenticità del testamento.

Testo integrale della sentenza

CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE – SENTENZA 15 giugno 2015, n.12307 –

Pres. Rovelli – est. Travaglino

Motivi della decisione

6. Per quanto di rilievo nel presente giudizio di rimessione a queste sezioni unite, A.B. ha lamentato (con il secondo motivo di ricorso) la violazione e falsa applicazione degli artt. 214 e seguenti e 221 e seguenti, cod. proc. civ., anche in relazione agli artt. 163, 345 e 112 cod. proc. civ. (art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.) sostenendo che, se la pronuncia impugnata avesse inteso confermare la sentenza di primo grado nella parte in cui individuava nella querela di falso e non anche nella verificazione di scrittura l’unico mezzo per infirmare il testamento olografo, tale motivazione doveva ritenersi censurabile alla luce del più corretto orientamento giurisprudenziale che riconosceva la possibilità di ricorso ad entrambi gli strumenti processuali (querela di falso e disconoscimento seguito dalla verificazione) per contestare la genuinità del testamento

6.1. Formulava, a tal fine, il seguente quesito di diritto:

Dica la Corte se all’erede legittimo deve ritenersi consentita la facoltà di disconoscere, ai sensi e per gli effetti degli arti. 214 e seguenti c.p.c., il testamento olografo fatto valere contro di lui, e se tale disconoscimento può essere esercitato anche in sede di azione di petitio heraeditatis, nel corso della quale l’erede legittimo esplicitamente contesti l’autenticità del predetto testamento.

6.2. Dello stesso tenore i motivi di impugnazione di B.A.G. , che, nella (più ampia) formulazione del quesito, chiede tra l’altro a questa Corte la conferma del principio di diritto secondo il quale il testamento olografo può essere disconosciuto ex artt. 214 e segg. c.p.c. dall’erede legittimo che disconosca l’autenticità del testamento e che l’onere della proposizione dell’istanza di verificazione del documento contestato incombe su chi vanti diritti in forza di esso.

7. Con ordinanza di rimessione n. 28586 del 20 dicembre 2013, la seconda sezione, investita dei ricorsi riuniti, e con riguardo al comune motivo relativo allo strumento processuale utilizzabile per contestare l’autenticità del testamento olografo, ha rimesso gli atti al Primo Presidente, che li ha a sua volta trasmessi a queste sezioni unite, ritenendo opportuna la risoluzione del contrasto esistente nella giurisprudenza della Corte di legittimità in subiecta materia.

7.1. Con il citato provvedimento interlocutorio si rileva che, sulla questione, si sono diacronicamente contrapposti due orientamenti.

7.2. Secondo un primo indirizzo, il testamento olografo, nonostante i requisiti di forma previsti dall’art. 602 cod. civ., trova comunque la sua legittima collocazione tra le scritture private, sicché, sul piano della efficacia sostanziale, è necessario e sufficiente che colui contro il quale sia prodotto disconosca (rectius, non riconosca) la scrittura, da ciò derivando l’onere della controparte, che alla efficacia di quella scheda abbia invece interesse (perché fonte della delazione ereditaria), di dimostrare la sua provenienza dall’autore apparente.

7.2.1. Si evidenzia in particolare che, alla luce di tale orientamento nell’ipotesi di conflitto tra l’erede legittimo che disconosca l’autenticità del testamento e colui il quale vanti diritti in forza di esso, l’onere della proposizione dell’istanza di verificazione del documento contestato incombe su quest’ultimo, cui spetta la dimostrazione della qualità di erede, mentre nessun onere, oltre quello del disconoscimento, grava sul primo, con l’ulteriore conseguenza che, sulla ripartizione dell’onere probatorio, nessuna rilevanza può attribuirsi alla posizione processuale delle parti – ossia se la falsità del documento sia fatta valere in via principale dall’erede legittimo che a tal fine abbia proposto l’azione, oppure se, introdotto dall’erede testamentario un giudizio per il riconoscimento dei propri diritti ereditari in forza della scheda testamentaria, questa sia stata disconosciuta dall’erede legittimo.

7.3. Un secondo orientamento, pur senza iscrivere il testamento olografo nella categoria degli atti pubblici, ne evidenzia tuttavia la (particolarmente elevata) rilevanza sostanziale e processuale, di talché la contestazione della sua autenticità si risolve in un’eccezione di falso, e deve essere sollevata soltanto nei modi e con le forme di cui all’art. 221 e ss. cod. proc. civ., con il conseguente onere probatorio a carico della parte che contesti la genuinità della scheda testamentaria.

7.4. L’ordinanza di rimessione non tralascia di osservare come queste stesse sezioni unite, con la sentenza n. 15169 del 23 giugno 2010, chiamate a risolvere un altro contrasto insorto sui modi di contestazione delle scritture private provenienti da terzi estranei alla lite, ebbero modo di indicare, sia pur in obiter, nella querela di falso lo strumento processuale idoneo a privare di ogni efficacia il testamento olografo, anche se proprio il detto carattere di obiter dictum ha impedito il superamento della contrapposizione tra i due indirizzi – tanto che in epoca successiva ad essa si leggono pronunce ancora orientate in un senso o nell’altro, pur nella consapevolezza del dictum delle sezioni unite.

7.5. Dalla constatazione dell’apparente insanabilità di un ormai pluridecennale contrasto tra i due orientamenti l’ordinanza di rimessione della seconda sezione civile ha tratto motivo per rimettere la questione a queste sezioni unite affinché provvedano alla sua ricomposizione, anche alla luce degli studi e delle conclusioni (a loro volta non univoci) cui è pervenuta la dottrina specialistica.

7.5.1. Non può tacersi che le singole indagini ermeneutiche sfociate nell’adesione all’uno o all’altro indirizzo appaiono ciascuna sorretta da argomentazioni che, singolarmente valutate, si caratterizzano tutte e parimenti per autorevolezza e persuasività, così che l’odierna questione non pare potersi ricondurre, sic et simpliciter, ad una superficiale scelta dello strumento processuale cui ricorrere per contraddire o impedire che il testamento acquisti efficacia nei riguardi di chi non ne è menzionato quale beneficiario, ovvero, su di un piano del tutto speculare, perché possa farsi valere nei confronti di chi, potenziale erede ab intestato, dalla efficacia di quell’atto veda compromesse, le proprie pretese ereditarie, consacrando definitivamente i diritti del successore chiamato nella scheda olografa.

7.5.2. La scelta de qua postula, difatti, la parallela indagine in ordine al valore, anche probatorio, delle scritture private che non provengono da nessuna delle parti in causa, e in ordine al riparto dell’onere probatorio.

7.5.3. E ciò perché il testamento olografo non è solo un documento che fonda, o contribuisce a fondare, sul piano probatorio, le ragioni della parte in causa, ma costituisce esso stesso il titolo in forza del quale il soggetto ivi menzionato diviene titolare di diritti soggettivi, e in ragione del quale si realizza la successione in locum et ius defuncti.

8. Ricostruendo funditus i termini del contrasto, emerge come parte della giurisprudenza di questa Corte, nel riconoscere al testamento olografo natura giuridica di scrittura privata, ammetta che la contestazione della autenticità della sua sottoscrizione possa legittimamente compiersi attraverso il semplice disconoscimento (i.e. il non riconoscimento) della scheda testamentaria.

8.1. La tesi trova un suo risalente precedente nella pronuncia di cui a Cass. n. 3371 del 16 ottobre 1975, secondo cui la parte che intenda contestare l’autenticità di una scrittura privata non riconosciuta non deve proporre querela di falso, occorrendo invece impugnare, in via di eccezione, la sottoscrizione mediante il disconoscimento, con la conseguenza che graverebbe sulla controparte l’onere di chiedere la verificazione e di dimostrare l’autenticità della scheda testamentaria. A fondamento di tale decisione la Corte pose la considerazione secondo cui lo strumento della querela di falso si rende indispensabile solo quando la scrittura abbia acquistato l’efficacia di piena prova ai sensi dell’art. 2702 cod. civ. per riconoscimento tacito o presunto, ovvero all’esito del procedimento di verificazione (e ciò anche nell’ipotesi in cui, contro l’erede istituito con un precedente testamento, sia prodotto un successivo testamento istitutivo di altro erede).

8.2. La giurisprudenza favorevole allo strumento processuale della verificazione ex art. 214 c.p.c., peraltro, non esclude tout court il ricorso alla querela di falso, riconosciuta come strumento alternativo rispetto al semplice disconoscimento (così, tra le altre, Cass. n. 3883 del 22 aprile 1994), ma mette a sua volta in rilievo – sulla premessa per cui l’onere probatorio ricade sulla parte che del testamento voglia servirsene e che a tal fine propone l’istanza di verificazione (salvo la diversa scelta della controparte di promuovere azione di querela di falso) – la non incidenza sull’onere probatorio della posizione processuale assunta dalle parti stesse (e cioè se l’azione sia esperita dall’erede legittimo che adduca in via principale la falsità del documento, ovvero dall’erede testamentario che voglia far valere i propri diritti ereditari e si trovi di fronte alla contestazione dell’autenticità del documento da parte dell’erede legittimo: Cass. n. 7475 del 12 aprile 2005 e n. 26943 dell’11 novembre 2008).

8.3. Tracce dell’orientamento in parola si rinvengono anche in epoca successiva al ricordato obiter di queste sezioni unite.

