Anno: 2018

Dalla conferenza mondiale delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico (COP 24)

Si è conclusa la scorsa settimana, dopo due settimane di  negoziati e conferenze a Katowice, in Polonia, l’annuale Conferenza sul cambiamento climatico organizzata dalle Nazioni Unite.

Joan Carling, vincitrice del prestigioso riconoscimento “UN Environment Champions of the Earth Award” e Francesco Martone, per tre anni presidente di Greenpeace Italy, sono da sempre impegnati nella difesa e nella promozione dei diritti umani. Si rinvia al link sottostante per un’interessante intervista in cui i due trattano dell’intrinseco legame tra diritti umani e giustizia ambientale.

Autori: Tommaso Orlandi e Giulia De Nadai.

L’intervista è disponibile al link : http://www.stampagiovanile.it/destinazionenews-clima?art=275

Successione ereditaria. Il divieto di alienazione imposto con il testamento e la divisione dei beni ereditari

Corte di Cassazione n. 26351 del 7 novembre 2017

Prima di affrontare il tema specifico oggetto della pronuncia in esame, pare opportuno osservare che anteriormente alla riforma del diritto di famiglia (attuata con la Legge 151 del 1975), l’art. 692 u.c. c.c. sanzionava espressamente con la nullità ogni clausola testamentaria diretta a vietare le guerre sono quelli su cui si legge quanto di seguito 22301 molto interessante che serie facendo sulla responsabilità da un difetto di un italiano di leggerezza, di riforma del 75, la giurisprudenza di legittimità ha riconosciuto che la nullità della clausola testamentaria con la quale si imponga all’erede il divieto di alienazione a pena di risoluzione della relativa istituzione, vada affermata nel vigore dell’attuale codice civile, in quanto il divieto in parola sarebbe ancora deducibile dalla generalizzata proibizione normativa del fedecommesso, al di fuori della specifica ipotesi di legge ( Corte di Cass. sent. n. 6005/1981).

Va detto, che secondo parte della giurisprudenza il divieto di alienazione può considerarsi valido se contenuto entro ragionevoli limiti di tempo, purché sia sorretto da un apprezzabile interesse del testatore, secondo il principio generale di cui all’art. 1379 c.c., mentre la deve considerarsi nulla la clausola testamentaria che contiene un divieto di alienazione senza limiti temporali, e dunque perpetuo, ponendosi in insanabile contrasto con il principio secondo cui il diritto di proprietà non tollera limitazioni o compressioni, sia nella facoltà di godimento che in quella di disposizione, che non siano quelle espressamente previste dalla legge

Tanto premesso con la pronuncia in oggetto la Corte di Cassazione è giunta ad affermare che la divisione ( rectius, lo scioglimento della comunione ereditaria) con assegnazione di un bene ai condividenti non è qualificabile come atto di alienazione e, quindi, non viola il relativo divieto imposto dal testatore, in quanto l’effetto “dichiarativo-retroattivo” della divisione rende ogni comproprietario titolare di quanto attribuitogli fin dall’epoca di apertura della successione. Il divieto di alienare imposto dal testatore non impedisce la divisione dei beni in quanto l’atto ha natura dichiarativa e non di atto di disposizione, sia che la divisione sia compiuta in forma giudiziale che convenzionale.

Contratti e clausole vessatorie: la illeggibilità del testo non necessariamente implica nullità della clausola

Corte di Cassazione ordinanza n. 3307 del 12 febbraio 2018

Il tema delle clausole vessatorie rimane di stretta attualità, specialmente ove si considerino la diffusione della passi del porta a porta anche soltanto per i rapporti inerenti e utenze telefoniche o i servizi di somministrazione di energia elettrica, e gas, per non parlare delle innumerevoli altre proposte contrattuali della più svariata natura che vengono proposte con cadenza ormai quasi giornaliera sia ai consumatori che alle imprese (si considerino anche soltanto le proposte di manutenzione degli impianti o quelle inerenti la pubblicità o la visibilità in rete).

Ora, con l’arresto che si segnala all’attenzione del lettore, la Corte di Cassazione è giunta ad affermare un importante principio per il caso in cui il testo delle condizioni generali di contratto si presenti illeggibile, decisone che deve indurre ad elevare la soglia di guardia.

Infatti, gli ermellini, a proposito di clausole vessatorie presenti – come nella fattispecie la clausola derogatoria della competenza territoriale – nei formulari predisposti per regolare rapporti uniformi, hanno affermato il seguente principio: “In materia di contratti conclusi mediante la sottoscrizione di moduli o formulari predisposti per disciplinare in modo uniforme determinati rapporti, la clausola con cui si stabilisce una deroga alla competenza territoriale ha natura vessatoria e deve essere, ai sensi dell’art. 1341 Cod. Civ., comma 2, approvata espressamente per iscritto. Qualora la medesima risulti scarsamente o per nulla leggibile, sia perché il modello è in fotocopia sia perché i caratteri grafici sono eccessivamente piccoli, il contraente debole può esigere dalla controparte che gli venga fornito un modello contrattuale pienamente leggibile; ma, ove ciò non abbia fatto, non può lamentare in sede giudiziale di non aver rettamente compreso la portata della suddetta clausola derogatoria”.

Il principio affermato si pone sulla scia di precedenti analoghe pronunce, tuttavia, se si può anche comprendere la logica che sottende al principio espresso dalla Corte per quanto concerne le clausole scritte in caratteri ridotti, lascia perplessi la equiparazione di questa ipotesi a quella di un testo illeggibile. In questo caso, infatti, dovrebbe prevalere il principio della buona fede contrattuale.

Qui il testo integrale della sentenza

Omesso versamento di ritenute alla fonte, la prova del reato

Cass., Sez. Un., sent. 22 marzo 2018 (dep. 1° giugno 2018) n. 24782

Massima

Attesa la natura innovativa non interpretativa, delle modifiche apportate dal d.leg. 158/15 all’art. 10 bis d.lgs. 74/00 (che attualmente sanziona l’omesso versamento delle ritenute se indicate sia nella dichiarazione del sostituto sia nelle certificazioni rilasciate ai sostituti), ai fini della prova della responsabilità per il reato di omesso versamento delle ritenute, per fatti commessi prima dell’entrata in vigore delle modifiche, non è di per sé sufficiente l’allegazione dell’attestazione (dichiarazione -c.d. modello 770) proveniente dal sostituto d’imposta.

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Con la sentenza in oggetto le Sezioni Unite della Cassazione hanno composto un contrasto giurisprudenziale insorto in seno alle sezioni semplici della stessa Corte.

La pronuncia ha il pregio di occuparsi anche dell’interpretazione della nuova disciplina sanzionatoria dell’omesso versamento delle ritenute alla fonte, così come modificata dal d.lgs. n. 158/2015.
Nelle motivazioni della sentenza che ripercorre con pregevole analiticità l’iter evolutivo della disciplina sanzionatorie in materia di ritenute, e che per la chiarezza espositiva può essere agevolmente compresa anche dai non addetti ai lavori, viene in sintesi affermato che, nella disciplina ante riforma del 2015:

• è dato condiviso in giurisprudenza che l’avvenuto rilascio delle certificazione relative alle ritenute costituisse inequivocabilmente ab orgine l’elemento discriminante per l’attribuzione di rilevanza penale all’omesso versamento delle stesse, altrimenti comunque sanzionato come illecito amministrativo nell’ipotesi di mera omissione non accompagnata dall’rilascio della detta certificazione;

• per l’accertamento in concreto del fatto reato permane in capo al pubblico ministero l’onere di provare inderogabilmente tutti gli elementi a fondamento della pretesa punitiva;

• non rappresenta prova sufficiente la dichiarazione (denominata anche modello 770) ponendosi come ineludibile la necessità di confermarne o integrarne il contenuto con altre fonti di prova, documentali (ad esempio le certificazioni delle ritenute ai sostituiti) o testimoniali (es. le dichiarazioni rilasciate dagli stessi sostituiti).

Per dare un quadro di sintesi può essere estrapolato un tratto della motivazione che traccia la linea di demarcazione tra vecchia e nuova disciplina: “a parte l’innalzamento della soglia della rilevanza penale (ora elevata a 150.000,00 € per ciascun periodo d’imposta), è dunque evidente l’elemento differenziale nelle due versioni della norma: mentre in quella ante 2015 si faceva riferimento alle sole ‘ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti’ (quindi il CUD o CU) ad oggi la norma, nella formulazione vigente, appare operare anche, ed alternativamente, il riferimento alle ‘ritenute dovute sulla base della stessa dichiarazione’ (cioè quella annuale del sostituto, e, quindi, il mod. 770)”.

Il teso integrale della sentenza:

CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE – SENTENZA 1 giugno 2018, n.24782 – Pres. Carcano – est. Andreazza

Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 26 gennaio 2017 la Corte d’appello di Ancona ha confermato la sentenza del 27 gennaio 2015 del Tribunale di Fermo di condanna di M.E. alla pena di otto mesi di reclusione per il reato di cui all’art. 10-bis del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 per avere omesso, quale legale rappresentante della MRC S.r.l., di versare, nei termini previsti per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto d’imposta, le ritenute relative agli emolumenti erogati nell’anno di imposta 2010 per un ammontare complessivo di Euro 222.602,89.
2. Avverso la suddetta sentenza ha presentato ricorso M.E. .
2.1. Con un primo motivo, ex art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., denuncia violazione ed erronea applicazione dell’art. 10-bis del d.lgs. n. 74 del 2000, nonché dell’art. 4, comma 1 e comma 6-ter del d.P.R. 22 luglio 1998 n. 322, per avere il giudice d’appello ritenuto, in contrasto con il richiamato orientamento giurisprudenziale di legittimità, che l’elemento costitutivo del reato rappresentato dal rilascio ai sostituiti d’imposta delle certificazioni da parte dell’imputato sia stato adeguatamente dimostrato sulla base della sola dichiarazione modello 770/2011, di per sé sola inidonea a tal fine.
2.2. Con un secondo motivo, ex art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., lamenta violazione ed erronea applicazione degli artt. 27 Cost., 6 Convenzione Edu e 533 cod. proc. pen., per avere la Corte territoriale, affermando che l’imputato non avrebbe mai allegato espressamente di non avere rilasciato i certificati, violato la regola per cui la prova della responsabilità penale deve essere fornita dall’accusa.
2.3. Con un terzo motivo, ex art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., denuncia nullità della sentenza ai sensi dell’art. 125, comma 3, cod. proc. pen. per motivazione apparente quanto alla individuazione dell’imputato come autore del presunto reato sulla base del modello 770 dallo stesso sottoscritto e tuttavia, per quanto già detto, non valorizzabile quanto al rilascio delle certificazioni; né la sentenza avrebbe indicato le prove di un concorso materiale o morale nonostante al riguardo fosse stato proposto motivo d’appello.
2.4. Con un quarto motivo denuncia, ex art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., violazione ed erronea applicazione degli artt. 1, comma 143, l. 24 dicembre 2007, n. 244, 322-ter cod. pen., 1, comma 75, lett. o), della l. n. 190 del 2012 e 25, comma 2, Cost. lamentando che il giudice d’appello non avrebbe considerato che l’imputato è stato punito con una pena non prevista all’epoca di commissione del reato: la pena della confisca per equivalente per un valore corrispondente al profitto del reato sarebbe stata infatti introdotta solo con l’art. 1, comma 75, lettera o), della l. n. 190 del 2012, laddove il reato risulta commesso invece nel 2011. Sarebbe stato quindi violato l’art. 25 Cost.; inoltre non sussisterebbero i presupposti per la confisca stante la mancanza di prova di effettiva evasione da parte della società e di incasso da parte del ricorrente della somma non versata, né sussisterebbe prova di concorso ex art. 110 cod. pen..
2.5. Con un quinto motivo denuncia, ex art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., violazione dell’art. 1 Protocollo n. 1 Convenzione Edu e degli artt. 42 e 117 Cost. ‘da parte’ dell’art. 322-ter cod. pen.. Lamenta il ricorrente che il giudice d’appello ha respinto come manifestamente infondate le questioni di illegittimità costituzionale dell’art. 322-ter cit. laddove lo stesso consentirebbe di far luogo alla confisca di beni anche immobili che non hanno alcun vincolo pertinenziale con il reato commesso e la cui confiscabilità risiederebbe unicamente nell’appartenenza dei medesimi al ricorrente, in tal modo violando il necessario equilibrio, imposto dal criterio di ragionevolezza e proporzionalità di cui all’art.1 del Protocollo cit. integrante l’articolo 42 Cost., tra le esigenze di interesse generale della comunità e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali dell’individuo.
3. Con ordinanza in data 23 novembre 2017, la Terza sezione penale di questa Corte, rilevata l’esistenza di difformità di orientamenti interpretativi in ordine alla questione di diritto coinvolta dal primo motivo di ricorso, riguardante la idoneità o meno del solo modello 770 a provare l’avvenuto rilascio delle certificazioni delle ritenute fiscali operate, ha rimesso la trattazione del ricorso alle Sezioni unite. Sul punto, infatti, sulla premessa che il rilascio delle certificazioni è presupposto o elemento costitutivo del reato in oggetto, un primo indirizzo originario ha a suo tempo ritenuto sufficiente, per provare il rilascio delle certificazioni attestanti l’effettuazione delle ritenute, la avvenuta presentazione della dichiarazione modello 770 ad opera del sostituto d’imposta (giacché ‘non avrebbe senso dichiarare quello che non è stato corrisposto e, perciò stesso, certificato’). Un secondo indirizzo, successivamente formatosi, ha invece ritenuto appunto l’inidoneità della sola dichiarazione suddetta, ove non accompagnata da altri elementi, a provare il rilascio delle certificazioni; e ciò perché la stessa è unicamente destinata ad attestare, per il suo contenuto, l’importo delle somme corrisposte dal sostituto e delle ritenute da lui operate nonché il loro versamento, nulla invece contenendo in punto di rilascio delle certificazioni. Di qui la natura di mero indizio della dichiarazione non sufficiente a provare l’elemento del rilascio delle certificazioni. Si è inoltre ritenuto, sempre nell’ambito di tale orientamento, che detta impostazione abbia trovato una conferma nella modifica della norma operata con il d.lgs. n. 158 del 2015 che ha posto, accanto al testuale riferimento delle ritenute ‘risultanti dalle certificazioni rilasciate’, anche quello delle ritenute dovute sulla base della dichiarazione predetta, in tal modo accreditando, per i soli fatti posti in essere successivamente alla novella, di natura innovativa e dunque non retroattiva, l’idoneità della stessa sotto il profilo probatorio richiesto.
4. Il Primo Presidente, preso atto dell’esistenza del contrasto, con decreto del 19 dicembre 2017, ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, fissando per la trattazione del medesimo in pubblica udienza la data odierna.
Considerato in diritto
1. La questione di diritto in ordine alla quale il ricorso, con riferimento essenzialmente al primo motivo, è stato rimesso alle Sezioni Unite, è sinteticamente riassumibile nei seguenti termini:
‘Se, ai fini dell’accertamento del reato di cui all’art. 10-bis del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, nel testo anteriore all’entrata in vigore dell’articolo 7, comma 1, lett. b), del d. lgs. 24 settembre 2015, n. 158, sia sufficiente la sola dichiarazione modello 770 proveniente dal datore di lavoro per integrare la prova dell’avvenuta consegna ai sostituiti delle certificazioni delle ritenute fiscali’.
2. È necessario in primo luogo richiamare i tratti essenziali della disciplina relativa al versamento delle ritenute, operate sulle retribuzioni, da parte del sostituto d’imposta e, subito dopo, soffermarsi sulla regolamentazione, sotto il profilo sanzionatorio, delle relative omissioni.
Va quindi anzitutto ricordato che la sostituzione predetta è uno strumento impositivo con il quale l’Amministrazione finanziaria, in luogo della riscossione dell’imposta direttamente dal percettore del reddito, incassa il tributo da un altro soggetto, ovvero quello che eroga gli emolumenti, il quale assume la qualifica di ‘sostituto’ d’imposta in quanto tenuto al pagamento in luogo dell’altro (normale soggetto passivo, c.d. ‘sostituito’), sotto forma di prelievo di una percentuale (c.d. ‘ritenuta alla fonte’) della somma oggetto di erogazione (costituente reddito) e del suo successivo versamento all’Erario (in genere con cadenza mensile).
L’istituto ha la sua ragion d’essere nell’esigenza pratica di colpire la ricchezza da tassare nel momento della produzione, prima ancora che la stessa giunga nella disponibilità del destinatario e si applica, in base a quanto stabilito dal Titolo III del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, ad una platea di soggetti comprendente gli enti pubblici, gli istituti di credito, i soggetti esercenti attività di impresa, ovvero artistica e professionale, che corrispondono redditi di lavoro dipendente o assimilati, redditi di lavoro autonomo, redditi di capitale, provvigioni inerenti a rapporti di commissione, agenzia, mediazione, rappresentanza di commercio e procacciamento d’affari o redditi diversi. L’operatività del meccanismo di sostituzione d’imposta comporta l’adempimento di determinati obblighi strumentali a carico del sostituto, il quale deve essenzialmente: provvedere, entro scadenze predeterminate (precisamente entro il 16 del mese successivo a quello in cui le somme sono state corrisposte), al versamento in favore dell’Erario degli importi delle ritenute operate alla fonte; rilasciare al sostituito (entro il 31 marzo dell’anno successivo a quello di erogazione delle somme) una ‘certificazione unica’ (CU) attestante l’ammontare complessivo delle somme corrisposte e delle ritenute operate (in modo da permettere al soggetto passivo di documentare e di dimostrare il prelievo subito), delle detrazioni di imposta effettuate e dei contributi previdenziali e assistenziali; trasmettere in via telematica detta certificazione all’Agenzia delle Entrate entro il 7 marzo sempre dell’anno successivo; presentare infine la dichiarazione annuale unica di sostituto d’imposta (mod. 770) dalla quale risultino tutte le somme pagate e le ritenute operate nell’anno precedente.
A loro volta i contribuenti sono obbligati a conservare le certificazioni così rilasciate e ad esibirle a richiesta degli uffici competenti per i dovuti controlli (come previsto dall’art. 3, comma 3, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600).
2.1. Quanto alla disciplina sanzionatoria, va ricordato che inizialmente l’omesso versamento di ritenute da parte del sostituto era previsto dall’art. 2 d.l. 10 luglio 1982, n. 429, convertito dalla l. 7 agosto 1982, n. 516, che, nel suo testo originario, contemplava espressamente come condotta delittuosa il fatto di non versare all’erario le ritenute effettivamente operate, a titolo di acconto o di imposta, sulle retribuzioni corrisposte ai lavoratori’.
La norma veniva successivamente modificata dall’art. 3 d.l. 16 marzo 1991, n. 83, convertito dalla l. 15 maggio 1991, n. 154 che provvedeva, diversificando la risposta sanzionatoria, a contemplare, alla lett. a), il fatto del mero ‘mancato versamento nel termine delle ritenute’ ed invece, alla lett. b), il fatto del ‘mancato versamento nel termine delle ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti’, con ulteriore diversificazione, in tale secondo ambito, della sanzione a seconda del superamento o meno di determinate soglie di punibilità.
Allo stesso tempo, la condotta veniva sanzionata anche in via amministrativa per effetto dell’art. 13, comma 1, del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, attesa l’introduzione di una specifica previsione in tal senso riguardante i versamenti tributari in generale dovuti ‘alle prescritte scadenze’.
La previsione penale veniva tuttavia soppressa dall’art. 25 lett. d) del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, espressamente abrogativo del titolo I del d.l. 10 luglio 1982, n. 429, convertito dalla legge 7 agosto 1982, n. 516, ivi compresi, dunque, anche i reati a carico del sostituto di imposta, senza alcuna contestuale introduzione di fattispecie di reato in continuità normativa rispetto a quella di cui al citato art. 2 della legge n. 516.
Ne derivava, pertanto, che la condotta omissiva più volte indicata, non più prevista come reato, residuava solo come illecito di carattere amministrativo, attesa la scelta del legislatore di eliminare, testualmente, una ‘figura criminosa (…) più di altre (…) al centro di vivaci polemiche’ anche in ragione della sua caratterizzazione, né più né meno, come di mero inadempimento di un debito, sia pure nei confronti dello Stato, non caratterizzato da alcuna componente di tipo fraudolento.
Il fatto tornava però a riacquistare le caratteristiche di illecito penale con l’art. 1, comma 414, della l. 30 dicembre 2004, n. 311 (legge finanziaria per l’anno 2005), che provvedeva ad inserire nell’impianto normativo del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 l’art. 10-bis dal titolo ‘Omesso versamento di ritenute certificate’, venendo questa volta, infatti, sanzionato l’omesso versamento, unicamente ove riguardante ‘ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti’, per un ammontare superiore a cinquantamila Euro per ciascun periodo di imposta.
La norma è stata infine modificata per effetto dell’art. 7 del d.lgs. 24 settembre 2015 n. 158, sì che attualmente è punito ‘chiunque non versa entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta ritenute dovute sulla base della stessa dichiarazione o risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti, per un ammontare superiore a centocinquantamila Euro per ciascun periodo d’imposta’.
2.2. A parte l’innalzamento della soglia della rilevanza penale, appare dunque evidente l’elemento differenziale nelle due versioni della norma: mentre in quella ante 2015 si faceva riferimento alle sole ‘ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti’ (quindi il CUD o CU) ad oggi la norma appare operare anche, ed alternativamente, il riferimento alle ‘ritenute dovute sulla base della stessa dichiarazione’ (cioè quella annuale del sostituto, e, quindi, il mod. 770).
