Categoria: Lavoro

Lavoro. Videosorveglianza dei dipendenti illegittima ma rilevante ai fini del licenziamento

Corte Europea  dei Diritti dell’Uomo, sez. III nel caso Lopez Ribalda ed altri c. Spagna (ric. 1874/13) del 9 gennaio 2018

La Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) è un organismo diverso dalla  Corte di giustizia dell’Unione europea (CGUE) .

Corte di Giustizia Europea, Corte dei Diritti dell’Uomo e Corte Costituzionale dello Stato membro devono essere considerati l’organo giurisdizionale di vertice per tre sistemi giuridici indipendenti: sistema UE, sistema CEDU, sistema costituzionale nazionale.
La Corte europea dei diritti dell’uomo (qui il sito ufficiale) è una Corte internazionale istituita nel 1959. Si pronuncia sui ricorsi individuali o statali su presunte violazioni dei diritti civili e politici stabiliti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Protegge in particolare il diritto alla vita, il diritto a un equo processo, il diritto al rispetto della vita privata e famigliare, la libertà di espressione, la libertà di pensiero e di religione, il diritto al rispetto della proprietà.

Con la pronuncia in oggetto, la CEDU ha affermato che il datore di lavoro, seppure sospetti furti in azienda, ha il dovere di rispettare le norme sulla tutela dei dati personali e/o per lo meno di avvertire e fornire ai dipendenti le informazioni generiche sulla videosorveglianza per non violarne la privacy (art. 8 Cedu).    Tuttavia ha ritenuto che le registrazioni ottenute da telecamere nascoste sono prove valide in un procedimento per impugnazione del licenziamento disciplinare (e nella transazione tra le parti), purché non costituiscano l’unica prova su cui si basa la convalida ed i ricorrenti abbiano potuto contestarle. Ha ritenuto quindi che non sia stato violato l’art. 6 Cedu.

Nella fattispecie, il datore di lavoro  che gestiva  una catena di supermercati spagnoli, dopo aver  rilevato  ammanchi e sospettando furti, installò delle telecamere di sorveglianza, alcune visibili ed altre occultate. I dipendenti furono avvertiti anticipatamente dell’installazione delle sole telecamere visibili, ma visionando immagini registrate da quelle celate, il datore di lavoro si accorse che alcuni dipendenti – oggi ricorrenti – non solo avevano commesso furti, ma avevano anche aiutato clienti e colleghi nella commissione di altri illeciti.

Leggi la sentenza collegandoti al sito ufficiale della Corte europea dei diritti dell’uomo.

 

Agenzia. Può il mandante recedere dal rapporto per il mancato conseguimento del minimo di affari da parte dell’agente di commercio?

“Con riguardo alla clausola risolutiva espressa prevista dall’art.6.3 del contratto individuale, va condiviso quanto espresso sul punto da Corte Cass. 18/5/2011 n.10934, secondo cui in caso di ricorso da parte del preponente ad una clausola risolutiva espressa, tale clausola può ritenersi valida nei limiti in cui (oltre a non porsi in contrasto con eventuali previsioni in materia di accordi collettivi applicabili al rapporto) non venga a giustificare un recesso in tronco attuato in situazioni concrete e con modalità a norma di legge o di accordi collettivi non legittimanti un recesso per giusta causa, sicché in tali casi il giudice deve comunque verificare che sussista un inadempimento colpevole dell’agente integrante giusta causa di recesso.” ( Tribunale di Reggio Emilia, Sentenza 10 maggio 2017, n. 141)

Testo della sentenza

REPUBBLICA ITALIANA

TRIBUNALE DI REGGIO EMILIA

SETTORE LAVORO

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Giudice del lavoro di Reggio Emilia, dott. Elena Vezzosi, ha pronunciato la seguente

SENTENZA

Nel procedimento n. 906/2015 R.G.L. promosso da:

X , (C.F. ***), rappresentata e difesa dall’avv. Giulio Cesare Bonazzi del Foro di Reggio Emilia

-ricorrente-

contro

ALFA S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, signor Selmi Carlo, rappresentata e difesa dall’avv. Monica Rustichelli

-resistente-

 

in punto a: indennità cessazione rapporto, indennità di mancato preavviso, altri importi provvisionali

 

FATTO E DIRITTO

Con ricorso depositato in cancelleria il 17/9/2015 la sig. X conveniva in giudizio dinanzi al Giudice del Lavoro di Reggio Emilia la società ALFA s.p.a. chiedendo dichiararsi la nullità/illegittimità della clausola risolutiva espressa contenuta nel contratto inter partes, l’assenza di giusta causa nel recesso operato dalla mandante in data 4/3/2015 dal contratto di agenzia, ed il conseguente pagamento della somma di Euro 41.325,10 a titolo di indennità di mancato preavviso, € 39.953,61 a titolo di indennità ex art.1751 c.c., oltre a provvigioni su specifici ordini; il tutto con accessori su tali somme dalla cessazione del rapporto al saldo.

La ricorrente esponeva di aver svolto dal 13/1/2010 attività di agente in favore della convenuta –che opera nel settore della produzione e commercializzazione di materiali ceramici- per una parte della Francia (cfr. doc. 1) con reciproca soddisfazione; finchè, del tutto inaspettatamente, con RAR del 4/3/2015 la mandante recedeva ad nutum dal contratto di agenzia per asserita giusta causa (cfr. doc.8), invocando sia gli effetti della clausola risolutiva espressa (art.6 contratto), sia comunque l’art.12, a causa del mancato raggiungimento del budget minimo per l’anno 2014.

La ricorrente afferma non solo di essersi sempre conformata alle direttive aziendali e di aver ottenuto ottimi risultati complessivi in corso di rapporto (a fronte, per altro, della sottrazione da parte dell’azienda, nell’ottobre 2013, dell’importante cliente TRAFFIC 89 s.a.s.); ma che la condotta di ALFA fosse solo strumentale ad omettere il pagamento delle provvigioni su un consistente ordine perfezionatosi successivamente al recesso ma dovuto all’attività dell’agente nei mesi precedenti.

Si costituiva nei termini la società convenuta contestando il contenuto del ricorso e le pretese a credito.

In particolare ALFA evidenziava la legittimità della clausola risolutiva espressa, ed in ogni caso il netto calo del fatturato nella sola zona di competenza della X, a fronte invece di un complessivo incremento delle vendite su tutto il resto della Francia; mentre, con riguardo al cliente TRAFFIC, affermava che sia stato lo stesso cliente a chiedere di essere seguito direttamente dall’azienda a causa dei cattivi rapporti interpersonali con l’agente.

Dopo alcuni rinvii tesi ad una conciliazione, è stata disposta CTU contabile affidata al dr. De Luca; ed all’udienza odierna del 09.05.2017 esaurita la discussione orale, la causa è stata decisa come da sentenza contestuale letta in udienza all’esito della camera di consiglio.

Il ricorso è in parte fondato e va pertanto accolto.