8.3.1. Secondo Cass. n. 28637 del 23 dicembre 2011, difatti – riaffermatosi in premessa che querela di falso e disconoscimento sono istituti preordinati a finalità diverse e del tutto indipendenti tra loro -, il testamento olografo non perderebbe la sua natura di scrittura privata per il fatto di dover rispondere ai requisiti di forma imposti dalla legge (ex art. 602 c.c.), volta che esso deriva la sua efficacia dal riconoscimento, espresso o tacito, che ne compia il soggetto contro il quale la scrittura è prodotta: quest’ultimo, per impedire tale riconoscimento e contestare tout court l’intera scheda testamentaria, deve dunque proporre l’azione di disconoscimento, che pone a carico della controparte l’onere di dimostrare, in contrario, che la scrittura non è stata contraffatta e proviene, invece, effettivamente dal suo autore apparente.

9. A questo indirizzo si contrappone l’orientamento che, pur non attribuendo valore di atto pubblico al testamento olografo, postula, per la contestazione della sua autenticità, la proposizione della querela di falso.

9.1 Anche tale filone interpretativo ha origini assai risalenti: si legge in Cass. n. 2793 del 3 agosto 1968 che la contestazione dell’erede legittimo si risolve in una eccezione di falso, da sollevarsi esclusivamente nelle forme di cui agli artt. 221 cod. proc. civ. e segg., atteso che il disconoscimento può provenire soltanto da chi sia autore dello scritto o da un suo erede – in tal senso, e prima ancora, Cass. n. 766 del 18 marzo 1966, secondo la quale il principio sostanziale dell’art. 2702 cod. civ. volto a disciplinare l’efficacia in giudizio della scrittura privata riconosciuta effettivamente o presupposta tale, e la procedura di disconoscimento e di verificazione regolata dagli artt. 214 e ss. c.p.c., sono istituti applicabili solo alle scritture provenienti dai soggetti del processo e alla ipotesi di negazione della propria scrittura o della propria firma da parte di quel soggetto contro il quale sia stato prodotto lo scritto. Quando invece l’atto non sia attribuibile alla parte contro cui viene prodotto, la contestazione della sua autenticità, risolvendosi in una eccezione di falso, necessita della relativa querela.

9.2. Sarà proprio questo risalente insegnamento a costituire a lungo una delle più solide basi su cui si fonda l’indirizzo giurisprudenziale favorevole al ricorso allo strumento disciplinato dagli artt. 221 e segg. cit.. Gli eredi legittimi che contestano l’autenticità della scheda olografa, secondo questa interpretazione (fatta propria anche da una parte della dottrina), devono, difatti, ritenersi soggetti estranei alla scrittura testamentaria, onde la loro esclusione anche dallo schema dell’art. 214, secondo comma, c.p.c..

9.3. Conferma indiretta della ratio di tale ricostruzione si trova nella pronuncia di cui a Cass. n. 1599 del 28 maggio 1971, la quale, pur concludendo nella specie per la legittimità del solo disconoscimento, a ciò perviene solo in ragione della qualifica di erede attribuita alla parte che in concreto ed in quel giudizio contestava un testamento olografo. Si legge, difatti, in sentenza che l’erede istituito col primo testamento, agendo con la petitio heraeditatis in quanto investito di un valido titolo di legittimazione fino al momento in cui non ne sia dichiarata giudizialmente la caducazione, conserva pur sempre la veste di erede anche nei confronti di altro soggetto che pretenda avere diritto alla eredità in base a successiva disposizione testamentaria, così che egli non può qualificarsi terzo fino al momento del definitivo accertamento della validità del secondo testamento, ed è legittimato a contestare l’efficacia del testamento posteriore mediante il mero disconoscimento, senza necessità di proporre querela, incombendo sull’altra parte che abbia proposto domanda riconvenzionale – tendente a far dichiarare la validità del secondo testamento e la conseguente caducazione delle disposizioni contenute nel primo – l’onere di provare tale domanda chiedendo la verificazione dell’olografo successivo di cui intende avvalersi.

9.4. L’indirizzo favorevole alla querela di falso, che tiene conto della provenienza della scrittura, risulta espresso in seguito da Cass. n. 16362 del 30 ottobre 2003, secondo cui la procedura di disconoscimento e di verificazione di scrittura privata riguarda unicamente le scritture provenienti da soggetti del processo e presuppone che sia negata la propria firma o la propria scrittura dal soggetto contro il quale il documento è prodotto, mentre, per le scritture provenienti da terzi estranei, come nel caso del testamento olografo, la contestazione non può essere sollevata secondo la disciplina dettata dalle predette norme, bensì nelle forme dell’art. 221 e segg. c.p.c., perché si risolve in una eccezione di falso.

9.5. Le argomentazioni a favore dello strumento della querela, principalmente incentrate sull’assunto della terzietà del soggetto rispetto al testamento olografo contro di lui prodotto, trovano una peculiare evoluzione interpretativa nella già ricordata sentenza di queste ss.uu. n. 15169 del 2010 (supra, 7.4).

Intervenendo sul contrasto relativo ai modi di contestazione delle scritture private provenienti da terzi estranei alla lite, la pronuncia ne ricostruisce l’efficacia probatoria inquadrandole tra le prove atipiche dal valore meramente indiziario, e, tenendo conto di tale valore probatorio, afferma che esse possono essere liberamente contestate dalle parti; ma, circoscrivendone l’analisi con particolare riguardo al testamento olografo, nega poi che un simile documento possa annoverarsi tra le prove atipiche per l’incidenza sostanziale e processuale intrinsecamente elevata riconosciutagli, ritenendo (senza che l’affermazione costituisca ratio decidendi della pronuncia) che la sua contestazione necessiti della querela di falso. 9.5.1. L’intero plesso argomentativo della sentenza rende peraltro tale obiter del tutto peculiare, poiché le stesse scritture provenienti da terzi finiscono per distinguersi in due sottocategorie – la prima, contenente la generalità delle scritture, a valenza probatoria ‘debole’, la seconda, comprensiva di atti di particolare incisività perché essi stessi titolo immediatamente esecutivo del diritto fatto valere, a valenza sostanziale e processuale ‘particolarmente pregnante’ -, per la contestazione di ciascuna delle quali si indica uno distinto strumento processuale.

9.6. L’orizzonte della giurisprudenza di legittimità si sposta così, alla luce della soluzione adottata, dal rapporto tra scrittura e soggetto (terzo) contro cui è prodotta al valore intrinseco del documento, in una nuova e più attenta consonanza con la relativa elaborazione dottrinaria.

9.6.1. L’indirizzo favorevole alla tesi della necessità della querela trova, infine, recente conferma nella pronuncia di cui a Cass. n. 8272 del 24 maggio 2012, predicativa della correttezza del rimedio processuale disciplinato dagli artt. 221 e segg. c.p.c. essendo il testamento un documento proveniente da terzi, e riaffermativa, nel solco delle Sezioni Unite, dell’incidenza sostanziale e processuale particolarmente elevata della scheda olografa, che giustifica il ricorso alla querela di falso per contestarne l’autenticità.

10. Il panorama giurisprudenziale si completa con l’antico enunciato di cui a Cass. n. 1545 del 15 giugno 1951, che, premessa la legittimità della proposizione di un’azione di accertamento negativo in ordine alla provenienza delle scritture private e del testamento olografo, afferma che l’onere della prova spetta all’attore che chieda di accertare la non provenienza del documento da chi apparentemente ne risulta l’autore, in consonanza con l’opinione dottrinaria secondo cui la contestazione della genuinità del testamento olografo si traduce in una domanda di accertamento negativo della validità del documento stesso.

10.1. La pronuncia (senza assumere tuttavia posizione esplicita sulla forma di tale accertamento negativo, se, cioè, dovesse o meno seguire le forme della querela di falso), fu oggetto di autorevoli consensi e di penetranti critiche in dottrina (in estrema sintesi, alla tesi secondo cui l’impugnazione per falsità del testamento olografo si risolve in una quaestio nullitatis, con conseguente applicabilità alla fattispecie della norma di cui all’art. 606 cod. civ. dettata in tema di nullità del testamento olografo per mancanza dei requisiti si replicò che l’olografo impugnato per falsità non è nullo per difetto di forma ma inesistente), non trovò ulteriore seguito in giurisprudenza, che vide così contrapporsi, come finora ricordato, la tesi della verificazione a quella della querela, con opposte conseguenze in ordine all’onere della prova, ripartito sul presupposto delle diverse finalità e dell’indipendenza dei due istituti.

11. La questione del riparto degli oneri probatori, in particolare, fu oggetto di approfondita disamina nella sentenza di questa Corte n. 3880 del 18 giugno 1980, ove si legge che la querela postula l’esistenza di una scrittura riconosciuta, mentre il disconoscimento, investendo la provenienza stessa del documento, mira a impedire che la scrittura medesima acquisti efficacia probatoria, con la conseguenza che chi contesti l’autenticità della sottoscrizione della scrittura onde impedire che ali ‘apparente sottoscrittore di essa venga imputata la dichiarazione sottoscritta nella sua totalità, deve disconoscere la sottoscrizione e non già proporre la querela di falso, mentre invece, allorché sia accertata l’autenticità della sottoscrizione, chi voglia contestare la provenienza delle dichiarazioni contenute nella scrittura di colui che, ormai incontrovertibilmente, l’ha sottoscritta, ha l’onere di proporre la querela di falso.