3. Tanto premesso, la questione portata al vaglio delle Sezioni Unite – per vero la stessa questione era stata rimessa nel 2015, ma, in ragione della sopravvenuta estinzione del reato, la Corte, con la sentenza n. 19755 del 24/09/2015 (dep. 2016), Mondello, non è potuta entrare nel merito – affonda le sue radici nel contrasto (che, come si dirà in seguito, è in realtà contrasto non già in ordine all’esegesi della norma bensì, piuttosto, sulle conseguenze, sotto il profilo probatorio, della caratterizzazione normativa delle ritenute, il cui versamento venga omesso, come necessariamente risultanti dalla certificazione rilasciata) che si è formato in seno alla Terza Sezione penale, nella vigenza della formulazione dell’art. 10-bis cit. anteriore alla modifica del 2015, quanto in particolare alla sufficienza della dichiarazione mod. 770 del sostituto a dimostrare l’avvenuto rilascio ai sostituiti delle certificazioni; e ciò a fronte della necessità di considerare tale rilascio, sulla base della formulazione della norma, se non quale elemento costitutivo del reato, quanto meno di suo presupposto.
3.1. Un primo orientamento è stato originato dalla pronuncia di Sez. 3, n.1443 del 15/11/2012 (dep.2013), Salmistrano, Rv. 254152: nell’affermare che nel reato di omesso versamento di ritenute certificate, la prova delle certificazioni attestanti le ritenute operate dal datore di lavoro, quale sostituto d’imposta, sulle retribuzioni effettivamente corrisposte ai sostituiti, può essere fornita dal pubblico ministero mediante documenti, testimoni o indizi, la sentenza riconosce espressamente come sufficiente a tal fine la allegazione dei mod. 770 provenienti dal datore di lavoro. Dopo avere premesso che l’art. 10-bis, pur costituendo ‘una nuova fattispecie criminosa introdotta o reintrodotta dalla novella citata senza alcuna continuità normativa con le disposizioni previgenti’, opera sullo stesso piano della norma abrogata, seguendo una ratio consistente nell’’impedire, attraverso la sanzione penale, che il datore di lavoro ometta di versare le somme trattenute, quale sostituto di imposta, sulle retribuzioni corrisposte al lavoratori’, la pronuncia sottolinea come la norma, mediante il riferimento alle ‘certificazioni rilasciate ai sostituiti’ in luogo della più generica formula che si rinveniva nell’articolo 2 del d.l. 10 luglio 1982 n. 429, convertito in l. 7 agosto 1982 n. 516 (‘le ritenute effettivamente operate, a titolo di acconto o di imposta, sulle somme pagate’) abbia inteso esplicitare in modo assolutamente chiaro che la sanzione penale trova applicazione soltanto sulle ritenute effettivamente operate sulle retribuzioni corrisposte ai dipendenti; non vi sarebbe dunque ragione ‘per ritenere che la prova del rilascio quale elemento costitutivo del reato debba ricavarsi solo dalle ‘certificazioni’ senza possibilità di ricorrere ad ‘equipollenti’ potendo l’onere probatorio essere assolto dal pubblico ministero ‘mediante il ricorso a prove documentali o testimoniali oppure attraverso la prova indiziaria’. Di qui, dunque, l’idoneità a tal fine anche del modello 770 posto che da esso emerge la prova delle ritenute operate e che tali ritenute ‘devono ritenersi per ciò stesso certificate, dal momento che non avrebbe senso dichiarare quello che non è stato corrisposto e, perciò stesso, certificato’.
Tale indirizzo risulta successivamente seguito, tra le altre, da Sez. 3, n. 33187 del 12/06/2013, Buzi, Rv. 256429; Sez. 3, n. 20778, del 06/03/2014, Leucci, Rv. 259182; Sez. 3, n. 19454 del 27/03/2014, Onofrio, Rv. 260376, ove i concetti già enucleati dalla pronuncia Salmistrano vengono ripresi e ribaditi pur nella qualificazione del rilascio delle certificazioni talora come elemento costitutivo del reato (in tal senso Sez. 3, n. 33187 del 12/06/2013, Buzi, cit., e Sez. 3, n. 19454 del 27/03/2014, Onofrio, cit.) e talaltra quale presupposto del reato stesso (in tal senso Sez. 3, n. 20778, del 06/03/2014, Leucci, cit.). La differente valutazione giuridica dell’elemento in oggetto, affidata da tutte le pronunce richiamate ad una mera enunciazione definitoria a ben vedere non supportata dalla manifestazione delle specifiche ragioni determinanti la scelta in un senso oppure nell’altro, non appare infatti rilevare quanto all’esigenza, riconosciuta da tutte le pronunce, che dell’elemento in questione sia comunque necessaria la dimostrazione in giudizio; è la pronuncia Leucci in particolare a chiarire che, pur dovendo il rilascio delle certificazioni essere individuato quale presupposto del reato (la fattispecie penalmente rilevante sarebbe integrata dalla sola condotta omissiva che si realizza con il mancato versamento entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta delle ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti), il rilascio della certificazione è comunque necessario per integrare il reato de quo.
Va anzi constatato che le stesse Sezioni Unite, intervenute sul punto dell’affermata applicabilità della norma, entrata in vigore in data 1 gennaio 2005, anche alle omissioni dei versamenti relativi all’anno 2004, e richiamate dalla sentenza Leucci (S.U., n. 37425 del 28/03/2013, Favellato, Rv. 255760), pur qualificando il reato come ‘omissivo proprio’, non appaiono sottrarsi ad una sostanziale linea di incertezza proprio con riguardo alla qualificazione dell’elemento in questione, definito, dapprima, come ‘presupposto’ del reato (analogamente alla erogazione delle somme al sostituito) e, poco dopo, come ‘elemento costitutivo’, significativamente richiesto per il solo illecito penale e non anche per l’illecito amministrativo e dunque idoneo a rappresentare, insieme alle diverse scadenze temporali previste per il versamento, la linea di demarcazione tra l’uno e l’altro tipo.
In ogni caso, anche le sentenze appena sopra richiamate appaiono ‘sposare’ le impostazioni adottate in via generale dalla sentenza Salmistrano, puntualizzandosi, quanto al modello 770, che nello stesso sono ‘comunicati in via telematica all’Agenzia delle Entrate i dati fiscali relativi alle ritenute operate nell’anno precedente nonché gli altri dati contributivi ed assicurativi richiesti, tra cui i dati relativi alle certificazioni rilasciate ai soggetti cui sono stati corrisposti in tale anno redditi di lavoro dipendente, equiparati ed assimilati o indennità di fine rapporto’ (vedi, testualmente, sul punto, sempre la sentenza Leucci).
3.2. Un secondo orientamento, che ha ben presto assunto, nella giurisprudenza della Corte, le dimensioni di indirizzo largamente maggioritario, è stato inaugurato da Sez. 3, n. 40256 del 08/04/2014, Gagliardi, Rv. 259198.
Dopo avere premesso che anche secondo l’interpretazione fatta propria dalle Sezioni Unite e dalla prevalente dottrina l’elemento specializzante che determina il configurarsi della natura delittuosa della fattispecie è costituito dal rilascio della certificazione al sostituito e che quindi la norma penale non può trovare applicazione, non solo nei casi in cui il sostituto non abbia operato le ritenute, ma anche nei casi in cui non abbia rilasciato la certificazione o la abbia rilasciata in un momento successivo alla scadenza del termine per effettuare il versamento, si afferma che ‘gli elementi costitutivi della fattispecie, necessari per attribuire rilevanza penale alla fattispecie sono costituiti dalle parti di condotta attiva comprendenti sia l’effettuazione della ritenuta e sia la successiva emissione della certificazione’. Si aggiunge che ‘trattandosi (…) di elementi costitutivi del reato (ma le conseguenze non cambierebbero anche se si volesse parlare di presupposti del reato) per ritenere sussistente il delitto è necessario che l’accusa fornisca la prova di tali elementi e, in particolare (…) che il sostituto abbia rilasciato ai sostituiti la certificazione (o le certificazioni) da cui risultino le ritenute il cui versamento è stato poi omesso’, dovendo, peraltro, detta prova non essere necessariamente data dalla produzione delle certificazioni stesse, ma potendo consistere anche in altre prove documentali ovvero anche orali. Tra di esse, tuttavia, si aggiunge, non può essere ricompresa la sola dichiarazione modello 770: da un lato perché la stessa non contiene la dichiarazione di avere tempestivamente emesso le certificazioni ma solo di avere erogato le retribuzioni ed effettuato le ritenute, e dall’altro perché, tra dichiarazione modello 770 e certificazione rilasciata ai sostituiti, disciplinati da fonti distinte, rispondenti a finalità non coincidenti e che non devono essere consegnati o presentati contestualmente, vi sono differenze sostanziali tali da non consentire di ritenere, automaticamente, che l’uno non possa risultare indipendente dall’altro. Di qui, dunque, le diverse conclusioni rispetto al primo indirizzo ricordato.
Gli assunti della pronuncia Gagliardi sono stati successivamente ribaditi da numerose pronunce, tutte nel senso, per le medesime ragioni, della inidoneità della sola dichiarazione modello 770 a provare l’avvenuto rilascio delle certificazioni (Sez. 3, n. 10475/15 del 9/10/2014, Calderone, Rv. 263007; Sez. 3, n. 11335/15 del 15/10/2014, Pareto, Rv. 262855; Sez. 3, n. 6203 del 29/10/2014, Rispoli, Rv. 262365; Sez. 3, n. 37075/15 del 19/12/2014, Ravelli; Sez. 3, n. 5736 del 21/01/2015, Patti; Sez. 3, n. 10104 del 7/1/2016, Grazzini, Rv. 266301; Sez. 3, n. 7884 del 4/2/2016, Bombelli; Sez. 3, n. 41468 del 30/03/2016, Pappalardo; Sez. 3, n. 48591 del 26/4/2016, Pellicani, Rv. 268492; Sez. 3, n. 48302 del 20/09/2016, Donetti; Sez. 7, n. 53249 del 23/09/2016; D’Ambrosi; Sez. 3, n. 51417 del 29/11/2016, Fontanella; Sez. 3, n. 10509/17 del 16/12/2016, Pisu, Rv. 269141; Sez. 3, n. 57104 del 12/4/2017, Polinari; Sez. 3, n. 30139 del 15/6/2017, Fregolent, Rv. 270464; Sez. 3, n. 36057 del 11705/2017, Cerere; Sez. 3 n. 1439/18 del 12/7/2017, Sesana; Sez. 3, n. 46390 del 9/10/2017, Gambardella; Sez. 3, n. 2393 del 22/1/2018, Vecchierelli).
Va anche qui precisato che, in tale ambito, appare essersi riproposta (senza che ciò, come già detto, abbia potuto comportare una differente conclusione quanto, comunque, alla necessità di prova del’elemento) la divergenza circa la qualificazione da dare al rilascio delle certificazioni, se cioè, di presupposto del reato (in tal senso, solo Sez.3, n. 7884 del 2016, Bombelli cit.) ovvero di elemento costitutivo dello stesso (in tal senso, Sez.3, n. 1439 del 2017, Sesana, cit.; Sez. 3, n. 10475 del 2015, Calderone, cit.; Sez. 3, n. 10509 del 2017, Pisu, cit.; Sez.3, n. 11335 del 2015, Pareto, cit.; Sez. 3, n. 30139 del 2017, Fregolent, cit.; Sez. 3, n. 57104 del 2017, Polinari, cit.; Sez. 3, n. 36057 del 2017, Cerere, cit.).
In seno a tale indirizzo, peraltro, una particolare attenzione va assegnata a quelle pronunce che, a cominciare, cronologicamente, da Sez. 3, n. 10104 del 7/1/2016, Grazzini, Rv. 266301, sono giunte a confermare gli approdi ermeneutici della sentenza Gagliardi anche tenendo conto delle modifiche operate dal d.lgs. n. 158 del 2015.
Infatti, dopo avere escluso che alla novella operata, là dove la stessa ha posto, come visto in principio, accanto alle ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituti, anche le ritenute dovute sulla base della dichiarazione di interpretazione autentica, possa assegnarsi, in ragione dell’esigenza di dipanare il contrasto creatosi, natura di norma di interpretazione autentica a fronte della problematica coesistenza di disposizioni di tal fatta con la necessità di rispettare il principio di irretroattività proprio delle norme incriminatrici, la sentenza ha colto la incidenza ‘interpretativa’ della nuova disposizione: se il legislatore, si è affermato, ha inteso estendere la tipicità del reato anche alle ipotesi di omesso versamento delle ritenute dovute sulla base della dichiarazione modello 770, deve ritenersi che non soltanto la precedente formulazione racchiudesse nel proprio perimetro di tipicità soltanto l’omesso versamento di ritenute risultanti dalle certificazioni rilasciate ai sostituiti, ma richiedesse, sotto il profilo probatorio, la necessità di una prova del rilascio delle certificazioni ai sostituiti. Di qui, dunque, l’ulteriore conferma dell’indirizzo negativo quanto alla idoneità probatoria del solo modello 770.
Tali assunti sono stati seguiti anche da Sez.3, n. 48591 del 2016, Pellicani, cit.; Sez. 3, n. 48302 del 2016, Donetti, cit.; Sez. 7, n. 53249 del 2016, D’Ambrosi, cit.; Sez. 3, n. 51417 del 2016, Fontanella, cit.; Sez. 3, n. 10509 del 2017, Pisu, cit.; Sez. 3, n. 57104 del 12/4/2017, Polinari, cit.; Sez. 3, n. 30139 del 2017, Fregolent, cit.; Sez. 3, n. 36057 del 2017, Cerere, cit.; Sez. 3 n. 1439 del 2018, Sesana, cit.; Sez. 3, n. 46390 del 2017, Gambardella, cit.; Sez. 3, n. 2393 del 2018, Vecchierelli, cit.). In particolare, Sez. 3, n. 10509 del 2017, Pisu, cit., ha specificato, quanto alla nuova norma, che la natura innovativa e non meramente interpretativa della stessa non può essere posta in discussione per il solo fatto che, nella relazione illustrativa al d.lgs. n. 158 del 2015, si sia affermato che la modifica ha ‘chiarito’ la portata del precedente modello legale della fattispecie incriminatrice a fronte comunque dell’oggettivo precipitato della norma.
4. Queste Sezioni Unite ritengono che, con riferimento alla normativa previgente alla modifica intervenuta nell’anno 2015 (il reato contestato all’imputato è stato commesso nell’anno 2011, sì che la nuova formulazione, di chiaro stampo innovativo per come si dirà oltre, non può in alcun modo retroagire), debba essere condiviso l’indirizzo, maggioritario, che esclude la idoneità del solo modello 770 (di dichiarazione delle erogazioni effettuate e delle ritenute operate), a provare l’elemento, da considerare presupposto del reato, del rilascio delle certificazioni.