Con riguardo alla clausola risolutiva espressa prevista dall’art.6.3 del contratto individuale[1], la scrivente aderisce (in buona compagnia: cfr. Corte d’Appello Milano 23/7/2013 n.218, Corte d’Appello di Bologna 27/8/2014; Tribunale Pescara sez. lav. 08 luglio 2016 n. 691) a quanto espresso sul punto da Corte Cass. 18/5/2011 n.10934, secondo cui in caso di ricorso da parte del preponente ad una clausola risolutiva espressa, tale clausola può ritenersi valida nei limiti in cui (oltre a non porsi in contrasto con eventuali previsioni in materia di accordi collettivi applicabili al rapporto) non venga a giustificare un recesso in tronco attuato in situazioni concrete e con modalità a norma di legge o di accordi collettivi non legittimanti un recesso per giusta causa, sicché in tali casi il giudice deve comunque verificare che sussista un inadempimento colpevole dell’agente integrante giusta causa di recesso.

Quanto poi a questo istituto, previsto dall’art. 2119 c. 1° c.c. in relazione al contratto di lavoro subordinato, esso è applicabile anche al contratto di agenzia, dovendosi tuttavia tener conto, per la valutazione della gravità della condotta, che in quest’ultimo ambito il rapporto di fiducia in corrispondenza della maggiore autonomia di gestione dell’attività per luoghi, tempi, modalità e mezzi, in funzione del conseguimento delle finalità aziendali- assume maggiore intensità rispetto al rapporto di lavoro subordinato, sicché ai fini della legittimità del recesso, è sufficiente un fatto di minore consistenza (cfr. tra le più recenti Cass. Sez. L. n. 11728 del 26/05/2014 rv. 631050).

Va per concludere ricordato come la giusta causa di recesso sia qualificata dalla norma come il verificarsi di una causa che non consenta la prosecuzione, neanche provvisoria del rapporto di lavoro, e la giurisprudenza è a sua volta assestata nel riconoscere a questa ipotesi connotati di particolare, intensa gravità, legati soprattutto (e soprattutto in materia di agenzia) alla violazione del vincolo fiduciario tra le parti.

In punto di fatto va allora esaminata la causa di recesso contestata da COEN, e cioè sostanzialmente il mancato raggiungimento da parte della X del budget minimo di vendita fissato per l’anno 2014 in € 610.000 (RAR del 8/1/2014, doc.6 ric).

Se da un lato non è contestato che l’agente non abbia raggiunto quel budget (per altro progressivamente aumentato rispetto agli anni precedenti: nel 2010 era pari a € 480.000, nel 2011 € 550.000, nel 2012 590.000, nel 2013 580.000 –cfr. doc.16 ric.), è stato accertato dal CTU (pg.30 perizia; doc.12 conv., che lo stesso CTU dichiara più attendibile del doc.7) che le vendite effettuate dalla ricorrente nell’anno 2014 ammontano ad € 525.749,00, pertanto lo scollamento dal budget è di una percentuale di circa il 13% in meno, percentuale da considerarsi sostanzialmente modesta o comunque di non tale gravità (a fronte dei successi della X nei 4 anni precedenti) da determinare un recesso immediato dal rapporto; certamente lo scostamento dal budget non può definirsi “eclatante” come iperbolicamente esposto dalla società.

Va inoltre osservato come nell’ottobre 2013 alla stessa fosse stato tolto il cliente Traffic (doc.4 ric;) e tale circostanza ha senza dubbio influito sull’andamento del fatturato, poiché esso cliente (anche qualora non raggiunga il vertice di acquisti dell’anno 2013, ove ha comprato per € 252.474 -doc.5 ric.; dato non contestato da COEN) è comunque importante, dal momento che il fatturato medio annuale dello stesso è superiore ai 150mila euro (cfr. doc.12 conv.). Va poi notato che sommando il fatturato Traffic dell’anno 2014 (che è stato singolarmente basso rispetto alla media di cui s’è dato conto, attestandosi in € 120.257,01 –sempre doc.12) a quello prodotto dalla ricorrente, la stessa avrebbe superato il budget minimo concordatocon ALFA (€ 525.749,00 + € 120.257,01= € 646.006); sicchè a maggior ragione l’esclusione di questo cliente ha pesato sul mancato raggiungimento del budget e comunque ha avuto un ruolo determinante nell’andamento degli affari. Va osservato infatti che Traffic era un cliente consolidato e sul quale la X poteva fare affidamento per l’assolvimento degli obblighi contrattuali: venuto meno lo stesso, la stessa ha dovuto riorganizzare il suo ‘giro’ clienti con evidente maggiore difficoltà rispetto ad una gestione consolidata dei contatti e delle visite. Non pare strano che dunque l’anno 2014 ne abbia risentito in termini di un minor risultato economico, il che non corrisponde ad un minore impegno di tempo ed energie di lavoro (anzi, semmai proprio il contrario); avendo per altro dimostrato la ricorrente di avere comunque in quell’anno procacciato due nuovi clienti.

Per altro, è stato anche dimostrato (e comunque accertato dal CTU) che l’andamento dell’anno 2015 si prospettava molto positivo per la zona X, dal momento che nel 2015 si assiste ad una netta ripresa delle vendite ed è stato verificato un fatturato, relativo a 9 mesi, pari ad € 538.814 (pg.30 CTU): di questa ripresa positiva ha avuto merito certamente la stessa X, sia perché è stata in forza all’azienda a tutti gli effetti per i primi tre mesi dell’anno, sia perché già nel 2014 ha dato prova di aver gettato le basi per un futuro lucroso affare con il cliente Pedrazzini per € 144.011,52 (pg.11 CTU).

Una condotta contrattuale di buona fede doveva portare COEN a valutare l’andamento in flessione degli ordini X dell’anno 2014 come transitorio e connesso con la sottrazione del cliente Traffic o comunque con fluttuazioni dell’andamento del mercato possibili di ripresa; ciò avrebbe consentito di attendere gli esiti –anche parziali- del 2015 e di prendere le conseguenti decisioni.

Va infine notato che nessun precedente accenno, prima della lettera di recesso, è stato fatto alla lavoratrice (la cui anzianità senza macchie avrebbe meritato) in corso d’anno richiamandola ad una maggiore attenzione al proprio portafoglio.

Peraltro, non emerge in alcun modo che il contestato calo di fatturato sia significativo del sostanziale disinteresse dell’agente nella cura della zona affidata, o sia altrimenti imputabile, e per quali ragioni, alla ricorrente, ed anzi lo scostamento dei risultati raggiunti dalla ricorrente non appare significativo, se comparato alla media degli altri agenti di zone limitrofe e a quelli raggiunti nell’anno precedente dalla medesimo agente, come risultanti dalla documentazione prodotta, sicché la contestazione appare destituita di fondamento sotto l’aspetto della condotta tenuta dalla lavoratrice (cfr., in materia di qualificabilità dello scarso rendimento come giusta causa di recesso dal rapporto di agenzia, Cass. Sez. L. n. 16772 del 17/07/2009 rv. 610330 e Cass. Sez. 2 n. 6008 del 17/04/2012 rv. 622285).

