Categoria: Immobiliare / real estate

L’obbligo di vigilanza del direttore dei lavori deve essere esplicato in corso d’opera oppure può bastare l’intervento ad opera ultimata?

 

La sentenza ( Cass. Civ. sez. III, 24 maggio 2023, n. 14456  ) che si segnala consente di fare luce anche sulla modalità di svolgimento dell’opera del Direttore lavori, laddove la Corte era chiamata decidere se sia sufficiente un suo intervento alla fine dei lavori per la verifica dell’opera oppure se la contestazione all’appaltatore di eventuali vizi o difetti dell’opera debba avvenire nel corso dei lavori.

Il principio di diritto che si estrapola dalla pronuncia può essere sintetizzato come segue:

In tema di appalto, l’obbligo del direttore dei lavori di controllare che la realizzazione delle opere avvenga secondo le regole dell’arte – dovendo attuarsi in relazione a ciascuna delle fasi di realizzazione delle stesse opere e al fine di garantire che queste ultime siano realizzate senza difetti costruttivi – sussiste in corso d’opera e non ex post, ad opere ultimate.”

IL CASO. I committenti di un appalto convennero in giudizio l’impresa appaltatrice per sentirla condannare al risarcimento dei danni per vizi dei lavori di costruzione di un immobile di loro proprietà, nonché al pagamento dei danni per ritardata ultimazione degli stessi lavori.

L’impresa convenuta si costituì, chiedendo la chiamata in causa del direttore dei lavori per essere dallo stesso manlevata, risultando i ritardati tempi di consegna conseguenti a carenze nella progettazione.

Il giudice di primo grado accoglieva parzialmente la domanda attorea, ritenendo responsabile anche il direttore dei lavori per non aver mosso contestazioni all’appaltatore con riferimento ai vizi di costruzione accertati.

La Corte di Appello riformava la sentenza di primo grado, relativamente alla posizione del direttore dei lavori, sul rilievo che “a distanza di circa un mese dalla consegna dei lavori, aveva contestato tali difetti all’appaltatrice in tre distinti verbali di contestazioni”.

Proposto ricorso in Cassazione da parte dei committenti, i giudici di legittimità osservano che il dovere di vigilanza del direttore dei lavori deve manifestarsi in corso d’opera, ritenendo quindi irrilevanti le contestazioni postume.

Per la lettura della sentenza segue qui 

Diritto alla provvigione per il mediatore? Mettere in relazione le parti non è sufficiente

 

Cassazione civile sez. II – 02/02/2023, n. 3165

Con un recentissimo arresto la Corte di Cassazione ha enunciato seguente principio di diritto: “al fine del sorgere del diritto alla provvigione ex Art. 1755, co. 1 c.c. è necessario che la conclusione dell’affare sia effetto causato adeguatamente dal suo intervento, senza che il mettere in relazione delle parti tra di loro ad opera del mediatore sia sufficiente di per sé a conferire all’intervento di questi il carattere di adeguatezza, nè che l’intervento di un secondo mediatore sia sufficiente di per sé a privare ex post l’opera del primo mediatore di tale qualità di adeguatezza”.

IL CASO.

La signora X  accompagnava la madre Y, interessata alla  compravendita di un fabbricato, dal mediatore immobiliare Alfa. Dopo la scadenza del contratto sottoscritto con detto mediatore, tuttavia, Y perfezionava la compravendita  con il  venditore – con cui in precedenza era stata posta in contatto dal mediatore Alfa – per effetto dell’attività della diversa agenzia immobiliare Beta. Il mediatore Alfa, pertanto, decideva di agire per vedere riconosciuto il proprio apporto causale alla conclusione dell’affare e conseguentemente  il compenso per la mediazione, ma risultava soccombente sia in primo sia in secondo grado. Ricorreva dunque davanti alla Suprema Corte.
La Suprema Corte, muovendo dal concetto di “antecedente indispensabile”,  sulla scorta del dettato degli art.li 1754 e 1755 comma 1 c.c. è giunta ad “escludere l’efficienza causale adeguata dell’opera del primo mediatore” rispetto alla conclusione della compravendita in esame, ma non per l’intervento del secondo mediatore, che “non spezza di per sé il nesso di causalità tra l’opera del primo mediatore e la conclusione dell’affare”, ma perché la messa “in relazione di due o più parti per la conclusione di un affare” (art. 1754 c.c.) non è elemento sufficiente, di per sè, a far ritenere che l’affare sia “concluso per effetto” dell’intervento del mediatore (art. 1755 c.c.)”.
Dunque, se, da una parte, l’intervento di un secondo mediatore non è sufficiente di per sé a privare ex post l’opera del primo mediatore dell’adeguatezza alla conclusione dell’affare, dall’altra, nemmeno il mettere in relazione delle parti tra di loro ad opera del mediatore è di per sé sufficiente a conferire all’intervento di questi il carattere di adeguatezza e quindi il diritto alla provvigione.

 

Il testo della sentenza

Cassazione civile sez. II – 02/02/2023, n. 3165

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ASCOLA             Pasquale               –  Presidente   –

Dott. PAPA                 Patrizia               –  Consigliere  –

Dott. FORTUNATO            Giuseppe               –  Consigliere  –

Dott. CRISCUOLO            Mauro                  –  Consigliere  –

Dott. CAPONI               Remo              –  rel. Consigliere  –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

Sul ricorso n. 35980/2018, proposto da:

R.A. e AGENZIA Immobiliare Srl, elettivamente domiciliate in

Roma,

– ricorrente –

contro

M.N., elettivamente domiciliata in Roma,

– controricorrente –

nonché

R.F., domiciliato in Roma,

– controricorrente –

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 25/5/2022 dal

cons. REMO CAPONI;

lette le conclusioni del P.M., nella persona del Sostituto

Procuratore Generale ROSA MARIA DELL’ERBA, che ha concluso per il

rigetto del ricorso.

FATTI DI CAUSA

R.A., già titolare della ditta Cogi e legale rappresentante della Compro Casa s.r.l., ha impugnato in cassazione la sentenza di secondo grado di conferma della pronuncia di primo grado, che ha rigettato le domande da costei proposte nei confronti di R.F. e M.N.. In particolare, l’attrice ha domandato: (a) l’accertamento del rapporto di mediazione ex art. 1754 c.c. intercorso tra costei ed i convenuti, nonché l’accertamento della causalità del suo intervento nella conclusione del contratto di compravendita immobiliare tra i convenuti; (b) l’accertamento della simulazione del prezzo di acquisto indicato nel rogito, nonché l’accertamento dell’effettivo prezzo di vendita; (c) la condanna dei convenuti al pagamento del compenso di mediazione. In via subordinata, per il caso che sia accertata la cooperazione di più mediatori, l’attrice chiede: (d) l’accertamento della misura della provvigione che le spetta, sia da parte del venditore che dell’ac-quirente, con condanna dei convenuti al pagamento.

Nel costituirsi in giudizio, per quanto rileva ancora in questa sede, R.F. rileva che le persone messe in contatto tra di loro dall’attrice siano differenti dalle parti della compravendita de qua; afferma che, dopo la scadenza del contratto con la Cogi, si è rivolto ad un’altra agenzia, la “In casa” di A.C., con la quale ha sottoscritto un nuovo contratto di mediazione; eccepisce che la vendita si è conclusa per effetto esclusivo dell’intervento del secondo mediatore e che quindi nessuna provvigione è da riconoscere all’attrice; aggiunge che il prezzo di vendita indicato nel rogito, in assenza di diversa prova, è l’unico parametro di determinazione del compenso da riconoscere eventualmente all’attrice.

Nel costituirsi in giudizio, per quanto rileva ancora in questa sede, M.N., acquirente dell’immobile in comunione con il marito, ritiene che nessun rapporto sia intercorso tra l’attrice e lei, che si è limitata ad accompagnare sua madre, signora P., all’epoca interessata all’acquisto. Chiama in causa il secondo mediatore, che ha ricevuto da lei il compenso, per essere tenuta indenne rispetto alla quota di provvigione eventualmente dovuta all’attrice.

Nel costituirsi in giudizio, “In casa” di A.C. conferma di aver messo in contatto il venditore R. e l’acquirente M.; sostiene di aver rinunciato al compenso dovuto dal venditore e di aver ricevuto la provvigione esclusivamente dagli acquirenti, in misura inferiore al dovuto.

Nella sentenza di primo grado, per quanto ancora rileva in questa sede, il Tribunale di Bologna ha rigettato le domande attoree, ritenendo che: (a) la vicenda sia da inquadrare giuridicamente come mediazione; (b) l’attività dell’attrice non abbia avuto incidenza causale determinante nella conclusione dell’affare, che si è perfezionato per effetto dell’attività svolta in via autonoma da altra agenzia; (c) l’art. 1758 c.c. (sul diritto pro quota alla provvigione in caso di pluralità di mediatori) sia inapplicabile.

Il ricorso in cassazione è affidato a quattro motivi, illustrati da memoria. Resistono R.F. e M.N. con due controricorsi, illustrati rispettivamente da memorie.

 

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1. – Con il primo motivo, proposto ex art. 360, n. 3 e n. 4 c.p.c., si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 132 e 342 c.p.c., per avere la Corte di appello rigettato il primo motivo di gravame in quanto generico e privo di una specifica indicazione delle parti della sentenza di primo grado oggetto di censura. In particolare, la parte ricorrente assume che il giudice di secondo grado abbia applicato l’art. 342 c.p.c. nella versione vigente dal 2012, mentre il giudizio d’appello de quo è sottoposto ancora al vecchio regime, essendo stato instaurato nel 2011.

1.2. – Il primo motivo non è fondato. Il giudice di secondo grado non ha applicato l’art. 342 c.p.c., che sancisce l’inammissibilità dell’appello privo dei requisiti ivi previsti. E’ vero che la Corte ha parlato di “assenza di una specifica indicazione delle parti della motivazione oggetto di censura” e che, nell’esprimersi così, può ben essere stata influenzata dalla nuova versione dell’art. 342 c.p.c., ma si tratta di un accidentale condizionamento imitativo-lessicale, privo di effetti giuridico-processuali, che altrimenti si sarebbero tradotti in termini di dichiarazione d’inam-missibilità del motivo d’appello. Invece, esso è stato dichiarato infondato nel merito, con un’argomentazione che la ricorrente sottopone a censura con il secondo motivo di ricorso, oggetto di esame nel successivo paragrafo.

In conclusione, il primo motivo è rigettato.

2.1. – Con il secondo motivo, proposto ex art. 360, n. 3, n. 4 e n. 5 c.p.c., si deduce, sotto un primo profilo, la violazione e falsa applicazione degli artt. 1754,1755 e 1758 c.c.; si deduce inoltre, sotto un secondo profilo, la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2729 c.c., nonché di conseguenza la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4 c.p.c.; si deduce infine, sotto un terzo profilo, l’omesso esame di fatti decisivi.

E’ opportuno innanzitutto distinguere nettamente tra di loro il primo profilo del motivo dagli altri due, non tanto perché il secondo e il terzo profilo hanno un ruolo ancillare rispetto al primo (e quindi saranno esaminati successivamente), ma soprattutto perché è il primo che solleva la centrale questione di violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto sostanziale. In particolare, alla stregua di tale profilo del secondo motivo, la Corte d’appello avrebbe applicato falsamente gli artt. 1754,1755 c.c. poiché ha escluso che il diritto del mediatore sorga sol che questi abbia messo in relazione le parti e così abbia posto l’antecedente indispensabile per pervenire alla conclusione del contratto, secondo i principi della causalità adeguata, quand’anche egli non intervenga poi in ogni fase della trattativa e il processo di formazione della volontà negoziale delle parti sia complesso e articolato nel tempo.

2.2. – La quaestio iuris è la seguente: al fine di considerare che la conclusione dell’affare sia l’effetto dell’intervento del mediatore, è sufficiente o meno che questi abbia messo in relazione le parti e così abbia posto l’antecedente indispensabile per pervenire alla conclusione del contratto? La tesi giuridica sostenuta dalla ricorrente si risolve sostanzialmente nella risposta positiva a questa domanda, come si può desumere dall’accento che costei pone sulla “messa in relazione” delle parti da parte del mediatore, mentre è fatto scivolare in secondo piano il carattere adeguato dell’apporto causale di quest’ultimo, al fine di affermare che la conclusione dell’affare sia l’effetto dell’intervento del mediatore.

2.3. – Il Collegio reputa che tale tesi – pur argomentata con valorizzazione defensionale degli indirizzi giurisprudenziali a proprio vantaggio – non possa essere condivisa.

La tesi non può essere accolta – si badi bene – non già solo a cagione dell’intervento autonomo di un secondo mediatore (al quale un peso nella vicenda dovrà pur essere accordato). Infatti, l’intervento di un secondo mediatore non spezza di per sé il nesso di causalità tra l’opera del primo mediatore e la conclusione dell’affare. Ciò si ricava univocamente e direttamente dalla disciplina legislativa, cioè dalla presenza di una disposizione quale l’art. 1758 c.c., e trova conferma in giurisprudenza (così, tra le altre, Cass. 25762 del 2018).

La tesi non può incontrare consenso, poiché altrettanto univoco, in quanto direttamente desumibile dalla disciplina legislativa, è che la messa “in relazione di due o più parti per la conclusione di un affare” (art. 1754 c.c.) non è elemento sufficiente, di per sé, a far ritenere che l’affare sia “concluso per effetto” dell’intervento del mediatore (art. 1755 c.c.).

Ciò si ricava dalla interdipendente distinzione di ruolo e di portata normativa tra l’art. 1754 c.c. e l’art. 1755, comma 1 c.c. In sé considerata, la prima disposizione si limita a definire la figura del mediatore come “colui che mette in relazione due o più parti per la conclusione di un affare, senza essere legato ad alcuna di esse da rapporti di collaborazione, di dipendenza o di rappresentanza”. Considerato invece nella sua relazione con l’art. 1755, comma 1 c.c., l’art. 1754 c.c. consegue una portata normativa ulteriore rispetto al carattere esclusivamente defini-torio che gli è proprio in sé. La portata è di ordine negativo: diretta a negare, per l’appunto, che la semplice messa in relazione delle parti sia requisito idoneo, di per sé, a far reputare l’affare concluso per effetto dell’intervento del mediatore.

2.4. – Ci si persuade di ciò già se si pensa al circolo essenzialmente vizioso in cui si risolverebbe l’art. 1755, comma 1 c.c., ove fosse riscritto alla luce della tesi criticata. La riscrittura suonerebbe così: “colui che mette in relazione due o più parti per la conclusione di un affare ha diritto alla provvigione (…), se l’affare è concluso per effetto della semplice messa in relazione delle parti”. In altre parole, due e distinte sono le domande: (a) chi è il mediatore (art. 1754 c.c.); b) che cosa deve fare il mediatore per avere diritto alla provvigione (art. 1755, comma 1 c.c.). Non si può rispondere alla seconda domanda, evocando più o meno sic et simpliciter la risposta alla prima, altrimenti il senso normativo dell’art. 1755, comma 1 c.c. si appiattirebbe su quello dell’art. 1754 c.c. La nozione di causalità efficiente dell’intervento del mediatore accolta dall’art. 1755, comma 1 c.c. si ridurrebbe a considerare quest’ultimo una condicio sine qua non della conclusione dell’affare.

Di ciò è consapevole la giurisprudenza di questa Corte, come si può ricavare in controluce dalla stessa analisi condotta dalla parte ricorrente, ove si restituisca in primo piano ciò che quest’ultima, in una prospettiva defensionale, richiama fuggevolmente: il concetto di causalità adeguata, cioè la portata normativa della qualificazione di adeguatezza dell’opera del mediatore, laddove la giurisprudenza ricostruisce nel caso concreto l’efficienza causale dell’intervento del mediatore rispetto alla conclusione dell’affare (cfr., fra le più recenti, Cass. 11443 del 2022, 3134 del 2022, 7029 del 2021, 5495 del 2021, 4644 del 2021, 3055 del 2020).

2.5. – E’ appena il caso di ricordare che la nozione di “causalità adeguata” è stata sviluppata proprio al fine di mitigare la rigorosa imputazione dell’evento in base alla causalità condizionalistica (o della con-dicio sine qua non), nel senso che non tutte le condizioni sono considerate cause. Mutato ciò che si deve mutare nel passaggio da una branca del diritto all’altra, nel quadro dei rapporti tra art. 1754 e art. 1755, comma 1 c.c., il riferimento giurisprudenziale alla causalità adeguata assolve alla medesima funzione: di evitare che la causalità efficiente dell’intervento del mediatore di cui all’art. 1755, comma 1 c.c. si riduca alla causalità condizionalistica, si appiattisca cioè sulla definizione della figura del mediatore di cui all’art. 1754 c.c.

In altri termini, la nozione di causalità adeguata serve a rendere elastico il termine “effetto” di cui all’art. 1755, comma 1 c.c., nonostante sia prima facie percepibile la sua sudditanza linguistica alla teoria della causalità condizionalistica, se non della causalità naturale (“causa-effetto”). Il concetto di “effetto” si arricchisce della qualità della “adeguatezza”.

2.6. – Con sguardo riassuntivo che si volge al caso di specie, si devono riconoscere infatti due dati.

In primo luogo, la ricostruzione di “effetto adeguato” o di “efficienza causale adeguata” dell’intervento del mediatore rispetto alla conclusione dell’affare si muove elasticamente all’interno di un campo delimitato, ai due capi opposti, da due elementi rigidi, di ordine negativo: (a) di per sé, la semplice messa in relazione delle parti ad opera del primo mediatore non è sufficiente ad integrare l’efficienza causale adeguata ex art. 1755, comma 1 c.c.; (b) di per sé, il semplice intervento di un secondo mediatore non è sufficiente a privare ex post l’opera del primo mediatore della sua qualità di adeguatezza ex art. 1755, comma 1 c.c.

Il secondo dato è che la ricostruzione in positivo dell’efficienza causale adeguata dell’opera del mediatore è frutto dell’applicazione di un termine elastico, qual è quello di effetto adeguato di cui all’art. 1755, comma 1 c.c., nel senso precisato nel capoverso precedente.

2.7. – A proposito dell’adeguatezza dell’effetto di cui all’art. 1755, comma 1 c.c., si può richiamare pertanto il consolidato orientamento sul sindacato delle norme elastiche (rectius, delle disposizioni con parole o sintagmi elastici): esse sono “disposizion(i) di contenuto precettivo ampio e polivalente, destinato ad essere progressivamente precisato, nell’estrinsecarsi della funzione nomofilattica della Corte di Cassazione, fino alla formazione del diritto vivente mediante puntualizzazioni di carattere generale ed astratto”, per cui “l’operazione valutativa, compiuta dal giudice di merito (…) non sfugge ad una verifica in sede di giudizio di legittimità” (così, tra le molte, Cass. 12789 del 2022).

