Liquidazione Coatta Amm. Il caso UNIECO, istruzioni per l’uso. Lo stato d’insolvenza.

Alcune recenti sentenze ci offrono l’occasione per affrontare un altro aspetto della procedura di Liquidazione coatta amministrativa di non secondaria importanza, in quanto destinato a riverberare effetti sugli atti pregiudizievoli ai creditori (vale a dire sugli atti – in prevalenza pagamenti –  che alterano la par condicio, compiuti  dall’impresa sottoposta alla procedura, in un arco di tempo  precedente  la dichiarazione d’insolvenza che,  ad es. ex art. 67 l.f., varia da 6 mesi a 1 anno ) che devono essere resi inefficaci.

In effetti, diversamente da quanto previsto per il fallimento, nella l.c.a. lo stato di insolvenza (così come qualificato dall’art. 5 l.fall.) non è sempre presente, posto che la procedura può aprirsi anche per presupposti diversi, previsti dalle leggi speciali e riconducibili sia alla sussistenza di ragioni di interesse pubblico accertate dall’autorità di vigilanza, sia alla violazione di norme legali, regolamentari o statutari.

Lo stato di insolvenza, dunque, può rappresentare uno dei presupposti per l’apertura della l.c.a., ma non ne costituisce un requisito indefettibile.

Per inciso va osservato che, nella l.c.a., la dichiarazione di insolvenza non è preclusa dalla circostanza che l’ammontare dei debiti scaduti e non pagati sia complessivamente inferiore a trentamila euro, non applicandosi l’ultimo comma dell’art. 15  l.fall., avente carattere eccezionale.

L’accertamento giudiziale dell’insolvenza di un soggetto cui si applica esclusivamente la disciplina della l.c.a. può precedere (eccezion fatta per gli enti pubblici) oppure seguire l’apertura della procedura concorsuale

Si possono presentare quindi due diversi scenari.

1) La dichiarazione di insolvenza è pronunciata anteriormente al provvedimento di l.c.a. (art. 195 l.fall.). L’istanza può essere presentata da: a) uno o più creditori; b) l’autorità governativa che ha la vigilanza sull’impresa; c) l’impresa stessa; d) il commissario giudiziale, quando nel corso di una precedente procedura di concordato preventivo si è verificata la cessazione della procedura e sussiste lo stato di insolvenza; e) il pubblico ministero.

2) La dichiarazione di insolvenza è pronunciata posteriormente al provvedimento di l.c.a. (art.  202 l.fall.). L’istanza può essere presentata da: a) il commissario liquidatore nominato nella procedura di l.c.a.; b) il pubblico ministero.

Qualora la dichiarazione di insolvenza sia pronunciata anteriormente al provvedimento di l.c.a. (art. 195 l.fall.) l’istanza può essere presentata da uno o più creditori,  dall’autorità governativa che ha la vigilanza sull’impresa, dall’impresa stessa, dal commissario giudiziale, quando nel corso di una precedente procedura di concordato preventivo si è verificata la cessazione della procedura e sussiste lo stato di insolvenza, dal pubblico ministero, nel caso in cui i beni dell’impresa siano stati sottoposti a sequestro o confisca penali. È dunque da escludere, in ossequio alla disciplina fallimentare generale, il potere dell’autorità giudiziaria di dichiarare lo stato d’insolvenza d’ufficio

Ora, soltanto la dichiarazione di insolvenza da parte del Tribunale, sia essa anteriore o posteriore al provvedimento di l.c.a., legittima  l’applicazione delle norme fallimentari relative agli effetti del fallimento sugli atti pregiudizievoli ai creditori ( art. 203 co. 1, l.fall.). In particolare si applicano le norme in materia di revocatoria fallimentare e ordinaria (artt. 64-70 l.fall.), persino nei confronti dei soci a responsabilità illimitata, anche se la l.c.a. non si estende a detti soggetti.  Le azioni di revoca degli atti compiuti in frode ai creditori sono promosse dal commissario liquidatore (art. 203, co. 2, l.fall.).

Le recenti sentenze – e in particolare e tra le altre quella che pubblichiamo –  hanno affrontato la questione del termine dal quale calcolare a ritroso il periodo sospetto ai fini dell’esercizio dell’azione revocatoria .