Sul punto, come esattamente osserva la difesa della ricorrente nelle note finali, i dati di comparazione tra l’operato X e gli altri agenti operanti in Francia offerti da COEN non appaiono omogenei tra loro, sia perché ogni zona presidiata ha le proprie peculiarità produttive e occupazionali (oltre che diversa estensione territoriale), sia perché non è coerente paragonare il fatturato di un solo agente – peraltro organizzato in maniera individuale – con la sommatoria dei fatturati di tutti gli altri agenti francesi.

L’erroneità di un siffatto confronto è facilmente riscontrabile laddove invece di prendere in considerazione il fatturato globale di tutta la Francia si proceda a una disamina dei fatturati dei singoli agenti ALFA (doc. 5 primo foglio fascicolo ALFA) e si raffrontino con quello raggiunto dalla signora X, dal momento che così procedendo si verifica che:

– nel 2010 la signora X ha fatturato secondo le stime del CTU 490.568,00 euro (pag. 30). Tra gli altri 19 agente ALFA per la Francia posti come termine di paragone da ALFA, l’unico che ha avuto un fatturato superiore è stato Eurocem Agence Commerciale che ha fatturato 519.444,72 (cfr. sub doc. 5 fascicolo ALFA) quello che segue la X ha fatturato 222.209,68 euro (ovvero meno della metà del fatturato X);

– nel 2011 la signora X ha fatturato secondo le stime del CTU 555.857,00 euro (pag. 30). Tra gli altri 19 agente ALFA per la Francia posti come termine di paragone da ALFA, nessuno ha fatturato più della X, quello che la segue è Eurocem Agence Commerciale che ha fatturato 489.110,92 euro (cfr. sub doc. 5 fascicolo ALFA), gli altri hanno fatturato meno della metà di quest’ultimo;

– nel 2012 la signora X ha fatturato secondo le stime del CTU 495.506,00 euro (pag. 30). Tra gli altri 19 agente ALFA per la Francia posti come termine di paragone da ALFA, nessuno ha fatturato più della X, quello che la segue è Eurocem Agence Commerciale che ha fatturato 323.152,34 (cfr. sub doc. 5 fascicolo ALFA), gli altri agenti hanno fatturato al massimo 195.398,69 e così solo a diminuire sino a arrivare a euro 311,02.

– nel 2013 la signora X ha fatturato secondo le stime del CTU 602.151,00 euro (pag. 30). Tra gli altri 19 agente ALFA per la Francia posti come termine di paragone da ALFA, nessuno ha fatturato più della X, quello che la segue è NB Diffusion sarl che ha fatturato 510.191,00 (cfr. sub doc. 5 fascicolo ALFA), gli altri agenti hanno fatturato al massimo 165.242,00 euro e così solo a diminuire sino a arrivare a euro 600,60.

– nel 2014 la signora X ha fatturato secondo le stime del CTU 525.749,00 euro (pag. 30). Tra gli altri 19 agente ALFA per la Francia posti come termine di paragone da ALFA, l’unico che ha avuto un fatturato superiore è stata una società, la NB Diffusion sarl, che ha fatturato 679.999,24 (cfr. sub doc. 5 fascicolo ALFA) quello che segue la X ha fatturato 135.758,35 euro (ovvero poco più di 1/5 del fatturato X).

Pare conclusivamente da escludere –per tutto quanto sino ad ora osservato- che al momento del recesso in tronco esistessero elementi di tale gravità da non consentire la prosecuzione, neanche provvisoria del rapporto di lavoro; men che meno si riscontrano nei fatti esaminati elementi –anche semplicemente indiziari- che evidenzino da parte della X violazione del vincolo fiduciario tra le parti.

 

A questo punto, per dirla con la Cassazione, “In tema di rapporto di agenzia, il recesso dell’agente per giusta causa si converte, ove si accerti l’insussistenza di quest’ultima e salvo che non emerga una diversa volontà dell’agente medesimo, in un recesso senza preavviso, che determina la riespansione del diritto della controparte a percepire le previste indennità ed all’eventuale risarcimento del danno” (Cass.Sez. 2, Sentenza n. 19579 del 30/09/2016).

Quindi alla ricorrente è dovuto il preavviso semestrale commutato in indennità, e le terminative di rapporto.

Per quantificare queste poste, è necessario risolvere la questione relativa all’ordine del cliente Pedrazzini, e cioè se per quest’ordine (giunto in azienda nel dicembre 2015) la ricorrente abbia diritto alle provvigioni (anche sotto l’aspetto del risarcimento del danno, come è richiesto in ricorso), e dunque se il calcolo del monte provvigionale complessivo –per poi effettuare il calcolo della misura dell’indennità sostitutiva- debba o meno ricomprendere anche questa somma.

La risposta appare negativa.

Se infatti è stato provato dalla X che la stessa lavorò a quell’affare già da novembre 2014, e comunque inviò proposta/preventivo a gennaio 2015, e pervenne in azienda sempre in costanza di rapporto con X (precisamente il 26/2/2015 –doc.7 bis ric.) lettera con richiesta di ‘protezione’ di esso cliente (il che significava una certa conclusione dell’ordine); è dirimente la circostanza che, per le più varie ragioni, l’ordine si è perfezionato solo in data 10/12/2015 (pg.11 CTU), sicché in periodo successivo ai 4 mesi di copertura successivi alla chiusura del contratto d’agenzia, a fronte di quanto previsto in maniera tassativa e inequivoca dall’u.c. dell’art.6 AEC 20/3/2002.

Pertanto, giusto il conteggio del CTU, l’indennità sostitutiva di preavviso della quale ha diritto la ricorrente è pari a € 19.632,74.

Quanto alle terminative, alla ricorrente spetta indennità per lo scioglimento del contratto di cui all’art.10 AEC 2002 nella fattispecie dell’indennità di risoluzione del rapporto e dell’indennità suppletiva di clientela di cui al capo II lett.A, calcolata della CTU in € 6.961,65.

Per chiarire il ragionamento del Giudice, è opportuno ricordare brevemente il regime delle indennità dovute all’agente a seguito della risoluzione del rapporto di agenzia.

Norma fondamentale è l’art. 1751 c.c., che dispone: “All’atto della cessazione del rapporto, il preponente è tenuto a corrispondere all’agente un’indennità se ricorrono le seguenti condizioni: l’agente abbia procurato nuovi clienti al preponente o abbia sensibilmente sviluppato gli affari con i clienti esistenti e il preponente riceva ancora sostanziali vantaggi derivanti dagli affari con tali clienti; il pagamento di tale indennità sia equo, tenuto conto di tutte le circostanze del caso, in particolare delle provvigioni che l’agente perde e che risultano dagli affari con tali clienti.