Orbene, l’osservazione del caso di specie non offre al Collegio occasione di compiere puntualizzazioni correttive dell’applicazione compiuta dai giudici di merito. Al fine di escludere l’efficienza causale adeguata dell’opera del primo mediatore rispetto alla conclusione della compravendita pesano in particolare le seguenti circostanze, così come correttamente apprezzate dai giudici nelle due istanze di merito: (a) la parte interessata all’acquisto che è stata messa in relazione con il venditore dalla ditta Cogi in esecuzione dell’incarico ricevuto da quest’ultimo è la signora P. (madre di M.N.), che non coincide con la parte acquirente nella compravendita de qua ( M.N., che ha accompagnato la madre nelle visite all’immobile svoltesi nel periodo di efficacia dell’incarico alla ditta Cogi); (b) l’affare si è concluso dopo un lasso di tempo significativo dalla scadenza dell’incarico conferito al primo mediatore; (c) il venditore si è rivolto ad un secondo mediatore, la cui opera – autonoma rispetto a quella del primo – ha avuto un ruolo di efficienza causale adeguata rispetto alla conclusione dell’affare.

Merita di sottolineare che – ad avviso del Collegio – nessuna di queste circostanze isolatamente considerata è in grado di giustificare un giudizio di correttezza dell’operazione ermeneutica dei giudici di merito. Esse cospirano a fondare un tale giudizio solo nella loro concomitanza nell’intero arco temporale della vicenda, nonché nel loro intreccio.

2.8. – La forza persuasiva che tale concomitante intreccio conferisce all’apprezzamento compiuto dai giudici di merito non è scalfita dalle censure articolate nel secondo e terzo profilo del secondo motivo. Alla stregua del secondo profilo, la ricorrente si lamenta che la seconda visita dell’immobile da parte di M.N. non sia stata valutata come un indizio grave, preciso e concordante con altri indizi (ex art. 2729 c.c.), idoneo a contribuire a provare l’efficienza causale dell’atti-vità del mediatore adeguata all’effetto della successiva conclusione dell’affare. Tale difetto di valutazione ridonderebbe nella violazione dell’art. 2697 c.c., poiché la Corte ha ritenuto che la ditta Cogi abbia mancato di fornire prove sufficienti del fatto costitutivo del diritto alla provvigione, e si rifletterebbe anche nell’omessa motivazione.

Alla stregua del terzo profilo del secondo motivo, la ricorrente censura che la Corte abbia omesso di esaminare ulteriori circostanze dalle quali si desumerebbe la consapevolezza che gli altri partecipanti della vicenda (le parti della compravendita, il secondo mediatore) hanno avuto del ruolo determinante del primo mediatore nella conclusione dell’affare. Si tratta in particolare delle circostanze che il secondo mediatore ha rinunciato a percepire la provvigione da parte del venditore ed ha concesso uno sconto anche all’acquirente.

I due profili si risolvono sostanzialmente nel questionare la prudenza o ragionevolezza dell’accertamento del giudice di merito circa i fatti rilevanti. Ciò vale in modo manifesto per il terzo profilo, che riguarda appunto l’omesso esame di circostanze decisive. Ma non vale in misura minore per il secondo motivo, ché l’episodica questione di violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto colà proposta – sotto specie di censura relativa agli artt. 2729 e 2697 c.c. – concerne pur sempre il mancato apprezzamento di un fatto (la seconda visita) come fatto secondario fonte di presunzioni idonee alla prova dell’efficienza causale adeguata dell’attività del mediatore.

E’ evidente che il giudizio che si fonda sul concomitante intreccio delle circostanze elencate nel paragrafo precedente non può essere scalfito nel suo carattere di prudenza e di ragionevolezza dalla valutazione del peso da attribuire alle circostanze di una seconda visita all’immobile, dell’esonero dalla corresponsione della provvigione, che il venditore ottiene dal secondo mediatore, e dello sconto praticato da quest’ultimo all’acquirente. Pertanto, gli apprezzamenti giudiziali bersagliati dal secondo e terzo profilo del secondo motivo di ricorso non potrebbero essere ribaltati in sede di legittimità se non al prezzo che questa Corte indebitamente sostituisca sic et simpliciter il proprio accertamento a quello proprio del giudice di merito (cfr. il significativo aggettivo possessivo “suo” impiegato dall’art. 116, comma 1 c.p.c.).

In conclusione, il secondo motivo non è fondato nel suo complesso ed è pertanto rigettato.

  1. – Con il terzo motivo, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 4, si deduce la nullità della sentenza e del procedimento per violazione e falsa applicazione degli artt. 112,132 e 246 c.p.c. per avere la Corte d’appello “con decisione sul punto del tutto priva di motivazione, confermato una incapacità (della teste L.B. a testimoniare) non pronunciata dal primo giudice e fondato immotivatamente ed apoditticamente il suo convincimento su tale inesistente presupposto”.

Il motivo è da dichiarare inammissibile. Dal brano rilevante della sentenza di primo grado emerge che: “non è invece stato efficacemente dimostrato in causa che tale prima visita sia stata seguita da una seconda (…), stante la ritenuta incapacità a testimoniare dell’unica teste dedotta dalla attrice ( L.B.). Sul punto si osserva quanto segue: anche a ritenere che non ricorresse nella fattispecie interesse concreto della teste tale da prefigurare la incapacità a testimoniare ex art. 246 c.p.c., reputa questo giudice che alla luce dei dati tutti di giudizio emergenti agli atti la testimonianza sia da valutarsi superflua ai fini del decidere”.

Il motivo di ricorso muove dal presupposto erroneo che il giudice di primo grado non si sia pronunciato nel senso della incapacità della teste L.B. a testimoniare. In realtà, come si è potuto constatare dalla lettura del brano rilevante, la decisione di non ammettere la deposizione della teste si fonda vuoi sulla “ritenuta incapacità a testimoniare”, vuoi sulla valutazione di superfluità della testimonianza ai fini del decidere. Viceversa, l’argomentazione del terzo motivo concentra le proprie censure solo sui vizi da cui sarebbe affetta la decisione ba-santesi “semplicemente” sulla seconda delle due ragioni (la superfluità della testimonianza).

Orbene, si osserva che ove una pronuncia sia sorretta da una pluralità di ragioni, distinte ed autonome, ciascuna delle quali giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata, l’omessa impugnazione di una di esse (nel caso di specie: di quella relativa all’incapacità a testimoniare) rende inammissibile la censura relativa alle altre. Infatti, quand’anche tale censura fosse fondata, essa non potrebbe sfociare nell’annullamento della sentenza sul punto incompletamente censurato, essendo divenuta definitiva l’autonoma motivazione non impugnata (in questo senso, tra le molte, cfr. Cass. 17182 del 2020).

In conclusione, il terzo motivo è inammissibile.

  1. – Con il quarto motivo, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362,1363,1365,1366 e 1369 c.c. per avere la Corte d’appello trascurato di applicare una clausola contrattuale dell’accordo tra la ditta Cogi e R.F.. Pertanto, il quarto motivo coinvolge soltanto la posizione di quest’ultimo.

Con tale motivo si deduce in particolare che la Corte d’appello abbia trascurato di applicare una clausola contrattuale dell’accordo tra la ditta Cogi e R.F.. Tale clausola prevede: “In caso di vendita effettuata direttamente nel periodo dell’incarico, in caso di vendita effettuata direttamente dopo la scadenza a clienti da Voi presentati nel periodo dell’incarico e per revoca del presente, Vi sarà corrisposta una somma, a titolo di penale, pari al 75% del compenso pattuito”.

Il quarto motivo di ricorso è fondato nel senso specificato di seguito. Esso è stato già proposto come motivo di gravame e la Corte d’appello lo ha rigettato poiché, alla stregua di una interpretazione secondo buona fede, ha ritenuto che la clausola non dovesse applicarsi al caso di specie, in cui il venditore non ha effettuato una vendita direttamente, ma si è avvalso dell’opera di un secondo mediatore. Viceversa, la clausola avrebbe potuto trovare applicazione nel caso in cui R. avesse approfittato dell’attività svolta dalla ditta Cogi per concludere direttamente la compravendita, dopo la scadenza dell’incarico, senza l’ap-porto di alcun altro mediatore. Al contrario, nel caso di esame – conclude la Corte d’appello – la conclusione dell’affare è avvenuta, a distanza di un apprezzabile lasso di tempo rispetto alla scadenza del primo incarico, con l’intervento di un secondo mediatore, incaricato in modo autonomo dal primo.

Con tale argomentazione, il giudice d’appello ha violato innanzitutto l’art. 1362 c.c., privilegiando unilateralmente l’interpretazione letterale dell’avverbio “direttamente” rispetto alla comune intenzione delle parti, quale può essere ricostruita in modo relativamente agevole dalla qualificazione giuridica che costoro hanno attribuito alla clausola de qua, dal contenuto negoziale di quest’ultima, nonché dal comportamento delle parti anche posteriore alla conclusione dell’accordo. Con ciò la Corte d’appello ha sostanzialmente rovesciato l’ordine di priorità fissato dall’art. 1362 c.c. per l’impiego dei canoni ermeneutici dei contratti.

Innanzitutto, le parti hanno espressamente qualificato la clausola come “penale”. La qualificazione è corretta, con la precisazione che essa è diretta a determinare previamente e in modo forfettario l’am-montare della cifra dovuta a titolo di indennizzo per l’attività svolta dal mediatore nell’interesse del venditore nel periodo di vigenza dell’inca-rico, indipendentemente dal fatto che l’affare si sia successivamente concluso per effetto dell’intervento del mediatore. L’irrilevanza del contributo causale dato dall’attività del mediatore alla posteriore conclusione della compravendita emerge dall’elemento portante della fattispecie cui la clausola collega l’obbligo del pagamento al 75% del compenso pattuito. L’elemento è che il compratore rientri nel novero delle persone che il mediatore ha presentato al venditore. Infatti, nella struttura e nella funzione della clausola, fondamentale è il contributo dato dal mediatore all’individuazione della controparte, non già la mera modalità (diretta o indiretta, merce’ l’intervento di un secondo mediatore) con cui si è concluso l’affare.

In primo luogo, tale elemento è indizio che la funzione della penale non è afflittiva (a cagione d’un ipotetico inadempimento, che invece non esiste nemmeno nella supposizione delle parti, come si può desumere dall’aggiunta “per revoca del presente”: in realtà ultronea, ma pur sempre indice dell’intenzione), bensì indennitaria delle spese incontrate dal mediatore nel mettere in contatto le parti. In secondo luogo, tale elemento nel suo essere condizione necessaria e sufficiente al sorgere dell’obbligo pecuniario esclude la rilevanza di qualsiasi altro aspetto. Esso rende cioè irrilevante che la conclusione dell’affare sia l’effetto dell’intervento del primo mediatore (come invece hanno ritenuto i giudici di primo e di secondo grado, condizionati dall’idea che il nesso di causalità sia sotteso anche all’operatività della clausola penale), sia l’effetto dell’opera del secondo mediatore, oppure sia dovuta all’attività diretta del venditore. Cosicché l’aspetto che la Corte d’ap-pello ha reputato centrale (cioè che la vendita sia avvenuta “direttamente”, nel significato attribuito) si rivela in realtà come una modalità accidentale.

Che questa sia l’interpretazione maggiormente persuasiva si profila anche alla luce di aspetti complementari, attinenti al comportamento successivo delle parti, in particolare del venditore, dal momento che egli si è dato premura di ottenere l’esonero dal pagamento della provvigione al secondo mediatore. Con ciò l’interpretazione così determinata è in linea con gli altri canoni ermeneutici di cui agli artt. 1362 ss. c.c., quali l’interpretazione secondo buona fede (art. 1366 c.c.), la conservazione degli effetti della clausola (art. 1367 c.c.), l’equo contemperamento degli interessi delle parti (art. 1371 c.c.).

Le ragioni sottese alla fondatezza del quarto motivo di ricorso lasciano impregiudicata, e pertanto affidata al giudice di rinvio, la valutazione se la già menzionata clausola, nei termini in cui è stato teste’ ricostruito il suo valore giuridico, rivesta o meno un carattere vessatorio ai sensi degli artt. 33 ss. cod. cons.

In conclusione, il quarto motivo è accolto.

  1. – In relazione al rigetto del secondo motivo di ricorso, il Collegio enuncia il seguente principio di diritto:

“Al fine del sorgere del diritto alla provvigione ex art. 1755, comma 1 c.c., è necessario che la conclusione dell’affare sia effetto causato adeguatamente dal suo intervento, senza che il mettere in relazione delle parti tra di loro ad opera del mediatore sia sufficiente di per sé a conferire all’intervento di questi il carattere di adeguatezza, né che l’intervento di un secondo mediatore sia sufficiente di per sé a privare ex post l’opera del primo mediatore di tale qualità di adeguatezza”.

  1. – In conclusione, è accolto il quarto motivo di ricorso; è dichiarato inammissibile il terzo motivo; sono rigettati i primi due motivi; è cassata con rinvio la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto.

 

P.Q.M.

La Corte accoglie il quarto motivo di ricorso nei sensi di cui in motivazione; dichiara inammissibile il terzo motivo; rigetta i primi due motivi; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la causa alla Corte d’appello di Bologna in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 25 maggio 2022.

Depositato in Cancelleria il 2 febbraio 2023

 

Per i vizi dell’opera rispondono in via solidale l’appaltatore e il direttore dei lavori?

 

Cassazione civile sez. II – 19/07/2022 n. 22575

L’annotata ordinanza della Sprema Corte ha affermato il seguente principio: “ qualora il danno subito dal committente rientri nell’ambito dell’articolo 1669 c.c., e sia conseguenza dei concorrenti inadempimenti dell’appaltatore e del direttore dei lavori “entrambi rispondono solidalmente dei danni, essendo sufficiente, per la sussistenza della solidarieta’, che le azioni e le omissioni di ciascuno abbiano concorso in modo efficiente a produrre l’evento, a nulla rilevando che le stesse costituiscano autonomi e distinti fatti illeciti, o violazioni di norme giuridiche diverse” (Cass. 18521/2016), trovando il vincolo di responsabilita’ solidale “fondamento nel principio di cui all’articolo 2055 c.c.” (Cass. 18289/2020)”

IL CASO.  A rivolgersi agli ermellini è la ditta appaltatrice chiamata in causa dall’architetto direttore dei lavori in uno stabile.
Il condominio assumeva che i lavori erano stati mal eseguiti e chiedeva un cospicuo risarcimento.
Il direttore dei lavori faceva notare tra l’altro che l’azione di risarcimento era stata avanzata dal condominio solo nei suoi confronti, non della ditta esecutrice, che si difendeva assumendo di non essere tenuta al vincolo di solidarietà nei confronti del direttore dei lavori esterno.
Secondo la Corte la diversa natura contrattuale delle due prestazioni non incide quando entrambe le attività possono concorrere alla produzione del danno.
Non incide neppure il dato della scarsa presenza del direttore dei lavori nel cantiere. Indipendentemente dalla frequenza dei controlli, il direttore dei lavori avrebbe potuto contestare le modalità esecutive dell’opera rispetto al progetto anche con un’unica visita all’interno dell’edificio.
Responsabilità condivisa quindi e risarcimento da corrispondere al condominio danneggiato.
E il ruolo dell’amministratore? Il contratto di appalto è deciso dall’assemblea condominiale e l’amministratore deve curare la sua esecuzione, in base all’articolo 1130 del Codice civile non trascurando gli articoli 90 e 93 del decreto legislativo 81/2008 sulla sicurezza sul lavoro che obbligano il committente a verificare l’idoneità tecnica professionale della ditta appaltatrice e ad acquisirne la relativa visura camerale e il Durc, il documento unico di regolarità contributiva.
Attenzione soprattutto al contratto: l’appaltatore deve eseguire i lavori a regola d’arte, in conformità al contratto d’appalto, capitolati, computi metrici, normative in tema di sicurezza del lavoro.
Nell’ambito dei lavori del 110% e comunque dei bonus edilizi si devono verificare e collaudare gli interventi alla presenza dell’appaltatore, del committente e/o del direttore dei lavori, in occasione dei vari Sal (stati avanzamento lavori) da inviare all’Enea e all’agenzia delle Entrate.
Verifica che può portare ad accettazione dei lavori senza riserve, ad accettazione con riserva per riscontrati vizi o difetti o a una dichiarazione di non accettazione.
In questi due ultimi casi, vanno indicate le motivazioni, supportate da idonea documentazione.
In caso di riscontrati vizi e/o difetti imputabili all’appaltatore, lo stesso dovrà porvi rimedio.
Gli amministratori committenti devono prestare attenzione alle clausole contrattuali che escludono le responsabilità dell’appaltatore per danni indiretti, che escludono o limitano le eventuali garanzie di risultato (performance) indicate nel contratto e negli allegati, o che escludono responsabilità per ogni mancato guadagno e/o perdita per mancata e/o limitata commerciabilità e/o redditività degli immobili oggetto dei lavori.

 

Il testo della sentenza

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGILIO    Rosa Maria                    –  Presidente   –

Dott. GRASSO         Giuseppe                      –  Consigliere  –

Dott. ABETE          Luigi                         –  Consigliere  –

Dott. DONGIACOMO     Giuseppe                      –  Consigliere  –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara                   –  rel. Consigliere  –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 13395/2017 proposto da:

B.G., TITOLARE DI IMPRESA S. di  B.G.,

elettivamente domiciliato in ROMA,

– ricorrente –

contro

CONDOMINIO (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro

tempore elettivamente domiciliato in ROMA,

– controricorrente –

e contro

R.G.S., elettivamente domiciliato in ROMA, V

– controricorrente e ricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 826/2017 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 27/02/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

25/02/2022 dal Consigliere CHIARA BESSO MARCHEIS.

PREMESSO IN FATTO

CHE

  1. Il Condominio di (OMISSIS) conveniva in giudizio l’architetto R.G.S., direttore dei lavori di manutenzione straordinaria effettuati nello stabile condominiale, al fine di ottenerne la condanna al risarcimento dei danni asseritamente collegati agli eseguiti interventi. Si costituiva l’architetto R. chiamando in causa B.G., quale titolare della ditta individuale S. di B.Gche aveva eseguito i lavori, chiedendo che, in caso di accertamento dei vizi lamentati dall’attore e in considerazione dell’addebitabilità degli stessi all’appaltatore, questo fosse condannato a indennizzarlo della eventuale condanna. Si costituiva B., che eccepiva come rispetto ai vizi denunciati fossero ormai decorsi i termini di cui agli artt. 1667,1668 e 1669 c.c.; il chiamato evidenziava anche l’avvenuto svolgimento di un giudizio arbitrale da egli instaurato per ottenere il pagamento da parte del Condominio di ulteriori lavori non previsti nel contratto, giudizio arbitrale che si era concluso con l’accoglimento della sua domanda e il rigetto delle domande riconvenzionali del Condominio relative alla “cattiva esecuzione” del contratto d’appalto.