12. In una dimensione del tutto speculare rispetto alle posizioni della giurisprudenza, la dottrina specialistica si è a sua volta divisa tra i due citati e dominanti orientamenti, con argomentazioni che fanno di volta in volta riferimento:

– al rapporto tra provenienza della scrittura e parte in causa contro cui è prodotta;

– alla valutazione del documento per la riconosciuta incidenza sostanziale e processuale intrinsecamente elevata;

– all’esigenza di tener separato il piano del contenuto del testamento (concreto thema probandum) da quello dello strumento mediante il quale esso possa acquisire rilevanza agli effetti processuali.

Su di un piano più generale, ciascuna delle tesi proposte non appare poi insensibile al problema dell’efficacia delle scritture private e dei relativi strumenti di impugnazione.

13. La tesi favorevole all’indirizzo che reputa sufficiente il ricorso al disconoscimento colloca tout court il testamento olografo tra le scritture private.

13.1. Tale ricostruzione della scheda testamentaria è sostanzialmente univoca, salva l’attribuzione ad essa di quel ‘valore intrinsecamente elevato’ evidenziato da questa stesse sezioni unite nel 2010. Distinzione peraltro criticata da chi ne contesta il fondamento normativo, denunciando l’irragionevolezza dell’attribuzione ad alcuni documenti provenienti da terzi di un regime giuridico ‘rafforzato’ rispetto a quanto assicurato alle scritture private provenienti dalle parti – regime del quale si lamenta l’assenza di un efficace riferimento normativo che sostenga l’intrinseco grado di attendibilità del testamento olografo a giustificazione della necessaria proposizione della querela di falso, e la conseguente confusione concettuale tra il piano processuale e quello sostanziale (confondendosi cioè l’aspetto morfologico del documento e del suo contenuto con lo strumento processuale funzionale al suo riconoscimento sul piano della prova in giudizio).

Tale sovrapposizione concettuale conduceva, difatti, secondo tale orientamento, all’errore in cui incorrevano i sostenitori della necessità di ricorrere alla querela di falso, così criticandosi l’assunto secondo cui incombeva su colui che contestava il testamento olografo la prova del suo accertamento negativo, e ritenendosi invece sufficiente, al pari di ogni scrittura privata, il mero disconoscimento del documento.

13.2. L’indirizzo favorevole al semplice disconoscimento della scheda testamentaria apparve, peraltro, illieo et immediate destinato a confrontarsi con due delicate questioni.

13.2.1. La prima questione aveva ad oggetto il rapporto tra autore del testamento e parti in causa, poiché il testamento proviene pur sempre da un terzo rispetto alle parti del processo, perciò solo esulando, secondo i sostenitori della tesi della querela di falso, dalla fattispecie normativa di cui all’art. 214 c.p.c. – a tanto replicandosi che la scheda olografa, pur materialmente proveniente da chi non può assumere la qualità di parte in senso processuale o sostanziale, acquistando efficacia solo con la morte del suo autore, è pur tuttavia caratterizzata da una sua così specifica peculiarità che la posizione di ‘parte’ del destinatario della attribuzione deriva unicamente dalla devoluzione ereditaria, evidenziandosi poi l’esistenza di casi in cui il documento, pur non provenendo da alcuna delle parti in causa, non può essere considerato alla stregua di una scrittura di terzo estraneo alla lite.

13.2.2. Si è ancora opinato, avvertendo l’utilità di circoscrivere la qualità di terzo rispetto alla scrittura privata prodotta in giudizio (e dunque all’olografo), che, dall’esame esegetico degli artt. 2702, 2704 cod. civ., 214 c.p.c., e in una più ampia dimensione di teoria generale del diritto, il concetto di terzo ha natura relazionale, per tale intendendosi chi è estraneo a un qualsiasi rapporto o atto giuridico, così individuandosi tre diverse dimensioni in cui si colloca il concetto di terzo (e, specularmente, quello di parte), e cioè quella proprio della formazione della scrittura (che, considerando la convenzione come fatto storico puntuale, definisce ‘parte’ colui che abbia sottoscritto o vergato di suo pugno la scrittura, e correlativamente terzo chi non abbia né sottoscritto né vergato a mano la medesima), quella negoziale (afferente alla situazione giuridica di diritto sostanziale disciplinata dal contenuto della scrittura privata prodotta in giudizio, in tale prospettiva essendo parte la persona fisica/soggetto autore della dichiarazione), e infine quella processuale (quella, cioè del giudizio in cui la scrittura privata è prodotta, in questa accezione essendo ‘terzo’ la persona fisica che non in giudizio nel processo pendente).

L’espressione ‘eredi o aventi causa’ utilizzata dal secondo comma dell’art. 214 cod. proc. civ. andrebbe, pertanto, intesa in senso ampio, e comprensiva di tutti coloro che si trovino in una ‘generica posizione di dipendenza’.

13.2.3. La critica alla preclusione del disconoscimento imposta all’erede legittimo (formalmente terzo sino alla declaratoria di non autenticità o di falsità dell’olografo), si appunta ancora sull’erronea valorizzazione del nesso processuale tra il documento ed il soggetto, mentre anche il successibile ex lege, in ragione della propria posizione sostanziale, non sarebbe ‘terzo’ bensì soggetto contro il quale l’olografo è prodotto.

13.2.4. La posizione del successibile ex lege (se parte o terzo rispetto al testamento olografo che istituisca erede altro soggetto), dissolta in parte qua la differenza tra erede legittimo e quello testamentario ai fini del mezzo cui ricorrere per contestare una scheda olografa, diviene così oggetto di un accertamento giudiziale circoscritto alla fattispecie successoria (legale o testamentaria) invocata in proprio favore, onde il riparto dell’onere della prova andrebbe riferito unicamente all’effetto giuridico di tale fattispecie: costituendo proprio il negozio testamentario il tema della prova, dell’attore o del convenuto, il relativo onere graverebbe ipso facto su colui che vuoi far valere quel documento, con l’effetto che la parte nei cui confronti l’atto testamentario è prodotto può limitarsi al disconoscimento.

13.2.5. La seconda questione, a sua volta influente sull’elaborazione teorica che ha riguardo all’onere della prova, esplora il rapporto tra successione legittima e successione testamentaria, e la supposta preminenza della seconda sulla prima. Si afferma, così, che il tenore dell’art. 457, secondo comma, c.c. (a mente del quale ‘non si fa luogo alla successione legittima se non quando manca, in tutto o in parte, quella testamentaria’) attribuirebbe alle norme sul testamento valenza dispositiva, a fronte della valenza suppletiva della legittima. Per i fautori della querela di falso, questa preminenza inciderebbe in modo determinante sulla ripartizione dell’onere probatorio, perché la contestazione del testamento olografo si traduce in una azione di accertamento negativo volta che, a fronte della ‘posizione consolidata’ attribuita dal testamento all’erede vocato, chi voglia impugnarlo avrebbe l’onere di dimostrare la falsità della provenienza o la insussistenza dei requisiti di validità, in osservanza dei principi generali di ripartizione dell’onere probatorio prescritti dall’art. 2697 cod. civ.. La preminenza della successione testamentaria è stata, peraltro, autorevolmente contestata, sino ad invertirne il rapporto con quella legittima, attribuendo a quest’ultima funzione primaria (e conseguentemente carattere dispositivo alla sua disciplina), residuando alla vocazione testamentaria un carattere soltanto suppletivo: di qui, la legittimità del (solo) disconoscimento della scheda testamentaria.

14. La tesi favorevole all’indirizzo che reputa necessaria la querela di falso muove dalla premessa secondo cui il testamento olografo, costituendo una autentica prova legale, può essere ‘distrutto’, e oggetto di verifica, soltanto attraverso lo strumento processuale di cui agli artt. 221 ss. c.p.c..

14.1. Le posizioni dottrinarie contrarie al disconoscimento, meno numerose, non appaiono tuttavia meno autorevoli per la dovizia delle argomentazioni addotte, volte ad indagare funditus sugli aspetti, sostanziali e processuali, riconducibili alle peculiarità del testamento olografo.

14.2. Pur non dubitandosi della estraneità del testamento dalla categoria degli atti pubblici, ne viene pur tuttavia evidenziato il carattere sui generis sul piano sostanziale, reso manifesto innanzitutto dalla circostanza che la falsificazione della scheda olografa, nel diritto penale, è equiparata, quoad poenam, al medesimo reato avente ad oggetto gli atti pubblici, secondo quanto previsto dall’art. 491 c.p., mentre la stessa condotta criminosa, a differenza che per le scritture private, è perseguibile d’ufficio ai sensi del successivo art. 493 bis.

14.3. Non si omette poi di considerare che l’olografo produce immediatamente e direttamente effetti nella sfera giuridica del terzo, e costituisce, una volta pubblicato, titolo immediato di acquisto per l’erede e per il legatario, come prescritto dall’art. 620 quinto comma c.c., trattandosi di scrittura la cui efficacia non necessita dell’accertamento della autenticità, e comunque distinta da tutte le altre scritture private, per loro natura inidonee a costituire titolo immediatamente costitutivo di diritti verso i beneficiati.

14.4. AI riconoscimento del suo intrinseco valore sul piano sostanziale contribuisce, secondo tale orientamento, la stessa disciplina delle norme sulla pubblicità degli atti (in particolare, gli artt. 2648 e 2660 cod. civ.), che consentono la trascrizione dell’acquisto a causa di morte per effetto della sola presentazione del testamento e dell’atto di accettazione della eredità, restando così implicitamente confermata la non necessità di verificare l’autenticità della scheda, in evidente contrapposizione con il trattamento riservato alle altre scritture private, che possono trascriversi solo se autenticate o giudizialmente accertate, secondo il disposto dell’art. 2657 cod. civ..