L’indennità non è dovuta: quando il preponente risolve il contratto per un’inadempienza imputabile all’agente, la quale, per la sua gravità, non consenta la prosecuzione anche provvisoria del rapporto; quando l’agente recede dal contratto, a meno che il recesso sia giustificato da circostanze attribuibili al preponente o da circostanze attribuibili all’agente, quali età, infermità o malattia, per le quali non può più essergli ragionevolmente chiesta la prosecuzione dell’attività; quando, ai sensi di un accordo con il preponente, l’agente cede ad un terzo i diritti e gli obblighi che ha in virtù del contratto d’agenzia.

L’importo dell’indennità non può superare una cifra equivalente ad un’indennità annua calcolata sulla base della media annuale delle retribuzioni riscosse dall’agente negli ultimi cinque anni e, se il contratto risale a meno di cinque anni, sulla media del periodo in questione“.

Quindi, l’art. 10 dell’AEC del 20.2.2002 stabilisce:

” Con la presente normativa le parti intendono dare piena ed esaustiva applicazione all’art. 1751 cod. civ. anche in riferimento alle previsioni dell’art. 17 della Direttiva CEE n. 86/653, individuando con funzione suppletiva modalità e criteri applicativi, particolarmente per quanto attiene alla determinazione in concreto della misura dell’indennità in caso di cessazione del rapporto, e introducendo nel contempo condizioni di miglior favore per gli agenti e rappresentanti di commercio, sia per quanto riguarda i requisiti per il riconoscimento dell’indennità, sia per ciò che attiene al limite massimo dell’indennità, stabilito dal terzo comma del predetto art. 1751 cod. civ. 9 A tal fine si conviene che l’indennità in caso di scioglimento del contratto sarà composta da due emolumenti: l’uno, denominato indennità di risoluzione del rapporto, viene riconosciuto all’agente o rappresentante anche se non ci sia stato da parte sua alcun incremento della clientela e/o del fatturato, e risponde principalmente al criterio dell’equità; l’altro, denominato indennità suppletiva di clientela, è invece collegato all’incremento della clientela e/o del fatturato e intende premiare essenzialmente la professionalità dell’agente o rappresentante. L’indennità in caso di scioglimento del contratto, di cui ai successivi capi I e II, sarà computata su tutte le somme, comunque denominate, percepite dall’agente nel corso del rapporto, nonché sulle somme per le quali, al momento della cessazione del rapporto, sia sorto il diritto al pagamento in favore dell’agente o rappresentante, anche se le stesse non siano state in tutto o in parte ancora corrisposte…”.

L’indennità suppletiva di clientela, come si legge nel capo II dell’art. 10 cit., spetta ” A) all’atto dello scioglimento del contratto di agenzia e rappresentanza commerciale, sarà corrisposta direttamente dalla ditta preponente all’agente o rappresentante, in aggiunta all’indennità di risoluzione del rapporto, di cui al precedente capo I, una indennità suppletiva di clientela, da calcolarsi sull’ammontare globale delle provvigioni e delle altre somme corrisposte o comunque dovute all’agente o rappresentante fino alla data di cessazione del rapporto e relative comunque ad affari conclusi dopo il 1° luglio 1989, secondo le seguenti aliquote (omissis) e B) In aggiunta agli importi previsti al capo I ed alla precedente lett. A), sarà riconosciuto all’agente o rappresentante un ulteriore importo a titolo di indennità suppletiva di clientela, a condizione che, alla cessazione del contratto, egli abbia apportato nuovi clienti al preponente e/o abbia sensibilmente sviluppato gli affari con i clienti esistenti, in modo da procurare al preponente anche dopo la cessazione del contratto sostanziali vantaggi derivanti dagli affari con tali clienti“.

L’indennità prevista dall’art. 1751 c.c. e quella delineata dagli accordi economici collettivi del 2002 alla lett.B sono tra loro alternative, e non cumulative.

Sul punto, è ben noto il percorso giurisprudenziale concernente l’attuazione della direttiva del consiglio Cee del 18 dicembre 1986, culminato nella pronuncia della Corte di Giustizia delle comunità europee del 23 marzo 2006 e nel successivo mutamento di indirizzo della S.C. in favore dell’interpretazione, fino ad allora minoritaria, incentrata sulla necessità di valutare ex post e in concreto il carattere di maggiore o minor favore della disciplina pattizia rispetto a quella legale (su cui, da ultimo, v. Casso civ., sez. lav., 14-01-2016, n. 486; 18413/2013; 15203/2010; 12724/2009; 23966/2008; 13363/2008; 405612008; 68712008; 16347/2007; 9538/2007).

Nel caso di specie. le parti, all’art. 11 del contratto di agenzia (doc. 1), hanno espressamente richiamato ai fini dell’integrazione del contenuto di esso le norme del vigente Accordo Economico Collettivo e alle norme del Codice civile; in questo giudizio, l’agente ha però prospettato il carattere di maggior favore dell’indennità legale rispetto a quella prevista in tali contratti, ritenendo equa la misura della media annua delle retribuzioni riscosse dall’agente negli ultimi cinque anni, invocando la disciplina pattizia solo in via subordinata.

La X chiede l’applicazione del trattamento di miglior favore dell’indennità di cessato rapporto prevista dal richiamato art. 1751 c.c. deducendo di aver acquisito nuovi clienti alla mandante e sviluppato sensibilmente gli affari con quelli preesistenti, continuando la società a ricevere sostanziali vantaggi derivanti dagli affari con tali clienti.

Occorre, quindi, preliminarmente verificare, in fatto, la sussistenza dei presupposti richiesti dalla norma invocata per poi, eventualmente, comparare in concreto l’indennità erogata con quella determinabile in base alla legge.

Sul punto è dirimente quanto accertato dal CTU, che a pg.29 e ss. dell’elaborato precisa come: “Dall’esame di tale documento [il doc.15 COEN ndr] si evince che rispetto ad un totale di 49 clienti “serviti” nel tempo dalla signora X, 33 di essi erano stati serviti nei 3 anni precedenti all’inizio del rapporto (anni 2007, 2008 e 2009) e pertanto si possono considerare non “nuovi”. I 16 “nuovi” sono tutti stati serviti anche negli anni 2014 e/o 2015, con l’eccezione di 2 serviti fino al 2013, e pertanto si possono considerare sostanzialmente “acquisiti”. Tuttavia risulta che solo 24 clienti, tra vecchi e “nuovi” sono stati serviti nell’anno 2014 e nei primi 9 mesi del 2015, pertanto più che di un vero e proprio incremento di clienti, pare potersi parlare di una “sostituzione” di clienti vecchi con i nuovi. Se si include anche il 2013, tali clienti diventano 31, e pertanto ci si ricolloca vicino al numero di clienti di partenza (33). Sotto il profilo dei valori, e tenendo conto che per il 2015 sono riportati soltanto i dati di 9 mesi su 12, si assiste nel 2015 ad una netta ripresa delle vendite, a fronte di un calo piuttosto sensibile nel 2014.

Tra il 2009 (anno precedente all’inizio del rapporto) ed il 2014, vi è una certa confrontabilità di dati, mentre appare un marcato miglioramento conseguito nel 2015…”.