Il Tribunale di Milano, con sentenza n. 3070/2015, ha parzialmente accolto la domanda del Condominio e, accertato l’inadempimento del convenuto all’incarico professionale, lo ha condannato al risarcimento del danno quantificato in Euro 64.073,30; ha poi parzialmente accolto la domanda di regresso dell’architetto R. e ha condannato l’appaltatore a tenerlo indenne nella misura del 70%.

  1. La sentenza è stata impugnata in via principale da B.; R. ha impugnato in via incidentale, chiedendo di accertare la responsabilità esclusiva dell’appaltatore. La Corte d’appello di Milano con sentenza 27 febbraio 2017, n. 826 – ha rigettato sia l’appello principale che quello incidentale.
  2. Avverso la sentenza della Corte d’appello B.G. ricorre per cassazione.

Resiste con controricorso R.G.S., che propone ricorso incidentale.

Resiste con distinti atti di controricorso avverso il ricorso principale e quello incidentale il Condominio di (OMISSIS).

Il ricorrente incidentale ha depositato memoria.

Con atto datato 2 aprile 2021 il difensore di B. ha comunicato di avere rinunciato al mandato conferitogli; con atto del 21 luglio 2021 si è costituito il nuovo difensore.

 

CONSIDERATO IN DIRITTO

CHE:

  1. Il ricorso principale è articolato in quattro motivi, che ripropongono doglianze già sottoposte al giudice d’appello con i motivi di gravame.

1) Il primo motivo contesta “violazione del divieto del ne bis in idem, violazione del pur riconosciuto obbligo di astenersi dal deliberare intorno alla responsabilità del deducente nei confronti del Condominio, in relazione al compromesso e al lodo munito di esecutorietà”: il giudice d’appello ha ritenuto che gli effetti del lodo non fossero opponibili a R. perché la decisione arbitrale non poteva vincolarlo, ma “i fatti accertati nel lodo, per quanto circoscritti all’attività dell’impresa appaltatrice, sono estensibili al direttore dei lavori, il quale potrà giovarsi in giudizio, salvo ove ci fosse la responsabilità di quest’ultimo nell’espletamento dell’incarico assegnatogli dal Condominio, la quale del resto è oggetto di precisa domanda nei suoi confronti”; rileva quindi la netta distinzione tra le responsabilità dell’appaltatore e del direttore dei lavori, evidentemente dipendenti da due negozi distinti.

2) Il secondo motivo contesta “violazione degli artt. 99,100 e 101 c.p.c., per avere il giudice proceduto ad autonoma qualificazione della domanda proposta dal convenuto nei confronti dell’impresa; violazione degli artt. 88,100 e 101 c.p.c., per avere il giudice di prime cure qualificato la domanda proposta dal Condominio addirittura contra dicta e quindi contro la proclamata volontà dell’interessato”: il Condominio non ha mai avanzato alcuna domanda nei confronti dell’impresa appaltatrice, avendo agito in giudizio nei confronti del solo direttore dei lavori “per fatti propri”.

3) Il terzo motivo fa valere “violazione degli artt. 1292 e 2055 c.c., per avere la Corte d’appello asserito l’esistenza di responsabilità solidale e di conseguente regresso a favore del preteso coobbligato, senza avere competenza per delibare sulla responsabilità del deducente nei confronti del Condominio”: nel caso di specie non vi è alcuna responsabilità solidale tra il direttore dei lavori e l’appaltatore, con conseguente inapplicabilità dell’art. 2055 c.c..

4) Il quarto motivo contesta, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, “mancata delibazione in ordine alle numerose eccezioni preliminari e di merito spiegate dal deducente, che è andato oltre le eccezioni preliminari ed aveva ritualmente proposto eccezioni di prescrizione e di infondatezza delle pretese spiegate nei suoi confronti”: la Corte d’appello, nel rigettare il motivo di gravame, sarebbe partita da un presupposto “fuorviante”, ossia che l’azione nei confronti dell’impresa appaltatrice non è stata proposta dal Condominio, ma dal direttore dei lavori, quando ciò che rileva sarebbe che “il Condominio si è astenuto dal rivolgere qualunque domanda nei confronti del deducente”, fatto decisivo che sarebbe stato omesso dal giudice d’appello.

I motivi, tra loro strettamente connessi, non possono essere accolti. Il terzo motivo nega la sussistenza del vincolo di solidarietà tra il direttore dei lavori e l’appaltatore e l’inapplicabilità dell’art. 2055 c.c., negazione della solidarietà che è sottesa anche al secondo, al primo e al quarto motivo. Il ricorrente in tal modo non considera che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, qualora il danno subito dal committente rientri nell’ambito dell’art. 1669 c.c., e sia conseguenza dei concorrenti inadempimenti dell’appaltatore e del direttore dei lavori come nel caso in esame ha accertato il giudice d’appello (cfr. le pp. 10 e 11 del provvedimento impugnato) – “entrambi rispondono solidalmente dei danni, essendo sufficiente, per la sussistenza della solidarietà, che le azioni e le omissioni di ciascuno abbiano concorso in modo efficiente a produrre l’evento, a nulla rilevando che le stesse costituiscano autonomi e distinti fatti illeciti, o violazioni di norme giuridiche diverse” (Cass. 18521/2016), trovando il vincolo di responsabilità solidale “fondamento nel principio di cui all’art. 2055 c.c.” (Cass. 18289/2020), “a nulla rilevando in contrario la natura e la diversità dei contratti cui si ricollega la responsabilità”, essendo sia l’appaltatore che il direttore dei lavori, con le rispettive azioni od omissioni, “entrambi autori dell’unico illecito extracontrattuale, e perciò rispondendo, a detto titolo, del danno cagionato” (Cass. 8016/2012); infatti le attività dell’appaltatore come quella del direttore dei lavori “pur essendo i contratti ai quali si ricollegano di diverse. natura possono concorrere tutte alla produzione del danno, con la conseguenza che gli indicati soggetti (indipendentemente dalla graduazione delle rispettive colpe nei rapporti interni) sono tenuti a risarcire integralmente i danneggiati” (Cass. 4900/1993).

Per quanto concerne specificamente la censura, di cui al primo motivo, di violazione del ne bis in idem in relazione al lodo reso nel giudizio arbitrale, correttamente la Corte d’appello ha rilevato che l’architetto R. era estraneo al contratto d’appalto e pertanto la clausola compromissoria a questo apposto non poteva vincolarlo e il lodo non poteva avere nei suoi confronti alcun effetto. Al riguardo va precisato che il titolare dell’impresa appaltatrice è stato chiamato in causa con la proposizione nei suoi confronti dell’azione di regresso da parte del direttore dei lavori (come puntualizza la Corte d’appello, correttamente e non in modo “fuorviante” come deduce il ricorrente nel quarto motivo) e che l’art. 1306 c.c., si applica nei soli rapporti tra creditore e coobbligato solidale e non ai rapporti di regresso tra i vari condebitori. Ne consegue che nell’azione di regresso del condebitore nei confronti dell’altro coobbligato, il coobbligato convenuto (il ricorrente) non può “opporre altro e contrastante giudicato, col quale sia stata rigettata la pretesa creditoria nei suoi confronti” (Cass. 16117/2013).

Il ricorso principale va pertanto rigettato.

  1. Il ricorso incidentale è articolato in due motivi.

1) Il primo motivo denuncia “violazione e falsa applicazione dell’art. 1669 c.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5, per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione in ordine alla mancata sorveglianza dei lavori eseguiti dall’impresa appaltatrice”.

Il motivo non può essere accolto. In rubrica, anzitutto, viene richiamato un parametro – l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione – non applicabile ratione temporis alla fattispecie. Nello sviluppo del motivo si lamenta poi che la Corte d’appello abbia “del tutto ignorato” dati di fatto che confuterebbero l’assunto della mancata vigilanza sui lavori da parte di R., dati di fatto di cui non si ravvisa il carattere della decisività alla luce dell’accertamento di fatto posto in essere dal giudice d’appello, secondo cui, “indipendentemente dalla frequenza in cantiere di R., quello che è certo è che non risulta alcun intervento da parte sua volto alla contestazione delle modalità esecutive dell’opera anche per la parte non rispondente a progetto” (p. 12 della sentenza impugnata). Nella parte finale del motivo, infine, si contesta che il ricorrente, pur non avendo alcuna responsabilità per i vizi lamentati o comunque una responsabilità pari solo al 30%, sia stato condannato al risarcimento integrale in favore del Condominio, così non considerando la solidarietà della responsabilità dell’appaltatore e del direttore dei lavori (supra, sub I).

2) Il secondo motivo contesta “violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., omessa motivazione in ordine alla condanna al pagamento delle spese processuali dei due gradi di giudizio”: il ricorrente non doveva essere condannato al pagamento delle spese in favore del Condominio, in quanto il processo “non è causalmente riconducibile ad alcun suo comportamento”.

Il motivo non può essere accolto. Il ricorso per cassazione è infatti rivolto nei confronti della pronuncia del giudice di secondo grado, che ha integralmente rigettato l’appello incidentale di R., così che – in corretta applicazione dell’art. 91 c.p.c. – ha condannato quest’ultimo al pagamento delle spese in favore del Condominio.

Il ricorso incidentale va quindi rigettato.

III. Considerata la reciproca soccombenza vanno compensate le spese tra i due ricorrenti, che vanno condannati in solido al rimborso delle spese del giudizio di legittimità nei confronti del Condominio.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale e di quello incidentale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

 

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso principale e quello incidentale, compensa le spese del presente giudizio tra il ricorrente principale e il ricorrente incidentale e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese in favore del controricorrente, che liquida in Euro 5.800, di cui Euro 200 per esborsi, oltre spese generali (15%) e accessori di legge.

Sussistono,D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13, comma 1 quater, i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale e di quello incidentale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella adunanza camerale della Sezione Seconda Civile, il 25 febbraio 2022.

Depositato in Cancelleria il 19 luglio 2022

L’immobile “abusivo” entra a far parte del patrimonio ereditario?

 

Corte di Cassazione , sez. III, ud. 21 febbraio 2023 (dep. 17 aprile 2023), n. 16141

Con questo arresto gli ermellini hanno ribadito il principio, già affermato dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 25021/2009, che l’immobile abusivo oggetto di demolizione è parte dell’asse ereditario, si trasmette agli eredi e su di esso si forma la comunione ereditaria, salvo il caso della rinuncia.  Pertanto l’ordine di demolizione del manufatto abusivo, anche nell’ipotesi di acquisto dell’immobile per successione a causa di morte, conserva la sua efficacia nei confronti dell’erede del condannato, stante la preminenza dell’interesse paesaggistico e urbanistico.

Il caso.  Due coniugi in qualità di proprietari, furono condannati– per i reati ex artt. 20, lett. c), L. n. 47 del 1985, 1-sexies L. n. 431 del 1985, 734 c.p  –  per avere realizzato, in assenza di concessione edilizia e di ogni autorizzazione, in area sottoposta a vincolo ambientale, un immobile di un piano di 91 mq., 4 verande di varie dimensioni, una scala ed una recinzione.

Gli eredi dei proprietari, nell’ambito di un successivo procedimento  nei loro confronti, sorto a seguito del provvedimento della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Foggia, di esecuzione dell’ordine di demolizione contenuto nella sentenza del primo giudice, chiesero di essere estromessi sostenendo  di non avere acquistato l’immobile mortis causa in quanto sorto su terreni occupati abusivamente e quindi sconosciuto ai registri immobiliari. Trattandosi, a loro giudizio, di bene inesistente non avrebbero ereditato alcunchè e nemmeno avrebbero potuto rinunciare all’eredità. Avverso il provvedimento di rigetto i prefati hanno proposto ricorso in Cassazione.

Con  la decisione che si annota la Suprema Corte ha  affermato che i condannati (i genitori, per l’appunto, dei ricorrenti) dovevano essere considerati proprietari dell’immobile oggetto di causa, che non può pertanto essere considerato “fantasma”, bensì una cosa già oggetto di diritto di proprietà con le dimensioni ben descritte nell’imputazione della sentenza.

Testo integrale della sentenza

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ANDREAZZA   Gastone      –  Presidente   –

Dott. PAZIENZA    Vittorio     –  Consigliere  –

Dott. SEMERARO    Luca    –  rel. Consigliere  –

Dott. REYNAUD     Gianni F.    –  Consigliere  –

Dott. CORBO       Antonio      –  Consigliere  –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

B.G., nato a (Omissis);

B.M., nato a (Omissis);

avverso l’ordinanza del 10/10/2022 del TRIBUNALE di FOGGIA;

udita la relazione svolta dal Consigliere LUCA SEMERARO;

lette le conclusioni del PG RAFFAELE GARGIULO;

Il PG conclude per il rigetto del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

  1. Con l’ordinanza del 10 ottobre 2022 il Tribunale di Foggia ha rigettato l’istanza presentata da B.G. e B.M. di estromissione dal procedimento sorto a seguito del provvedimento della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Foggia del 7 giugno 2021 di esecuzione dell’ordine di demolizione contenuto nella sentenza della Pretura di Lucera del 23 maggio 1997, irrevocabile il 17 giugno 1997, di applicazione della pena nei confronti di B.M. e A.A., per i reati ex artt. 20, lett. c), L. n. 47 del 1985, 1-sexies L. n. 431 del 1985, 734 c.p., perché, in qualità di proprietari, realizzarono, in assenza di concessione edilizia e di ogni autorizzazione, in area sottoposta a vincolo ambientale, un immobile di un piano di 91 mq., 4 verande di varie dimensioni, una scala ed una recinzione.
  2. Avverso tale ordinanza ha proposto ricorso per cassazione il difensore di B.G. e B.M., eredi dei condannati, deducendo con l’unico motivo il vizio di motivazione.

Il Tribunale di Foggia avrebbe errato nel ritenere che i ricorrenti abbiano acquistato l’immobile mortis causa.

La zona su cui insiste l’immobile abusivo sarebbe stata interessata da occupazioni abusive del terreno, di proprietà di terzi, in seguito oggetto di più edificazioni. I soggetti occupanti sarebbero stati condannati per i reati edilizi commessi, con il relativo ordine di ripristino.

Per effetto dell’occupazione abusiva, l’unico diritto esercitato sugli immobili sarebbe il possesso: o perché mantenuto nel tempo o perché acquistato attraverso atti in forma di scrittura privata.

L’immobile de quo, come gli altri, sarebbe “sconosciuto ai pubblici registri immobiliari”; nel caso esaminato, la successione dei genitori non avrebbe avuto alcun bene da trasferire; non vi sarebbe stato un testamento che abbia disposto sull’immobile abusivo né i ricorrenti avrebbero ereditato o acquisito il possesso dell’immobile. Per l’assenza di beni, non avrebbero potuto neanche rinunciare all’eredità. Dunque, contrariamente a quanto sostenuto dall’ordinanza, non vi sarebbe stato alcun acquisto iure hereditatis dell’immobile abusivo, non avendo ereditato alcunché.

La giurisprudenza richiamata dall’ordinanza in tema di demolizione di opere abusive ereditate sarebbe inconferente, perché l’immobile sarebbe un “bene fantasma, non censito, non ereditabile”, non oggetto di possesso da parte dei ricorrenti. L’autorità avrebbe dovuto accertare l’effettivo proprietario del bene.

L’ordinanza avrebbe ritenuto irrilevante la questione relativa alla presenza di ulteriori eredi della sig.ra B.C. omettendo di considerare che nella fattispecie de qua sarebbe coinvolto un minore che, per il solo fatto di essere orfano della madre, sarebbe obbligato a partecipare alle spese di abbattimento di un immobile, pur non avendone il possesso.

CONSIDERATO IN DIRITTO

  1. Il ricorso infondato.

1.1. I ricorrenti deducono il vizio di motivazione rispetto ad una questione di diritto relativa al se l’immobile costruito in assenza di permesso di costruire (o di concessione edilizia) ed autorizzazione paesistica faccia parte dell’asse ereditario, ed è pertanto inammissibile ex art. 606, comma 3, c.p.p.; il vizio di motivazione denunciabile nel giudizio di legittimità è soltanto quello attinente alle questioni di fatto, non anche a quelle di diritto (Sez. U, n. 29541 del 16/07/2020, Filardo, Rv. 280027 – 01).

1.2. In ogni caso, è infondata la tesi in diritto proposta con il ricorso.

Risulta anche dall’istanza di incidente di esecuzione (p. 2) che i ricorrenti sono gli eredi di B.M. e A.A., che erano i loro genitori, e nei confronti dei quali fu emessa dal Pretore di Lucera il 23 maggio 1997, irrevocabile il 17 giugno 1997 la sentenza ex art. 444 c.p.p. contenente l’ordine di demolizione dell’immobile abusivo. E’, dunque, incontestata la qualità di eredi dei ricorrenti, come indicato nell’ordinanza impugnata.

1.3. I ricorrenti affermano erroneamente che l’immobile abusivo non possa rientrare nell’asse ereditario e che non si trasmetta iure hereditatis, in base alla argomentazione per cui l’immobile, essendo abusivo, sarebbe “sconosciuto” ai registri immobiliari ed inidoneo a far parte dell’asse ereditario.

1.4. Dalla sentenza definitiva risulta che i condannati erano i proprietari dell’immobile abusivo, che ha una sua chiara consistenza, secondo quanto emerge dal titolo esecutivo, come prima indicato. Dunque, non è un “immobile fantasma”, ma una cosa già oggetto di diritto di proprietà con le dimensioni ben descritte nell’imputazione della sentenza.

1.5. Come affermato dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite Civili (cfr. Sez. U Civili, n. 25021 del 16/04/2019, in motivazione), l’immobile abusivo oggetto di demolizione è parte dell’asse ereditario, si trasmette agli eredi e su di esso si forma la comunione ereditaria, salvo il caso della rinuncia, che nel caso in esame non risulta effettuata.