14.5. Si è poi contestato che il procedimento di verificazione sia adeguato al disconoscimento del testamento, trovandosi il documento in deposito presso un notaio per la pubblicazione art. 620 cod. civ.): e se per la querela di falso l’art. 224 prevede il sequestro del documento quale misura più elevata per la sua custodia quando è tenuto presso un depositario, nessuna disposizione così rigorosa è prevista nel procedimento di verificazione.

14.6. Sul piano più squisitamente processuale, si poi affermato che la contestazione della autenticità del testamento andrebbe esercitata servendosi del più rigoroso strumento della querela non tanto per la efficacia probatoria del documento, quanto perché, in materia di contraffazione, l’azione di verificazione si risolverebbe in una iniziativa processuale identica nel contenuto alla querela, ma inammissibilmente libera dalle formalità essenziali che la legge prevede invece nella disciplina dettata dagli artt. 221 e segg. c.p.c.. E si è ancora posto l’accento sulla natura dell’accertamento – per i suoi riflessi sull’onere della prova — e sulla posizione di terzietà del successibile ex lege rispetto al testamento.

14.6.1. La soluzione della querela, difatti, conduce, secondo i suoi sostenitori, ad un più corretto riparto dell’onere della prova, che verrebbe a gravare su chi contesta il testamento olografo, in ossequio al disposto dell’art. 2697 e dell’art. 457, secondo comma, c.c., il quale ultimo prevede la successione ex lege solo in mancanza di vocazione testamentaria – risolvendosi la contestazione del documento olografo, come si è detto, in una domanda di accertamento negativo (così aderendosi alla tesi della preminenza della vocazione testamentaria rispetto alla legale). Quanto poi al rapporto tra erede ab intestato e testamento, si afferma che il disconoscimento di una scrittura non può provenire da terzi, poiché tale strumento è riservato alle parti contro cui il documento è rivolto, e agli eredi o aventi causa, che possono limitarsi a non riconoscere la scrittura o la sottoscrizione del suo autore. La fattispecie normativa si riferisce, difatti, ad una scrittura del de cuius prodotta contro gli eredi a fondamento di una pretesa eccepita nei loro riguardi, mentre, prodotto il testamento, deve escludersi che chi lo contesti possa qualificarsi, sic et simpliciter, erede, poiché detta qualifica in capo ai parenti che lo impugnano richiede proprio la dimostrazione della falsità del testamento: per il successibile ex lege non residuerebbe, dunque, che lo strumento della querela di falso per contestare l’autenticità del testamento olografo.

15. Gli arresti giurisprudenziali e il perdurante contrasto che li caratterizza, al pari delle divergenti conclusioni cui è pervenuta la stessa dottrina, sono lo specchio del complessità della questione posta al collegio, la cui soluzione sul piano teorico è destinata ad assumere un determinante rilievo nelle controversie per lesione di legittima ove assai di frequente si sollevano, in via di domanda o di eccezione, doglianze in ordine alla autenticità del testamento.

La peculiarità e la singolarità della questione sta poi nel fatto che tanto gli argomenti che sorreggono quanto le critiche che contestano ciascuna delle possibili soluzioni non mancano di autorevolezza e di forza persuasiva.

16. A sostegno della sufficienza del disconoscimento gli argomenti maggiormente convincenti appaiono quelli predicativi:

– della natura di scrittura privata del testamento olografo;

– della attribuzione al successibile ex lege della qualità di erede dell'(apparente) autore della scheda olografa;

– della netta distinzione tra il piano sostanziale, che riguarda più propriamente il thema probandum, e il piano processuale, che riguarda le modalità con le quali in un processo può trovare ingresso, con dignità di prova, il documento di delazione testamentaria.

17. L’indirizzo a sostegno della necessità della querela di falso trova invece fondamento:

– nella incidenza sostanziale e processuale intrinsecamente elevata che è riconosciuta al testamento, testimoniata da un plesso di norme la cui lettura depone (deporrebbe) in tal senso;

– nella esclusione in capo al successibile ex lege della qualità di erede (almeno sino a quando tale qualità non sia stata processualmente accertata), con conseguente inapplicabilità della fattispecie contemplata nell’art. 214, secondo comma, c.p.c..

18. Non vanno per altro verso trascurate le riflessioni critiche specularmente mosse alle argomentazioni favorevoli all’una e all’altra delle tesi che si propongono oggi come soluzione (senza apparente alternativa) della questione oggetto di giudizio.

18.1. Quanto al rapporto tra successore ex lege e scheda olografa, ed alla posizione dell’erede ab intestato, il vasto dibattito giurisprudenziale e dottrinale che, in seno alla teoria generale del processo, si agita in ordine alla stessa categoria concettuale di ‘terzo’, non sembra del tutto funzionale all’adozione di una soddisfacente soluzione del caso concreto. Non sembra, difatti, seriamente revocabile in dubbio che alcuni successibili, quali i legittimari, difficilmente possano essere qualificati ‘terzi’ ai fini della non riconoscibilità della sottoscrizione del de cuius. Mentre la stessa impugnazione del testamento olografo, la contestazione della sua provenienza e/o autenticità, è spesso proposta proprio da chi, pur beneficiario di una quota inferiore a quella spettantegli, è comunque (anche) un erede testamentario, sicché nei suoi confronti non potrebbe porsi alcuna questione di accertamento della sua qualità di erede.

18.1.1. Di conseguenza, non appare utile prospettare alternative che, a seconda della posizione assunta da chi contesta il testamento (escluso totalmente dalla eredità, erede legittimo compreso nelle categorie dei legittimari, erede testamentario sia pur per quota che non lo soddisfi), postulino poi l’adozione di soluzioni differenziate caso per caso.

18.1.2. Né appare senza significato considerare che una formale disamina del concetto di terzo conduce inevitabilmente a ritenere che quella posizione, ai fini dell’art. 214 cod. proc. civ., non andrebbe esaminata non dal punto di vista del soggetto parte della lite ma dell’autore del documento che si vuoi disconoscere – e sotto tale profilo il de cuius non è mai parte nel giudizio di impugnazione del proprio testamento -, e che l’erede in disconoscimento della scrittura o della sottoscrizione del suo autore sarebbe colui che subentra al de cuius nei suoi rapporti – e ciò presuppone che quel medesimo scritto si sarebbe potuto produrre nei confronti del testatore se ancora in vita.

E tuttavia risulta assai poco agevole affermare che, tra i documenti (siano essi negoziali oppure dichiarazioni di scienza) possa annoverarsi, sic et simpliciter, il testamento, formato dal medesimo de cuius, ma destinato a produrre effetti nella sfera giuridica dei suoi destinatari e non in quella dell’autore, acquistando efficacia dal momento del suo decesso e non prima. La ratio della distinzione tra scritture private, fatta propria dalle sezioni unite di questa Corte nel 2010, secondo cui ad alcune di esse andrebbe attribuito un valore intrinsecamente maggiore, trova proprio in tali considerazioni il suo fondamento, pur senza trascurare la legittimità delle critiche di chi contesta l’irragionevolezza dell’attribuzione ad alcune di esse di un regime giuridico ‘rafforzato’ rispetto a quanto assicurato a quelle provenienti dalle parti, anche alla luce della difficoltà di individuare un criterio da adoperare per la relativa classificazione.

18.2. Parimenti poco esplorabile, ai fini che occupano il collegio, si rivela la altrettanto delicata questione relativa alla preminenza della forma testamentaria su quella legittima o viceversa, secondo la lettura data dell’art. 457, secondo comma, cod. civ., e alle relative conseguenze in ordine all’onere dalla prova. Il percorso interpretativo che la caratterizza appare altrettanto impervio, e conduce a risultati assai poco certi, alla luce dei rilievi sollevati dai fautori dell’indirizzo favorevole al disconoscimento, i quali sottolineano come nella specie non si controverta sul valore della fonte della successione (legale o testamentaria, che resta il thema probandum), ma sullo strumento probatorio utilizzabile per dare ingresso nel processo al documento stesso.

19. L’indagine deve allora indirizzarsi verso l’analisi dei due più rilevanti aspetti della questione:

a) il valore sostanziale da attribuire al testamento;

b) il meccanismo processuale attraverso cui il testamento possa acquistare definitiva efficacia probatoria.

19.1. Privilegiando l’aspetto processuale della questione, sembra potersi concordare con l’assunto secondo cui, qualunque valore possa attribuirsi al testamento olografo, la sua contestazione avrà pur sempre ad oggetto il titolo della successione, e ciò riguarderà propriamente il thema probandum, mentre la opzione tra disconoscimento e successiva (eventuale) verificazione a carico di chi di quel testamento voglia valersi, ovvero querela di falso a carico di chi quel testamento voglia eliminare dalla realtà processuale, riguarda squisitamente il piano della prova, ossia lo strumento processuale funzionale a consentire che il testamento spieghi efficacia nel processo. Con la conseguenza che la sua natura di scrittura privata è destinata a privilegiare la prima soluzione.