E’ stato affermato che se la dichiarazione d’insolvenza precede l’emissione del provvedimento amministrativo detto termine decorre dalla data della sentenza. Va precisato, tuttavia, che nel caso inverso in cui il provvedimento amministrativo preceda la sentenza dichiarativa dell’insolvenza, la decorrenza deve essere fatta risalire al primo, cioè all’atto ministeriale perché è a detta data che la sentenza fa risalire l’insolvenza.

Corte di Cass. 28.02.17 n. 5054

Massima

“Secondo la giurisprudenza consolidata di questa Corte nelle procedure concorsuali di liquidazione coatta amministrativa e di amministrazione straordinaria il decorso del periodo sospetto deve essere fatto risalire alla dichiarazione di insolvenza della società: giacché, diversamente opinando, l’esito delle azioni revocatorie riuscirebbe compromesso dal ritardo nell’emanazione di un provvedimento amministrativo, in una situazione non più di sospetto, ma di già accertata insolvenza (conformi Cass. 19. 01.,n. 803 Cass. 09. 04. 1008 n. 9177)”

Testo della sentenza

Corte di cassazione Sezioni unite civili Sentenza 28 febbraio 2017, n. 5054

Presidente: Rordorf – Estensore: Bernabai

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato il 24 settembre 2000 la Leucci Industriale s.p.a. in amministrazione straordinaria, dichiarata insolvente con sentenza 27 luglio 1995 del Tribunale di Brindisi, conveniva dinanzi al Tribunale di Bologna la Sardelli s.r.l. – più tardi incorporata dalla Trattamenti Superficiali Metalli-T.S.M. s.r.l. – per sentir dichiarare inefficaci ex art. 67, primo comma, n. 2, e secondo comma, della legge fallimentare pagamenti e cessioni di credito a scopo solutorio eseguiti nel periodo sospetto, per complessivi euro 258.391,83.

Costituitasi ritualmente, la Sardelli s.r.l. eccepiva, in via pregiudiziale, l’incompetenza territoriale e la carenza di legittimazione passiva, quale mera conferitaria dell’azienda dell’imprenditore individuale Tommaso Sardelli, in ordine ad un preteso debito eventualmente derivato da rapporti contrattuali da questo antecedentemente intrattenuti, non desumibile dalle scritture contabili, ex art. 2560, secondo comma, c.c.

Eccepiva altresì, in via gradata, la prescrizione del credito e l’improponibilità della domanda, ai sensi dell’art. 49 del d.lgs. 8 luglio 1999, n. 270 (Nuova disciplina dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza), in carenza di autorizzazione del programma di cessione dei complessi aziendali; e nel merito chiedeva il rigetto per infondatezza della domanda.

Dopo l’interruzione del processo, per intervenuta fusione per incorporazione della Sardelli s.r.l. nella T.S.M. s.r.l. e la successiva riassunzione, veniva espletata prova per interrogatorio formale e testi.

Con sentenza 10 settembre 2009, il Tribunale di Bologna accoglieva la domanda di revoca, con la conseguente condanna alla rifusione delle spese di lite.

Il successivo gravame della T.S.M. s.r.l. era rigettato dalla Corte d’appello di Bologna, con sentenza 25 giugno 2014; mentre, veniva accolta l’impugnazione incidentale della Leucci Industriale s.p.a. in amministrazione straordinaria, volta ad ottenere anche la condanna alla restituzione delle somme pagate.

La corte territoriale motivava:

– che l’imprenditore individuale Tommaso Sardelli, originario accipiens dei pagamenti revocati, aveva conferito con atto pubblico 31 dicembre 1996 la propria azienda, in Brindisi, con tutti i relativi rapporti attivi e passivi, nella Sardelli s.r.l.;

– che andava affermata, quindi, la legittimazione passiva di quest’ultima, succeduta anche nel debito restitutorio derivante dall’azione revocatoria;

– che sussisteva la prova presuntiva che gli atti solutori fossero stati annotati nelle scritture contabili obbligatorie, a fronte di fatture regolarmente emesse;

– che, in ordine ai mezzi anomali di pagamento, tramite cessioni di credito, la creditrice non aveva offerto la prova della propria inscientia decoctionis; mentre, per quanto riguardava i pagamenti eseguiti in contanti e mediante bonifici bancari, si doveva ritenere conosciuta dal Sardelli l’appartenenza della società debitrice al cd. gruppo Fochi, la cui insolvenza era stata resa nota dalla stampa, non solo locale e comunque emergeva, nei rapporti diretti con il creditore, da ritardi nei pagamenti di fatture di ammontare considerevole e dalla concessione di plurime proroghe dei termini di pagamento;