1.5.1. Secondo le Sezioni Unite Civili, la comunione ereditaria “… ha ad oggetto i beni che componevano il patrimonio del de cuius e si costituisce ipso iure tra gli eredi quando, a seguito dell’apertura di una successione mortis causa, vi siano una pluralità di chiamati all’eredità ed una pluralità di accettazioni (espresse o tacite). La comunione ereditaria e’, perciò, indipendente dalla volontà dei chiamati alla eredità (non è una comunione “volontaria”, mancando un atto negoziale diretto a costituirla) e va annoverata tra le comunioni “incidentali” (“communio incidens”), in quanto sorge per il verificarsi del mero “fatto giuridico” della pluralità di acquisti della medesima eredità…”.

1.5.2. Secondo la giurisprudenza, la nullità ex art. 46 D.P.R. n. 380 del 2001 e’, infatti, relativa ai soli atti tra vivi, restando esclusi gli acquisti di beni immobili abusivi mortis causa.

Tale norma prevede che “Gli atti tra vivi, sia in forma pubblica, sia in forma privata, aventi per oggetto trasferimento o costituzione o scioglimento della comunione di diritti reali, relativi ad edifici, o loro parti, la cui costruzione è iniziata dopo il 17 marzo 1985, sono nulli e non possono essere stipulati ove da essi non risultino, per dichiarazione dell’alienante, gli estremi del permesso di costruire o del permesso in sanatoria…”.

Cfr. Sez. U Civili, n. 8230 del 22/03/2019, Rv. 653283, che hanno affermato il principio per cui “la nullità comminata dall’art. 46 del D.P.R. n. 380 del 2001 e dagli artt. 17 e 40 della L n. 47 del 1985 va ricondotta nell’ambito del comma 3 dell’art. 1418 c.c., di cui costituisce una specifica declinazione, e deve qualificarsi come nullità “testuale”, con tale espressione dovendo intendersi, in stretta adesione al dato normativo, un’unica fattispecie di nullità che colpisce gli atti tra vivi ad effetti reali elencati nelle norme che la prevedono, volta a sanzionare la mancata inclusione in detti atti degli estremi del titolo abilitativo dell’immobile, titolo che, tuttavia, deve esistere realmente e deve esser riferibile, proprio, a quell’immobile”.

Nello stesso senso, la sentenza citata n. 25021 del 16/04/2019, per cui “restano fuori dal campo di applicazione dell’art. 40, comma 2, della L. n. 47 del 1985, così come – d’altra parte – dal campo di applicazione dell’art. 46, comma 1, del D.P.R. n. 380 del 2001 (e prima dell’art. 17, comma 1, della L. n. 47 del 1985), gli atti mortis causa e, tra quelli inter vivos, gli atti privi di efficacia traslativa reale (ossia quelli ad effetti meramente obbligatori), gli atti costitutivi, modificativi o estintivi di diritti reali di garanzia o di servitù (espressamente esclusi dalle richiamate disposizioni) e – come si vedrà nel prosieguo – gli atti derivanti da procedure esecutive immobiliari individuali o concorsuali (artt. 46, comma 5, del D.P.R. n. 380 del 2001 e 40, commi 5 e 6, della L. n. 47 del 1985)”.

1.6. L’ordinanza impugnata, che ha confermato l’ingiunzione a demolire nei confronti degli eredi dei soggetti condannati per i reati edilizi, ha correttamente ritenuto che l’immobile sia parte del patrimonio ereditario di cui sono titolari i ricorrenti.

1.7. Secondo il costante orientamento giurisprudenziale, l’ordine di demolizione delle opere abusive emesso dal giudice penale ha carattere reale ed ha natura di sanzione amministrativa a contenuto ripristinatorio e deve, pertanto, essere eseguito nei confronti di tutti i soggetti che sono in rapporto col bene e vantano su di esso un diritto reale o personale di godimento, anche se si tratti di soggetti estranei alla commissione del reato (Sez. 3, n. 47281 del 21/10/2009, Arrigoni, Rv. 245403; Sez. 3, n. 37120 del 11/05/2005, Morelli, Rv. 232175).

1.8. Pertanto, l’ordine di demolizione del manufatto abusivo, anche nell’ipotesi di acquisto dell’immobile per successione a causa di morte, conserva la sua efficacia nei confronti dell’erede del condannato, stante la preminenza dell’interesse paesaggistico e urbanistico, alla cui tutela è preordinato il provvedimento amministrativo emesso dal giudice penale, rispetto a quello privatistico, alla conservazione del manufatto, dell’avente causa del condannato.

1.9. Generico ed irrilevante appare il riferimento ad eventuali eredi minori della sig.ra B.C., terza figlia di B.M. e A.A., deceduta il giorno (Omissis), prima che la sentenza di condanna diventasse irrevocabile. Come correttamente rilevato dall’ordinanza, l’eventuale notifica dell’ingiunzione di demolizione agli eredi di B.C. non incide in alcun modo sulla decisione nei confronti dei ricorrenti.

  1. Pertanto, i ricorsi devono essere rigettati. Ai sensi dell’art. 616 c.p.p. si condannano i ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento.

 

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 21 febbraio 2023.

Depositato in Cancelleria il 17 aprile 2023

Diritto alla provvigione, intervento del mediatore, Tribunale di Reggio Emilia

Questa sentenza, relativa ad una causa che abbiamo patrocinato in materia di diritto alla provvigione, è pubblicata anche sul sito Ricerca giuridica e disponibile al seguente link.

Massima

“Il diritto al compenso non sussiste quando, dopo una prima fase di trattative avviate con l’intervento del mediatore senza risultato positivo, le parti siano successivamente pervenute alla conclusione dell’affare per effetto d’iniziative nuove, in nessun modo ricollegabili con le precedenti o da queste condizionate.”

*** *** ***

Repubblica Italiana
In nome del popolo italiano
IL TRIBUNALE DI REGGIO EMILIA
Seconda sezione civile

In composizione monocratica, il Giudice, ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa civile iscritta al n. 000/00 r.g., promossa da:

AGENZIA IMMOBILIARE. elettivamente domiciliata in Reggio Emilia, presso lo studio dell’Avv. …..che la rappresentata e la difende come da delega a margine dell’atto di citazione; Attrice
contro
L.P. elettivamente domiciliata in Reggio Emilia, presso lo studio dei l’Avv. Giovanni Orlandi che la rappresenta e la difende come da delega in calce alla copia dell’atto di citazione notificato; Convenuto

CONCLUSIONE

Il procuratore di parte, attrice conclude come da udienza del 19/10/2010;
Il procuratore di parte convenuta conclude come da udienza del 19/10/2010;

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con atto di citazione naturalmente, notificato l’attrice Agenzia Immobilare ha convenuto in giudizio L.P. per sentirla condannare al pagamento della somma di € 6-500,00 quale provvigione asseritamente dovuta per l’attività di mediazione svolta in occasione della compravendita di un immobile sito in Correggio.
Si costituiva in giudizio la convenuta contestando in fatto e in diritto la domanda attorea di cui chiedeva il rigetto.
Assunte le prove orali e disposto lo scambio delle sole comparse conclusionali, all’udienza dei 19/10/2010 le parti discutevano oralmente la causa che veniva trattenuta in decisione ai sensi del disposto dell’art. 281 quinquies, comma 2, c.p.c.

2. La domanda attorea (cioè dell’Agenzia, ndr.) è infondata. Giova evidenziare, in diritto, che in tema di mediazione, al fine del riconoscimento del diritto del mediatore alla provvigione, l’affare deve ritenersi concluso quando tra le parti poste in relazione dal mediatore si sia costituita un vincolo giuridico che abiliti ciascuna di essa ad aprire per la esecuzione specifica del negozio o per il risarcimento del danno (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 7994 del 0210412009).
Per aversi diritto alla provvigione non basta che l’affare sia stato concluso, ma, in forza dell’art. 1755 c.c., occorre che la conclusione sia avvenuta per effetto dell’intervento del mediatore, il quale, cioè, deve avere messo in relazione i contraenti con un’attività causalmente rilevante ai fini della conclusione del medesimo affare (tra le altre, cfr. Sez. 3, Sentenza n. 15880 del 06107/2010; Cass Sez, 3, Sentenza n. 23842 del 18/09/2008).
Perché sorga il diritto alla provvigione è necessario verificare che l’affare si sia concluso, bastando, a tal fine, che la conclusione dell’affare sia in rapporto causale con l’opera svolta, ancorché quest’ultima consista nella semplice attività di reperimento e nell’indicazione dell’altro contraente, o nella segnalazione dell’affare, sempre che l’attività costituisca il risultato utile di una ricerca fatta, dal mediatore, che sia stata poi valorizzata dalle parti.
In particolare, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che “il diritto del mediatore alla provvigione sorge tutte le volte in cui la conclusione dell’affare sia in rapporto causale con l’attività intermediatrice, pur non richiedendosi che, tra l’attività del mediatore, e la conclusione dell’affare, sussista un nesso eziologico diretto ed esclusivo, ed essendo, viceversa, sufficiente che, anche in presenza di un processo di formazione della volontà delle parti complesso ed articolato nel tempo, la “messa in relazione” delle stesse costituisca l’antecedente indispensabile per pervenire, attraverso fasi e vicende successive, alla conclusione del contratto. Ne consegue che la prestazione del mediatore ben può esaurirsi nel ritrovamento e nell’indicazione di uno dei contraenti, indipendentemente dal suo intervento nelle varie fasi delle trattative sino alla stipula del negozio, sempre, che la prestazione stessa possa legittimamente ritenersi conseguenza prossima o remota della sua opera, tale, cioè, che, senza di essa, il negozio stesso non sarebbe stato concluso, secondo i principi della causalità adeguata (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 3438 del 08/03/2002).
Il diritto al compenso non sussiste, per contro, quando, dopo una prima fase di trattative avviate con l’intervento del mediatore senza risultato positivo, le parti siano successivamente pervenute alla conclusione dell’affare per effetto d’iniziative nuove, in nessun modo ricollegabili con le precedenti o da queste condizionate. Qualora detta assoluta autonomia della seconda attività di mediazione non sussista e l’affare sia concluso per l’intervento di più mediatori (congiunto o distinto, contemporaneo o successivo, concordato o autonomo, in. base allo stesso incarico o a più incarichi) a nonna dell’art. 1758 c.c., ciascuno di essi ha diritto ad una quota di provvigione (Cass. Sez. III, Sentenza n. 5952 del 18/03/2005).
Secondo i principi che regolano l’onere probatorio incombe sul mediatore fornire la prova dell’esistenza di utile valido contributo causale tra la propria attività e la conclusione dell’affare: detta prova non può tuttavia essere fornita semplicemente dimostrando la successione cronologica tra attività del mediatore e conclusione dell’affare, in base al paralogismo ‘post hoc, ergo propter hoc (Cass. Sez. 3 – Sentenza n. 5760 del 11/06/1999).
In applicazione di questo principio la Suprema Corte, con una condivisibile decisione, ha confermato una sentenza di merito che aveva ritenuto che per dimostrare il suddetto nesso causale non fosse sufficiente la prova, da parte del mediatore, di avere accompagnato l’acquirente a visitare l’immobile, ne’, addirittura di avere appianato contrasti in ordine alle modalità di pagamento del prezzo, ne’ che l’acquirente si era più volte recato nella sede del mediatore.

3. Ciò posto in diritto, l’istruttoria ha dimostrato, in fatto, che l’intervento dell’agenzia immobiliare, attrice non ha fornito quel contributo causale necessario che, secondo i principi della causalità adeguata, ha consentito la conclusione dell’affare.
L’istruttoria ha piuttosto dimostrato che, pur essendovi stato tra la convenuta e l’agenzia immobiliare attrice un primo contatto che non ha condotto ad alcun risultato positivo – contatto, si precisa neppure riconducibile ad una vera e propria trattativa, – la conclusione dell’affare si è verificata per effetto d’iniziative nuove, in nessun modo ricollegabili ai precedenti contatti avuti con l’Agenzia Immobiliare o da questi condizionate.
In sede di interrogatorio formale, la convenuta ha dichiarato che, interessata all’acquisto di un immobile in Correggio, contattava varie Agenzie e, in particolare, avendo notato nella vetrina dell’agenzia attrice l’avviso di vendita, di un appartamento, entrava per avere notizie su di esso. Nell’occasione — prosegue la convenuta – l’impiegato dell’agenzia le disse che vi erano altre possibilità, di acquisto diverse da quell’appartamento e le indicò l’immobile per cui è causa, mostrandole le planimetrie. La convenuta, considerato che si trattava di un immobile da ristrutturare e eccessivamente costoso dimostrò il suo disinteresse. A quel punto la Sig.ra L.P. forniva il suo numero di telefono all’impiegato che si era dimostrato disponibile a farle pervenire notizie qualora avesse trovato soluzioni conformi alle sue esigenze. Qualche giorno dopo, Contattata dall’impiegato dell’agenzia, si recò su invito di questo presso l’immobile, confermando all’esito della visita il suo disinteresse in ragione del prezzo eccessivo e della necessità di ristrutturazione dell’immobile.
Secondo quanto dichiarato dalla convenuta, i due si congedarono senza alcun impegno e non vi furono altri contatti con l’agenzia.
Successivamente – prosegue, la Sig.ra L.P. – essa contattò altre agenzie, tra cui l’Agenzia G. che tra le varie proposte d’acquisto le mostrò anche la villetta che già l’Agenzia Immobiliare le aveva mostrato.
Originariamente, non interessata all’acquisto, la convenuta, che nel frattempo non aveva trovato altre soluzioni, decise di valutare l’offerta che l’Agenzia G. le aveva fatto ad un prezzo notevolmente inferiore a quello che le aveva proposto l’Agenzia Immobiliare (€ 450.000,00 anziché 530.000), infine, si determinò all’acquisto per il prezzo di € 430.000,00.
Il teste M.G., comproprietario dell’immobile insieme al fratello, ha negato di essere stato contattato dall’Agenzia Immobiliare per essere informato del fatto che la Sig.ra L.P. era interessata all’acquisto e che a tale scopo non fu contattato nemmeno suo fratello e ciò benché detta agenzia fosse una di quelle cui avevano dato l’incarico di reperire potenziali acquirenti.
Il teste ha inoltre dichiarato che più volte lui e suo fratello si incontrarono con la convenuta e suo marito per la trattativa presso l’Agenzia G. alla presenza del titolare dell’agenzia stessa o di suo figlio. Durante dette trattative, dice il teste, le parti raggiunsero l’accordo sul prezzo, originariamente troppo alto per la convenuta e, all’esito, in occasione di uno dei predetti incontri stipularono il contratto preliminare. In particolare, durante le trattative, afferma il teste, emerse l’esigenza della convenuta di prendere subito possesso dell’immobile per iniziare i lavori di ristrutturazione in modo da terminarli prima della data fissata per il rilascio dell’immobile nel quale ancora abitava. Lui ed il fratello – continua il teste – accordarono il loro consenso a tale condizione posta dalla convenuta, anche perché l’agenzia Gabriella, per permettere alle parti di trovare un accordo sul punto, convinse la convenuta a prestare una polizza assicurativa che coprisse i rischi derivanti dall’esecuzione dei lavori.
L’agenzia G., dice il teste, non solo predispose la relativa clausola da apporre nel preliminare, ma propose anche di stipulare, come poi avvenne, un contratto di comodato per consentire l’esecuzione dei lavori. Il teste M. G. ha anche dichiarato che vi fu un accordo per il pagamento delle provvigioni che sarebbe stato posto a carico della convenuta e che l’Agenzia G. si occupò anche della presentazione delle denunce di carattere amministrativo.
Particolarmente significativa è poi la circostanza, riferita dallo stesso teste M. G., che mai l’Agenzia Immobiliare chiese a lui e a suo fratello il pagamento della provvigione per la vendita dell’immobile. Il teste B., titolare dell’Agenzia G., privo di interesse nella controversia, ha dichiarato di avere fatto visionare diversi immobili alla convenuta e, in particolare, di avere svolto tutte le specifiche attività (oggetto dei capitoli di prova formulati dalla convenuta) che convinsero la Sig.ra L.P. a superare l’originario disinteresse dall’acquisto dell’immobile e, quindi, a stipulare il contratto. Il teste, inoltre, ha confermato che l’Agenzia G. aveva svolto attività di mediazione anche nel corso delle trattative per consentire, alle parti di addivenire ad un accordo sugli elementi essenziali del contratto e nella predisposizione di specifiche clausole che potessero soddisfare l’interesse di entrambe le parti (possesso immediato, polizza assicurativa…).
Le dichiarazioni rese dal teste sono state confermate, nella sostanza, anche dal teste G.T. che ha confermato, con dovizia di particolari, le circostanze oggetto dei capitoli di prova di parte convenuta.