19.2. Se invece viene si privilegia l’aspetto sostanziale della vicenda, appare valorizzata l’intrinseca, elevata e peculiare incidenza che il testamento spiega per sua stessa natura. E si è già avuto modo di osservare come, sotto tale profilo, non manchino conferme offerte dal relativo plesso di norme destinate a evidenziarne le differenze rispetto ad una ordinaria scrittura privata (dalla sua immediata esecutività e trascrivibilità, alla disciplina penalistica che ne accomuna le sorti al documento pubblico nella ipotesi di falsificazione). È indiscusso, anche da parte di chi finisce per propendere per la soluzione favorevole al disconoscimento, che il testamento olografo sia una scrittura il cui tratto formalistico, olografo, datato e sottoscritto ai fini della sua validità la rende una scrittura privata sui generis, i cui requisiti tendono a garantire la corrispondenza del contenuto del documento a quello della dichiarazione e la tutela della integrale autenticità di quest’ultima contro le manomissioni del terzo. Proprio all’olografia (di cui non si rinvengono altri riscontri) è attribuita una funzione specifica, ossia la funzione integrativa della ‘conoscenza’ dell’atto, nel senso che con essa vuoi garantirsi che il testo sia stato ‘conosciuto’ dal suo autore, in un significato dunque che va oltre la ‘presunzione di conoscenza’ delle normali scritture.

In favore di questo indirizzo, che conduce alla soluzione favorevole alla querela di falso, si rilevano ancora la maggiore coerenza dello strumento della querela (che, con la partecipazione al processo del Pubblico Ministero, assicurerebbe migliore armonia con la rigorosa disciplina penale prevista per la ipotesi di falsificazione dell’olografo, parificata al reato di falsificazione dell’atto pubblico); la maggiore coerenza in riferimento all’oggetto dell’indagine (poiché con la contestazione della autenticità dell’olografo l’accertamento non si limita mai alla sola sottoscrizione per stabilirne la provenienza, ma all’intero testo, investito di dubbi in ordine alla sua genuinità, e ciò in armonia con l’oggetto dell’indagine per l’ipotesi di querela di falso dell’atto pubblico); la maggiore adeguatezza agli effetti giuridici dell’olografo, il quale, a differenza di ogni altra scrittura privata, è immediatamente esecutivo ed immediatamente costitutivo di situazioni giuridiche soggettive, attive e passive, in capo al chiamato alla successione.

20. È convincimento del collegio che le inevitabili aporie destinate a vulnerare l’una e l’altra ipotesi di soluzione, tra quelle prospettate sino ad oggi in dottrina e in giurisprudenza, possano essere non del tutto insoddisfacentemente superate adottando una terza via, già indicata dalla giurisprudenza di questa Corte con la risalente sentenza del 1951 (Cass. 15.6.1951 n. 1545, Pres. Mandrioli, est. Torrente), e cioè quella predicativa della necessità di proporre un’azione di accertamento negativo della falsità.

20.1. Pur nella consapevolezza delle obiezioni mosse ilio tempore a tale ipotesi di soluzione del problema, è convincimento del collegio che la proposizione di una azione di accertamento negativo che ponga una questio nullitatis in seno al processo (anche se, più correttamente, sarebbe a discorrere di una quaestio inexistentiae) consente di rispondere:

– da un canto, all’esigenza di mantener il testamento olografo definitivamente circoscritto nell’orbita delle scritture private;

• dall’altro, di evitare la necessità di individuare un (assai problematico) criterio che consenta una soddisfacente distinzione tra la categoria delle scritture private la cui valenza probatoria risulterebbe ‘di incidenza sostanziale e processuale intrinsecamente elevata, tale da richiedere la querela di falso’, non potendosi esse ‘relegare nel novero delle prove atipiche’ (così la citata Cass. ss.uu. 15161/2010 al folio 4 della parte motiva); dall’altro, di non equiparare l’olografo, con inaccettabile semplificazione, ad una qualsivoglia scrittura proveniente da terzi, destinata come tale a rappresentare, quoad probationis, una ordinaria forma di scrittura privata non riconducibile alle parti in causa;

– dall’altro ancora, di evitare che il semplice disconoscimento di un atto caratterizzato da tale peculiarità ed efficacia dimostrativa renda troppo gravosa la posizione processuale dell’attore che si professa erede, riversando su di lui l’intero onere probatorio del processo in relazione ad un atto che, non va dimenticato, è innegabilmente caratterizzato da una sua intrinseca forza dimostrativa;

– infine, di evitare che la soluzione della controversia si disperda nei rivoli di un defatigante procedimento incidentale quale quello previsto per la querela di falso, consentendo di pervenire ad una soluzione tutta interna al processo, anche alla luce dei principi affermati di recente da questa stessa Corte con riguardo all’oggetto e alla funzione del processo e della stessa giurisdizione, apertamente definita ‘risorsa non illimitata’ (Cass. ss.uu. 26242/2014).

21. Va pertanto affermato il seguente principio di diritto:

La parte che contesti l’autenticità del testamento olografo deve proporre domanda di accertamento negativo della provenienza della scrittura, e l’onere della relativa prova, secondo i principi generali dettati in tema di accertamento negativo, grava sulla parte stessa.

In questi sensi ed entro tali limiti il ricorso principale va accolto (con conseguente assorbimento di quello incidentale), e il procedimento rinviato alla Corte di appello di Roma che, alla luce del principio di diritto ora esposto, esaminerà le ulteriori questioni conseguenti alla sua applicazione.

P.Q.M.

La Corte riuniti i ricorsi, accoglie il ricorso principale nei limiti di cui in motivazione, assorbito quello incidentale, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di cassazione, alla Corte di appello di Roma in altra composizione.

Successioni e donazioni. Le liberalità d’uso possono essere condizionate dal valore del regalo ?

Cassazione sez, II civ., 19 settembre 2016, n. 18280

La liberalità d’uso prevista dall’art. 770, secondo comma, cod. civ. (non costituente donazione in senso stretto e perciò non soggetta alla forma propria di questa), sussiste quando la elargizione si uniformi, anche sotto il profilo della proporzionalità alle condizioni economiche dell’autore dell’atto, agli usi e costumi propri di una determinata occasione, da vagliarsi anche alla stregua dei rapporti esistenti fra le parti e della loro posizione sociale.  Tali liberalità trovano fondamento negli usi invalsi a seguito dell’osservanza di un certo comportamento nel tempo, e dunque di regola in occasione di quelle festività, ricorrenze, occasioni celebrative che inducono comunemente a elargizioni, soprattutto in considerazione dei legami esistenti tra le parti.    Con queste riflessioni è stata già anticipata la risposta alla parte più rilevante del secondo motivo di ricorso, che contesta l’adeguatezza della motivazione della sentenza, affermando che per le due festività esaminate (la Festa della donna e la festività di San Valentino)  sarebbero concepibili solo regali come mazzi di mimose oppure cioccolatini o inviti a cena.             L’affermazione è smentita dal ricordato insegnamento secondo cui la portata economica delle elargizioni va commisurata alla condizione dei soggetti, che nel caso di specie disponevano, come attestato in sentenza e implicito nelle difese svolte, di ingenti patrimoni e mantenevano un elevatissimo tenore di vita.

Il caso. Nella fattispecie un  abbiente signore aveva regalato alla propria compagna dei quadri d’autore ( tra le quali opere di Klimt, Picasso, Klee e Man Ray)  e alcuni gioielli di tra i quali uno  con diamanti per  13 carati.  In seguito all’interruzione delle relazione, il donante  ha  chiesto la restituzione di tutti i beni in quanto donazioni prive della forma  richiesta dall’art. 782 c.c..(l’atto pubblico). La Corte d’appello solo in parte aveva accolto le domande dell’attore  avendo escluso la natura di liberalità d’uso  in relazione ad un quadro di Picasso e all’anello da 13 carati  avendo ritenuto che solo tali donazioni costituivano apprezzabile depauperamento del patrimonio del donante e avrebbero richiesto forma prevista dall’art. 782 c.c..cioè l’atto pubblico.La Corte di appello aveva quindi condannato la convenuta al pagamento in favore dell’attore del controvalore del bene, che nel frattempo era stato venduto.

La Corte di Cassazione ha sostanzialmente confermato la pronuncia della Corte territoriale.

Testo della sentenza

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE II CIVILE

Sentenza 22 marzo – 19 settembre 2016, n. 18280

REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA CIVILE  Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. MATERA Lina – Presidente – Dott. D’ASCOLA Pasquale – rel. Consigliere – Dott. ORILIA Lorenzo – Consigliere – Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere – Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 16013/2011 proposto da: NELL’INTERESSE DELLA SIGNORA P.M.K.J. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MONTI PARIOLI 8A-10, presso lo studio dell’avvocato ADRIANA BOSCAGLI, che la rappresenta e difende; – ricorrente – Nonchè da: G.F.G. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ATTILIO FRIGGERI 106, presso lo studio dell’avvocato MICHELE TAMPONI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato EMIDIA ZANETTI VITALI; – controricorrente e ricorrente incidentale – avverso la sentenza n. 616/2011 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 03/03/2011; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 22/03/2016 dal Consigliere Dott. PASQUALE D’ASCOLA; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DE RENZIS Luisa, che ha concluso per il rigetto del ricorso principale e per l’accoglimento del quarto motivo e per il rigetto dei restanti motivi del ricorso.
Svolgimento del processo