In sostanza, i due dati sostanziali che emergono dall’esame svolto dal CTU sono il pressoché identico numero di clienti facenti capo alla X dal 2009 fino alla cessazione del rapporto, dunque con nessun sostanziale incremento del numero degli acquirenti; nemmeno sotto il profilo dell’aumento del fatturato e/o degli affari si riscontra alcun incremento, dal momento che i dati di partenza -2009- e quelli di arrivo -2015- sono pressoché omogeni. Le differenze di introiti riscontrate negli anni 2014 (in calo) e 2015 (in aumento) sono già state più sopra esaminate: il calo 2014 è verosimilmente dovuto alla perdita del cliente Traffic (ovviamente in alcun modo imputabile all’agente), mentre l’aumento 2015 è spiegato dalla grossa commessa Pedrazzini, ma anche dall’intervento sul precedente territorio di un nuovo agente che –com’è prassi- ha investito nuove risorse ed energie sulla piazza di competenza. Tutti questi elementi non possono dunque essere presi in considerazione per valutare l’effettivo incremento di zona ai sensi dell’art.1751 c.c..

Ne emerge il quadro complessivo di un’agente che ha ben lavorato senza eccellere, mantenendo sostanzialmente il parco clienti e il volume di fatturato iniziale.

Il Tribunale, quindi, osserva che, per costante insegnamento della giurisprudenza di legittimità, l’art. 1751 comma 1 c.c. ha introdotto una indennità avente funzione compensativa del particolare merito dimostrato dall’agente (Cass. civ., sez. lav., 23-06-2010, n. 15203), e dunque è necessario, per il suo riconoscimento, che ricorrano tutti i presupposti indicati dalla norma in disamina: l’aver procurato “nuovi clienti al preponente”, ovvero l’avere “sensibilmente sviluppato gli affari con i clienti esistenti”, e il ricevere da parte del preponente “ancora sostanziali vantaggi derivanti dagli affari con tali clienti”.

Non è quindi sufficiente la mera dimostrazione del procacciamento di nuova clientela, se non permangano “sostanziali vantaggi” dagli affari conclusi con costoro, dove i “vantaggi” di cui si fa menzione non possono che riflettersi sull’incremento di affari e quindi di fatturato; in altre parole, non è immaginabile il riconoscimento dell’indennità meritocratica per apporto di nuovi clienti se tale apporto non abbia incrementato di pari passo gli affari, quale conseguenza dell’ampliamento della clientela che deve, perciò, apportare un aumento di vendite e di incassi.

Nel presente giudizio, a prescindere dal dato numerico dei nuovi clienti procacciati, manca certamente la prova di questo requisito.

La domanda in parte qua non è dunque accoglibile.

E’ invece accoglibile la domanda relativa alle differenze provvigionali spettanti all’agente con riguardo agli ordini 840729 e 841370. Se da un lato è certo che entrambi questi ordini sono stati saldati da COEN, è da notare tuttavia che la provvigione calcolata dall’azienda su entrambi è pari al solo 5%, invece che l’8% previsto in contratto.

Tanto per altro si evince dalla @ inviata da ALFA alla X in data 24 febbraio 2015, ove si apprende che per “facilitare la logistica del cantiere” ALFA abbia unilateralmente deciso di non vendere direttamente al cliente “Sociètè Troyes Carrellages” ma alla società Traffic 89 / Point Vert con onere di quest’ultima di approvvigionare la prima (cfr. doc. 13 ric) e con conseguente riconoscimento all’Agente di una provvigione sull’affare pari al 5% anziché all’8% , che è quella applicata al cliente Traffic. Ma l’organizzazione logistica di COEN non può ovviamente ripercuotersi sulle provvigioni spettanti alla ricorrente, sicché la decisione di far transitare l’ordine su Traffic non influisce sulla percentuale applicabile all’ordine.

Pertanto, giusti i calcoli svolti dalla ricorrente a pg.44/45 delle note autorizzate, il complessivo credito provvigionale –basato sul ricalcolo all’8% delle provvigioni- è pari a euro 1.188,15, oltre oneri fiscali.

Quanto alle spese di lite, la solo parziale soccombenza di COEN sia riguardo all’an delle domande che al quantum delle stesse, fa sì che sia equa una parziale compensazione (nella misura di 1/3 del complessivo), mentre i rimanenti 2/3 vanno rifusi a parte ricorrente, anche tenuto conto che l’offerta effettuata da COEN di € 15.000 per transigere la causa si è dimostrata nei fatti del tutto inadeguata rispetto a quanto deciso in sentenza. Le spese sono da distrarsi in favore del procuratore antistatario.

Le spese di CTU vanno poste integralmente a carico dell’azienda, a fronte dei dati discordanti forniti dalla stessa (es: tra il doc. 10 “prospetto andamento fatturati clienti X” ove si leggono dati numerici differenti a quelli riportati nei docc. 5, 6, 7, 7bis e 12 e parzialmente differenti da quelli comunicati all’Agente cf. doc. 15 fascicolo ricorrente) che hanno richiesto una effettiva verifica contabile; ed a fronte comunque della soccombenza in causa della convenuta.

Ex lege la provvisoria esecuzione.

PQM

Il Giudice del Lavoro, ha pronunciato la seguente sentenza:

  1. In parziale accoglimento del ricorso, dichiarata l’illegittimità del recesso ad nutum della preponente per assenza di una giusta causa di recesso, condanna la società ALFA s.p.a a corrispondere a X la somma di € 19.632,74 a titolo di indennità di mancato preavviso e di € 6.961,65 a titolo di indennità suppletiva di clientela di cui all’art.10 punto II lett.A, oltre ad accessori come per legge su tali somme dalla data del recesso al saldo effettivo;
  2. condanna ALFA a corrispondere differenze provvigionali relative agli ordini per il cantiere ‘Galerie exterieure commerciale” pari a netti € 1.188,15, oltre ad accessori di legge dalla data dei pagamenti al saldo effettivo;
  3. rigetta le ulteriori domande svolte da parte ricorrente;
  4. Condanna ALFA s.p.a. a rifondere le spese di lite sostenute da parte ricorrente in misura di 2/3 dell’intero, intero che quantifica in complessivi € 6.500 di cui € 900 per spese oltre ad IVA e CPA., compensato tra le parti il restante terzo; pone definitivamente e per l’intero in carico della convenuta ALFA le spese di CTU già liquidate.
  5. Riserva la motivazione in giorni 60

Reggio Emilia, 09/10/2017

IL GL

Dott.Elena Vezzosi

 

Infortunio in itinere

Cassazione Civile  n. 7970/2012

  Non può essere considerato un infortunio sul lavoro (cd. infortunio in itinere), quello che si verifica mentre ci si reca in bicicletta al lavoro.