4.1. Deve anzitutto premettersi come non possa porsi in dubbio la circostanza che il legislatore del 2004, nel reintrodurre (secondo il percorso illustrato sopra) l’illecito penale di omesso versamento delle ritenute, già previsto, anteriormente, dalla l. n. 516 del 1982 e successivamente abrogato dal d.lgs. n. 74 del 2000, abbia condizionato testualmente l’illecito alle sole ritenute, il cui omesso versamento viene sanzionato, ‘risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti’; in altri termini, solo le ritenute che risultino, ovvero siano attestate, dalle certificazioni predette sono quelle idonee ad attingere il grado di disvalore penale considerato dal legislatore.
Né un tale dato, la cui evidenza è tale che nessuna delle pronunce di questa Corte che si sono occupate del tema al vaglio di queste Sezioni Unite, sia se riconducibili al primo sia se riconducibile al secondo degli indirizzi illustrati, ha mai potuto affermare il contrario, appare revocabile in dubbio sulla base di pur plausibili considerazioni di carattere sistematico: la eventuale irrazionalità della scelta di assoggettare a sanzione penale, diversamente dalla originaria impostazione della l. n. 516 del 1982, il mancato versamento delle ritenute solo se accompagnato dal rilascio delle relative certificazioni (sì che una condotta altrimenti penalmente irrilevante verrebbe ad assumere significato penalistico solo là dove ad essa si accosti un comportamento costituente adempimento di un dovere, finalizzato a garantire al sostituito il diritto a detrarre la ritenuta subita, evitando così il prodursi di una doppia imposizione) non potrebbe certo offuscare il chiaro significato della norma, insuscettibile, per il rispetto dovuto al principio di legalità, di interpretazioni in definitiva abrogatrici della locuzione qui in esame. Ed anche restando sul piano di una interpretazione di ordine logico-critico, non potrebbe sottacersi il significato di un elemento (quello, appunto, del rilascio delle certificazioni) che, come a suo tempo già evidenziato da Sez. Un. Favellato, appare svolgere in realtà la funzione di differenziare l’illecito penale dal mero illecito amministrativo: una funzione, dunque, di carattere selettivo, che, sia pure comportando il sacrificio della realtà materiale al fine di privilegiare solo quella ‘contabilizzata’ o ‘certificata’, appare tutt’altro che incomprensibile, ove si rifletta sulla necessità, alla luce del principio del ne bis in idem e della sua portata sempre più cogente, di una precisa demarcazione, a partire soprattutto dal momento della legiferazione, tra il ‘fatto’ intrinsecamente penale (a prescindere dalle denominazioni coniate dal legislatore) e quello solo amministrativo.
Del resto, non è secondario considerare, sempre nell’ambito di una razionale differenziazione dei due campi, la maggiore gravità di una condotta destinata ad incidere, proprio perché accompagnata dal rilascio delle certificazioni, sullo stesso rapporto fiduciario con il sostituito.
4.2. Ne deriva dunque che, ai fini della consumazione del reato in oggetto, occorre il rilascio delle certificazioni, sia che lo stesso venga configurato come elemento costitutivo del reato (come è dato rinvenire nella gran parte delle decisioni sopra segnalate), sia invece che lo stesso venga configurato quale presupposto di esso (come una parte minoritaria della giurisprudenza mostra di ritenere).
Entrambi gli indirizzi segnalati, come già visto, significativamente non uniformi al loro interno proprio su questo punto, convengono su tale postulato, in definitiva implicitamente fatto proprio anche dalle già rammentate Sezioni Unite Favellato che, sia pure restando, come visto, ondivaghe sulla esatta qualificazione di tale elemento, hanno però implicitamente considerato necessario, ai fini della consumazione del reato, il rilascio delle certificazioni.
Così come entrambi gli indirizzi appaiono convenire sul fatto (o comunque appaiono implicitamente muovere dallo stesso, non essendovi affermazioni di segno contrario) che, ai fini di provare il rilascio delle certificazioni, non è necessaria l’acquisizione materiale delle certificazioni stesse, perché ben possono supplire prove documentali anche di altro genere o prove orali (tra cui in primis le dichiarazioni rese dal sostituito), conclusione, questa, del tutto corretta e logicamente discendente, evidentemente, dal principio di atipicità delle prove penali insito nel disposto di cui all’art. 189 cod. proc. pen., dovendo, dunque, anche qui ribadirsi l’incompatibilità, con l’assetto processuale penale, di un sistema di prove tipiche o legali.
Né appare infine in discussione il fatto che l’onere di tale prova incomba, ancora una volta non essendo determinante sul punto la classificazione formale dell’elemento in oggetto quale elemento costitutivo o, piuttosto, quale presupposto del reato, sul pubblico ministero giacché, riprendendo le parole della già citata sentenza Leucci, ‘incombe appunto al pubblico ministero di provare i fatti costitutivi dell’addebito contestato, tra cui, per quanto qui interessa, il rilascio delle certificazioni’ e incombendo invece all’imputato ‘provare i fatti (estintivi o modificativi) che paralizzino la ‘pretesa punitiva”.
4.3. In definitiva, dunque, il contrasto verte, in realtà, su null’altro che su una valutazione di carattere probatorio. Semplificando, si potrebbe affermare che l’unico vero sostanziale effetto differentemente conseguente ai due orientamenti sarebbe quello di esonerare o meno il pubblico ministero dall’onere di ricercare, al fine del raggiungimento della prova richiesta sul punto già sottolineato, elementi ulteriori e diversi (orali, come ad esempio le dichiarazioni dei sostituiti, o documentali) rispetto alla sola dichiarazione modello 770 (nel panorama giurisprudenziale già complessivamente richiamato solo Sez. 3, n. 37075 del 2015, Ravelli, cit., sostiene, con affermazione che parrebbe presentare margini di equivocità rispetto al principio di atipicità delle prove penali, che il giudice deve fornire anche ‘risposte precise e concrete sulle ragioni per le quali non ha percorso la strada diretta dell’acquisizione dei certificati stessi privilegiando una prova pur sempre indiretta del reato ma a rischio di derive analogico sostanzialistiche’).
Ed il pubblico ministero, vale ribadire, non è comunque esonerato da tale prova per il fatto che l’imputato non abbia allegato circostanze ed elementi in senso contrario, non essendo, nell’ordinamento processuale penale, previsto un onere probatorio a carico dell’imputato modellato sui principi propri del processo civile (Sez. 5, n. 32937 del 19/05/2014, Stanciu, Rv. 261657). Infatti, sia norme sovraordinate di carattere generale internazionali (specificamente l’art. 6.2. della Convenzione Edu e l’art. 14 n.2 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, entrambe espressamente indicanti la necessità che la colpevolezza dell’accusato sia provata secondo legge) e interne (art. 25 Cost. in ordine alla presunzione di non colpevolezza sino alla condanna definitiva), sia norme processuali (specificamente l’art. 533 cod. proc. pen. ove si stabilisce che il giudice pronuncia sentenza di condanna solo là dove l’imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio) appaiono indicative della fissazione in senso ‘sostanziale’, a carico di chi sostenga la tesi di accusa nel processo penale, di un preciso onere di prova (in tale ultimo senso, Sez. 3, n. 2393 del 2018, Vecchierelli, cit.).
5. Escluso, dunque, che il contrasto segnalato riguardi l’esegesi della norma, in particolare con riguardo all’elemento oggettivo del reato contemplato, ciò su cui gli indirizzi già illustrati divergono viene, in definitiva, ad essere rappresentato dalla possibilità o meno di includere di per sé solo, tra gli elementi indicativi dell’avvenuto rilascio della certificazione unica attestante le ritenute effettuate, il ‘documento’ rappresentato dal mod. 770 (dichiarazione del sostituto d’imposta).
Appare allora significativo un primo dato oggettivo: il quadro ST del modello 770 non appare, come ben posto in risalto dall’indirizzo maggioritario, recare alcuna specifica indicazione in ordine al rilascio delle certificazioni avendo invece ad oggetto, per quanto qui interessa, unicamente i dati dell’’importo versato’ e delle ‘ritenute operate’. Né alcun valore probatorio potrebbe evidentemente connettersi alle istruzioni per la compilazione del modello 770 semplificato là dove si prescrive che ‘detto modello contiene i dati relativi alle certificazioni rilasciate ai soggetti cui sono stati corrisposti (…) i redditi di lavoro dipendente’ (dizione questa, testualmente ripresa da Sez. 3, n. 20778 del 2014, Leucci, cit. al fine di giungere alla soluzione già vista sopra), essendo chiara in tale dizione la volontà di riferirsi non già al fatto del rilascio, ma a quello della necessità di indicazione, in dichiarazione, delle medesime ritenute di cui alla certificazione unica, ove rilasciata.
Ed infatti, proprio per superare un tale impasse, l’indirizzo più risalente è ricorso sostanzialmente ad un ragionamento di carattere presuntivo, essendosi affermato che ‘non avrebbe senso dichiarare quello che non è stato corrisposto e perciò stesso certificato’ (testualmente, Sez. 3, n. 20778 del 2014, Leucci, cit.). Sennonché, intesa tale affermazione come volta ad affermare che, secondo l’id quod plerumque accidit, ciò che si dichiarerebbe nel mod. 770 sarebbe allo stesso tempo anche ciò che si certifica (il riferimento alla ‘corresponsione’ deve ritenersi improprio perché ciò di cui si tratta non sono gli emolumenti ma le ritenute, che non si corrispondono ma si effettuano), ed equiparati dunque l’indicazione nel modello 770 alla attestazione nelle certificazioni, resta tuttavia, anche in tale assioma, ancora una volta ‘scoperto’, e non colmabile dal punto di vista logico, il dato del rilascio.
Correttamente, pertanto, la sentenza Sez. 3, n. 40256 del 2014, Gagliardi, cit. ha potuto affermare che ‘se davvero la presentazione della dichiarazione di sostituto presupponesse, secondo il criterio dell’id quod plerumque accidit, sempre e comunque la formazione e consegna dei certificati ai sostituiti, il legislatore ne avrebbe certamente tenuto conto ed avrebbe, con notevole semplificazione probatoria, punito unicamente il mancato versamento delle ritenute riportate nella dichiarazione modello 770. Se ciò non ha fatto, ed ha anzi modificato la precedente normativa (che richiedeva soltanto l’omesso versamento delle ritenute), è proprio perché il legislatore era ben consapevole delle differenze strutturali e della radicale autonomia dei due distinti documenti, sicché non era possibile desumere automaticamente dall’esistenza dell’uno la sussistenza dell’altro’.
Anche la questione della natura da attribuire al modello 770, se cioè avente valore di confessione stragiudiziale, come parrebbe adombrato da Sez. 3, n. 10104 del 2016, Grazzini, cit., ma escluso da Sez. 3, n. 11335 del 2015, Pareto, cit., e da Sez. 3, n. 2393 del 2018, Vecchierelli, cit. (nel senso della dichiarazione fiscale quale ‘mera esternazione di scienza’, Sez. U. Civ. n. 13378 del 07/06/2016, Vetro Associati S.r.l. contro Ministero delle Finanze, Rv. 640206) appare fondamentalmente irrilevante proprio perché il modello non contiene alcun riferimento al rilascio delle certificazioni sì che da esso potrebbe dunque eventualmente dedursi la ‘confessione’ di avere operato le ritenute ma non certo quella di avere rilasciato le relative certificazioni.
Infine, anche il riferimento al modello DM 10 di versamento dei contributi previdenziali attestante le retribuzioni corrisposte ai dipendenti e l’ammontare degli obblighi contributivi (la cui accertata presentazione da parte del datore di lavoro è valutabile, in assenza di elementi di segno contrario, secondo questa Corte, come prova della effettiva corresponsione degli emolumenti ai lavoratori: tra le altre, Sez. 3, n. 21619 del 14/04/2015, Moro, Rv. 263665) appare impropriamente evocato ove si tenga conto della diversità di contenuto della prova necessaria (corresponsione degli emolumenti da un lato, appunto, e rilascio delle certificazioni dall’altro).
Di qui, dunque, la condivisibilità della conclusione secondo cui le indicazioni contenute nel modello 770 non sono da sole idonee a provare il fatto del rilascio delle certificazioni, essendo indizio che, se può essere sufficiente in sede cautelare reale a fronte del differente standard dimostrativo richiesto (Sez. 3, n. 46390 del 2017, Gambardella, cit., e Sez. 3, n. 48591 del 2016, Pellicani, cit.), non lo è però in giudizio a fronte del canone, ad esso riferito, dell’accertamento al di là di ogni ragionevole dubbio cristallizzato dall’art. 533 cod. proc. pen.; e ciò, va sottolineato, a prescindere, come già affermato in talune delle pronunce sopra richiamate, dalla attribuibilità, alla circostanza del rilascio delle certificazioni, della veste di presupposto del reato ovvero di elemento costitutivo dello stesso.
Sul punto deve essere anzitutto chiarito, sul piano generale, come una formale distinzione tra ‘presupposti del reato’ ed ‘elementi costitutivi’ dello stesso sia impropriamente posta: si è correttamente puntualizzato in dottrina come i presupposti del reato, tra i quali vengono annoverati, tra gli altri, il soggetto attivo e passivo, la condotta e l’oggetto materiale, altro non siano, logicamente, che quegli stessi requisiti necessari per la qualificazione del fatto come illecito penale ovvero, in altri termini, gli stessi elementi costitutivi, sì che nessuno spazio di reale differenziazione tra i due concetti potrebbe evidentemente sussistere. Dovrebbe allora più correttamente parlarsi di ‘presupposti della condotta’, da intendersi, atteso anche il significato lessicale della locuzione (‘ciò che si pone come precedente ad altro e come sua condizione’), come circostanze, di fatto o di diritto, preesistenti alla realizzazione di essa (in relazione al criterio di anteriorità cronologica necessariamente discendente dal già indicato significato letterale del sostantivo) e necessarie per attribuire un ‘significato criminoso’ alla condotta stessa; ma anche in tal caso, va subito detto, e proprio perché anche tali circostanze sarebbero comunque necessarie ai fini dell’integrazione del reato, sarebbe assai difficile individuare una reale differenza rispetto agli elementi costitutivi del reato, se non in termini di elemento psicologico posto che, essendosi tali circostanze già realizzate, le stesse potrebbero essere unicamente conosciute, ma non volute dal soggetto agente.