– che, in particolare, premessa l’irrilevanza della data di scadenza del debito della Leucci Industriale s.p.a., il relativo pagamento, seppur andasse riportato – come pretendeva la T.S.M. s.r.l. – alla data dell’addebito della valuta (31 agosto 1994), anziché a quella dell’operazione bancaria (5 settembre 1994), non esulava dal periodo sospetto annuale, decorrente, a ritroso, dalla dichiarazione giudiziale dello stato di insolvenza della Leucci industriale S.p.A. (27 luglio 1995).

Avverso la sentenza, non notificata, la Trattamenti Superficiali Metalli s.r.l. proponeva ricorso per cassazione, articolato in tre motivi e notificato il 18 settembre 2014.

Deduceva:

1) la violazione degli artt. 1346, 1362-1366, 1371 e 2560, secondo comma, 2697, 2727 e 2729 c.c., e 41, primo comma, Cost., nella ritenuta legittimazione passiva in ordine alla domanda di ripetizione di una somma pagata, nel periodo sospetto, non a sé o alla propria incorporata Sardelli s.r.l., bensì all’imprenditore individuale Tommaso Sardelli, autore del conferimento di azienda;

2) la violazione degli artt. 2697, 2727, 2729 c.c., 115 e 116 c.p.c., 67, primo comma, n. 2, e secondo comma, l. fall., nonché la carenza di motivazione nell’accertamento dell’elemento psicologico della fattispecie revocatoria;

3) la violazione dell’art. 1, ultimo comma, l. 95/1979 e degli artt. 67 e 203 l. fall., ed inoltre il vizio di motivazione, per l’erronea collocazione temporale dei termini di decorrenza del cd. periodo sospetto.

Resisteva, con controricorso, la Leucci industriale s.p.a. in amministrazione straordinaria.

La causa, assegnata alla prima sezione civile, veniva rimessa dal collegio al Primo Presidente, ai fini dell’eventuale assegnazione alle sezioni unite, considerata la particolare importanza delle questioni di diritto sollevate e l’esigenza di prevenire un possibile contrasto giurisprudenziale, in ordine all’applicazione dell’art. 2560 c.c. ai debiti restitutori da accoglimento di azione revocatoria fallimentare.

Dopo il conforme provvedimento presidenziale, la causa passava in decisione all’udienza del 22 novembre 2016, sulle conclusioni in epigrafe riportate.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il thema decidendum consta di una questione di massima di particolare importanza, concernente l’interpretazione dell’art. 2560 c.c. (art. 374, secondo comma, c.p.c.); cui fa seguito, nella motivazione della sentenza impugnata, un accertamento di fatto, in ordine all’oggetto del conferimento, sindacabile in questa sede entro i ristretti limiti di cui all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c.

Sotto il primo profilo, la premessa maggiore del ragionamento sillogistico seguito dalla corte territoriale è che la legittimazione passiva in tema di azione revocatoria fallimentare avente ad oggetto pagamenti eseguiti in favore di un imprenditore che abbia poi conferito la propria azienda in una società – ma il problema si porrebbe negli stessi termini in caso di cessione – vada riconosciuta alla stessa società conferitaria (o cessionaria) dell’azienda: essendo sufficiente, ai fini dell’insorgere della responsabilità solidale prevista dalla norma, la conoscibilità, tramite i libri contabili obbligatori, del precedente rapporto contrattuale intrattenuto dal dante causa con un imprenditore, divenuto poi insolvente alla data del pagamento: pur se il concreto debito restitutorio maturi solo all’esito dell’accoglimento della domanda di revoca, in epoca successiva al trasferimento aziendale (Cass., sez. 1, 28 luglio 20101, n. 17668).

Tale tesi interpretativa non può essere seguita.

Essa, infatti, dilata a dismisura l’ambito di applicazione dell’art. 2560, secondo comma, c.c., includendo nella previsione di solidarietà obbligazioni non ancora venute alla luce, sulla sola base di un documentato fatto genetico mediato: e dunque, un mero rischio di sopravvenienza passiva, anziché un debito già maturato ed annotato nei libri contabili, come testualmente previsto dalla norma.