Secondo la Suprema Corte se è possibile ricorrere all’autobus per coprire il tragitto, il lavoratore può benissimo usare il mezzo pubblico che risulta anche più comodo. La decisione è della sezione lavoro che con sentenza in oggetto ha rigettato le richieste di una impiegata che era caduta con la bici nel tragitto casa-ufficio.                                                                                                                       Il Tribunale di Milano aveva accolto la domanda diretta ad ottenere l’indennizzo da parte dell’Inail.                                                                                                                                          La Corte d’appello ha riformato la pronuncia sul rilievo che la donna non aveva dimostrato la necessità di utilizzare il proprio mezzo di trasporto specie se si considera il fatto che il tragitto era coperto dal servizio di trasporto pubblico.                                                                                                                               La lavoratrice ricorreva in Cassazione sostenendo che i giudici di merito avrebbero dovuto considerare le sue condizioni di salute e familiari che rendevano consigliabile l’uso della bicicletta.                                                                                                         Una tesi che non ha convinto i giudici di legittimità, che hanno così confermato la decisione della Corte territoriale sottolineandone la correttezza del percorso logico laddove si è evidenziato che “il percorso dall’abitazione al luogo di lavoro era in pieno centro urbano e servito da mezzi di trasporto pubblico, anche su rotaie, che viaggiavano su corsie preferenziali”.                                                                                                     L’uso del mezzo pubblico, si legge in sentenza, avrebbe garantito oltretutto alla lavoratrice maggiore comodità e minore disagio nel conciliare le sue esigenze familiari e lavorative.

 

L’invenzione del dipendente

In tema di rivendicazione del dipendente

 

Tribunale Bologna. Sentenza n. 2381/12

 

Come è noto le rivendicazioni costituiscono quella parte del brevetto che definisce e delimita l’ambito di protezione del brevetto oppure, detto in altri termini e a norma dell’art. 52 Codice della Proprietà Industriale, quella parte che “contribuisce a formarne l’oggetto”. Continue reading “L’invenzione del dipendente”

Nullità del contratto di lavoro a tempo determinato

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 20 dicembre 2012 – 3 aprile 2013, n. 8120

Presidente Amoroso – Relatore Curzio

La mancanza di specificità delle ragioni giustificative del ricorso alla somministrazione temporanea di lavoro comporta la nullità del contratto di lavoro stesso. Viene infatti richiesto un elevato grado di specificità che consenta facilmente di classificare le suddette ragioni giustificative come legittimanti un contratto a tempo determinato, nonchè la verifica della loro effettività.

Ragioni della decisione

La ABB spa chiede l’annullamento della sentenza della Corte d’appello di Brescia, pubblicata il 13 ottobre 2009, che ha confermato la decisione con la quale il Tribunale di Bergamo aveva dichiarato la nullità del contratto di somministrazione stipulato con la Man Power spa e ordinato alla ABB di riammettere in servizio di Giacomo D..R. dal 9 agosto 2004. modificando la sentenza di primo grado solo in ordine al punto relativo alla entità della detrazione dell’aliunde perceptum.

Il ricorso è articolato in tre motivi.

Il R. si è difeso con controricorso. La ABB spa ha depositato una memoria.
Con il primo motivo la ABB denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 21 d. lgs. 276 del 2003 assumendo che tale norma “impone solo dei requisiti di forma” e che, “contrariamente a quanto affermato dalla Corte di merito, non è quindi richiesta alcuna “specificazione” delle ragioni sottostanti il ricorso al lavoro in somministrazione. Sarebbe pertanto sufficiente “la forma scritta e l’indicazione di una delle fattispecie indicate al comma 1”.

Con il secondo motivo si denunzia “omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio”. Viene denunciata una pretesa contraddizione nel ragionamento giuridico della Corte derivante dal fatto che, da un lato, ha ritenuto generica l’indicazione delle ragioni, dall’altro ha ritenuto di poter entrare nel merito della valutazione, il che attesterebbe che quella formula non era così generica da rendere impossibile valutazione e controllo.

Con il terzo motivo si denunzia “omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio. Violazione dell’art. 20, quarto comma, d. lgs. 276 del 2003”. Con tale motivo si contesta che le ragioni che giustificano la somministrazione debbano essere collegate ad eventi eccezionali, non ripetibili negli stessi tempi e con le medesime modalità, ovvero ad eventi che sconvolgano la normale programmazione e la cui durata non sia prevedibile.

Il ricorso non è fondato e la decisione deve essere confermata, anche se con motivazione in parte diversa da quella sentenza impugnata.

Prima di passare all’esame dei motivi, deve premettersi che tra la Abb spa ed il R. sono intercorsi più rapporti di lavoro a termine, basati su contratti commerciali di somministrazione stipulati tra la ABB spa e l’agenzia di lavoro interinale Man Power spa.

La Corte di Brescia ha dichiarato la nullità del primo contratto commerciale di somministrazione, stipulato il 6 agosto 2004, ritenendo generica l’indicazione delle ragioni del ricorso alla somministrazione. La nullità è stata dichiarata per violazione dell’art. 21 d. lgs 276 del 2003, che così recita: “il contratto di somministrazione di manodopera è stipulato in forma scritta e contiene i seguenti elementi:…… c) i casi e le ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche riferibili all’ordinaria attività dell’utilizzatore;…”.

L’ultimo comma della norma, nella versione applicabile al rapporto in esame “ratione temporis” dispone: “in mancanza di forma scritta, con indicazione degli elementi di cui alle lettere…c) del comma 1, il contratto di somministrazione è nullo e i lavoratori sono considerati a tutti gli effetti alle dipendenze dell’utilizzatore”.

La Corte di Brescia ha poi formulato una motivazione ulteriore, sottolineando che comunque le ragioni addotte risultavano inidonee a giustificare la somministrazione perché sussistevano già agli inizi del 2003, come rilevato dal Tribunale di Bergamo e quindi ben prima dell’epoca di stipulazione del contratto.

Il primo motivo di ricorso affronta la questione esaminata dalla Corte di Brescia nella prima parte della sua motivazione.

La questione è in realtà duplice. Il primo problema è quello di stabilire, in termini generali, se il contratto commerciale di somministrazione tra l’agenzia somministratrice e l’utilizzatore del lavoro interinale debba contenere la specificazione delle ragioni per le quali l’impresa utilizzatrice ricorre alla somministrazione. Problema distinto è poi quello di verificare se le ragioni indicate nel singolo contratto siano o meno specifiche.

La società ricorrente assume che “contrariamente a quanto affermato dalla Corte di merito, non è richiesta alcuna “specificazione” delle ragioni sottostanti il ricorso al lavoro temporaneo somministrato”.

La tesi non è fondata.

La disciplina della somministrazione di lavoro è dettata dagli artt. 20 – 28 del d. lgs. 276 del 2003.

Il primo di tali articoli, Part. 20, è intitolato “condizioni di liceità”, definisce il contratto di somministrazione e distingue tra somministrazione a tempo determinato e a tempo indeterminato.