La causa è sorta nel 2006 e concerne la richiesta di restituzione di tredici oggetti d’arte, tra cui opere di autori famosi quali (OMISSIS), che durante la relazione sentimentale tra le parti, protratta per parecchi anni, l’odierno resistente aveva consegnato alla ricorrente. Il tribunale di Milano nel 2009 ha accolto la domanda limitatamente ad un tavolo in noce intarsiato. La Corte di appello con la sentenza 3 marzo 2011 ha confermato la natura di liberalità d’uso della dazione di quasi tutte le opere, ormai in possesso della convenuta. 1.1) Ha però escluso tale natura quanto ad un quadro di (OMISSIS) del valore stimato di seicentomila Euro, asseritamente donato a chiusura di uno screzio tra le parti, perchè la donazione, avvenuta unitamente al regalo di un brillante da tredici carati, costituiva apprezzabile depauperamento del patrimonio del donante; avrebbe quindi richiesto la forma prevista dall’art. 782 c.c.. La Corte di appello ha conseguentemente condannato la convenuta al pagamento in favore dell’attore del controvalore del bene, alienato nelle more. La donataria ha interposto ricorso per cassazione affidato a un motivo. Il resistente ha svolto ricorso incidentale, affidato a cinque motivi. Fissata per la trattazione, la causa è stata rinviata su richiesta delle parti in vista di un possibile accordo. In vista dell’odierna udienza non è stata depositata alcuna memoria.
Motivi della decisione

2) La censura esposta dalla ricorrente denuncia vizi di motivazione della sentenza impugnata, in relazione alla ratio decidendi riassunta sub p.1. Essa sostiene che il quadro di (OMISSIS) e l’anello erano stati donati con atto qualificabile come liberalità d’uso e che la Corte di appello non avrebbe motivato adeguatamente in ordine alla proporzionalità dei doni con il tenore di vita degli interessati. A tal fine evidenzia tra l’altro che l’opera di (OMISSIS) nel 2006 era stata stimata soltanto 555.380,00 Euro; che la dazione era giustificata anche dalle spese sostenute dalla convenuta per l’organizzazione di una festa in onore dell’attore, da lui ingiustificatamente annullata; che altri due quadri regalati erano del valore di 400 o 450 mila Euro; che il patrimonio dell’attore era all’epoca di diverse decine di milioni di Euro; che il valore dell’anello era stato stimato dalla Corte di appello con immotivata illazione, ipotizzando un complessivo valore dei due beni superiore al milione di Euro. Il motivo di ricorso è da rigettare. La Corte di appello ha scrupolosamente esaminato gli elementi rilevanti per la decisione: la grande consistenza del patrimonio dell’attore; l’abitudine di questi di elargire regali costosi in occasione di ricorrenze; il rilievo della valutazione dei singoli beni. Con insindacabile apprezzamento di merito ha reputato che tra questa abitudine e il regalo di inusitato valore costituito dal quadro di (OMISSIS) e dal prezioso brillante vi sia “un vero iato”. Ha argomentato in proposito sia sulla base dello “sforzo economico” che il dono complessivo richiedeva, sia sulla base delle motivazioni del regalo, che non era di routine, ma era un “presente per ottenere il perdono a fronte di un comportamento incongruo”. 2.1) A fronte di queste esaurienti argomentazioni, le critiche svolte in ricorso costituiscono in sostanza una richiesta di rivisitazione delle valutazioni che spettano al giudice di merito. Ed infatti: non viene indicata alcuna risultanza di causa atta ad attribuire all’anello, che la stessa ricorrente definisce sfavillante, un valore inferiore a quello presunto dalla Corte di appello. Eppure la ricorrente è o almeno è stata in possesso dell’oggetto, avrebbe potuto farlo stimare, avrebbe potuto indicare un valore inferiore, offrendo argomenti atti a svilire un brillante di ben tredici carati, consegnatole nel contesto di relazioni del tipo che ella stessa accredita. Inoltre è incongrua la considerazione dell’annullamento della festa quale metro per commisurare la liberalità d’uso. Se infatti se ne dovesse tenere conto in modo decisivo, la dazione potrebbe essere qualificata come donazione remuneratoria, ugualmente bisognevole di forma pubblica, come prontamente rilevato in controricorso. Ed è la stessa ricorrente ad ammettere (pag. 20) che nel caso in esame si potrebbero configurare entrambe le ipotesi di cui all’art. 770 c.c.. Se ne desume che, una volta riscontrata l’anomalia della causale e l’anomalia del valore rispetto anche ai pur preziosi precedenti regali, la decisione della Corte di appello di qualificare questa elargizione come donazione di grande valore, non riconducibile al secondo comma, costituisce qualificazione correttamente motivata, che ha tenuto conto di tutti i fattori che sono diversamente valutati da parte ricorrente. La Corte di legittimità non può sostituirsi al giudice di merito con un proprio apprezzamento, potendo solo controllare la ragionevolezza e plausibilità delle valutazioni proposte dalla sentenza di appello, che risulta incensurabile. 3) Il primo motivo del ricorso incidentale denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 770 c.c.. Secondo l’attore, la Corte di appello ha errato nel qualificare liberalità d’uso i doni fatti per la ricorrenza della “festa della donna” o “per la festa di San Valentino”. La norma di cui all’art. 770, comma 2, dovrebbe essere applicata sulla base di criteri di rigore, rifacendosi a prassi consolidate nella società, al di là di “eventuali pratiche divenute comuni tra le parti”. Secondo il ricorso la nozione di liberalità d’uso sarebbe quindi rinvenibile, esemplificativamente, nel caso dei regali di Natale, ma non in relazione ad eventuali regali di Pasqua, restando esclusi in ogni caso i regali dovuti a comportamento stravagante, che contrasta con la consuetudine che deve presiedere alla liberalità d’uso. La doglianza, che presenta profili di inammissibilità perchè non risulta svolta in questi termini in appello, atteso che questo profilo non è trattato in sentenza, è comunque infondata. La liberalità d’uso si configura qualora sia disposta in determinate occasioni, quali le nozze, i compleanni, gli anniversari, in cui per consuetudine si è instaurata l’abitualità diffusa di un certo comportamento. La sussistenza delle condizioni per il manifestarsi di questi usi è verificabile diacronicamente, potendosi registrare adattamenti nel costume che sono recepiti dalla natura elastica della norma. Ne consegue che feste e ricorrenze affermatesi nel corso del tempo possono far sorgere e consolidare usi nuovi, che legittimano l’applicazione della disposizione in esame. Ciò è quanto hanno ritenuto i giudici di Milano nel configurare quale liberalità d’uso i regali fatti in occasione di due festività di conio non antico, quali la Festa della donna e la festività di San Valentino, da tempo impostesi con indiscutibile rilevanza in Italia e nel mondo occidentale. In occasione di esse, ma altrettanto potrebbe dirsi per le c.d. festa della mamma o del papà, è invalso l’uso di regali tra gli innamorati o in onore alle donne, in quanto regali che si giustificano, come hanno rilevato tribunale e Corte di appello (cfr sentenza impugnata pag. 21 e 27), in relazione al legame esistente tra le parti. E’ apodittico affermare che si tratti di stravaganti usi non riconducibili al disposto normativo ed è errato infatti affermare che regali di Pasqua – si pensi al regalo abituale dell’uovo di cioccolato, non di rado con sorprese preziose appositamente introdottevi – non corrispondano ad una consuetudine. Che le abitudini attuali registrino, anche in occasione di festività di più recente storia, l’uso del dono di fiori, dolciumi o piccoli gioielli è realtà incontestabile, che appartiene alle comuni conoscenze e che è stata affermata sia pur implicitamente anche nel caso di specie, mediante i richiami svolti a pag. 27. Ivi si è portata l’attenzione al costume sociale e familiare, evidentemente ritenuto sussistente, e alla circostanza che “l’entità dell’attribuzione” va commisurata alla condizione socioeconomica delle parti. Magistralmente Cass. 12142/93, nell’affermare che il rilevante valore dell’oggetto donato non è ostativo alla configurazione di una liberalità d’uso, ha avuto modo di spiegare che usi e costumi propri di una determinata occasione sono da vagliarsi anche alla stregua dei rapporti esistenti fra le parti e della loro posizione sociale. Sulla scorta di precedenti analoghi, la Corte di appello ha valutato la natura di queste elargizioni e il suo apprezzamento è ineccepibile. Il motivo va quindi rigettato ribadendo che: a) una liberalità d’uso prevista dall’art. 770 c.c., comma 2, (non costituente donazione in senso stretto e perciò non soggetta alla forma propria di questa), sussiste quando la elargizione si uniformi, anche sotto il profilo della proporzionalità alle condizioni economiche dell’autore dell’atto, agli usi e costumi propri di una determinata occasione, da vagliarsi anche alla stregua dei rapporti esistenti fra le parti e della loro posizione sociale. b) Tali liberalità trovano fondamento negli usi invalsi a seguito dell’osservanza di un certo comportamento nel tempo, e dunque di regola in occasione di quelle festività, ricorrenze, occasioni celebrative che inducono comunemente a elargizioni, soprattutto in considerazione dei legami esistenti tra le parti. 3) Con queste riflessioni è stata già anticipata la risposta alla parte più rilevante del secondo motivo, che contesta l’adeguatezza della motivazione della sentenza, affermando che per le due festività esaminate sopra sarebbero concepibili solo regali come mazzi di mimose oppure cioccolatini o inviti a cena. L’affermazione è smentita dal ricordato insegnamento secondo cui la portata economica delle elargizioni va commisurata alla condizione dei soggetti, che nel caso di specie disponevano, come attestato in sentenza e implicito nelle difese svolte, di ingenti patrimoni e mantenevano un elevatissimo tenore di vita. Quanto alla circostanza che non sarebbe stata fornita adeguata prova della consegna del quadro di (OMISSIS) per la ricorrenza di san Valentino, la censura si risolve nella richiesta di un inammissibile apprezzamento di merito. Basti dire che essa lamenta che sia stato valorizzato un messaggio di posta elettronica che alludeva a un San Valentino “in ritardo”, circostanza che è stata valutata dalla Corte di appello unendola al fatto che il soggetto del dipinto (“(OMISSIS)”) era coerente con quella festa. Dunque a fronte di una così logica e ineccepibile considerazione degli elementi dati, la Corte di cassazione non può ingerirsi nel giudizio di merito. 4) Con il terzo motivo l’attore deduce che la sentenza impugnata sarebbe affetta da vizi di motivazione perchè inizialmente controparte aveva qualificato liberalità d’uso solo le opere di (OMISSIS), affermando che le altre opere erano proprie. Aggiunge che la convenuta aveva addotto una lettera dell’attore 2001, in cui egli aveva soltanto manifestato la volontà di permettere alla convenuta di trattenere le altre opere, asportate senza il suo consenso. Solo in un secondo tempo la convenuta aveva allegato l’acquisto in forza di “donazioni d’uso”. Deduce che vi sarebbe contraddittorietà tra la lettera che autorizzava a trattenere quanto preso senza il suo consenso e la liberalità e lamenta che la Corte di appello non abbia considerato questo profilo. Anche questa censura è infondata. La lettera riprodotta in ricorso risulta infatti, per quanto si evince dal ricorso stesso (pag. 35), prodotta dalla convenuta a sostegno di legittima proprietà dei beni, non certo a riconoscimento di una precarietà della concessione negando la liberalità. Le correzioni di impostazione difensiva in corso di causa sono consentite se non rivelano intrinseca contraddittorietà. Ed invero non vi è incompatibilità tra negare la restituzione di un bene producendo un documento che esprime, secondo chi se ne avvale, già il titolo a trattenerlo e affermare poi che vi era altro titolo proprietario ex art. 770 c.c.. Il ricorso postula tale incompatibilità dando per scontato che vi fosse il riconoscimento di asportazione abusiva dall’appartamento (flat), secondo la tesi affermata dalla lettera, ma tale riconoscimento non si può certo ravvisare nella produzione della lettera proveniente dal G., che giovava a dimostrare la legittima proprietà. Dunque la risultanza invocata non aveva alcuna portata decisiva per negare che, a prescindere dal consenso alla detenzione già dichiarato nel 2001 dall’attore, la convenuta potesse, completando le difese, negare la restituzione adducendo altro, più confacente, titolo di acquisto. Bene ha quindi fatto la Corte di appello a trascurare questa discrasia difensiva, pienamente spiegabile con l’intreccio singolare dei rapporti tra le parti, l’oggetto (arredi domestici) della contesa e la sua complessità. 5) Fondato è invece il quarto motivo del ricorso incidentale, con il quale, in relazione al pagamento degli interessi sulla somma dovutagli quale controvalore del quadro di (OMISSIS), l’attore lamenta che la decorrenza sia stata fissata dalla sentenza al saldo. Deduce che la decorrenza degli interessi doveva essere fissata a partire dalla notifica dell’atto di citazione, avvenuta il 4 maggio 2006. La censura trova riscontro nel disposto dell’art. 1148 c.c., in forza del quale il possessore di buona fede (profilo su cui il ricorso espressamente dichiara di non voler sollevare doglianza, cfr pag. 40) può trattenere i frutti del bene solo fino al giorno della domanda giudiziale. Dal momento della domanda, una volta che venga riconosciuto il diritto alla restituzione della cosa, i frutti spettano al rivendicante. Sul controvalore del bene, anche secondo la regola generale di cui all’art. 2033 c.c., spettano interessi dalla domanda. Sul punto si può far luogo a decisione nel merito, poichè ex art. 384 c.p.c., non sono necessari altri accertamenti di fatto. 6) Resta respinto il quinto motivo, che invoca la responsabilità processuale aggravata ex art. 96 c.p.c., della ricorrente, non certo ravvisabile nel pur infondato ricorso, che esponeva una critica a un apprezzamento di merito intrinsecamente opinabile. 7) Le spese di causa devono essere compensate con riguardo a tutti i gradi di giudizio: per i primi due riprendendo quanto già ritenuto dalla Corte di appello; quanto al giudizio di legittimità, in considerazione della soccombenza reciproca per la più rilevante parte delle rispettive censure.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso principale. Accoglie il quarto motivo del ricorso incidentale, rigettati gli altri. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito, dichiara spettanti all’attore gli interessi dalla data della domanda. Spese di tutti i gradi di giudizio compensate tra le parti. Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Seconda Civile, il 22 marzo 2016. Depositato in Cancelleria il 19 settembre 2016.