4. Alla luce delle univoche risultanze delle prove orali assunte, deve pertanto ritenersi che l’incontro tra l’Agenzia Immobiliare e la convenuta non ha apportato alcun contributo causale nella conclusione dell’affare, poiché quest’ultimo è stato raggiunto solo per effetto della nuova iniziativa posta in essere dall’Agenzia G. e non è in nessun modo ricollegabile ai precedenti incontri avuti con l’agenzia attrice o da questi condizionato. In altre parole, l’attività svolta dall’attrice non ha costituito nemmeno l’antecedente indispensabile che, attraverso le successive vicende, ha condotto (o ha contribuito a condurre) alla conclusione del contratto, né le parti l’hanno valorizzata in alcun modo.
Ed invero, la convenuta, all’esito degli incontri avuti con la agenzia attrice, era certamente determinata a non acquistare l’immobile a causa del costo eccessivo proposto e della necessità di effettuare opere di ristrutturazione sull’immobile.
L’Agenzia Immobiliare, del resto, a fronte del disinteresse dimostrato dalla Sig.ra L.P., non avvertì nemmeno i proprietari dell’immobile del possibile affare che poteva essere concluso con la convenuta: i sig.ri M. G. furono invece contattati dall’Agenzia G., che, unica, mise dunque in contatto i due contraenti.
In altri termini, l’attrice non ha nemmeno messo in relazione le parti del successivo accordo contrattuale.
Significativo è inoltre il fatto che il disinteresse della convenuta per l’acquisto dell’immobile permaneva inizialmente anche quando l’Agenzia G. le propose l’acquisto della villetta già visionata nell’incontro avuto con l’agenzia attrice.
Tale originario disinteresse anche al momento dei primi contatti con l’Agenzia G. dimostra che fu solo per effetto dell’intervento di tale seconda agenzia che la convenuta si determinò all’acquisto.
Ed invero, dalle testimonianze riportate è dato evincere non solo il fatto che fu l’Agenzia G. a mettere in contatto la convenuta con gli acquirenti, ma anche che fu grazie alla sua articolata attività di mediazione che la convenuta superò l’originario disinteresse e vennero appianati i contrasti tra i futuri contraenti circa gli elementi essenziali del contratto. In particolare, durante le trattative svolte presso l’Agenzia G. alla presenza del titolare o del figlio, le, parti raggiunsero l’accordo sul prezzo – originariamente troppo alto per la Sig.ra L.P. – e si accordarono anche sulla possibilità per la convenuta di prendere possesso immediatamente dell’immobile per potere effettuare fin da subito le opere di ristrutturazione.
All’esito delle trattative, poi, fu l’Agenzia G. a redigere il contratto preliminare cui furono introdotte alcune clausole confacenti alle esigenze di entrambi i contraenti: a fronte della disponibilità dei promittenti venditori di dare alla promissaria acquirente il possesso anticipato dell’immobile per eseguire fin da subito i lavori, l’Agenzia G. convinse la convenuta a stipulare una polizza assicurativa a copertura dei possibili danni che potevano verificarsi nel corso dei lavori.
L’Agenzia G. si occupò addirittura della presentazione della comunicazione di passaggio della proprietà all’autorità di polizia dopo la stipulazione del rogito.
Ad ulteriore dimostrazione dell’esclusiva rilevanza causale dell’attività di mediazione svolta dell’Agenzia G. è la circostanza che mai l’agenzia attrice ha chiesto ai proprietari dell’immobile il pagamento della provvigione, evidentemente consapevole del fatto che l’acquisto non era dipeso dalla sua attività che era sfociata solamente nella visita dell’immobile, nelle visione delle planimetrie e nel rilascio dei propri dati personali da parte della convenuta
Questi ultimi elementi non consentono di affermare che l’attrice abbia quanto meno concorso con la sua attività di mediazione a determinare la conclusione dell’affare, e ciò si ribadisce, alla luce del fatto che in assenza della determinante attività svolta dall’Agenzia G. in maniera del tutto autonoma rispetto a quella della agenzia attrice, la convenuta non si sarebbe in alcun modo decisa ad acquistare l’immobile.
In altri termini, la mediazione dell’Agenzia G rappresenta la causa esclusiva della conclusione dell’altare.
Deve peraltro osservarsi che tra gli elementi sopra indicati, sulla base dei quali l’attrice vorrebbe dimostrare la fondatezza del -proprio assunto, non sono nemmeno dimostrati.
Se infatti è certo che vi siano stati due incontri (il primo presso l’agenzia e il secondo anche presso l’immobile per cui è causa), diretta tuttavia la prova sia del fatto che l’attrice abbia fornito le planimetrie alla convenuta, sia del fatto che essa abbia sottoscritto il modello di raccolta dati con quel contenuto.
Quanto alle planimetrie, infatti, pur avendo la convenuta affermato, in sede di interrogatorio formale, di avere visto le planimetrie non ha dichiarato di averle ricevute, perché non era in grado di ricordare tale circostanza; quanto al modello raccolta dati, la convenuta ha tempestivamente disconosciuto la conformità della copia all’originale e l’attrice non ha dimostrato con gli ordinari mezzi di prova.
Conclusivamente, per tutte le ragioni sopra esposte la domanda attorea deve essere rigettata.
5. Le spese di lite, come meglio liquidate in dispositivo, seguono il principio della soccombenza.

P.Q.M.

il Tribunale, definitivamente pronunciando nella causa n. 000/00 r.g., promossa da Agenzia Immobiliare nei confronti di L.P., ogni diversa istanza ed eccezione, così provvede:
1) rigetta la domanda attorea;
2) dichiara tenuta e condanna parte attrice a rifondere alla convenuta le spese di lite che si liquidano in complessivi € 6.175,60 di cui C 25,60 per spese oltre IVA, CPA e spese generali come per legge.
Reggio Emilia.
Il Giudice

I contratti di locazione ai tempi del Coronavirus

Per approfondire la recente riflessione sugli effetti prodotti dalla pandemia coronavirus sui contratti in corso, sembra utile circoscrivere ora la disamina degli effetti della situazione di emergenza all’ambito delle locazioni, ovviamente di natura commerciale (ivi comprese le attività artigianali e industriali).

La situazione, in continuo divenire per il susseguirsi dei Decreti presidenziali che comportano limitazioni e divieti sempre più rigidi, impone adeguamenti anche sul piano degli effetti che i provvedimenti possono spiegare sui rapporti contrattuali in corso.

In effetti molte attività commerciali/imprenditoriali sono da qualche tempo, o anche soltanto da ora, costrette all’inattività per un arco di tempo che può variare da alcune settimane a qualche mese in funzione dell’evoluzione degli eventi. Resta il problema degli oneri correnti: imposte, tasse, stipendi, rate dei finanziamenti e, tra gli altri, anche canoni e affitti. Le preoccupazioni crescono.

Il quesito che assilla conduttori e locatori, dunque, è se i primi possono sospendere il pagamento del canone di locazione o addirittura recedere dal rapporto.

Per un inquadramento sistematico è opportuno tenere ben presente che andiamo ad occuparci di contratti c.d. di durata in quanto caratterizzati dalla peculiarità della prestazione continuata o periodica.
Si tratta ora di vedere quali possono essere gli effetti di una causa di forza maggiore quale innegabilmente deve essere considerata la pandemia da coronavirus – dovuta a circostanze sopravvenute e imprevedibili – in assenza di espresse previsioni contrattuali.

Vanno considerati in premessa i seguenti punti fermi:

  • il conduttore non può sospendere il pagamento del canone per nessuna ragione, salvo il caso in cui l’immobile sia materialmente inutilizzabile;
  • l’impossibilità di svolgere l’attività non è imputabile ad alcuna delle parti stante l’emergenza straordinaria di tutela della salute;
  • l’immobile resta nella pacifica disponibilità del conduttore, che può utilizzarlo, tuttavia non ne può godere a fini di svolgere l’attività.

Vediamo quindi cosa può accadere, nel presupposto naturalmente che sia interesse del conduttore continuare a mantenere la disponibilità dell’immobile, laddove cioè gli eventi siano considerati meramente temporanei e vi siano i presupposti per mantenere vivo il rapporto.

Tradurre i divieti disposti dai DPCM in termini di impossibilità di una prestazione tipica del locatore o del conduttore quantomeno nel contratto di locazione commerciale, potrebbe apparire problematico in quanto il conduttore continua ad avere la disponibilità dell’immobile. Diversamente accade per i contratti di affitto d’azienda, laddove l’impossibilità di esercitare certe attività incide direttamente, rendendola di fatto impossibile, sulla prestazione principale dell’affittante, consistente nella messa a disposizione di un complesso di beni e rapporti giuridici organizzati per lo svolgimento di un’attività d’impresa. In questi casi viene meno l’utilità funzionale che costituisce il cuore della prestazione contrattuale dell’affittante che diviene, in questo modo, pacificamente impossibile.

Nella locazione commerciale, per contro, i divieti non incidono sulla prestazione principale del locatore, ovvero la messa a disposizione di locali genericamente idonei all’uso che ne è consentito ai sensi del contratto. L’impedimento non ha alcuna attinenza all’immobile in cui si svolge l’attività, alle sue caratteristiche o alla sua idoneità all’uso pattuito. È difficile, però, negare che i divieti incidano direttamente o indirettamente sull’attività del conduttore, sebbene a prescindere dalla prestazione locatore.

Esclusa, dunque, la possibilità di rinvenire nella disciplina specifica della locazione la regola che consente di sospendere il pagamento del canone, è nella disciplina generale delle obbligazioni e contratti a cui occorre fare riferimento per dare una risposta. A questo proposito vengono in considerazione le norme di cui agli artt. 1256 e 1467 del codice civile, che disciplinano rispettivamente i casi di impossibilità sopravvenuta e di eccessiva onerosità sopravvenuta.

L’impossibilità sopravvenuta rappresenta una causa di legittima estinzione dell’obbligazione o, a seconda dei casi, di giustificazione del ritardo nell’adempimento. Naturalmente, l’impossibilità, per essere giuridicamente rilevante, deve essere riconducibile a un evento eccezionale imprevedibile, estraneo all’ambito di una azione del debitore e idoneo a provocare un impedimento obiettivo e insormontabile allo svolgimento della prestazione. Occorre pertanto distinguere.

Nei casi in cui per effetto dell’epidemia e a maggior ragione dei provvedimenti del governo al conduttore fosse impedito di esercitare l’attività, secondo anche i precedenti giurisprudenziali, appare legittima la sospensione del pagamento del canone di locazione. Soccorre in tema di epidemia un precedente giurisprudenziale rappresentato dalla pronuncia della Corte di Cassazione: “eventi sopravvenuti alla stipula del contratto, quali l’imperversare di un’epidemia nel luogo prescelto per le vacanze, incidendo negativamente sulla sicurezza del soggiorno e, quindi, sulla “finalità turistica” del viaggio, comportano l’estinzione del contratto per sopravvenuta irrealizzabilità della causa concreta dello stesso”. I giudici di legittimità, nella fattispecie, hanno ritenuto che il venir meno dell’interesse creditorio dovuto alla sopravvenuta irrealizzabilità della causa concreta del contratto, infatti, comporta l’estinzione di quest’ultimo anche nell’ipotesi in cui la prestazione dedotta in obbligazione sia astrattamente ancora eseguibile.

Tuttavia, non è affatto scontato che, sotto il profilo causale, la chiusura temporanea dell’attività (e a maggior ragione l’incidenza indiretta, per le attività non sospese, sulla sua redditività) renda radicalmente impossibile la prestazione principale del conduttore consistente nel pagamento del canone di locazione e delle spese accessorie. Occorre, infatti, puntualizzare che non è impossibile la prestazione che possa essere adempiuta con la normale diligenza e che, in sede di giudizio, potrebbe non essere ritenuta giustificazione sufficiente la mancanza (o, peggio ancora, la mera riduzione) di ricavi limitata (come speriamo) a qualche settimana. La giurisprudenza, soprattutto di merito, conforta questo indirizzo.
Sarà, quindi, più complesso invocare l’impossibilità sopravvenuta nel caso di attività sulle quali i DPCM incidano solo indirettamente, quali gli esercizi commerciali che rientrano nelle eccezioni alla sospensione generalizzata. In questi casi sarà più difficile affermare che sia venuta radicalmente meno la possibilità di fruire della prestazione del locatore e il conduttore dovrà attrezzarsi per fornire la prova rigorosa che l’applicazione delle disposizioni ha determinato l’impossibilità di fatto di poter fruire della prestazione del locatore.

Nondimeno, gli esercizi che siano rimasti aperti, così fruendo dell’immobile, sia pure in circostanze che hanno inciso pesantemente sulla redditività del suo utilizzo, potranno invocare una riduzione del canone invocando le difficoltà causate dai limiti di circolazione delle persone e dal calo della domanda. Dovranno però fornire prova della riduzione delle entrate.

Quanto agli uffici, è indubbio che, per un ampio numero di attività amministrative e professionali, il ricorso allo smart working li sta di fatto svuotando, rendendo alquanto limitato il beneficio della loro disponibilità in virtù del rapporto locativo. In questi casi un giudice potrebbe essere meno incline ad assecondare le ragioni di quegli operatori che siano comunque riusciti ad assicurare la propria operatività tramite lo smart working. Pare più giustificata una domanda di riduzione dei canoni proporzionata al mancato godimento piuttosto che una sospensione “tout court” del loro pagamento.

V’è poi da prendere in esame il caso della eccesiva onerosità sopravvenuta, che comporta una grave alterazione tra il valore delle prestazioni corrispettive con conseguenze persistenti e non soltanto passeggere. In questo caso, stante la causa di forza maggiore determinata dalla pandemia, è possibile invocare la risoluzione del contratto ex art. 1467 cc (fatto salvo l’onere della prova dello squilibrio tra le prestazioni che compete al conduttore e la facoltà del conduttore di evitare la risoluzione offrendo un’equa modificazione delle condizioni contrattuali), o esercitare il recesso per gravi motivi ex art. 27, u.c., della L. 392/1978.

In conclusione, stante l’eccezionalità della situazione, pare produttivo suggerire sempre al conduttore – dopo avere compiuto una specifica analisi della situazione contrattuale e in presenza dei presupposti dianzi illustrati – di formalizzare al proprietario, mediante lettera raccomandata, una richiesta di sospensione del canone di locazione per tutta la durata dell’emergenza sanitaria. Il locatore, infatti, in difetto del pagamento dei canoni, sarebbe legittimato ad agire per recuperarli e anche a promuovere il procedimento di sfratto per morosità. La tempestiva formalizzazione al locatore, con le adeguate motivazioni, di sopravvenuta impossibilità di adempiere agli obblighi contrattuali per cause di forza maggiore favorirebbe il dialogo tra le parti e la possibilità di una soluzione negoziale che contempli una sospensione o una riduzione del canone.

Del pari, come anticipato, in caso di eccessiva onerosità sopravvenuta è sempre possibile evitare la risoluzione del contratto, offrendo un’equa modificazione delle condizioni.

Certo è che la fondatezza in diritto di richieste di sospensione o riduzione del canone o addirittura di rinegoziazione dei contratti, dipenderà molto dalla durata della crisi e dalla portata dei suoi effetti sull’andamento dell’economia, e, caso per caso, sugli affari dei singoli operatori. Come osservato, la ragionevolezza del ricorso alle disposizioni che consentono di giustificare tali pretese si fonda su un giudizio di insostenibilità delle condizioni economiche del contratto per effetto dell’impatto significativo, strutturale e perdurante delle circostanze invocate.

Reati edilizi. Omessa denuncia, reati antisismici, circolari amministrative

 Cassazione penale, sezione III, sentenza 18 maggio 2017, n. 24585

<< In tema di reati antisismici, la contravvenzione di cui agli artt. 93 e 95 del D.P.R. n. 380 del 2001 è applicabile a tutte le opere realizzate in zona sismica, indipendentemente dalla funzione statica dalle stesse svolte; né può rilevare un’eventuale buona fede dell’imputato per essersi uniformato ad una circolare amministrativa, occorrendo la dimostrazione che questi versasse in una situazione di errore scusabile, tenuto conto del consolidato indirizzo interpretativo della giurisprudenza di legittimità in materia di obblighi di informazione sulla normativa settoriale >>

Agli imputati era stato contestato di avere omesso di presentare allo Sportello unico per l’edilizia la denuncia delle opere strutturali, realizzate in zona sismica, consistenti in un muro di confine, in piloni di sostegno di un cancello, in un muretto di recinzione su strada prima di procedere al loro inizio. Era emerso che i manufatti, costruiti in cemento armato, non erano destinati ad assolvere alcuna funzione statica e che, per tale motivo, gli imputati avevano ritenuto di non dovere presentare preventivamente la denuncia prevista dall’art. 65 del d.p.r. n. 380/2001. Il Tribunale di Asti aveva assolto gli imputati ritenendo l’errore scusabile.

Il primo giudice ha ritenuto , che gli stessi sarebbero incorsi in errore scusabile per avere deciso di non presentare la denuncia allo Sportello unico sulla base della Circolare del Ministero dei lavori pubblici 14/02/1974, n. 11951, non essendo gli stessi tenuti a conoscere il contrario indirizzo della giurisprudenza di legittimità, che affermerebbe, in siffatte ipotesi, la rilevanza penale dell’omissione della denuncia e, per converso, l’irrilevanza delle eventuali previsioni difformi da parte delle circolari amministrative.

La corte di Cassazione, in riforma dell’impugnata sentenza è giunta alla conclusione che deve escludersi qualunque rilevanza, sotto il profilo scusante, a quanto stabilito dalla Circolare del Ministero dei lavori pubblici 14/02/1974, n. 11951 (che, secondo la Corte, riguardava tutt’altro oggetto rispetto alla problematica qui, in rilievo: ovvero l’obbligatorietà della preventiva denuncia di opere in cemento armato inidonee ad assolvere una funzione statica e non, come invece sarebbe stato necessario, l’obbligatorietà della comunicazione connessa alla sismicità dell’area interessata dall’intervento edificatorio.).

Gli ermellini hanno tenuto a ribadire che, se per un verso non può in assoluto escludersi che la presenza di determinate circolari amministrative possa contribuire a delineare un quadro regolativo confuso e scarsamente idoneo a orientare il comportamento dei consociati, occorre pur sempre affermarsi che nelle fattispecie contravvenzionali la buona fede può acquistare rilevanza giuridica solo a condizione che essa si traduca nella mancanza di consapevolezza dell’illiceità del fatto e che derivi da un elemento positivo estraneo all’agente, consistente in una circostanza che induca alla convinzione della liceità del comportamento tenuto, la prova della sussistenza del quale deve essere fornita dall’imputato, unitamente alla dimostrazione di avere compiuto tutto quanto poteva per osservare la norma violata.

Testo integrale della sentenza

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 7 febbraio – 18 maggio 2017, n. 24585
Ritenuto in fatto

  1. Con sentenza in data 4/07/2016 il Tribunale di Asti aveva assolto, con la formula “perché il fatto non costituisce reato”, M.N. , S.G. e Ma.Sa. in relazione ai reati di cui agli artt. 71 (capo a) e 93 e 95 (capo b) del d.p.r. n. 380 del 2001, per avere: la prima in qualità di committente, il secondo di esecutore ed il terzo di direttore dei lavori, eseguito opere in conglomerato cementizio armato – consistenti in un muro di confine, in piloni di sostegno del cancello, in un muretto di recinzione su strada – in violazione dell’art. 64, commi 2, 3 e 4, nonché per avere omesso di presentare allo Sportello unico per l’edilizia la denuncia delle predette opere strutturali prima del loro inizio; fatti accertati in (omissis) .

1.1. Secondo il primo giudice, infatti, pur essendo stata pacificamente dimostrata la realizzazione delle opere sopra menzionate, dall’istruttoria dibattimentale era, altresì, emerso che i manufatti, costruiti in cemento armato, non erano destinati ad assolvere alcuna funzione statica e che, per tale motivo, gli imputati avevano ritenuto di non dovere presentare preventivamente la denuncia prevista dall’art. 65 del d.p.r. n. 380/2001 per le opere in conglomerato cementizio armato, che l’art. 53, comma 1 considera come tali, appunto, solo quando assolvano ad una funzione statica. Sulla base della riportata interpretazione della normativa di riferimento, avallata dalla Circolare del Ministero dei lavori pubblici 14/02/1974, n. 11951, gli imputati si erano, dunque, consapevolmente determinati a non presentare la denuncia in questione, incorrendo in un errore scusabile, siccome indotto da una normativa suscettibile di differenti opzioni esegetiche e non potendo attribuirsi rilievo dirimente al contrario indirizzo della giurisprudenza di legittimità, che gli imputati non sarebbero stati tenuti a conoscere. 2. Avverso la predetta sentenza ha presentato ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Asti, deducendo, con un unico motivo di impugnazione proposto ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b) cod. proc. pen., l’inosservanza o erronea applicazione della legge penale in relazione alla sola contravvenzione di cui agli artt. 93 e 95 del d.p.r. n. 380 del 2001 contestata al capo b). Ciò sul presupposto che tale figura di reato sia applicabile a tutte le opere realizzate in zona sismica, indipendentemente dalla funzione statica dalle stesse svolte; e non essendo stato, per altro verso, dimostrato che gli imputati versassero, nella specie, in una situazione di errore scusabile, anche tenuto conto del consolidato indirizzo interpretativo della giurisprudenza di legittimità in materia di obblighi di informazione sulla normativa settoriale.