In contrario, si deve ricondurre la responsabilità dell’avente causa nell’alveo dell’evidenza diretta, risultante dai libri contabili obbligatori dell’impresa, a tutela del suo legittimo affidamento, essenziale per il corretto svolgimento della circolazione di beni di particolare rilievo commerciale.

La chiara dizione della rubrica (Debiti relativi all’azienda ceduta) e del testo dell’art. 2560 c.c. non consente, infatti, di ritenere estensivamente inclusa nel trasferimento dell’azienda commerciale anche una situazione non già di debito, bensì di soggezione ad una successiva azione revocatoria promossa dal curatore del fallimento del solvens.

A questi rilievi – che valorizzano non solo il dato letterale della norma (parametro ermeneutico prioritario e poziore: art. 12 disposizioni sulla legge in generale), ma pure la ratio protettiva summenzionata – piuttosto che ad implicazioni legate alla natura costitutiva dell’azione, va ricondotto il principio di diritto testé enunciato. La natura costitutiva (e non dichiarativa) dell’azione revocatoria – lungamente dibattuta in giurisprudenza e dottrina ed affermatasi infine nella giurisprudenza di legittimità (Cass., sez. 1, 21 marzo 2013, n. 7182; Cass., sez. 1, 30 luglio 2012, n. 13560, sulla scia di Cass., Sez. un., 15 giugno 2000, n. 437), soprattutto in considerazione della sua irriducibilità all’illecito aquiliano (il che non eccettua, peraltro, il carattere antidoveroso del comportamento dell’accipiens: rivelato, già prima facie, dal requisito psicologico del consilium fraudis, o scientia fraudis) – non escluderebbe, infatti, di per sé sola, la possibile retroattività ex tunc degli effetti: normale, anzi, in talune azioni costitutive tipiche, quali quelle di risoluzione (art. 1458 c.c.) o di annullamento di un contratto (Cass., sez. 2, 11 febbraio 1998, n. 1395).

La ricostruzione ermeneutica così delineata dell’ambito applicativo dell’art. 2560, cpv., c.c. incontra un limite – del resto, evidente – solo nella carenza di un’effettiva alterità soggettiva delle parti titolari dell’azienda: come nell’ipotesi di trasformazione, anche eterogenea, della forma giuridica del soggetto (artt. 2498 e segg. c.c.) – stante la continuità dei rapporti giuridici pendenti – ed in quella di conferimento dell’azienda di un’impresa individuale in una società unipersonale (che non costituisce una trasformazione in senso tecnico): in cui, pure, è ravvisabile una perdurante identità soggettiva – sostanziale, se non formale – significativa di una conoscenza diretta dei rapporti giuridici in fieri, estranea alla ratio protettiva del successore a titolo particolare nell’azienda, sottesa all’art. 2560 c.c.

Così corretto il principio di diritto enunciato dalla Corte d’appello di Bologna, si osserva però che ad esso ha fatto seguito, nella sentenza impugnata, l’accertamento di fatto, congruamente motivato, e come tale sottratto a riesame nel merito, che con la dichiarazione resa nel corso dell’assemblea straordinaria della Sardelli s.r.l. e raccolta nel verbale steso a ministero del notaio Vincenzo Ianaro, in data 31 dicembre 1996, l’imprenditore Tommaso Sardelli (che aveva ricevuto i pagamenti, in parte con mezzi anomali, oggetto dell’azione revocatoria svolta in seguito dalla Leucci Industriale s.p.a. in amministrazione straordinaria) aveva inteso conferire nel capitale della predetta società la totalità dei rapporti attivi e passivi rientranti nell’universitas juris aziendale (“considerata nella complessità dei beni che della stessa fanno parte, materiali ed immateriali, nessuno escluso o eccettuato”): e cioè, anche i debiti futuri, derivanti dall’esercizio dell’azione revocatoria di pagamenti risultanti dalla contabilità aziendale.

A tal fine, la corte territoriale ha valorizzato espressioni testuali dell’atto pubblico, senza incorrere in violazioni di norme sull’interpretazione dei contratti (artt. 1362 e segg. c.c.).

La diversa ricostruzione ermeneutica operata dalla ricorrente si risolve, dunque, in un sindacato di merito, che non può trovare ingresso in questa sede.