 

 

 

Successione – divisione ereditaria – assegnazione in natura dei beni ereditari – indivisibilità

Sentenza cassazione civile 29 novembre 2011 numero 25332.

La sentenza in esame offre un’occasione di riflessione che riguarda il tema, di grande interesse in materia di divisione ereditaria, concernente la composizione qualitativa delle quote da assegnare ai partecipanti alla comunione, le eventuali deroghe, nel rispetto del principio di proporzionalità quantitativa nella formazione delle porzione (un precedente di riferimento è rappresentato da Cass. 9 ottobre 1971 numero 2813, in Rep. Foro italiano 1971,846,11).

Si tratta in sostanza di stabilire se, ferma necessità del rispetto dell’omogeneità nel contesto della proporzionalità qualitativa, la divisione in natura debba avvenire non solo per categorie di beni, ma in relazione ad ogni singolo bene. In dottrina l’orientamento prevalente, sembra privilegiare la tesi che ritiene inammissibile l’estromissione dalla ripartizione del singolo bene chi di quel bene è contitolare.

La giurisprudenza tuttavia sembra orientata in senso contrario cioè a ritenere che nella divisione ereditaria non deve necessariamente sussistere nella formazione delle porzione, una necessaria omogeneità delle stesse, e, considerata ciascuna categoria di beni immobili, mobili e crediti da dividere, alcuni di essi possono essere attribuiti per intero a una quota, e altri per intero ad altra quota, salvo fare poi luogo a conguaglio, e questo per evitare un eccessivo frazionamento dei beni in comunione, ma facendo pur sempre salvo il diritto di ogni condividente nell’ambito della divisione di ottenere una porzione di valore proporzionalmente corrispondente alla massa da dividere. In tale quadro, quindi, si è affermato in giurisprudenza che può operarsi questo tipo di divisione facendosi applicazione dell’articolo 727 c.c., giusto il richiamo che ne fa l’articolo 718 c.c. Si afferma quindi il principio che, pur dovendosi considerare tendenzialmente inderogabile il principio della divisione in natura, può essere fatta eccezione laddove tale criterio risulti impossibile, come nel caso in cui vi sia un solo bene o nel caso in cui ci si trovi in presenza di una pluralità di beni non comodamente divisibili. In questo caso sarà possibile procedere alla divisione in natura nel modo che risulta più conveniente, avendo cura della necessità di evitare un deprezzamento dei cespiti e di attuare nella misura migliore e più concreta possibile la definitiva separazione degli interessi dei condividenti.

Nella fattispecie tuttavia la Corte si discosta in parte da tali principi (sino al punto da non considerare indivisibile un complesso aziendale) affermando che la deroga alla regola della divisione in natura affermata dall’articolo 718 c.c. è riferibile esclusivamente all’ipotesi in cui singole unità immobiliari siano considerate indivisibili mentre la indivisibilità non può riguardare blocchi di beni in quanto la formazione di blocchi di beni o di lotti ha scopo di rendere più agevole le operazioni divisorie e quindi è dettata da ragioni di opportunità e non da intrinseca infrazionabilità dei singoli beni. Conclude affermando che il diritto a conseguire in natura la sua quota di beni ereditari sarebbe soddisfatta proprio dalla formazione omogenea dei lotti.

 

 

 

Conto corrente cointestato – donazione indiretta – configurabilità

Conto corrente cointestato – donazione indiretta – configurabilità

 

Tribunale di Mondovì 4 febbraio 2010, numero 40 (Giur. Merito n. 7/8 2010 pa 1782)

 

Questa non recentissima sentenza, la cui motivazione può essere letta nella apposita sezione (…….), ci offre l’occasione di soffermarci su un argomento di frequente ricorrenza e di fare il punto sull’orientamento della giurisprudenza. Continue reading “Conto corrente cointestato – donazione indiretta – configurabilità”

Successioni . L’azione di petizione ereditaria comporta l’accettazione tacita dell’eredità

Cassazione civile Sentenza 18/11/2011, n. 24332

La Suprema Corte conferma, nell’ambito di una singolare e complessa vicenda successoria, che la proposizione dell’azione di petizione ereditaria determina l’acquisizione definitiva della qualità di erede operando come accettazione tacita.

  A seguito del decesso di un facoltoso cittadino italiano, che però risultava titolare di molteplici proprietà anche in Venezuela, si apre una successione testamentaria che, secondo le ultime volontà dello stesso, avrebbe dovuto beneficiare esclusivamente due cittadini del paese sudamericano.

  In realtà, però, alcuni potenziali eredi legittimi, un fratello e due nipoti di figli di fratelli premorti, contestano la validità del  testamento .

  La vicenda, però, ha un esito abbreviato in quanto i due nipoti concludono con gli eredi testamentari una transazione, che porta all’estinzione di tutti e due i giudizi in essere (uno promosso davanti a giudice italianio ed uno nanti ad autorità venezuelana), con cui i cittadini sudamericani rinunciano alla loro condizione di eredi testamentari e i nipoti stessi dichiarano di trasferire ai primi, dietro corrispettivo, determinati beni immobili e mobili.