Del resto, i(sintomo della difficoltà di attribuire un significato autonomo alla nozione di presupposto rispetto a quella di elemento costitutivo del reato appare nella specie plasticamente dato dalla incertezza in cui, con riferimento alla questione di specie qui trattata, appaiono essere incorse le pronunce già richiamate allorquando si è trattato di inquadrare il rilascio delle certificazioni nell’una o nell’altra delle due categorie. E tale incertezza appare nella specie accentuata dal fatto che il rilascio delle certificazioni è circostanza ordinariamente consistente in una condotta posta in essere dallo stesso soggetto agente che incorra nell’omissione del versamento salvo che, successivamente al rilascio e prima della scadenza del termine annuale prevista per la presentazione della dichiarazione, abbia a mutare la persona fisica del sostituto di imposta; sicché, in tal caso, anche l’eventuale margine di utile significato rinvenibile nel concetto di presupposto della condotta (conosciuto ma non voluto secondo appunto la dottrina sopra richiamata) verrebbe, nella specie, quasi sempre a dissolversi.
Ed allora, ove, come pare necessario, si debba privilegiare il significato letterale del termine, chiaramente volto ad evidenziare la anteriorità cronologica del fatto, il rilascio delle certificazioni, fisiologicamente anteriore alla scadenza del termine per il versamento (anche nella struttura della norma, che significativamente appare impiegare il participio passato ‘rilasciate’), appare più correttamente inquadrabile nella categoria del presupposto della condotta senza che, però, ciò possa portare ad escludere la necessità (su cui, come visto, convengono, infatti, esplicitamente o implicitamente, tutte le pronunce di questa Corte) che di tale circostanza, necessaria per integrare l’illecito penale anche soprattutto per differenziare quest’ultimo, come ricordato in premessa, dall’illecito amministrativo, debba essere data prova.
6. La fondatezza degli approdi raggiunti dalla giurisprudenza di segno più rigoroso appare poi non contraddetta dagli sviluppi normativi già segnalati con riguardo in particolare alle modifiche operate, sul corpus dell’art. 10-bis cit., dall’art. 7 del d. lgs. n. 158 del 2015.
Come già anticipato sopra, la revisione della norma è consistita nella integrazione della rubrica dell’articolo (passata da ‘omesso versamento di ritenute certificate’ a ‘omesso versamento di ritenute dovute o certificate’) e nella apposizione, accanto al periodo ‘risultanti dalla certificazione rilasciata’, del periodo ‘dovute sulla base della stessa dichiarazione’. In tal modo, anziché ricostruire la fattispecie nel senso di un ritorno all’impianto come disciplinato dal d.l. n. 429 del 1982, ove l’obbligo di versamento penalmente presidiato riguardava semplicemente le ritenute ‘effettivamente operate’, si è scelto non solo di mantenere la necessità di una ‘fonte’ di attestazione delle stesse, ma altresì di duplicare la stessa mediante il ricorso anche al contenuto della dichiarazione.
La stessa strada prescelta trova del resto come spiegazione logica quanto esternato dallo stesso legislatore nella relazione illustrativa allo schema del d. lgs. n. 158 cit. ove si è scritto essere stata ‘chiarita, con l’articolo 7, la portata dell’omesso versamento di ritenute dovute sulla base della dichiarazione o risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti di cui all’articolo 10-bis (mediante l’aggiunta del riferimento alle ritenute dovute sulla base della dichiarazione)’.
Ora, una tale necessità di chiarimento del significato della norma non può che essere rapportata, logicamente, all’incertezza determinata dal dibattito giurisprudenziale avutosi appunto con riguardo alle modalità probatorie del fatto del rilascio della certificazione unica essendo la disposizione stata ricostruita quanto al momento ‘attestativo’ delle ritenute, non più confinato solo a quanto risultante dalla certificazione ma esteso anche a quanto dovuto sulla base del contenuto della dichiarazione modello 770 (che riporta l’indicazione delle ritenute operate): in tal modo si è reso dunque non più indispensabile provare il previo rilascio della certificazione unica potendo guardarsi, per l’individuazione delle ritenute il cui omesso versamento deve essere sanzionato, anche al solo modello 770.
Se questo è il significato della modifica, non può allora sussistere dubbio sulla portata innovativa della norma che, prendendo atto del prevalente orientamento di questa Corte, ha obiettivamente inciso sullo stesso oggetto materiale della condotta la cui omissione è sanzionata, la cui individuazione, dapprima limitata a quelle sole ritenute che risultavano dalla certificazione, è oggi estesa alle ritenute emergenti dalla dichiarazione modello 770.
Né in senso contrario, come la stessa ordinanza di rimessione a questa Corte pare invece prospettare, può valorizzarsi la volontà di mero ‘chiarimento’ che avrebbe animato il legislatore nell’effettuare la interpolazione in oggetto: se il chiarimento si è tradotto, come pare indubitabile, nella individuazione di un oggetto dell’omesso versamento alternativo a quello in origine contenuto nella norma e in precedenza in alcun modo ricavabile dal testo (il riferimento alla dichiarazione compare solo nella nuova versione), appare non corretto discorrere di norma di interpretazione autentica; e ciò, tanto più ove si consideri quanto correttamente evidenziato in particolare dalla sentenza Gagliardi in ordine alle differenze e alle diverse finalità di certificazione unica da una parte e dichiarazione del sostituto d’imposta dall’altra; in particolare va ribadito che la certificazione delle ritenute è regolata, per quanto qui interessa, dall’art. 4, comma 6 – ter, del d.P.R. n. 322 del 1998 ed ha la funzione di attestare l’importo delle somme corrisposte dal sostituto di imposta e delle ritenute da lui operate, dovendo essere consegnata entro il 31 marzo di ogni anno.
La dichiarazione mod. 770 è invece disciplinata dall’art. 4, comma 1, e segg. del d.P.R. n. 322 del 1998, ed è destinata ad informare l’Agenzia delle entrate delle somme corrisposte ai sostituiti, delle ritenute operate sulle stesse e del loro versamento all’erario e deve essere inoltrata nella data fissata volta per volta dal legislatore. Infine, mentre le certificazioni devono essere emesse soltanto quando il datore ha provveduto a versare le ritenute, la dichiarazione va invece obbligatoriamente presentata entro il termine stabilito per legge (salva, in caso contrario, l’applicazione di sanzioni amministrative).
Va del resto osservato come nella stessa relazione illustrativa al decreto legislativo si precisi anche, subito dopo il passaggio già ricordato, che la integrazione della rubrica del novellato art. 10-bis è stata imposta dalle ‘modifiche introdotte e, in particolare dell’estensione del comportamento omissivo non più alle sole ritenute ‘certificate’ ma anche a quelle ‘dovute’ sulla base della dichiarazione annuale del sostituto d’imposta’, una tale precisazione finendo quanto meno per neutralizzare la possibile portata del riferimento all’esigenza di ‘chiarimento’ nel senso della natura mera interpretativa del nuovo testo.
6.1. Soccorre, del resto, sul punto, quanto affermato dalla Corte Costituzionale con riferimento al fatto che l’essenza di una norma interpretativa deve essere quella di imporre per legge una scelta nell’interpretazione di una norma che ‘rientri tra le possibili varianti di senso del testo originario, con ciò vincolando un significato ascrivibile alla norma anteriore’ (Corte cost. n. 525 del 2000). Sempre il giudice delle leggi ha poi chiarito che ‘va riconosciuto il carattere interpretativo ad una legge, la quale, fermo restando il testo della norma interpretata, ne chiarisca il significato normativo e privilegi una delle tante interpretazioni possibili, di guisa che il contenuto precettivo sia espresso dalla coesistenza di due norme, quella precedente e quella successiva, che ne esplica il significato e che rimangono entrambe in vigore’ (Corte cost. n. 455 del 1992) e, in altra decisione, ha chiarito essere necessario che ‘la scelta ermeneutica imposta dalla legge interpretativa rientri fra una delle possibili varianti di senso del testo interpretato, cioè stabilisca un significato che ragionevolmente poteva essere ascritto alla legge anteriore’ (Corte cost. n. 480 del 1992).
Ora, come appena evidenziato sopra, la diversità strutturale e funzionale dei due documenti impedisce che, nel testo anteriore della norma, potesse rinvenirsi il significato oggetto del ‘chiarimento’ attuato con la nuova formulazione.
Né può trascurarsi che uno dei limiti all’adozione di norme interpretative è da ravvisarsi proprio nella materia penale (Corte cost. n. 525 del 2000, n. 311 del 1995 e n. 397 del 1994).
6.2. Ne deriva il dato della portata innovativa della modifica legislativa, allo stesso tempo di indiretta ‘conferma’ dell’indirizzo maggioritario della Corte, che esclude qualunque possibilità di sua applicazione retroattiva in ossequio agli artt. 2 cod. pen. e 25 Cost., con la conseguenza che il contrasto devoluto a queste Sezioni Unite, riguardante un’omissione realizzata nell’anno 2011, deve essere sciolto unicamente sulla base del dato previgente.
Allo stesso tempo, e per le stesse ragioni, diviene irrilevante, nella specie, ogni possibile questione di legittimità costituzionale o di violazione del divieto di bis in idem, pur prospettate da attenta dottrina a seguito dell’analisi del nuovo testo.
Va solo ricordato che, quanto al primo punto, si è dubitato della conformità dell’art. 7 del d.lgs. n. 158 del 2015, cit. (modificativo appunto dell’art. 10-bis cit.) ai criteri direttivi della legge delega con conseguente possibile attrito rispetto all’art. 76 Cost. posto che l’art. 8 della l. 11 marzo 2014, n. 23 (di delega di riforma del sistema tributario), con riferimento alle fattispecie meno gravi (cui viene ricondotta l’omissione in questione), prevedeva solo ed esclusivamente di ridurre le sanzioni o di applicare sanzioni amministrative e non autorizzava il Governo in alcun modo ad estendere la portata dell’incriminazione attraverso la previsione di una condotta in precedenza penalmente irrilevante.
Quanto poi al secondo punto, a fronte della precisazione già operata dalle Sez. U. n. 37425/2013, Favellato, cit. con riguardo all’elemento di differenziazione tra illecito amministrativo e reato tributario rappresentato dal rilascio al sostituito della certificazione delle ritenute, previsto solo in quest’ultimo, si è posto in rilievo come, venendo ora sanzionato penalmente l’omesso versamento di ritenute anche solo risultanti dalla dichiarazione, la distinzione in oggetto rischi di venire quanto meno offuscata se non vanificata con conseguente sovrapposizione tra loro delle fattispecie penale ed amministrativa.
E tutto ciò a prescindere dai non trascurabili aspetti critici che la novazione legislativa appare avere comportato, primo fra tutti il fatto che le ritenute risultanti dalla certificazione potrebbero anche, nella variegata realtà dei casi, non coincidere con quelle riportate in dichiarazione (il legislatore parrebbe invece muovere dal presupposto in senso contrario), sì che l’interprete, a fronte della equipollenza, oggi posta dalla norma, dell’una e dell’altra documentazione, resterebbe libero di propendere per la prima ovvero per la seconda pur in presenza della possibile differenza di importi tanto più rilevante attesa la previsione della soglia di punibilità contemplata dalla disposizione in esame.
7. In definitiva, dunque, va affermato il seguente principio: ‘con riferimento all’art. 10-bis nella formulazione anteriore alle modifiche apportate dal d. lgs. n. 158 del 2015, la dichiarazione modello 770 proveniente dal sostituto di imposta non può essere ritenuta di per sé sola sufficiente ad integrare la prova della avvenuta consegna al sostituito della certificazione fiscale’.
8. Tenuto dunque conto di tale principio, la sentenza impugnata deve essere annullata.
Premesso che il terzo motivo, in realtà avente carattere logicamente pregiudiziale, è manifestamente infondato assumendosi, pur a fronte dell’incontestata omissione del versamento e della altrettanto incontestata provenienza dall’imputato, rappresentante legale della ‘MRC S.r.l.’, della dichiarazione modello 770, che la sentenza non avrebbe indicato gli elementi di responsabilità, sono invece fondati i primi due motivi di ricorso, tra loro strettamente connessi.
La Corte dorica, infatti, ha desunto dalla dichiarazione suddetta il solo elemento sulla cui base ritenere dimostrato il rilascio delle certificazioni a fronte del silenzio serbato sul punto dall’imputato, in tal modo ponendosi in contrasto con il principio sopra enunciato e non considerando che è onere del pubblico ministero provare il rilascio delle predette certificazioni.
Si impone pertanto l’annullamento della sentenza con rinvio alla Corte d’Appello di Perugia che procederà a nuovo giudizio nell’osservanza dei criteri di valutazione probatoria posti da questa Corte.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio alla Corte d’appello di Perugia.