Con riferimento alla somministrazione a tempo determinato, le condizioni di liceità sono indicate al quarto comma, con questa disposizione: “la somministrazione a tempo determinato è ammessa a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili alla ordinaria attività dell’utilizzatore”.

L’articolo successivo, il 21, statuisce che il contratto di somministrazione di manodopera deve essere stipulato in forma scritta e deve contenere una serie di elementi. Tra gli elementi necessari, il punto c) indica “i casi e le ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo di cui ai commi 3 e 4 dell’art. 20”.

Il termine “casi” è riferito al terzo comma concernente la somministrazione a tempo indeterminato, consentita nella casistica delineata ai punti da a) e i) di quel comma.

Il termine “ragioni” è riferito al quarto comma, concernente il contratto di somministrazione a tempo determinato, ammesso solo in presenza di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo.

Tutto ciò premesso, la risposta da dare al problema concernente la necessità o meno che le ragioni del ricorso alla somministrazione siano specificate, non può che essere positiva.

Come si è visto, la normativa prevede come “condizione di liceità” che il contratto sia stipulato solo in presenza di ragioni rientranti in quelle categorie ed impone di indicarle per iscritto nel contratto a pena di nullità (ultimo comma dell’art. 21); inoltre, il terzo comma dell’art. 27, sancisce che il controllo giudiziale è limitato “all’accertamento della esistenza delle ragioni” (e quindi consiste proprio in tale verifica).

La conseguenza di tutto ciò è che tali ragioni devono essere indicate per iscritto nel contratto e devono essere indicate, in quella sede, con un grado di specificazione tale da consentire di verificare se rientrino nella tipologia di ragioni cui è legata la legittimità del contratto e da rendere possibile la verifica della loro effettività.

L’indicazione, pertanto, non può essere tautologica, né può essere generica. Non può risolversi in una parafrasi della norma, ma deve esplicitare il collegamento tra la previsione astratta e la situazione concreta.

Nel caso in esame le ragioni del ricorso al lavoro in somministrazione sono state indicate in “punte di più intensa attività produttiva”, alle quali non era possibile far ricorso con i normali assetti produttivi aziendali, determinate “dall’acquisizione di commesse” o dal “lancio di nuovi prodotti”.

Questa indicazione delle ragioni in sede contrattuale è stata valutata dalla giurisprudenza di legittimità sufficientemente specifica. Esaminando una situazione del tutto simile, si è affermato: “….si tratta di causali ben note e sperimentate nella pratica contrattuale, che hanno rinvenuto espressa consacrazione in risalenti norme legali relative al contratto al termine (ed, in particolare, nel d.l. n. 876 del 1977, convertito nella l. n. 18 del 1978, che ha introdotto la disciplina del contratto a termine per punte stagionali”, poi estesa dalla l. n. 79 del 1983, art. 8-bis a tutti i settori economici, anche diversi da quello commerciale e turistico), e conferma negli orientamenti della stessa giurisprudenza, che, sotto il vigore della precedente disciplina della materia, ne aveva patrocinato una interpretazione allargata, e cioè comprensiva anche delle punte di intensificazione dell’attività produttiva di carattere meramente gestionale (v. già Cass. n. 3988/1986), sì da rispondere, in perfetta consonanza con gli orientamenti contrattuali, alle più svariate esigenze aziendali di flessibilità organizzativa delle imprese.
Ne deriva che le punte di intensa attività “non fronteggiabili con il ricorso al normale organico risultano sicuramente ascrivibili nell’ambito di quelle ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili all’ordinaria attività dell’utilizzatore, che consentono, ai sensi del d. Igs. n. 276 del 2003, art. 20, comma 4, il ricorso alla somministrazione di lavoro a tempo determinato e che il riferimento alle stesse ben può costituire valido requisito formale del relativo contratto, ai sensi dell’art. 21, comma 1, lett. c, della legge stessa” (Cass. 21 febbraio 2012, n. 2521).

Il fatto che siano state indicate più causali è anch’esso stato considerato dalla giurisprudenza di legittimità, che, occupandosi dei contratti a termine ha affermato il principio di diritto per il quale la pluralità di ragioni di apposizione del termine non collide con il criterio della specificità, a condizione che entrambe le ragioni specificate per iscritto rispondano a tale requisito e tra le stesse non sussista incompatibilità o intrinseca contraddittorietà (Cass. 16 marzo 2010, n. 6328; ma già Cass. 17 giugno 2008, n. 16396, nonché Cass. 22 febbraio 2012, n. 2622).

Quanto sinora affermato concerne il problema della specificità delle ragioni indicate nel contratto commerciale di somministrazione a spiegazione del ricorso alla somministrazione. Come si è detto, le ragioni devono essere specificamente indicate e quelle indicate nel contratto in esame possono essere considerate specifiche.

Problema distinto è quello della verifica della sussistenza in concreto di tali ragioni.

Potrebbe accadere che le ragioni siano indicate nel contratto in modo specifico e perfettamente confacente a quanto richiesto dalla legge, ma che poi la concreta utilizzazione del lavoratore non abbia alcun collegamento con tali ragioni.

Anche sul punto la giurisprudenza di legittimità si è espressa (Cass. 8 maggio 2012, n. 6933, cui si rinvia anche per i richiami).

La verifica della corrispondenza dell’impiego concreto del lavoratore a quanto affermato nel contratto è l’oggetto centrale del controllo giudiziario. Non vi sarebbe stato bisogno di una norma specifica a tal fine, perché valgono le regole generali dell’ordinamento. Tuttavia, una norma specifica si rinviene nel d.lgs. 276 del 2003 ed è costituita dal terzo comma dall’art. 27. Tale norma precisa che il giudice non può sindacare nel merito le scelte tecniche, organizzative o produttive in ragione delle quali un’impresa ricorre alla somministrazione, ma deve limitare il suo controllo, “all’accertamento delle ragioni che (la) giustificano”, cioè che giustificano il ricorso alla somministrazione. Il controllo giudiziario è concentrato quindi nella verifica della effettività di quanto previsto in sede contrattuale (sul punto, cfr., Cass. 6933 del 2012, cit.; 2521 del 2012 cit. e 15610 del 2011).

Questo accertamento è di competenza del giudice di merito e quindi, se motivato in maniera adeguata e priva di contraddizioni, non può essere rivalutato in sede di legittimità.

Nel caso in esame la Corte di Brescia ha effettuato la verifica con riferimento alle due ragioni indicate dalla società a spiegazione della necessità di in incremento produttivo temporaneo (punte di produttività), rilevando che in realtà solo una delle due ragioni indicate risultava accertata, quella relativa alla introduzione di un nuovo prodotto, ma che tuttavia anch’essa non poteva essere considerata idonea perché non vi era corrispondenza temporale tra il lancio del nuovo prodotto ed il ricorso alla somministrazione, poiché vi era una sfasatura di circa un anno e mezzo.

La motivazione in fatto della decisione sul punto non può dirsi né contraddittoria, né insufficiente e le critiche formulate nel ricorso attengono a valutazioni di merito che sono estranee al giudizio di legittimità e sono pertanto inammissibili in questa sede.