Considerato in diritto

  1. Il ricorso è fondato. 2. Con la fattispecie descritta al capo b) della rubrica è stato contestato agli imputati di avere omesso di presentare allo Sportello unico per l’edilizia la denuncia delle opere strutturali indicate al capo a) – consistenti di un muro di confine, dei piloni di sostegno di un cancello, di un muretto di recinzione su strada – prima di procedere al loro inizio. Come correttamente posto in luce dal ricorrente, la contravvenzione de qua sanziona, al comma 1, l’omesso preavviso scritto allo sportello unico delle “costruzioni, riparazioni e sopraelevazioni” alla cui presentazione è tenuto chiunque intenda procedervi “nelle zone sismiche di cui all’articolo 83”. Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di questa Corte il reato in contestazione resta integrato indipendentemente sia dalle caratteristiche dell’opera edilizia, che può consistere in qualsiasi intervento edilizio – con la sola eccezione di quelli di semplice manutenzione ordinaria – effettuato in zona sismica, comportante o meno l’esecuzione di opere in conglomerato cementizio armato (Sez. 3, n. 48005 del 17/09/2014, dep. 20/11/2014, Gulizzi e altro, Rv. 261155), sia dal grado di sismicità dell’area, essendo il reato de quo configurabile anche in caso di esecuzione di lavori in zona inclusa tra quelle a basso indice sismico (v. Sez. 3, n. 22312 del 15/02/2011, dep. 6/06/2011, Morini, Rv. 250369). Ne consegue che, già sotto il profilo dell’elemento oggettivo, la sentenza impugnata si mostra gravemente carente, essendosi la stessa soffermata unicamente sulle caratteristiche dell’opera in rapporto alla sua funzione statica ed ai conseguente obbligo di denuncia, senza in alcun modo affrontare il concorrente profilo della sismicità dell’area interessata dall’intervento, la quale avrebbe, dunque, imposto di ottemperare agli obblighi comunicativi. 3. Sotto altro aspetto, si è opinato, da parte della difesa degli imputati, e il primo giudice ha condiviso tale prospettazione, che gli stessi sarebbero incorsi in errore scusabile per avere deciso di non presentare la denuncia allo Sportello unico sulla base della Circolare del Ministero dei lavori pubblici 14/02/1974, n. 11951, non essendo gli stessi tenuti a conoscere il contrario indirizzo della giurisprudenza di legittimità, che affermerebbe, in siffatte ipotesi, la rilevanza penale dell’omissione della denuncia e, per converso, l’irrilevanza delle eventuali previsioni difformi da parte delle circolari amministrative. 3.1. Sul punto, osserva il Collegio che la consolidata produzione giurisdizionale di questa Corte è ormai pervenuta ad affermare, sulla scia della fondamentale sentenza n. 368/88 della Corte costituzionale, che nelle fattispecie contravvenzionali la buona fede può acquistare rilevanza giuridica solo a condizione che essa si traduca nella mancanza di consapevolezza dell’illiceità del fatto e che derivi da un elemento positivo estraneo all’agente, consistente in una circostanza che induca alla convinzione della liceità del comportamento tenuto, la prova della sussistenza del quale deve essere fornita dall’imputato, unitamente alla dimostrazione di avere compiuto tutto quanto poteva per osservare la norma violata (Sez. 3, n. 35314 del 20/05/2016, dep. 23/08/2016, P.M. in proc. Oggero, Rv. 268000; Sez. 4, n. 9165 del 5/02/2015, dep. 2/03/2015, Felli, Rv. 262443; Sez. 3, n. 42021 del 18/07/2014, dep. 9/10/2014, Paris, Rv. 260657; Sez. 3, n. 49910 del 4/11/2009, dep. 30/12/2009, Cangialosi e altri, Rv. 245863; Sez. 3, n. 46671 del 5/10/2004, dep. 1/12/2004, Sferlazzo, Rv. 230889; Sez. 3, n. 12710 del 29/11/1994, dep. 21/12/1994, D’Alessandro, Rv. 200950). Ciò sul presupposto che gli inderogabili doveri di solidarietà sociale stabiliti dall’art. 2 Cost. impongono al destinatario di una determinata normativa di adempiere a stringenti oneri informativi, i quali richiedono che, prima di porre in essere l’attività disciplinata da specifiche disposizioni, egli si adoperi per sciogliere i dubbi che eventualmente concernano il lecito svolgimento di essa o le particolari modalità previste per la sua esecuzione. Ora, se per un verso non può in assoluto escludersi che la presenza di determinate circolari amministrative possa contribuire a delineare un quadro regolativo confuso e scarsamente idoneo a orientare il comportamento dei consociati (rientrando, l’ipotesi delle circolari, tra gli esempi offerti dalla citata sentenza n. 364/88 per configurare una situazione di scarsa perspicuità dell’assetto normativo, tale eventualmente determinare un errore scusabile), deve nondimeno rilevarsi che, nel caso di specie, le circolari invocate riguardavano, come già osservato (v. supra § 2), tutt’altro oggetto rispetto alla problematica che viene, qui, in rilievo: ovvero l’obbligatorietà della preventiva denuncia di opere in cemento armato inidonee ad assolvere una funzione statica e non, come invece sarebbe stato necessario, l’obbligatorietà della comunicazione connessa alla sismicità dell’area interessata dall’intervento edificatorio. Consegue a quanto appena rilevato che, in ogni caso, anche sotto questo dirimente profilo, deve escludersi qualunque rilevanza, sotto il profilo scusante, a quanto stabilito dalla cennata circolare e, corrispondentemente, al convincimento maturato dagli imputati alla stregua delle sue disposizioni. 4. Alla luce delle considerazioni che precedono, il ricorso deve essere accolto, sicché la sentenza impugnata deve essere annullata limitatamente al reato di cui al capo b), con rinvio ai Tribunale di Asti.

P.Q.M.

annulla la sentenza impugnata limitatamente al reato di cui al capo b) e rinvia al Tribunale di Asti.

 

Locazioni. Il malcostume del conduttore che cerca di sottrarsi al pagamento dei canoni per i mesi che precedono il rilascio dell’immobile

“…. il pagamento dei canoni è dovuto fino alla scadenza del termine semestrale di preavviso, indipendentemente dal fatto che il rilascio sia avvenuto in un momento anteriore”

Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 3, ordinanza 6 aprile – 24 maggio 2017, n. 13092

Fatto e diritto

Rilevato che: comunicata dalla locatrice disdetta di un contratto ad uso diverso per la scadenza del 30.6.2012, i conduttori hanno manifestato, con missiva del 29.7.2011, la volontà di rilasciare anticipatamente l’immobile, provvedendovi nel mese di agosto 2011 e omettendo di pagare ulteriori canoni di locazione; la Corte di Appello – come già il Tribunale – ha individuato nella comunicazione del 29.7.2011 una manifestazione di recesso per gravi motivi e ha confermato la condanna dei conduttori al pagamento dei canoni per mancato preavviso; ricorrono per cassazione i soccombenti, denunciando – con unico motivo – la violazione e falsa applicazione degli artt. 27 I. n. 392/1978 e 1453 cod. civ.. Considerato che: una volta che il locatore abbia comunicato – con la disdetta – la volontà di non rinnovare il contratto, non può riconoscersi al conduttore la facoltà di sottrarsi – mediante rilascio anticipato e in mancanza di diverso accordo col locatore – al pagamento del canone dovuto fino alla scadenza (cfr. Cass. n. 17681/2011, conforme a Cass. n. 19478/2005); peraltro, resta salva la possibilità per il conduttore di esercitare (ove ne ricorrano le condizioni) il recesso per gravi motivi, con obbligo di pagamento dei canoni fino alla scadenza del termine semestrale di preavviso, indipendentemente dal momento (eventualmente anteriore) di materiale rilascio dell’immobile (cfr. Cass. n. 25136/2006 e Cass. n. 12157/2016); ne consegue che, intervenuta la disdetta del locatore, il conduttore è tenuto al pagamento dei canoni fino alla scadenza del contratto, salva la possibilità di esercitare ricorrendone le condizioni – il recesso per gravi motivi ex art. 27, ult. co. L. n. 392/78 e fermo restando che, in questo caso, il pagamento dei canoni è dovuto fino alla scadenza del termine semestrale di preavviso, indipendentemente dal fatto che il rilascio sia avvenuto in un momento anteriore. La Corte di merito si è attenuta a questi principi, effettuando una lettura della comunicazione della parte conduttrice in termini di esercizio del recesso che risulta del tutto plausibile e che non ha affatto pregiudicato la posizione degli odierni ricorrenti (giacché, in caso diverso, i conduttori sarebbero rimasti tenuti al pagamento dei canoni fino alla naturale scadenza del contratto conseguente alla disdetta); il ricorso va pertanto rigettato, con condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese di lite; trattandosi di ricorso proposto successivamente al 30.1.2013, sussistono le condizioni per l’applicazione dell’art. 13, comma 1 quater del D.P.R. n. 115/2002.

P.Q.M.

la Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido, a rifondere alla controricorrente le spese di lite, liquidate in Euro 2.300,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 e agli accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13. Motivazione semplificata.

Appalto. La garanzia decennale per gravi difetti è dovuta solo per le opere di iniziale fabbricazione o anche per le opere postume di ristrutturazione dell’edificio ? Cassazione Sez. Un. Civili, 27 Marzo 2017, n. 7756

 

“L’art. 1669 c.c. è applicabile, ricorrendone tutte le altre condizioni, anche alle opere di ristrutturazione edilizia e, in genere, agli interventi manutentivi o modificativi di lunga durata su immobili preesistenti, che (rovinino o) presentino (evidente pericolo di rovina o) gravi difetti incidenti sul godimento e sulla normale utilizzazione del bene, secondo la destinazione propria di quest’ultimo“.

All’affermazione di questo importante principio le Sezioni Unite della Corte di Cassazione – chiamate a dirimere un contrasto giurisprudenziale – sono giunte a conclusione di un esauriente analisi esegetica e dell’evoluzione giurisprudenziale,  convenendo che anche ove i gravi vizi riguardino opere non di nuova  costruzione, ma più limitate, aventi ad oggetto riparazioni straordinarie, ristrutturazioni, restauri o altri interventi di natura edilizia, può essere  invocata la garanzia decennale dovuta dall’appaltatore  ai sensi dell’’art. 1669 c.c.

Nella fattispecie, alcuni condomini avevano evocato in giudizio l’impresa appaltatrice che aveva eseguito opere di ristrutturazione edilizia sull’edificio condominiale ( afferenti scale interne, balconi e sottotetti) per ottenere il risarcimento dei danni dovuti a gravi difetti che si erano manifestati a seguito di detti lavori .

Invero,  la Corte già in passato aveva ritenuto più volte applicabili le regole disciplinate dall’art 1669 cc a prescindere dal fatto che i vizi, purchè gravi, riguardassero opere riguardanti “costruzioni nuove”.

La casistica in proposito, come segnala la Corte, è moto ampia e, senza pretesa di essere esaurienti, non è inutile segnalare che sono  stati ritenuti gravi difetti dell’opera, rilevanti ai fini dell’art. 1669 c.c: la pavimentazione interna ed esterna di una rampa di scala e di un muro di recinzione (sentenza n. 2238/12); opere di pavimentazione e di impiantistica (n. 1608/00); infiltrazioni d’acqua, umidità nelle murature e in generale problemi rilevanti d’impermeabilizzazione (nn. 84/13, 21351/05, 117/00, 4692/99, 2260/98, 2775/97, 3301/96, 10218/94, 13112/92, 9081/92, 9082/91, 2431/86, 1427/84, 6741/83, 2858/83, 3971/81, 3482/81, 6298/80, 4356/80, 206/79, 2321/77, 1606/76 e 1622/72); un ascensore panoramico esterno ad un edificio (n. 20307/11); l’inefficienza di un impianto idrico (n. 3752/07); l’inadeguatezza recettiva d’una fossa biologica (n. 13106/95); l’impianto centralizzato di riscaldamento (nn. 5002/94, 7924/92, 5252/86 e 2763/84); il crollo o il disfacimento degli intonaci esterni dell’edificio (nn. 6585/86, 4369/82 e 3002/81, 1426/76); il collegamento diretto degli scarichi di acque bianche e dei pluviali discendenti con la condotta fognaria (n. 5147/87); infiltrazioni di acque luride (n. 2070/78). Dunque la Corte ha ritenuto che lo scopo della norma ( operando una ricostruzione storica della norma a far luogo dal codice napoleonico  attraverso il codice civile del 1865 sino a  quello odierno) sia quello di garantire il pacifico godimento dell’immobile secondo la sua propria destinazione.

Secondo la logica sottesa a tali argomentazioni giuridiche è del tutto indifferente che i gravi difetti riguardino una costruzione interamente nuova o un’opera edile ristrutturata, essendo irrazionale la previsione di un trattamento diverso tra fabbricazione iniziale e ristrutturazione edilizia, dato che entrambe potrebbero essere foriere di gravi pregiudizi.

Testo della sentenza

 Corte di Cassazione, sez. Unite Civili, sentenza 10 gennaio – 27 marzo 2017, n. 7756 Presidente Di Palma – Relatore Manna

Svolgimento del processo

Gli odierni ricorrenti, partecipanti tutti al condominio di via (omissis) , convenivano in giudizio innanzi al locale Tribunale la società venditrice Fonte Sajano s.r.l. e la società P.F. e C. s.n.c., che su incarico di quest’ultima aveva eseguito sull’edificio interventi di ristrutturazione edilizia. Domandavano la condanna delle società convenute, in solido tra loro, al risarcimento dei danni consistenti in un esteso quadro fessurativo esterno ed interno delle pareti del fabbricato ed altri gravi difetti di costruzione. Nel resistere in giudizio entrambe le convenute chiamavano in causa la società che aveva eseguito gli intonaci, la Edilcentro s.r.l., per esserne tenute indenni. Nella contumacia della società chiamata in causa, il Tribunale, ritenuta la ricorrenza di gravi difetti dell’opera, accoglieva la domanda e condannava le società convenute al pagamento della somma di Euro 71.503,50, a titolo di responsabilità per danni ex art. 1669 c.c.. Impugnata dalla P.F. e C. s.n.c., tale decisione era ribaltata dalla Corte d’appello di Ancona, che con sentenza pubblicata il 12.7.2012 rigettava la domanda. Richiamato il precedente di Cass. n. 24143/07, la Corte territoriale osservava che ai fini dell’applicazione dell’art. 1669 c.c. la costruzione di un edificio o di altra cosa immobile destinata a lunga durata costituisce presupposto e limite della responsabilità dell’appaltatore. E poiché nella specie erano stati eseguiti solo interventi di ristrutturazione edilizia (con cambiamento di destinazione d’uso da ufficio ad abitazione), comprendenti la realizzazione di nuovi balconi ai primi due piani, di una scala in cemento armato e di nuovi solai ai sottotetti, non si trattava della nuova costruzione di un’immobile, ma di una mera ristrutturazione. Di qui l’inapplicabilità della norma anzi detta. La cassazione di questa sentenza è chiesta dagli odierni ricorrenti sulla base di un solo motivo. Vi resiste con controricorso la P.F. & C. s.n.c.. La Fonte Sajano s.r.l. in liquidazione e la Edilcentro s.r.l. non hanno svolto attività difensiva. La terza sezione civile di questa Corte, ravvisando un contrasto di giurisprudenza sulla riconducibilità all’art. 1669 c.c. anche delle opere edilizie eseguite su di un fabbricato preesistente, ha rimesso la causa al primo Presidente, che l’ha assegnata a queste Sezioni unite. Entrambe le parti, ricorrente e controricorrente, hanno depositato memoria.