Eguale, ed ancor più evidente, ragione di inammissibilità si ravvisa nel secondo motivo; nel quale, richiamando perfino deposizioni testimoniali sottoposte ad una lettura diretta di questa Corte, si riafferma la tesi della inscientia decoctionis del Sardelli alla data dei pagamenti ricevuti dalla Leucci Industriale s.p.a, facente parte del gruppo insolvente Fochi.

Il terzo motivo ripropone, con argomentazioni promiscue, la questione dell’anteriorità dell’atto solutorio, oggetto di revoca, al periodo sospetto: sotto il duplice profilo che la sua data andrebbe identificata con quella di scadenza del debito (31 agosto 1994), piuttosto che con quella dell’operazione bancaria di pagamento (5 settembre 1994), e che il dies a quo del computo a ritroso decorrerebbe dal decreto di ammissione alla procedura concorsuale, e non dalla precedente sentenza dichiarativa dell’insolvenza.

La duplice censura è inammissibile.

La prima, per irrilevanza: dal momento che la corte felsinea ha statuito che, anche a voler considerare corretta la data del 31 agosto 1994, prospettata dalla T.M.S. s.r.l., egualmente l’operazione sarebbe rientrata nel periodo sospetto annuale decorrente dalla sentenza 27 luglio 1995 del Tribunale di Brindisi, dichiarativa dello stato di insolvenza della Leucci Industriale s.p.a.: identificata dal Tribunale di Bologna come termine iniziale del relativo decorso retrospettivo, con statuizione non impugnata in parte qua (cfr. sent. Corte d’appello di Bologna, pag. 9).

È pertanto preclusa, ob rem judicatam, la seconda doglianza con cui si contesta tale ultima statuizione in punto di diritto, assumendo che il dies a quo andrebbe ricondotto, piuttosto, alla data di apertura della procedura concorsuale (d.m. 5 settembre 1995).

È appena il caso di aggiungere, peraltro, che la tesi difensiva appare anche infondata, alla luce della giurisprudenza consolidata di questa Corte, che nelle procedure concorsuali di liquidazione coatta amministrativa ed amministrazione straordinaria àncora il decorso del periodo sospetto alla dichiarazione di insolvenza della società: giacché, diversamente opinando, l’esito delle azioni revocatorie riuscirebbe compromesso dal ritardo nell’emanazione di un provvedimento amministrativo, in una situazione non più di sospetta, ma di già accertata insolvenza (Cass., sez. 1, 19 gennaio 2016, n. 803; Cass., sez. 1, 9 aprile 2008, n. 9177).

Tale principio di diritto, appare in linea, del resto, con il requisito psicologico della scientia decoctionis del creditore, che non può non correlarsi, temporalmente, alla data in cui l’insolvenza è giudizialmente accertata; e trova ulteriore conferma sistematica nel tenore dell’art. 49 (Azioni revocatorie) del d.lgs. 8 luglio 1999, n. 270 (Nuova disciplina dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza, a norma dell’articolo 1 della legge 30 luglio 1998, n. 274 – Prodi-bis), che, al secondo comma, recita: “I termini stabiliti dalle disposizioni indicate nel comma 1 (e cioè, per l’esercizio delle azioni per la dichiarazione di inefficacia e la revoca degli atti pregiudizievoli ai creditori previste dalle disposizioni della sezione III del capo III del titolo II della legge fallimentare) si computano a decorrere dalla dichiarazione dello stato di insolvenza. Tale disposizione si applica anche in tutti i casi in cui alla dichiarazione dello stato di insolvenza segua la dichiarazione di fallimento”.

Cosa diversa, poi, è che le azioni revocatorie degli atti compiuti in frode dei creditori divengano esperibili, in concreto, solo con la nomina del commissario liquidatore, cui compete il loro esercizio (art. 203, secondo comma, l. fall.).

Il ricorso è dunque infondato e va respinto; con la conseguente condanna alla rifusione delle spese di giudizio, liquidate come in dispositivo, sulla base del valore della causa e del numero e complessità delle questioni svolte.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente alla rifusione delle spese di giudizio, liquidate in complessivi Euro 6.200,00, di cui Euro 6.000,00 per compenso, oltre le spese forfettarie e gli accessori di legge.

Si dà atto della sussistenza dei presupposti di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia – t.u. spese di giustizia), art. 13 (Importi), comma 1-quater, introdotto dall’art. 1, comma 17, l. 24 dicembre 2012, n. 228 (Legge di stabilità 2013).