U Giancu’, un buen retiro

Provato da La Voce nella primavera 2017

Tutti hanno una propria lista di ristoranti d’affezione con i quali s’instaura una relazione particolare, accomunati da una miscela unica e irripetibile di buona cucina, originalità della messa in scena, estro del patron e calore dell’accoglienza. Per me, tra questi luoghi va riservato un posto a un ristorante singolare e unico nel suo genere, l’altrimenti definito “ristorante del fumetto”.

Un ambiente in cui ci si sente immediatamente a proprio agio, amicale e familiare. Sarà per le tavole a fumetti (originali) di celebri cartoonist che tappezzano le pareti, sarà per la cordialità che mostra il personale o per la simpatia degli avventori, percepibilmente abituali e comunque discreti e composti, per nulla rumorosi, come in simbiosi con l’ambiente, che ispira pacatezza e buon gusto nonostante i colori vivaci degli arredi ispirati al mondo dei fumetti (spassoso il percorso che giuda alle toilettes).
La coreografia è arricchita dai simpatici cappellini che Fausto Oneto, il genius loci, alterna tra una portata e l’altra, pittoreschi e sempre ispirati al mondo del fumetto. Ma la definitiva consacrazione, l’incontro degli amorosi sensi, si consacra definitivamente con l’esperienza palatale, con la gastronomia tipicamente ligure che rappresenta la cifra inconfondibile di questo avamposto culinario situato sulle alture alle spalle di Rapallo. Un’idea intelligente, la tradizione interpretata in modo tanto fedele, rigoroso, ma leggero al tempo stesso, da convincere, ispirare e persino sedurre. Si potrebbe sintetizzare affermando che la formula ideata da Fausto può appagare chiunque, senza pretese.

Il menù è caratterizzato da ingredienti di primordine, le erbe spontanee del Monte di Portofino e le verdure dell’orto in primis, che sono presenti in ogni piatto come vuole la tradizione di questa terra tanto affascinante quanto morfologicamente varia e a tratti persino aspra e impenetrabile. Pane e focaccia fatti in casa, sformati di verdura, minestrone alla genovese, funghi porcini, finferli e altri, bracioline di agnello a scottadito, filetto di maialino con salsa di mele, ma il piatto da provare in assoluto è la tagliata, preparata a vista, su un tavolo posto al centro della sala con abile scelta coreografica. Si presentata su un tagliere impreziosita da erbe di campo e, nella stagione, accompagnata con funghi dell’entroterra ligure. Di assoluto primordine i dolci, che spaziano dalla tarte tatin, alla torta di pere al cioccolato, fino a gelati e sorbetti fatti in casa.

Ricca e intelligente la carta dei vini, che può contare sull’enoteca allestita al piano terreno ( seducente l’Oslavje di Radikon che ci è stato suggerito in anteprima), aspetti che dimostrano professionalità e passione per l’esercizio della buona tavola. Non ci stancheremo mai di sottolineare che offrire (con garbo e competenza) suggerimenti per abbinare il vino alle portate è una pratica sovente apprezzata e formativa, purtroppo ancora trascurata dalla gran parte dei ristoratori del Belpaese.
Prezzo indicativo 45 € variabile a seconda dei vini. E’ consigliabile esaminare attentamente la cartina stradale o munirsi di navigatore per raggiungere il Ristorante.

U Giancù
Rapallo – Ge
via S. Massimo
0185.260505 –
Aperto: a cena, in inverno solo venerdì, sabato e domenica (anche a pranzo)
Chiuso: mercoledì, in inverno anche lunedì, martedì, giovedì

La Voce

Arbitrato, l’importanza di una formulazione corretta e dettagliata della clausola arbitrale

Si è osservato in una precedente occasione che, per fare salva la possibilità d’impugnazione per nullità del lodo per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia, è ora necessario che tale facoltà sia “espressamente disposta dalle parti o dalla legge”, in difetto di tale previsione, infatti, lo spazio per proporre il gravame risulta sensibilmente circoscritto.

Costituisce un’altra linea guida per valutare se stipulare una clausola arbitrale e, nel caso, come redigerla, il principio per cui la sede dell’arbitrato è essenziale anzitutto per individuare quale sia la legge arbitrale applicabile nonché, per l’arbitrato domestico, quale sia il giudice a svolgere le diverse funzioni di ausilio in relazione al procedimento arbitrale (ad esempio, in tema di nomina o ricusazione degli arbitri) ovvero il giudice competente, tra l’altro, per l’impugnazione del lodo.

Una pronuncia della Suprema Corte risalente allo scorso anno (Cass., Sez. I Civ., 20 giugno 2017, n. 15184,) ha affrontato, tra gli altri, proprio il tema della nomina degli arbitri ai sensi dell’art. 810, co. 2, cod. proc. civ. in un caso in cui il Presidente del Tribunale si era sostituito alla parte inerte.
Secondo gli ermellini il termine previsto per la nomina dell’arbitro da parte del convenuto non è perentorio; pertanto la nomina successiva allo spirare di questo termine è valida ed efficace, non essendo configurabile alcuna decadenza. Tuttavia, la designazione tardiva dell’arbitro non è più possibile ove sia già intervenuta la nomina ad opera del soggetto designato a provvedere in caso d’inerzia di una parte (in questo caso il Presidente del Tribunale).

Il testo integrale della sentenza Cass., Sez. I Civ., 20 giugno 2017, n. 15184 è disponibile qui

Responsabilità da prodotto. Danni provocati da allergeni. Assenza di indicazioni sulla confezione

Cassazione civile, sez. III, ordinanza 15 febbraio 2018, n. 3692

Con questo recente arresto la Corte di Cassazione ha colto l’occasione di approfondire alcuni aspetti della responsabilità da prodotto.

Nella fattispecie un consumatore aveva convenuto in giudizio un’impresa chiedendone la condanna al risarcimento dei danni sofferti per avere utilizzato, per detergersi il sudore dal viso e da altre parti del corpo, un fazzolettino di carta – tratto da una confezione che evidenziava il marchio ..x….- e che aveva prodotto un’allergia cutanea da metallo, protrattasi per mesi.

I giudici di legittimità hanno ritenuto responsabile l’impresa produttrice dei fazzolettini di carta, prodotto naturalmente destinato a entrare in contatto con la pelle per la presenza di nichel – sostanza che può cagionare un danno a persone, cose o ambiente – non segnalata sulle confezioni.

Nella motivazione dell’ordinanza la Corte ha puntualizzato che non è possibile far discendere la difettosità di un prodotto dal solo fatto che esso abbia arrecato un danno. Elemento fondante della legittimazione della pretesa è stata ritenuto l’anomalia della presenza di un elemento idoneo ad arrecare danno all’uomo e la mancanza delle informazioni “minime” richieste dalla legge. Questo in ossequio al dettato dell’art. 117 del Codice del consumo, che definisce il prodotto difettoso quando non offre la sicurezza che ci si può legittimamente attendere tenuto conto del modo in cui è messo in circolazione, della sua presentazione, delle sue caratteristiche, delle istruzioni, e delle avvertenze, ma non solo, anche dell’uso al quale il prodotto stesso può essere destinato e del tempo in cui è messo in circolazione.