Motivi della decisione

  1. – Con l’unico motivo di ricorso parte ricorrente deduce la “violazione e falsa applicazione dell’art. 1669 c.c. in relazione all’art. 360, nn. 3 e 5 c.p.c.”. Espone che la sentenza impugnata avrebbe erroneamente ritenuto che la ristrutturazione edilizia di un fabbricato non possa rientrare nella previsione dell’art. 1669 c.c.; lamenta che la Corte territoriale abbia omesso di motivare sull’entità dei lavori di ristrutturazione del fabbricato, nonché sulla consistenza e sulla rilevanza dei vizi accertati dal c.t.u.; deduce che) rispetto al caso esaminato da Cass. n. 24143/07, quello in oggetto concerne interventi edilizi di carattere straordinario riconducibili all’ipotesi di cui all’art. 1669 c.c.; e richiama, tra altre pronunce di questa Corte, Cass. n. 18046/12 per affermare che la ridetta norma è applicabile non solo alle nuove costruzioni, ma anche alle opere di ristrutturazione immobiliare e a quelle che siano comunque destinate ad avere lunga durata. 2. – Sotto quest’ultimo profilo, quello dell’ambito oggettivo coperto dall’art. 1669 c.c., l’ordinanza interlocutoria della terza sezione rileva un contrasto nella giurisprudenza di questa Corte (precisamente all’interno della seconda sezione). E senza mostrare di voler prendere partito per l’una o l’altra tesi, quella che esclude o quella che afferma l’applicabilità dell’art. 1669 c.c. anche alle ristrutturazioni immobiliari, ritiene che emerga ad ogni modo un contrasto sui principi di diritto affermati, al di là delle possibili peculiarità “fattuali” delle singole situazioni esaminate. 2.1. – Sulla peculiare questione in oggetto anche la dottrina mostra di dividersi. Pacifica l’applicabilità dell’art. 1669 c.c. ai casi di ricostruzione o di costruzione di una nuova parte dell’immobile, come ad esempio la sopraelevazione, che è essa stessa una “nuova costruzione”, prevale l’opinione dell’estensibilità della norma anche alle ipotesi di interventi di tipo manutentivo – modificativo che debbano avere una lunga durata nel tempo. Ciò sia nel caso in cui a seguito delle riparazioni o delle modifiche collassi l’intera e preesistente struttura immobiliare, indipendentemente dall’importanza in sé della parte riparata o modificata, sia ove la rovina o i gravi difetti riguardino direttamente quest’ultima. Ed escluse le riparazioni non di lunga durata, come quelle ordinarie, e quelle aventi ad oggetto parti strutturali anch’esse non destinate a conservarsi nel tempo, deve dunque ammettersi l’applicazione dell’art. 1669 c.c. nelle situazioni inverse. Si osserva da alcuni che, in definitiva, il problema è lo stesso che si presenta allorché rovini o sia gravemente difettosa soltanto una porzione dell’originario edificio, visto che la stessa norma contempla anche l’ipotesi che l’immobile rovini “in parte”. Non solo, ma si ipotizza che la soluzione inversa si presterebbe a dubbi di legittimità costituzionale, considerato che gli artt. 1667 e 1668 c.c., del pari riguardanti la responsabilità dell’appaltatore, si applicano ad opere consistenti in mere modificazioni o riparazioni, mentre l’art. 1669 c.c. restrittivamente inteso condurrebbe, irrazionalmente e in violazione dell’art. 3 Cost., ad applicare l’art. 1667 c.c. ancorché l’opera consista, previa demolizione, in una ricostruzione totale o parziale, del tutto sovrapponibile ad una costruzione ex novo. Minoritaria la tesi opposta, che rispetto alla disciplina degli artt. 1667 e 1668 c.c. ravvisa nell’art. 1669 c.c. una norma di carattere speciale. Si afferma che essa, insuscettibile di applicazione analogica, integri una garanzia vera e propria e una disposizione di favore per il committente, motivata dal fatto che nelle opere di lunga durata alcuni difetti possono presentarsi anche a distanza di molto tempo. L’art. 1669 c.c. riguarderebbe, per tale dottrina, le opere eseguite ex novo dalle fondamenta ovvero quelle dotate di propria autonomia in senso tecnico (come ad esempio una sopraelevazione). 3. – La giurisprudenza di questa Corte ha affrontato in maniera esplicita e diretta il tema di cui si discute solo in tre occasioni. O meglio in due, per le- – ragioni che seguono. 3.1. – La prima con sentenza n. 24143/07. Riferita ad un caso di opere d’impermeabilizzazione e pavimentazione del terrazzo condominiale d’un edificio preesistente, detta pronuncia ha osservato che l’art. 1669 c.c. delimita con una certa evidenza il suo ambito di applicazione alle opere aventi ad oggetto la costruzione di edifici o di altri beni immobili di lunga durata, ivi inclusa la sopraelevazione di un fabbricato preesistente, di cui ravvisa la natura di costruzione nuova ed autonoma. Non anche, però, le modificazioni o le riparazioni apportate ad un edificio o ad altre preesistenti cose immobili, da identificare a norma del’art. 812 c.c.. A tale conclusione è pervenuta attraverso l’interpretazione letterale della norma, laddove questa “raccorda il termine “opera” a quello di “edifici o di altre cose immobili, destinate per loro natura a lunga durata”, per poi connettere e disciplinare le conseguenze dei vizi costruttivi della medesima opera, così significando che la costruzione di un edificio o di altra cosa immobile, destinata per sua natura a lunga durata, costituisce presupposto e limite di applicazione della responsabilità prevista in capo all’appaltatore”. La conseguenza, conclude, è che ove non ricorra la costruzione d’un edificio o di altre cose immobili di lunga durata, ma un’opera di mera riparazione o modificazione su manufatti preesistenti, non è applicabile l’art. 1669 c.c. ma, ricorrendone le condizioni, le norme sulla garanzia ex art. 1667 c.c. Infine, detta sentenza ha escluso che questa Corte Suprema abbia mai affrontato ex professo la questione, se non nella vigenza del c.c. del 1865, sotto l’art. 1639 (si tratta della sentenza n. 754 del 1934, la quale nell’escludere l’applicabilità della norma alla copertura con asfalto d’un lastrico solare, si limitò, in realtà, ad affermare unicamente che la norma “ha, come è comune insegnamento, carattere eccezionale, e non può perciò essere estesa fuori dei casi ivi preveduti della fabbricazione di un edificio o d’altra opera notabile”: n.d.r.). 3.1.1. – In senso puramente adesivo è la n. 10658/15 (massimata in maniera del tutto conforme), avente ad oggetto lavori di consolidamento di una villetta preesistente che avevano provocato gravi fessurazioni su di un corpo di fabbrica aggiuntovi. A ben vedere, tuttavia, la motivazione chiarisce che il giudice d’appello, ricondotta la fattispecie all’art. 1669 c.c., aveva escluso la responsabilità dell’appaltatore a tale titolo non essendovi prova che questi avesse indicato i lavori da eseguire, né che fosse stato messo al corrente dei difetti strutturali che avevano determinato le lesioni riscontrate. Sicché, in definitiva, la Corte territoriale aveva escluso sia il nesso eziologico tra le opere eseguite dall’appaltatore e i danni lamentati, sia una colpa di lui. Il consenso prestato a Cass. n. 24143/07 è frutto, dunque, di una considerazione svolta ad abundantiam rispetto alla ratio decidendi, basata su altro; il che rende dubbio che detto precedente possa effettivamente militare nell’ambito della tesi negativa.  3.2. – Di segno opposto la sentenza più recente, n. 22553/15, secondo cui risponde ai sensi dell’art. 1669 c.c. anche l’autore di opere realizzate su di un edificio preesistente, allorché queste incidano sugli elementi essenziali dell’immobile o su elementi secondari rilevanti per la funzionalità globale. In quella fattispecie, le opere avevano riguardato lavori di straordinaria manutenzione presso uno stabile condominiale, consistiti nel rafforzamento dei solai e delle rampe delle scale (queste ultime ricostruite completamente). Nel darsi carico dei due precedenti massimati di segno contrario all’avviso espresso, detta sentenza ravvisa una “diversa valutazione complessiva delle emergenze fattuali”, più che un “contrasto sincrono di giurisprudenza”. Afferma, quindi, che la lettura della norma giustifica una diversa impostazione ermeneutica, “perché non a caso il legislatore discrimina tra edificio o altra cosa immobile destinata a lunga durata, da un lato, e opera, dall’altro. L’opera cui allude la norma non si identifica necessariamente con l’edificio o con la cosa immobile destinata a lunga durata, ma ben può estendersi a qualsiasi intervento, modificativo o riparativo, eseguito successivamente all’originaria costruzione dell’edificio, con la conseguenza che anche il termine compimento, ai fini della delimitazione temporale decennale della responsabilità, ha ad oggetto non già l’edificio in sé considerato, bensì l’opera, eventualmente realizzata successivamente alla costruzione dell’edificio”. Ha osservato, inoltre, che “l’etimologia del termine costruzione non necessariamente deve essere ricondotta alla realizzazione iniziale del fabbricato, ma ben può riferirsi alle opere successive realizzate sull’edificio pregresso, che abbiano i requisiti dell’intervento costruttivo”. Pertanto, anche “gli autori di tali interventi di modificazione o riparazione possono rispondere ai sensi dell’art. 1669 c.c. allorché le opere realizzate abbiano una incidenza sensibile sugli elementi essenziali delle strutture dell’edificio ovvero su elementi secondari od accessori, tali da compromettere la funzionalità globale dell’immobile stesso”. Per contro, prosegue la sentenza, “nessun valore può essere attribuito con riguardo alla responsabilità di cui all’art. 1669 c. c. alle classificazioni urbanistiche predisposte dal legislatore al diverso fine del recupero di manufatti preesistenti: la differenza dei parametri di riferimento giustifica l’integrale responsabilità dell’appaltatore sia in presenta di interventi di manutenzione straordinaria sia in ipotesi di manutenzione ordinaria ai sensi dell’art. 31 della legge n. 457 del 1978”. 3.3. – Invece, Cass. n. 18046/12, richiamata tra altre nel motivo di ricorso, non pare prendere posizione nell’un senso piuttosto che nell’altro, sebbene in quel caso fosse sul tappeto, perché dedotta dalla ricorrente venditrice – (ri)costruttrice, la differenza tra l’imperfetta realizzazione di immobili di nuova costruzione, rientrante nell’art. 1669 c.c., e i difetti di specifici lavori di ristrutturazione, che sosteneva non riconducibili alla norma. In detta sentenza, infatti, questa Corte ha ritenuto la censura non accoglibile in parte per difetto di autosufficienza, e in parte perché la pronuncia impugnata faceva riferimento all’inadeguatezza sia dei lavori di completa ristrutturazione compiuti dai venditori a stregua della concessione, sia di quelli di rifinitura, mentre le censure della ricorrente attenevano alla configurabilità, affermata dalla Corte territoriale, della violazione dell’art. 1669 c.c. in relazione solo a tali ultimi lavori. 4. – Queste Sezioni unite aderiscono all’orientamento meno restrittivo, ritenendolo sostenibile sulla base di ragioni d’interpretazione storico-evolutiva, letterale e teleologica. 4.1. – In primo luogo vale premettere e chiarire che anche opere più limitate, aventi ad oggetto riparazioni straordinarie, ristrutturazioni, restauri o altri interventi di natura immobiliare, possono rovinare o presentare evidente pericolo di rovina del manufatto, tanto nella porzione riparata o modificata, quanto in quella diversa e preesistente che ne risulti altrimenti coinvolta per ragioni di statica. L’attenzione va, però, soffermata principalmente sull’ipotesi dei “gravi difetti”, sia perché confinaria rispetto al regime ordinario degli artt. 1667 e 1668 c.c., sia per il rilievo specifico che i “gravi difetti” assumono nel caso in oggetto, sia per le ragioni di carattere generale che emergeranno più chiaramente di seguito. 4.2. – Innumerevoli altre volte la giurisprudenza di questa Corte, pur non esaminando in maniera immediata e consapevole la questione in esame, si è occupata dell’art. 1669 c.c., presupponendone (per difetto di contrasto fra le parli o per altre ragioni) l’applicabilità anche in riferimento ad opere limitate. Ed è pervenuta a soluzioni applicative di detta norma che appaiono poter prescindere dalla necessità logica di un’edificazione ab imo o di una costruzione ex novo. Si è ritenuto, infatti, che sono gravi difetti dell’opera, rilevanti ai fini dell’art. 1669 c.c., anche quelli che riguardano elementi secondari ed accessori (come impermeabilizzazioni, rivestimenti, infissi ecc.) purché tali da compromettere la funzionalità globale dell’opera stessa e che, senza richiedere opere di manutenzione straordinaria, possono essere eliminati solo con interventi di manutenzione ordinaria ai sensi dell’art. 31 legge n. 457/78 e cioè con “opere di riparazione, rinnovamento e sostituzione delle finiture degli edifici” o con “opere necessarie per integrare o mantenere in efficienza gli impianti tecnologici esistenti” (sentenze nn. 1164/95 e 14449/99; in senso del tutto analogo e con riferimento a carenze costruttive anche di singole unità immobiliari, v. n. 8140/04, che ha ritenuto costituire grave difetto lo scollamento e la rottura, in misura percentuale notevole rispetto alla superficie rivestita, delle mattonelle del pavimento dei singoli appartamenti; da premesse conformi procedono le nn. 11740/03, 81/00, 456/99, 3301/96 e 1256/95; di un apprezzabile danno alla funzione economica o di una sensibile menomazione della normale possibilità di godimento dell’immobile, in relazione all’utilità cui l’opera è destinata, parlano le sentenze nn. 1393/98, 1154/02, 7992/97, 5103/95, 1081/95, 3644/89, 6619/88, 6229/83, 2523/81, 1178/80, 839/80, 1472/75 e 1394/69). Esemplificando, sono stati inquadrati nell’ambito della norma in oggetto i gravi difetti riguardanti: la pavimentazione interna ed esterna di una rampa di scala e di un muro di recinzione (sentenza n. 2238/12); opere di pavimentazione e di impiantistica (n. 1608/00); infiltrazioni d’acqua, umidità nelle murature e in generale problemi rilevanti d’impermeabilizzazione (nn. 84/13, 21351/05, 117/00, 4692/99, 2260/98, 2775/97, 3301/96, 10218/94, 13112/92, 9081/92, 9082/91, 2431/86, 1427/84, 6741/83, 2858/83, 3971/81, 3482/81, 6298/80, 4356/80, 206/79, 2321/77, 1606/76 e 1622/72); un ascensore panoramico esterno ad un edificio (n. 20307/11); l’inefficienza di un impianto idrico (n. 3752/07); l’inadeguatezza recettiva d’una fossa biologica (n. 13106/95); l’impianto centralizzato di riscaldamento (nn. 5002/94, 7924/92, 5252/86 e 2763/84); il crollo o il disfacimento degli intonaci esterni dell’edificio (nn. 6585/86, 4369/82 e 3002/81, 1426/76); il collegamento diretto degli scarichi di acque bianche e dei pluviali discendenti con la condotta fognaria (n. 5147/87); infiltrazioni di acque luride (n. 2070/78). Se ne ricava, inconfutabile nella sua oggettività, un dato di fatto. Nell’economia del ragionamento giuridico sotteso ai casi sopra menzionati, che fa leva sulla compromissione del godimento dell’immobile secondo la sua propria destinazione, è del tutto indifferente che i gravi difetti riguardino una costruzione interamente nuova. La circostanza che le singole fattispecie siano derivate o non dall’edificazione primigenia di un fabbricato non muta i termini logico-giuridici dell’operazione ermeneutica compiuta in ormai quasi mezzo secolo di giurisprudenza, perché non preordinata al (né dipendente dal) rispetto dell’una o dell’altra opzione esegetica in esame. Spostando l’attenzione sulle componenti non strutturali del risultato costruttivo e sull’incidenza che queste possono avere sul complessivo godimento del bene, la giurisprudenza ha mostrato di porsi dall’angolo visuale degli elementi secondari ed accessori. Questo non implica di necessità propria che si tratti della prima realizzazione dell’immobile, essendo ben possibile che l’opus oggetto dell’appalto consista e si esaurisca in questi stessi e soli elementi. Ferma tale angolazione, a fortiori deve ritenersi che ove l’opera appaltata consista in un intervento di più ampio respiro edilizio (come, appunto, una ristrutturazione), quantunque non in una nuova costruzione, l’art. 1669 c.c. sia ugualmente applicabile. In conclusione, considerare anche gli elementi “secondari” ha significato distogliere il focus dal momento “fondativo” dell’opera per direzionarlo sui “gravi difetti” di essa; per desumere i quali è stato necessario indagare altro, vale a dire l’aspetto funzionale del prodotto conseguito. 5. – Come la previsione dei “gravi difetti” dell’opera sia il risultato d’un progressivo allontanamento del precetto dal suo nucleo originario, lo dimostra la storia della norma. Derivata dall’art. 1792 del codice napoleonico (il quale stabiliva che “Si l’edifice construit a prix fait, perit en tout ou en partie par le vice de la construction, meme par le vice du sol, les architecte et entrepreneur en sont roonsables pendant dix ans”), essa così recitava sotto l’art. 1639 del c.c. del 1865: “Se nel corso di dieci anni dal giorno in cui fu compiuta la fabbricazione di un edificio o di altra opera notabile, l’uno o l’altra rovina in tutto o in parte, o presenta evidente pericolo di rovinare per difetto di costruzione o per vizio del suolo, l’architetto e l’imprenditore ne sono responsabili”. Rispetto all’ascendente francese, la norma aveva, dunque, aggiunto un quid pluris (cioè le altre opere notabili e il pericolo di rovina). Ma – si noti – aveva mantenuto inalterato il soggetto della seconda proposizione subordinata (“…l’uno o l’altra…”), cioè l’edificio, cui appunto aveva aggiunto “altra opera notabile”. Un ulteriore e consapevole passo in avanti è stato operato dal codice civile del 1942, il quale prevede che quando si tratta di edifici o di altre cose immobili destinate per la loro natura a lunga durata, se, nel corso di dieci anni dal compimento, l’opera, per vizio del suolo o per difetto della costruzione, rovina in tutto o in parte, ovvero presenta evidente pericolo di rovina o gravi difetti, l’appaltatore è responsabile nei confronti del committente e dei suoi aventi causa, purché sia fatta la denunzia entro un anno dalla scoperta. Si legge nella relazione del Guardasigilli (par. 704): “Innovando poi al codice del 1865 si è creduto di non dover limitare la sfera di applicazione della norma in questione alle sole ipotesi di rovina di tutto o parte dell’opera o di evidente pericolo di rovina, ma si è estesa la garanzia anche alle ipotesi in cui l’opera presenti gravi difetti. Naturalmente questi difetti devono essere molto gravi, oltre che riconoscibili al momento del collaudo, e devono incidere sempre sulla sostanza e sulla stabilità della costruzione, anche se non minacciano immediatamente il crollo di tutta la costruzione o di una parte di essa o non importano evidente pericolo di rovina. Non vi è dubbio che la giurispruden.za farà un’applicazione cauta di questa estensione, in conseguenza del carattere eccezionale della responsabilità dell’appaltatore”. (Il riferimento alla riconoscibilità dei gravi difetti al momento del collaudo è, ad evidenza, un fuor d’opera. Concessa per un decennio, la garanzia ex art. 1669 c.c. copre anche e soprattutto i gravi difetti che si manifestino soltanto in progresso di tempo). Come si è visto, però, la postulata eccezionalità dell’art. 1669 c.c. non è valsa ad arginarne l’applicazione. Chiamata a dotare il sintagma “gravi difetti” di un orizzonte di senso, la giurisprudenza ha ovviamente seguito l’unica strada percorribile, quella di stemperare la vaghezza del concetto giuridico al calore dei fatti. 5.1. – Il mutamento di prospettiva nel codice del 1942 è evidente per due ragioni. La prima, d’ordine logico, è che la nozione di “gravi difetti” per la sua ampiezza è omogenea a qualunque opera, edilizia e non, per cui meglio si presta al riferimento, del pari generico, alle altre cose immobili. In secondo luogo, e l’argomento è di indole letterale, mentre nel testo del 1865 il soggetto della seconda proposizione subordinata era l’edificio o altra opera notabile (“l’uno o l’altra”), nella frase che vi corrisponde nell’art. 1669 c.c. il soggetto diviene “l’opera”, nozione che rimanda al risultato cui è tenuto l’appaltatore (art. 1655 c.c.). E dunque qualsiasi opera su di un immobile destinato a lunga durata, a prescindere dal fatto che, ove di natura edilizia, essa consista o non in una nuova fabbrica. Ben si comprende, allora, che nell’ampliare il catalogo dei casi di danno rilevante ai sensi dell’art. 1669 c.c., l’aggiunta dei “gravi difetti” ha comportato per trascinamento l’estensione dell’area normativa della disposizione, includendovi qualsiasi opera immobiliare che (per traslato) sia di lunga durata e risulti viziata in grado severo per l’inadeguatezza del suolo o della costruzione. Ne è seguita, coerente nel suo impianto complessivo, l’interpretazione teleologica fornita dalla giurisprudenza, che è andata oltre l’originaria visione dell’art. 1669 c.c. come norma di protezione dell’incolumità pubblica, valorizzando la non meno avvertita esigenza che l’immobile possa essere goduto ed utilizzato in maniera conforme alla sua destinazione. Completano e confermano la validità di tale esito ermeneutico, l’irrazionalità (non conforme ad un’interpretazione costituzionalmente orientata) di un trattamento diverso tra fabbricazione iniziale e ristrutturazione edilizia, questa non diversamente da quella potendo essere foriera dei medesimi gravi pregiudizi; e la pertinente osservazione (v. la richiamata sentenza n. 22553/15) per cui costruire, nel suo significato corrente (oltre che etimologico) implica non l’edificare per la prima volta e dalle fondamenta, ma l’assemblare tra loro parti convenientemente disposte (cum struere, cioè ammassare insieme). 6. – Così ricomposta (la storia e) l’esegesi della norma, il vincolo letterale su cui l’interpretazione restrittiva dell’art. 1669 c.c. pretende di fondarsi perde la propria base logico-giuridica. Infatti, riferire l’opera alla “costruzione” e questa a un nuovo fabbricato, inteso quale presupposto e limite della responsabilità aggravata dell’appaltatore (come ritiene Cass. n. 24143/07), non sembra possibile proprio dal punto di vista letterale. Si noti che nel testo della norma il sostantivo “costruzione” rappresenta un nomen actionis, nel senso che sta per “attività costruttiva”; e non potrebbe essere altrimenti, visto che se esso valesse (come mostra d’intendere la sentenza appena citata) quale specificazione riduttiva del soggetto (l’opera) della (terza, nel testo vigente) proposizione subordinata, si avrebbe una duplicazione di concetti ad un tempo inutile e fuorviante. Inoltre, il supposto impiego sinonimico di “costruzione” quale nuovo edificio, porterebbe a intendere la norma come se affermasse che l’opera può rovinare per difetto suo proprio. Lettura criptica, questa, che restituirebbe inalterato all’interprete il problema ermeneutico, dovendosi stabilire cosa sia il vizio proprio di un’opera; salvo convenire che esso è quello che deriva (da un vizio del suolo o) dal difetto di costruzione, così confermandosi che quest’ultimo sostantivo allude, appunto, all’attività dell’appaltatore. Non senza aggiungere che supponendo la tesi qui non condivisa, a) sarebbe stato ben più logico un diverso incipit della norma (e cioè, “Quando si tratta (della costruzione) di edifici…”); e b) il termine “costruzione” risulterebbe irriferibile agli altri immobili di lunga durata, pure contemplati dall’art. 1669 c.c., per i quali, paradossalmente, questa sarebbe applicabile solo se rovina, evidente pericolo di rovina o gravi difetti dipendessero da vizio del suolo, cioè da una soltanto delle due cause ivi indicate (e, per soprammercato, proprio quella che naturaliter fa pensare alle opere murarie). Ancora. Incentrando l’interpretazione dell’art. 1669 c.c. sul concetto di “costruzione” quale nuova edificazione, diverrebbe (se non automatico, almeno) spontaneo il rinvio al concetto normativo di costruzione così come elaborato dalla giurisprudenza di questa Corte in materia di distanze. E, in effetti, Cass. n. 24143/07 sembra presupporlo lì dove afferma (cosa in sé condivisibile) che la norma in commento ricomprende la sopraelevazione, la quale è costruzione nuova ed autonoma rispetto all’edificio sopraelevato. Ma è una tematica del tutto estranea, quella degli artt. 873 e ss. c.c., il rimando alla quale sortirebbe effetti contraddittori e inaccettabili anche per la tesi seguita dal citato precedente, sol che si consideri che ai fini delle distanze è costruzione un balcone (v. sentenza n. 18282/16), ma non la ricostruzione fedele, integrale e senza variazioni plano-volumetriche di un edificio preesistente (v. ordinanza S.U. n. 21578/11 e sentenza n. 3391/09). 6.1. – Non meno controvertibile l’altro argomento – la specialità o l’eccezionalità della norma – utilizzato dall’interpretazione restrittiva dell’art. 1669 c.c. per escluderne l’applicazione analogica. In disparte il fatto che (i) solo di specialità potrebbe trattarsi, nel senso che la responsabilità aggravata prevista da detta disposizione è speciale rispetto al regime ordinario del risarcimento del danno per colpa ai sensi dell’art. 1668, 1 comma c.c.; che (ii) tale specialità si è già attenuata fortemente allorché la giurisprudenza di questa Corte ha ammesso, oltre all’azione risarcitoria, quella di riduzione del prezzo, di condanna specifica all’eliminazione dei difetti dell’opera e di risoluzione, che costituiscono il contenuto della garanzia ordinaria cui è tenuto l’appaltatore (per l’affermativa, che sembra ormai consolidata, cfr. nn. 815/16, 8140/04, 8294/99, 10624/96, 1406/89 e 2763/84; contra, le più risalenti sentenze nn. 2954/83, 2561/80 e 1662/68); e che (iii) l’analogia serve a disciplinare ciò che non è positivizzato, non a riposizionare i termini di una regolamentazione data; tutto ciò a parte, quanto fin qui considerato dimostra come l’art. 1669 c.c. includa a pieno titolo gli interventi manutentivi o modificativi di lunga durata, la cui potenziale incidenza tanto sulla rovina o sul pericolo di rovina quanto sul normale godimento del bene non opera in modo dissimile dalle ipotesi di edificazione ex novo. Pertanto, la pur indubbia specialità della protezione di lunga durata accordata al committente (protezione che resiste anche al collaudo: cfr. Cass. nn. 7914/14, 1290/00 e 4026/74), non interferisce con la questione in oggetto. 7. – Poco o punto rilevante, e dunque non decisiva ai fini in esame, la natura extracontrattuale della responsabilità ex art. 1669 c.c. – con carattere di specialità rispetto alla previsione generale dell’art. 2043 c.c. – costantemente affermata dalla giurisprudenza (tanto che Cass. nn. 4035/17 e 1674/12 hanno escluso che la relativa controversia possa rientrare nell’ambito della clausola che si limiti a compromettere in arbitri le liti nascenti da un contratto d’appalto). Tutt’altro che monolitica, invece, è al riguardo la dottrina. Ammessa anche dalle sentenze nn. 24143/07 e 10658/15, che come detto escludono l’applicazione dell’art. 1669 c.c. alle ipotesi di riparazioni o modificazioni, la tesi della natura extracontrattuale di detta responsabilità; qualificata come ex lege (cfr. Cass. n. 261/70 e il brano della relazione al c.c. del 1942 riportato supra al paragrafo 5) e prevista per ragioni di ordine pubblico e di tutela dell’incolumità personale dei cittadini, quindi, inderogabile e irrinunciabile (v. Cass. n. 81/00), ha anch’essa origini remote, essendo stata altrettanto costantemente affermata dalla giurisprudenza sotto l’impero del c.c. del 1865 a partire dagli anni venti del XX secolo. Ciò allo scopo di riconoscere l’azione risarcitoria anche agli acquirenti del costruttore-venditore, essendo invalsa già in allora, con lo sviluppo delle attività edilizie, l’unificazione delle due figure. 7.1. – Ai limitati fini che qui rilevano può solo osservarsi che, come sopra detto, la categoria dei gravi difetti tende a spostare il baricentro dell’art. 1669 c.c. dall’incolumità dei terzi alla compromissione del godimento normale del bene, e dunque da un’ottica pubblicistica ed aquiliana ad una privatistica e contrattuale. Oltre a ciò, va considerata la maggior importanza che sul tema della tutela dei terzi ha assunto, invece, l’esperienza dell’appalto pubblico; l’espresso riconoscimento dell’azione anche agli aventi causa del committente (i quali possono agire anche contro il costruttore-venditore: fra le tante, v. Cass. nn. 467/14, 9370/13 e 2238/12 e 4622/02), il che ha privato del suo principale oggetto la teoria della responsabilità extracontrattuale ex art. 1669 c.c.; i più recenti approdi della dottrina sull’efficacia ultra partes del contratto; e – da ultima, ma non ultima – la possibilità che tale efficacia operi in favore dei terzi nei casi previsti dalla legge (art. 1372, cpv. c.c.). Tutto ciò rende ormai meno attuale il tema della natura extracontrattuale della responsabilità di cui all’art. 1669 c.c., che se non ha esaurito la propria funzione storica (per difetto di rilevanza non è questa la sede per appurarlo), di sicuro ha perso l’originaria centralità che aveva nell’interpretazione della norma. 8. – Per le considerazioni svolte l’unico motivo di ricorso deve ritenersi fondato. Consegue la cassazione della sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Ancona, che nel decidere il merito si atterrà al seguente principio di diritto: “l’art. 1669 c.c. è applicabile, ricorrendone tutte le altre condizioni, anche alle opere di ristrutturazione edilizia e, in genere, agli interventi manutentivi o modificativi di lunga durata su immobili preesistenti, che (rovinino o) presentino (evidente pericolo di rovina o) gravi difetti incidenti sul godimento e sulla normale utilizzazione del bene, secondo la destinazione propria di quest’ultimo”. 9. – Al giudice di rinvio è rimessa, ai sensi dell’art. 385, terzo comma, c.p.c., anche la statuizione sulle spese del presente giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso e cassa la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Ancona, che provvederà anche sulle spese di cassazione.