    A questo punto, si inserisce nella vicenda un avvocato italiano che, dichiarandosi beneficiato dal fratello del de cuius di un legato testamentario avente per oggetto tutte le proprie partecipazioni societarie, pretende che fra queste ve ne siano anche alcune in relazione alla successione apertasi all’inizio di questa vicenda.

     Questi promuove un giudizio nei confronti dei nipoti che hanno concluso la transazione e della società che è stata oggetto di accordi in essa contenuti sostenendo che, pur non avendo il suo dante causa partecipato all’accordo transattivo, deve comunque considerarsi destinatario di una quota di eredità.

      I giudici della  Suprema Corte  non possono far altro che osservare che gli eredi testamentari avevano, a tutti gli effetti della legge italiana, accettato tacitamente l’eredità nel momento in cui avevano promosso azione di petizione ereditaria ex art. 533 cod. civ. davanti al giudice italiano e che, come noto, una volta conseguito il titolo di erede lo stesso non può più venir meno.  Il principio è pacifico tant’è che i giudici richiamano  “ex multis” un precedente di legittimità (Cass. 4 maggio 1999, n. 4414), ribadendo in maniera inequivoca che, la rinuncia di cui alla più volte richiamata transazione, aveva chiaramente avuto come corrispettivo il trasferimento di alcuni beni immobili e mobili in virtù dell’esclusivo consenso dei nipoti ex fratre del de cuius e che quindi nessun ruolo aveva in essa svolto il fratello rimasto inerte.

Imposta di successione, immobili trasferiti entro gli ultimi sei mesi di vita del de cuius

Corte di Cassazione, sent. 12169 del 26 maggio 2009

Con   la sentenza  che si annota, la Corte di cassazione, intervenendo su una problematica sorta in tema di successione mortis causa circa il trattamento fiscale dei beni immobili alienati durante gli ultimi sei mesi di vita del de cuius, accoglie il ricorso dell’Amministrazione finanziaria, stabilendo che deve considerarsi compreso nell’attivo ereditario il valore dei beni o dei diritti trasferiti a terzi, a titolo oneroso, nel semestre anteriore alla morte del dante causa, e non già il corrispettivo pattuito o ricavato dal relativo negozio traslativo.

Con contestuale atto di cessione e vitalizio una contribuente aveva ceduto a due nipoti, in parti uguali pro indiviso, la nuda proprietà di determinati immobili, riservandosi l’usufrutto sugli stessi vita natural durante, mentre le acquirenti, a fronte di detta cessione, si obbligavano a corrispondere alla venditrice una rendita annua, oltre che a provvedere, vita natural durante, alla sua assistenza morale e materiale.

Alla morte di quest’ultima, il legatario presentava dichiarazione di successione esponendovi, tra l’altro, le vendite effettuate dal de cuius negli ultimi sei mesi di vita, le quali coincidevano esattamente con il valore dei beni oggetto dell’atto di cessione e vitalizio.

Successivamente l’ufficio finanziario constatava nell’esame della dichiarazione di successione la mancata tassazione del valore delle vendite effettuate negli ultimi sei mesi di vita del defunto, notificando alle acquirenti apposito avviso di liquidazione in cui veniva ripresa a tassazione l’omissione di detti cespiti.

Ricorrevano le contribuenti davanti la competente Commissione tributaria provinciale, contestando l’atto impositivo sotto vari profili di illegittimità e, in particolare, la violazione dell’articolo 10 del Dlgs 346/1990, in quanto l’atto impositivo, non solo realizzava un’inammissibile e illegittima duplicazione di imposta ma collideva anche con principi di rango costituzionale

Con la pronuncia in oggetto, la Corte di cassazione, confermando le conclusioni dei giudizi di merito, ha riienuto infondato il ricorso, argomentando sul piano normativo che l’articolo 10 del Dlgs 346/1990, relativo ai beni alienati negli ultimi sei mesi di vita del de cuius (nel testo vigente ratione temporis, in quanto abrogato dall’articolo 69, comma 1, lett. d), della legge 342/200), disponeva espressamente:

  1. a) che si considerano compresi nell’attivo ereditario i beni e i diritti soggetti a imposta alienati a titolo oneroso dal defunto nell’ultimo semestre di vita (primo comma)
  2. b) che dal valore dei detti beni e diritti, determinato secondo le disposizioni degli articoli 14 e seguenti del Dlgs 346, si deduce, tra l’altro, l’ammontare delle somme riscosse o dei crediti sorti in dipendenza dell’alienazione, a condizione che siano indicati nella dichiarazione della successione (terzo comma, lettera a).

Ma, secondo la Corte di cassazione, logica e tenore letterale di tale previsione – che valorizza soltanto i beni e i diritti “alienati” e non i corrispettivi, mai comunque i “corrispettivi effettivamente percepiti” – fanno ritenere infondata la tesi delle ricorrenti esposta nel rilievo, in considerazione che con disposizione specifica in tema di imposta sulle successioni, l’articolo 14 del Dlgs 346/1990 prescrive, alla lettera a), di tener conto a tal fine sempre e soltanto del “valore venale in comune commercio alla data di apertura della successione” dei beni. Tale trama argomentativa, del resto, si pone anche in sintonia con il tributo di registro, ove il legislatore ha attribuito rilievo preponderante al “valore venale dei beni e dei crediti” (cfr articolo 51 del Dpr 131/1986), mentre il “corrispettivo” assume rilevo marginale (vedi articolo 72 del Dpr 131/1986).

 

Imposta di successione ed immobili trasferiti entro gli ultimi sei mesi di vita del de cuius

Cass. Civ. 12169 del 26 maggio 2009

Con la sentenza che si annota, la Corte di cassazione, intervenendo su una problematica sorta in tema di successione mortis causa circa il trattamento fiscale dei beni immobili alienati durante gli ultimi sei mesi di vita del de cuius, accoglie il ricorso dell’Amministrazione finanziaria, stabilendo che deve considerarsi compreso nell’attivo ereditario il valore dei beni o dei diritti trasferiti a terzi, a titolo oneroso, nel semestre anteriore alla morte del dante causa, e non già il corrispettivo pattuito o ricavato dal relativo negozio traslativo.

Con contestuale atto di cessione e vitalizio una contribuente aveva ceduto a due nipoti, in parti uguali pro indiviso, la nuda proprietà di determinati immobili, riservandosi l’usufrutto sugli stessi vita natural durante, mentre le acquirenti, a fronte di detta cessione, si obbligavano a corrispondere alla venditrice una rendita annua, oltre che a provvedere, vita natural durante, alla sua assistenza morale e materiale.

Alla morte di quest’ultima, il legatario presentava dichiarazione di successione esponendovi, tra l’altro, le vendite effettuate dal de cuius negli ultimi sei mesi di vita, le quali coincidevano esattamente con il valore dei beni oggetto dell’atto di cessione e vitalizio.

Successivamente l’ufficio finanziario constatava nell’esame della dichiarazione di successione la mancata tassazione del valore delle vendite effettuate negli ultimi sei mesi di vita del defunto, notificando alle acquirenti apposito avviso di liquidazione in cui veniva ripresa a tassazione l’omissione di detti cespiti.

Ricorrevano le contribuenti davanti la competente Commissione tributaria provinciale, contestando l’atto impositivo sotto vari profili di illegittimità e, in particolare, la violazione dell’articolo 10 del Dlgs 346/1990, in quanto l’atto impositivo, non solo realizzava un’inammissibile e illegittima duplicazione di imposta ma collideva anche con principi di rango costituzionale

Con la pronuncia in oggetto, la Corte di cassazione, confermando le conclusioni dei giudizi di merito, ha riienuto infondato il ricorso, argomentando sul piano normativo che l’articolo 10 del Dlgs 346/1990, relativo ai beni alienati negli ultimi sei mesi di vita del de cuius (nel testo vigente ratione temporis, in quanto abrogato dall’articolo 69, comma 1, lett. d), della legge 342/200), disponeva espressamente:

  1. a) che si considerano compresi nell’attivo ereditario i beni e i diritti soggetti a imposta alienati a titolo oneroso dal defunto nell’ultimo semestre di vita (primo comma)
  2. b) che dal valore dei detti beni e diritti, determinato secondo le disposizioni degli articoli 14 e seguenti del Dlgs 346, si deduce, tra l’altro, l’ammontare delle somme riscosse o dei crediti sorti in dipendenza dell’alienazione, a condizione che siano indicati nella dichiarazione della successione (terzo comma, lettera a).

Ma, secondo la Corte di cassazione, logica e tenore letterale di tale previsione – che valorizza soltanto i beni e i diritti “alienati” e non i corrispettivi, mai comunque i “corrispettivi effettivamente percepiti” – fanno ritenere infondata la tesi delle ricorrenti esposta nel rilievo, in considerazione che con disposizione specifica in tema di imposta sulle successioni, l’articolo 14 del Dlgs 346/1990 prescrive, alla lettera a), di tener conto a tal fine sempre e soltanto del “valore venale in comune commercio alla data di apertura della successione” dei beni. Tale trama argomentativa, del resto, si pone anche in sintonia con il tributo di registro, ove il legislatore ha attribuito rilievo preponderante al “valore venale dei beni e dei crediti” (cfr articolo 51 del Dpr 131/1986), mentre il “corrispettivo” assume rilevo marginale (vedi articolo 72 del Dpr 131/1986).