Corte di Cassazione, sez. III Civile, ordinanza 5 dicembre 2017 – 15 febbraio 2018, n. 3692

Presidente Travaglino – Relatore Sestini

Fatto e diritto

Rilevato che:
Fu. Co. convenne in giudizio la Soffass s.p.a. chiedendone la condanna al risarcimento dei danni sofferti per avere utilizzato (per detergersi il sudore dal viso, dal collo e dagli avambracci) un fazzolettino di carta -a marchio “Regina”- prodotto dalla convenuta, che aveva determinato una reazione cutanea -imputabile ad allergia da metallo- con una conseguente estesa dermatite protrattasi per oltre tre mesi;
la convenuta resistette alla domanda, che venne rigettata dal Tribunale di Cuneo, con condanna dell’attrice al pagamento delle spese di lite;
la Corte di Appello di Torino ha riformato la sentenza, affermando la responsabilità della convenuta e condannandola al risarcimento dei danni (nell’importo di 4.193,55 Euro), oltre al pagamento delle spese del doppio grado di giudizio;
la Soffass s.p.a. ha proposto ricorso per cassazione affidato a un unico motivo illustrato da memoria; ha resistito l’intimata con controricorso;
il P.M. ha depositato conclusioni scritte, chiedendo il rigetto del ricorso.
Considerato che:
con l’unico motivo, la ricorrente deduce la «falsa applicazione degli artt. 114 e 117 del D.Lgs. 6 settembre 2005 n. 206 […], per avere ritenuto la corte di appello che il danno costituisca prova del difetto del prodotto», nonché «omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio […], per avere la corte di appello attribuito alla c.t.u. chimica una valutazione di pericolosità del prodotto, in quest’ultima del tutto assente»;
assume la ricorrente che, mentre è incontroverso che l’utilizzo del fazzoletto ha prodotto la reazione allergica sfociata nella dermatite, non risulta accertato che tale reazione allergica sia stata prodotta dalla presenza di nichel nel fazzoletto; e ciò in quanto, pur affermando che il nichel è un sensibilizzante da contatto, la c.t.u. aveva chiarito che la percentuale di nichel riscontrata nel fazzoletto era superiore al limite consentito per gli imballaggi a contatto con gli alimenti ed i cosmetici, ma conforme alla direttiva comunitaria CE 2004/96 e al regolamento OEKOTex per i tessili; ha sostenuto dunque che «la c.t.u. non ha accertato in alcun modo che la reazione fosse stata causata da una presenza di nichel superiore ai livelli prescritti dalle norme o dalle discipline precauzionali esistenti»;
ciò premesso e rilevato che la disciplina risultante dagli artt. 114 e 117 del Codice del consumo esclude che l’esistenza del danno dimostri di per sé la natura difettosa del prodotto, ha concluso che la fattispecie concreta e quella astratta “non combaciano” in quanto la Corte «ha ritenuto difettoso il prodotto per il solo fatto che esso ha prodotto un danno, essendo palesemente inesistenti le valutazioni di difettosità del prodotto, che essa attribuisce alla c.t.u.»;
il motivo è inammissibile e, comunque infondato;
inammissibile, in quanto non censura in modo adeguato la ratio della decisione, omettendo di prendere posizione sulla previsione dell’art. 6 D.Lgs. n. 206/2005 (che, alla lett. d, impone al produttore di indicare l’«eventuale presenza di materiali o sostanze che possano arrecare danno all’uomo, alle cose o all’ambiente») e sul rilievo della Corte secondo cui era «pacifica […], in causa, la mancanza assoluta di etichetta o avvertenza circa la presenza dei metalli in questione sulla confezione, avvertenze funzionali ad informare potenziali soggetti allergici del rischio, particolarmente concreto proprio in rapporto alla tipologia del prodotto e alla sua normale destinazione d’uso»; si tratta -all’evidenza- di un rilievo decisivo ai fini della connotazione del prodotto come difettoso (in relazione alla previsione dell’art. 117, lett. a del D.Lgs. cit.) che, in quanto non censurato, rende priva di interesse la contestazione della difettosità del prodotto sotto altri profili;
la censura svolta è comunque infondata, in quanto è basata sulla premessa, non corretta, che il fazzoletto non potesse essere ritenuto difettoso: invero, a prescindere dall’esistenza o meno di un’espressa affermazione della difettosità del prodotto nella relazione di c.t.u., la Corte è pervenuta ad affermare tale difettosità evidenziando elementi (segnatamente, l’anomalia della presenza di un metallo noto come sensibilizzante da contatto e causa di allergie in un fazzolettino di carta «destinato per sua natura a venire a contatto con la pelle, il naso o la bocca degli individui» e «sicuramente idoneo a provocare un danno all’uomo») che rispondono pienamente al paradigma normativo di cui all’art. 117 del Codice del consumo; va escluso pertanto che la Corte abbia fatto discendere la difettosità del prodotto dal solo fatto che esso abbia prodotto un danno, giacché la natura difettosa è stata accertata sotto il duplice profilo della anomalia della presenza di un metallo idoneo ad arrecare danno all’uomo e -come detto sopra- della mancanza delle informazioni “minime” richieste dai citati artt. 6 e 117 lett. a);
le spese di lite seguono la soccombenza;
trattandosi di ricorso proposto successivamente al 30.1.2013, sussistono le condizioni per l’applicazione dell’art. 13, comma 1 quater del D.P.R. n. 115/2002.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite, liquidate in Euro 2.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, al rimborso degli esborsi (liquidati in Euro 200,00) e agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

L’IGP “Piadina Romagnola”: un caso didattico

Una società italiana con sede a Modena, attiva sin dal 1974 nella produzione di piadine mediante metodi industriali, ha impugnato davanti alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea il Regolamento esecutivo n. 1174/2014, con il quale la Commissione europea ha registrato l’IGP “Piadina Romagnola” o “Piada Romagnola” (1). A norma del regolamento l’indicazione può essere utilizzata solamente in riferimento a piadine prodotte in Romagna, indipendentemente dal fatto che venga impiegato un metodo artigianale ovvero industriale.

Per la società ricorrente il citato Regolamento comporta uno svantaggio concorrenziale; infatti, mentre la stessa, avendo sede a Modena, resta inevitabilmente esclusa dalla possibilità di utilizzo dello strumento giuridico in argomento, di questo se ne possono invece avvalere le società, pur sempre impegnate nella produzione di piadine con metodi industriali, attive nel territorio romagnolo.

Il 23 aprile 2018 il Tribunale UE, ritenendo opportuno non affrontare la questione relativa alla sussistenza o meno dell’interesse ad agire in capo al ricorrente, ha respinto il ricorso nel merito, così ponendo fine alla c.d. “saga della Piadina Romagnola” (2). La decisione in commento risulta particolarmente interessante in quanto interviene su diverse questioni, sostanziali e procedurali, valevoli non soltanto per l’IGP “Piadina Romagnola” e per il relativo (e sofferto) processo di registrazione ma, più in generale, per la registrazione di qualsiasi IGP.

In particolare, i giudici dell’Unione, nel pronunciarsi sul primo motivo di impugnazione, hanno affrontato due diverse questioni: la prima, di carattere sostanziale, riguarda la rilevanza del metodo di produzione utilizzato, artigianale o industriale, al fine della verifica del legame tra qualità e territorio; la seconda, di natura procedurale, attiene il riparto di competenze tra autorità nazionali e Commissione europea nel procedimento di registrazione delle IGP (3).

Con il primo motivo di ricorso, infatti, la società ricorrente lamentava che la Commissione avesse proceduto alla registrazione dell’IGP “Piadina Romagnola” anche con riferimento alla piadina prodotta con metodo industriale, nonostante il disciplinare (documento che, assieme all’atto unico, deve necessariamente accompagnare la domanda di registrazione) non contenesse elementi tali da far ritenere che quest’ultima gode di reputazione. La ricorrente, in altre parole, contestava il fatto che nel valutare la domanda di registrazione avanzata dalle autorità italiane, la Commissione avesse ritenuto sussistenti elementi idonei a giustificare anche il legame tra la piadina prodotta con metodo industriale e la sua origine geografica.

Il Tribunale UE ha respinto tale motivo di ricorso, chiarendo, innanzitutto, quello che è il riparto di competenze nel processo di registrazione di una IGP, processo avente natura bifasica. Al punto 34 della sentenza si legge:“la decisione di registrare una denominazione come IGP può essere adottata dalla Commissione solo se lo Stato membro interessato le ha presentato una domanda a tal fine e che una siffatta domanda può essere presentata solo se lo Stato membro ha verificato che essa è giustificata. Tale sistema di ripartizione delle competenze si spiega in particolare con la circostanza che la registrazione presuppone la verifica che sia soddisfatto un certo numero di requisiti, tra cui quello relativo al legame tra il prodotto e la zona geografica di cui trattasi a causa della reputazione del prodotto attribuibile al fatto che esso proviene da tale zona geografica, il che richiede conoscenze approfondite di elementi particolari dello Stato membro interessato che le autorità nazionali possono meglio verificare”.

Ne consegue, e ciò emerge tanto dall’impianto sistemico del reg. n. 1151/2012, quanto dalla stessa giurisprudenza comunitaria, che la Commissione è tenuta unicamente “a verificare, prima di registrare una denominazione come IGP, da un lato, se il disciplinare che accompagna la domanda che le è stata presentata contenga gli elementi richiesti dal regolamento n. 1151/2012, in particolare dall’articolo 7, paragrafo 1, dello stesso, e se tali elementi non siano viziati da errori manifesti e, dall’altro, sulla base degli elementi contenuti nel disciplinare, se la denominazione soddisfi i requisiti di cui all’articolo 5, paragrafo 2, del medesimo regolamento”.

Ciò premesso, l’estensore procede ad individuare le ragioni che hanno portato il Tribunale a ritenere che la piadina gode di una reputazione che giustifica il riconoscimento dell’esistenza di un legame tra tale prodotto e la sua origine geografica, indipendentemente dalla questione se sia fabbricata mediante i metodi artigianali o industriali.

Al riguardo, viene osservato, preliminarmente e in via generale, che “se la reputazione di un prodotto può essere stabilita poiché esso possiede determinate proprietà in quanto proviene dalla zona geografica considerata, in particolare a causa dei fattori naturali od umani connessi a quest’ultima, e suscita quindi nei consumatori una determinata immagine attribuibile alla sua origine geografica, si deve considerare che esiste un legame, ai sensi dell’articolo 5, paragrafo 2, lettera b), del regolamento n. 1151/2012, tra detto prodotto e la zona geografica da cui esso proviene, indipendentemente dalle sue modalità di fabbricazione”.

Nella specie, secondo l’opinione dei decisori, “il documento unico e il disciplinare, che accompagnano la domanda di registrazione dell’IGP controversa, contengono indicazioni relative ai fattori umani, culturali e sociali, concernenti le conoscenze particolari di fabbricazione della piadina tramandate in Romagna di generazione in generazione nonché gli sforzi della popolazione della zona diretti a valorizzare questo prodotto come proveniente da detta zona, che sono all’origine della reputazione della piadina. Tali indicazioni devono essere quindi considerate come elementi che consentono di stabilire l’esistenza di un legame tra la reputazione del prodotto e la zona geografica considerata a causa della sussistenza dei fattori umani”. Infatti, “grazie a tali tecniche di fabbricazione della piadina, inizialmente utilizzate per il consumo immediato, poi per il consumo differito, e grazie agli eventi socio-culturali organizzati dalla popolazione, il consumatore associa l’immagine della piadina romagnola, qualunque ne sia la modalità di realizzazione, al territorio della Romagna”.