 

 

 

 

Reati edilizi . Se v’è buona fede l’ignoranza può escludere la colpa

“Nelle fattispecie contravvenzionali la buona fede può acquistare rilevanza giuridica solo a condizione che essa si traduca nella mancanza di consapevolezza dell’illiceità del fatto e che derivi da un elemento positivo estraneo all’agente, consistente in una circostanza che induca alla convinzione della liceità del comportamento tenuto”

Testo della sentenza

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 7 febbraio – 18 maggio 2017, n. 24585
Ritenuto in fatto

  1. Con sentenza in data 4/07/2016 il Tribunale di Asti aveva assolto, con la formula “perché il fatto non costituisce reato”, M.N. , S.G. e Ma.Sa. in relazione ai reati di cui agli artt. 71 (capo a) e 93 e 95 (capo b) del d.p.r. n. 380 del 2001, per avere: la prima in qualità di committente, il secondo di esecutore ed il terzo di direttore dei lavori, eseguito opere in conglomerato cementizio armato – consistenti in un muro di confine, in piloni di sostegno del cancello, in un muretto di recinzione su strada – in violazione dell’art. 64, commi 2, 3 e 4, nonché per avere omesso di presentare allo Sportello unico per l’edilizia la denuncia delle predette opere strutturali prima del loro inizio; fatti accertati in (omissis) .

1.1. Secondo il primo giudice, infatti, pur essendo stata pacificamente dimostrata la realizzazione delle opere sopra menzionate, dall’istruttoria dibattimentale era, altresì, emerso che i manufatti, costruiti in cemento armato, non erano destinati ad assolvere alcuna funzione statica e che, per tale motivo, gli imputati avevano ritenuto di non dovere presentare preventivamente la denuncia prevista dall’art. 65 del d.p.r. n. 380/2001 per le opere in conglomerato cementizio armato, che l’art. 53, comma 1 considera come tali, appunto, solo quando assolvano ad una funzione statica. Sulla base della riportata interpretazione della normativa di riferimento, avallata dalla Circolare del Ministero dei lavori pubblici 14/02/1974, n. 11951, gli imputati si erano, dunque, consapevolmente determinati a non presentare la denuncia in questione, incorrendo in un errore scusabile, siccome indotto da una normativa suscettibile di differenti opzioni esegetiche e non potendo attribuirsi rilievo dirimente al contrario indirizzo della giurisprudenza di legittimità, che gli imputati non sarebbero stati tenuti a conoscere. 2. Avverso la predetta sentenza ha presentato ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Asti, deducendo, con un unico motivo di impugnazione proposto ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b) cod. proc. pen., l’inosservanza o erronea applicazione della legge penale in relazione alla sola contravvenzione di cui agli artt. 93 e 95 del d.p.r. n. 380 del 2001 contestata al capo b). Ciò sul presupposto che tale figura di reato sia applicabile a tutte le opere realizzate in zona sismica, indipendentemente dalla funzione statica dalle stesse svolte; e non essendo stato, per altro verso, dimostrato che gli imputati versassero, nella specie, in una situazione di errore scusabile, anche tenuto conto del consolidato indirizzo interpretativo della giurisprudenza di legittimità in materia di obblighi di informazione sulla normativa settoriale.

Considerato in diritto

  1. Il ricorso è fondato. 2. Con la fattispecie descritta al capo b) della rubrica è stato contestato agli imputati di avere omesso di presentare allo Sportello unico per l’edilizia la denuncia delle opere strutturali indicate al capo a) – consistenti di un muro di confine, dei piloni di sostegno di un cancello, di un muretto di recinzione su strada – prima di procedere al loro inizio. Come correttamente posto in luce dal ricorrente, la contravvenzione de qua sanziona, al comma 1, l’omesso preavviso scritto allo sportello unico delle “costruzioni, riparazioni e sopraelevazioni” alla cui presentazione è tenuto chiunque intenda procedervi “nelle zone sismiche di cui all’articolo 83”. Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di questa Corte il reato in contestazione resta integrato indipendentemente sia dalle caratteristiche dell’opera edilizia, che può consistere in qualsiasi intervento edilizio – con la sola eccezione di quelli di semplice manutenzione ordinaria – effettuato in zona sismica, comportante o meno l’esecuzione di opere in conglomerato cementizio armato (Sez. 3, n. 48005 del 17/09/2014, dep. 20/11/2014, Gulizzi e altro, Rv. 261155), sia dal grado di sismicità dell’area, essendo il reato de quo configurabile anche in caso di esecuzione di lavori in zona inclusa tra quelle a basso indice sismico (v. Sez. 3, n. 22312 del 15/02/2011, dep. 6/06/2011, Morini, Rv. 250369). Ne consegue che, già sotto il profilo dell’elemento oggettivo, la sentenza impugnata si mostra gravemente carente, essendosi la stessa soffermata unicamente sulle caratteristiche dell’opera in rapporto alla sua funzione statica ed ai conseguente obbligo di denuncia, senza in alcun modo affrontare il concorrente profilo della sismicità dell’area interessata dall’intervento, la quale avrebbe, dunque, imposto di ottemperare agli obblighi comunicativi. 3. Sotto altro aspetto, si è opinato, da parte della difesa degli imputati, e il primo giudice ha condiviso tale prospettazione, che gli stessi sarebbero incorsi in errore scusabile per avere deciso di non presentare la denuncia allo Sportello unico sulla base della Circolare del Ministero dei lavori pubblici 14/02/1974, n. 11951, non essendo gli stessi tenuti a conoscere il contrario indirizzo della giurisprudenza di legittimità, che affermerebbe, in siffatte ipotesi, la rilevanza penale dell’omissione della denuncia e, per converso, l’irrilevanza delle eventuali previsioni difformi da parte delle circolari amministrative. 3.1. Sul punto, osserva il Collegio che la consolidata produzione giurisdizionale di questa Corte è ormai pervenuta ad affermare, sulla scia della fondamentale sentenza n. 368/88 della Corte costituzionale, che nelle fattispecie contravvenzionali la buona fede può acquistare rilevanza giuridica solo a condizione che essa si traduca nella mancanza di consapevolezza dell’illiceità del fatto e che derivi da un elemento positivo estraneo all’agente, consistente in una circostanza che induca alla convinzione della liceità del comportamento tenuto, la prova della sussistenza del quale deve essere fornita dall’imputato, unitamente alla dimostrazione di avere compiuto tutto quanto poteva per osservare la norma violata (Sez. 3, n. 35314 del 20/05/2016, dep. 23/08/2016, P.M. in proc. Oggero, Rv. 268000; Sez. 4, n. 9165 del 5/02/2015, dep. 2/03/2015, Felli, Rv. 262443; Sez. 3, n. 42021 del 18/07/2014, dep. 9/10/2014, Paris, Rv. 260657; Sez. 3, n. 49910 del 4/11/2009, dep. 30/12/2009, Cangialosi e altri, Rv. 245863; Sez. 3, n. 46671 del 5/10/2004, dep. 1/12/2004, Sferlazzo, Rv. 230889; Sez. 3, n. 12710 del 29/11/1994, dep. 21/12/1994, D’Alessandro, Rv. 200950). Ciò sul presupposto che gli inderogabili doveri di solidarietà sociale stabiliti dall’art. 2 Cost. impongono al destinatario di una determinata normativa di adempiere a stringenti oneri informativi, i quali richiedono che, prima di porre in essere l’attività disciplinata da specifiche disposizioni, egli si adoperi per sciogliere i dubbi che eventualmente concernano il lecito svolgimento di essa o le particolari modalità previste per la sua esecuzione. Ora, se per un verso non può in assoluto escludersi che la presenza di determinate circolari amministrative possa contribuire a delineare un quadro regolativo confuso e scarsamente idoneo a orientare il comportamento dei consociati (rientrando, l’ipotesi delle circolari, tra gli esempi offerti dalla citata sentenza n. 364/88 per configurare una situazione di scarsa perspicuità dell’assetto normativo, tale eventualmente determinare un errore scusabile), deve nondimeno rilevarsi che, nel caso di specie, le circolari invocate riguardavano, come già osservato (v. supra § 2), tutt’altro oggetto rispetto alla problematica che viene, qui, in rilievo: ovvero l’obbligatorietà della preventiva denuncia di opere in cemento armato inidonee ad assolvere una funzione statica e non, come invece sarebbe stato necessario, l’obbligatorietà della comunicazione connessa alla sismicità dell’area interessata dall’intervento edificatorio. Consegue a quanto appena rilevato che, in ogni caso, anche sotto questo dirimente profilo, deve escludersi qualunque rilevanza, sotto il profilo scusante, a quanto stabilito dalla cennata circolare e, corrispondentemente, al convincimento maturato dagli imputati alla stregua delle sue disposizioni. 4. Alla luce delle considerazioni che precedono, il ricorso deve essere accolto, sicché la sentenza impugnata deve essere annullata limitatamente al reato di cui al capo b), con rinvio ai Tribunale di Asti.

P.Q.M.

annulla la sentenza impugnata limitatamente al reato di cui al capo b) e rinvia al Tribunale di Asti.