Nella memoria per l’udienza la società ha chiesto l’applicazione dell’art. 32, commi 5-7, della legge n. 183 del 2010, emanata dopo la proposizione del ricorso per cassazione. La richiesta non può essere accolta perché il capo della decisione relativo al risarcimento del danno, non essendo stato oggetto di specifici motivi d’impugnazione, è passato in giudicato (Cass. 3 gennaio 2011, n. 65, 4 gennaio 2011, n. 80, 3 febbraio 2011 n. 2452).

Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato. Le spese devono essere poste a carico della parte che perde il giudizio.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alla rifusione al controricorrente delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in 50,00 Euro per esborsi, nonché in 3.500,00 Euro per compensi professionali, oltre accessori come per legge.

Lavoro, è possibile rinnovare il licenziamento

  Rinnovazione del licenziamento

Secondo la giurisprudenza dominante il licenziamento che presenti un vizio formale- procedurale, salvo rare eccezioni, è inidoneo ad incidere sulla continuità del rapporto, che quindi rimane giuridicamente in vita. Ciò comporta la possibilità per il datore di lavoro di rinnovare il licenziamento originariamente viziato, sulla base degli stessi motivi addotti in precedenza, rispettando però le prescritte formalità e modalità omesse nell’ intimazione del primo recesso. Ovviamente tale rinnovazione non potrà mai configurarsi come convalida volta a sanare con efficacia ex tunc i vizi che gravano il recesso già intimato, in quanto una simile previsione sarebbe contraria al principio generale sancito dall’art. 1423 cod. civ., il quale, rubricato “Inammissibilità della convalida”, prevede che «il contratto nullo non può essere convalidato, se la legge non dispone diversamente». Più semplicemente, allora, la rinnovazione costituirà un atto diverso dal precedente: un nuovo licenziamento che, seppur dovuto ai medesimi motivi del primo recesso, non presenta né i vizi né l’efficacia di quest’ultimo, essendo perfetto dal punto di vista formale e decorrendo ex nunc dal momento in cui è portato a conoscenza del lavoratore (così Cass., 6 novembre 2006, n. 23641, in Dir. mercato lav., 2006, 622, e, nella giurisprudenza di merito, Trib. Reggio Calabria, 26 aprile 2006, in Giur. merito, 2007, 2, 375). Si può dunque affermare che il successivo licenziamento basato sugli stessi motivi posti a fondamento del precedente ha, rispetto a quest’ultimo, una propria autonomia sia strutturale, non risolvendosi in un richiamo per relationem, sia funzionale, non essendo diretto a dare al precedente recesso un’efficacia ex tunc (R. TRIVELLINI, Rinnovazione del licenziamento e “rilicenziamento”, in Dir. e prat. lav., 2004, 2610). Vi è però un elemento, pur sempre inerente ai presupposti formali del licenziamento, che, per la sua natura irreversibile, non può essere rinnovato, e la cui mancanza in occasione del primo recesso determina automaticamente, oltre all’invalidità di questo, anche quella del successivo: si tratta della tempestività della contestazione dell’addebito, ovviamente in ipotesi di licenziamento di natura disciplinare. È intuitivo, infatti, che una contestazione non tempestiva in relazione al primo recesso, per l’ovvia difficoltà di ricordare fatti assai risalenti nel tempo, impedisca il pieno e corretto esercizio del diritto di difesa da parte del lavoratore, e che, essendo il secondo recesso cronologicamente successivo al primo, la rinnovata contestazione disciplinare non potrà che porsi ad una maggiore distanza temporale dai fatti contestati, essere intempestiva e viziare il nuovo licenziamento. Da ultimo, resta da considerare che pare ormai superato quell’orientamento giurisprudenziale, peraltro minoritario, secondo il quale la rinnovazione di un licenziamento viziato sotto il profilo formale sarebbe possibile soltanto in caso di avvenuta ricostituzione del rapporto di lavoro, conseguente alla revoca del precedente provvedimento (C. App. Roma, 28 maggio 2001, in Nuovo dir., 2001, 1004) o ad una pronuncia di invalidità da parte del giudice (Pret. Roma, 19 novembre 1997, in Giur. lav. Lazio, 1998, 198), in quanto il licenziamento reiterato prima di tale momento sarebbe nullo per inesistenza dell’oggetto. È invece pacifico che la rinnovazione del recesso in base agli stessi motivi sostanziali, ma con le dovute formalità, sia possibile anche se la questione della validità del primo recesso sia ancora sub iudice, giacché non è la persistenza di fatto del rapporto, bensì la sua esistenza giuridica a costituire il presupposto indispensabile per l’ intimazione di un secondo licenziamento. Naturalmente, se la rinnovazione interviene quando il primo recesso è ancora sub iudice, essa vale ad interrompere con efficacia ex nunc il rapporto che si verrebbe eventualmente a ricostituire per effetto della sentenza che rilevi l’invalidità, nonché a limitare i danni dovuti alle sole retribuzioni maturate tra il primo ed il secondo licenziamento.

 

Concorrenza sleale del dipendente e licenziamento

Corte di Cass. sentenza n. 18169 depositata il 10 agosto 2009

La Suprema Corte  è pervenuta alla conclusione che se un   dipendente fa concorrenza sleale in danno dell’azienda presso cui lavora, quest’ultima può licenziarlo senza la necessità del consueto preavviso. Secondo la ricostruzione fatta dagli ermellini, il lavoratore dopo il licenziamento aveva proposto ricorso al Tribunale di Udine sostenendo che il licenziamento era illegittimo perchè il datore di lavoro non gli aveva mandato il preavviso. Il lavoratore era risultato soccombente e aveva quindi proposto ricorso alla Corte d’Appello di Trieste che, a sua volta, aveva rigettato il ricorso del lavoratore, spiegando che dovevano ritenersi provati i fatti gravi a fondamento del licenziamento, per violazione dell’obbligo di fedeltà sancito sia dall’articolo 2015 del codice civile: il   dipendente  aveva svelato notizie sia tecniche che contabili sulle confezioni per alimenti  ad un diretto concorrente. “Secondo la costante giurisprudenza di legittimità, che il Collegio condivide – hanno affermato gli Ermellini – i comportamenti del lavoratore che costituiscano gravi violazioni dei suoi doveri fondamentali sono sanzionabili con il licenziamento disciplinare a prescindere dalla loro inclusione o meno tra le sanzioni previste dalla specifica regolamentazione disciplinare del rapporto e anche in difetto della pubblicazione del codice disciplinare, purchè siano osservate le garanzie previste dall’art.7, commi 2 e 3 della legge n. 300/1970”. Inoltre, visto che l’attuale ricorrente ha violato “un obbligo fondamentale, quale quello sancito dall’art.2105 cod. civ., poteva prescindersi dall’avvenuta affissione, o meno, del codice disciplinare, la sentenza impugnata ha pertanto applicato correttamente nella fattispecie i principi testè richiamati”.