Riccardo Orlandi

Per il testo integrale della sentenza si rinvia all’indirizzo: http://curia.europa.eu/juris/document/document.jsf?text=&docid=201392&pageIndex=0&doclang=IT&mode=lst&dir=&occ=first&part=1&cid=2008190

(1) Regolamento di esecuzione (UE) n. 1174/2014, recante iscrizione di una denominazione nel registro delle denominazioni di origine protette e delle indicazioni geografiche protette [Piadina Romagnola/Piada Romagnola (IGP)], del 24 ottobre 2014. Disponibile all’indirizzo: https://curia.europa.eu/jcms/jcms/j_6/it/

(2)La c.d. “saga della Piadina Romagnola” è stata inaugurata nel 2011 con la presentazione da parte del Consorzio di Promozione e Tutela della Piadina Romagnola (Co.P.Rom) alle autorità italiane della domanda di registrazione della denominazione “Piadina Romagnola” o “Piada Romagnola”come indicazione geografica protetta. Per una ricostruzione critica dei successivi avvenimenti e vicissitudini giudiziarie si rinvia a V. Paganizza, Dalla padella alla brace: la Piadina Romagnola IGP, dal “testo” al Consiglio di Stato, in Rivista di diritto alimentare, 3, 2014, disponibile on-line all’indirizzo: http://www.rivistadirittoalimentare.it/

(3) Il procedimento di registrazione delle IGP era originariamente regolato dal reg. 510/2016. Tale regolamento è stato poi sostituito dal reg. 1151/2012 sui regimi di qualità dei prodotti agricoli e alimentari, consultabile all’indirizzo: https://eur-lex.europa.eu/homepage.html

Paternità dell’opera d’arte: quale il ruolo del giudice?

COMMENTO ALLA SENTENZA DEL TRIB. DI ROMA DEL 15-05-2017 (leggi qui il testo integrale della sentenza)

Il rapporto tra diritto e arte è da sempre terreno di accesi dibatti, sia dottrinali che giurisprudenziali. La sentenza in commento affronta due questioni particolarmente controverse: la prima riguarda la possibilità di chiedere l’accertamento giudiziale della paternità di un’opera d’arte nell’ipostesi in cui l’attribuzione sia controversa, ossia, in altre parole, se sussista un diritto, ed un conseguente potere giudiziale, di accertare con crisma di verità l’autenticità di un’opera; la seconda, invece, verte sulla facoltà del proprietario di un’opera d’arte di chiedere ad un soggetto, cui il mondo dell’arte attribuisce credibilità, il risarcimento dei danni derivanti dal rilascio di un parere che condiziona la commerciabilità del bene.

La controversia origina da una compravendita avente ad oggetto un’opera di un noto pittore (“senza titolo 973/1978 smalto su tela”), conclusa tra una società attiva nel campo dell’intermediazione e commercializzazione di opere d’arte e un collezionista.

L’acquirente, divenuto proprietario, vedeva rifiutata la propria richiesta di far inserire l’opera nell’Archivio generale del pittore, in quanto, a parere della fondazione responsabile, non sussistevano “elementi sufficienti per poter attribuire tale opera alla mano del pittore defunto”. Pertanto, il collezionista otteneva dal venditore la refusione del prezzo pagato, mediante permuta con un’opera certificata di pari valore.

A seguito di tali avvenimenti il venditore citava in giudizio la fondazione e il legale rappresentante della stessa, avanzando una duplice richiesta:
– che venisse accertata giudizialmente la paternità dell’opera il cui inserimento nell’archivio generale era stato negato;
– che i responsabili del rifiuto venissero condannati al risarcimento del danno extracontrattuale derivante dalla potenziale incommerciabilità dell’opera. Parte attrice, infatti, sosteneva che il mancato riconoscimento dell’autenticità dell’opera da parte della fondazione e il conseguente rifiuto di inserire la stessa nell’Archivio generale dell’artista, circostanze queste che di fatto rendevano il bene incommerciabile, fossero dipese da un parere rilasciato in violazione dei più basilari principi di diligenza professionale.

Il giudice, per le ragiono di cui si dirà, seppur in modo conciso, di seguito, respingeva in toto la domanda attorea.

In merito alla prima domanda, l’estensore ha rigettato la stessa fondando il proprio giudizio su due ragioni, una di diritto, l’altra di fatto.

Quanto alla prima, nella sentenza viene, innanzitutto, posto in evidenza come la funzione propria dell’azione di cognizione sia quella di determinare la certezza o meno sull’esistenza di un diritto.
Ebbene, nel caso di specie, parte attrice, nel domandare giudizialmente l’accertamento della paternità dell’opera, chiede “non l’accertamento di un diritto, bensì la verifica dell’esistenza di tutta una serie di qualità del bene, quali il tratto, i colori, l’uso di una determinata tela o di un certo soggetto, i quali, se insieme considerati, possono condurre e concorrere ad un giudizio di probabilità in relazione all’esecuzione da parte di un determinato artista, che operava secondo schemi noti. Ma l’azione giudiziale non può che arrestarsi di fronte alla percezione delle caratteristiche dell’opera. Il giudizio di sintesi sulla riconducibilità dell’opera pittorica all’artista non può essere demandato al giudice, poiché, come si è detto, l’azione di accertamento, anche mero, è comunque finalizzata alla sussistenza di diritti, non di dati fattuali”.

Dal punto di vista fattuale, poi, il giudice argomenta che il giudizio sull’autenticità di un opera, essendo quello degli esperti d’arte un settore di nicchia, dove sono pochissimi coloro che si occupano di un determinato artista, si risolverebbe in un giudizio di maggiore credibilità di un esperto piuttosto che di un altro. Infatti, al fine di verificare l’autenticità di un’opera d’arte “le corti si limiterebbero a disporre una consulenza tecnica di ufficio e ad operare un giudizio di credibilità di tale c.t.u.; l’accertamento giudiziale sull’autenticità dell’opera sarebbe quindi un’expertise validata dalle corti, trasportando in tribunale la dialettica tra diversi pareri che regna nel mondo dell’arte”.

Infine, quanto alle ragioni che hanno portato alla reiezione della domanda risarcitoria di parte attrice, è stato rilevato come, pur potendosi ammettere che un parere proveniente da soggetti cui il mondo dell’arte attribuisce credibilità sia potenzialmente foriero di un danno risarcibile, tale parere dovrebbe “essere di marchiana grossolanità e dovrebbe strutturarsi ex se come atto illecito”. Nella specie, per contro, “non è stata data prova del fatto che la perizia della convenuta fosse caratterizzata dalla dolosa volontà di pregiudicare l’attrice. E d’altronde l’expertise era formulata con caratteri dubitativi che escludono alla radice un’ipotesi di dolo”.

Riccardo Orlandi


Diritto d’autore, opere d’arte, paternità | Trib. Roma, 15.05.17

TRIBUNALE DI ROMA; sezione specializzata in materia di impresa; sentenza, 15-05-2017

Esposizioni delle ragioni in fatto ed in diritto.
— La società Alfa (attrice), attiva nel campo dell’intermediazione e commercializzazione di opere d’arte, agiva in giudizio nei confronti dell’Archivio Beta (convenuto) e della sua legale rappresentante M. B., per l’accertamento giudiziale dell’autenticità dell’opera attribuita al maestro Beta «senza titolo 1973/1978 smalto su tela», già munito del parere di autenticità rilasciato dalla fondazione Beta multistudio, nonché per il risarcimento del danno, che valutava in complessivi euro 40.000, derivante dall’emissione da parte della convenuta di un parere relativo all’autenticità dell’opera non corrispondente ai necessari obblighi di diligenza e perizia. Rappresentava in punto di fatto che l’opera precedentemente menzionata era stata da lei venduta a G. C., noto collezionista, al prezzo di euro 40.000 e che il collezionista, il 18 luglio 2014, aveva ricevuto notizia dell’impossibilità di inserire il dipinto nell’archivio generale dell’opera Beta su parere sfavorevole della fondazione «Archivio Beta» a fronte dell’«insussistenza di elementi sufficienti per poter attribuire tale opera alla mano del pittore defunto»; in conseguenza di ciò il collezionista si era rivolto al venditore, odierna parte attrice, restituendo l’opera ed ottenendo la rifusione del prezzo pagato mediante permuta con un’opera certificata di pari valore. Parte attrice, oltre a domandare l’accertamento dell’originalità dell’opera, contestava in sé il parere rilasciato, contrario all’inserimento dell’opera nell’Archivio Beta, in quanto imperito e superficiale e rappresentava di avere commissionato una perizia grafologica sulla sottoscrizione apposta sul dipinto, che aveva concluso per la genuinità della sottoscrizione del maestro; lamentava quindi la superficialità del parere della convenuta ed evidenziava inoltre come l’attribuzione di una determinata opera d’arte ad un artista non poteva essere attribuita come prerogativa di unico soggetto, giacché chiunque può rilasciare, come da costante giurisprudenza, un parere di autenticità sulle opere d’arte. Dal momento, però, che il parere dell’Archivio convenuto era particolarmente significativo nella commercializzazione dell’opera ed era stato rilasciato in violazione dei più elementari principî di diligenza professionale, tale illecito aveva determinato nel patrimonio dell’attrice — a suo dire — un danno aquiliano pari al valore dell’opera venduta, la quale, senza il parere di autenticità rilasciato dall’Archivio convenuto, risultava di fatto incommerciabile. Si costituiva in giudizio l’Archivio Beta e la signora M.B., eccependo preliminarmente il difetto di legittimazione ad agire da parte dell’attrice, non avendo questa precisato a quale titolo fosse nella disponibilità dell’opera (originariamente l’attrice ha semplicemente asserito di essere nella disponibilità dell’opera e soltanto in corso di causa ha precisato che l’opera d’arte  de qua le è stata restituita da parte del compratore), denunciando un fumus persecutionis nei confronti dell’Archivio convenuto, avendo parte attrice già introdotto numerose azioni civili nei confronti della convenuta per l’accertamento dell’autenticità di rispettive opere d’arte e rappresentando, nel merito, che l’autenticazione dell’opera d’arte non può che essere effettuata ai sensi dell’art. 20 l.d.a. dallo stesso autore dell’opera e che residua agli eredi non tanto il potere di autenticare l’opera quanto quello di rivendicarla ai sensi dell’art. 20 l.d.a., fattispecie diversa dall’autentica che può provenire esclusivamente da colui che materialmente ha realizzato un’opera d’arte. Precisava inoltre di non avere mai affermato la falsità dell’opera, ma esclusivamente «che la stessa non era in possesso dei requisiti necessari anche nell’esecuzione della firma» affinché l’opera potesse essere inserita nell’archivio generale dell’opera di Beta; quello rilasciato quindi da parte convenuta era esclusivamente un parere, come altri potevano essere emessi nell’ambito dell’arte, che poteva essere anche superato da diversi contrari pareri e che ciò nulla aveva a che vedere con la commerciabilità dell’opera; la circostanza poi che il mondo dell’arte riteneva non commerciabili le opere d’arte prive della necessaria attestazione da parte dell’Archivio era circostanza a lei ignota e comunque non imputabile. Si opponeva anche ad ogni profilo risarcitorio, non ravvisando alcuna condotta illecita nell’avere emanato un parere, che, come tale, non assume alcuna funzione vincolante nei confronti dell’ipotetico compratore. 
All’udienza del 17 dicembre 2015, il giudice, ottenuta ogni precisazione sull’azione intrapresa dalla società attrice, ordinava l’integrazione del contraddittorio nei confronti dell’originario acquirente dell’opera G. C., posto che dalle allegazioni di parte attrice non era chiaro se lo stesso fosse ancora proprietario dell’opera. Nella medesima udienza parte attrice chiariva che l’azione era finalizzata principalmente all’ac-certamento della paternità dell’opera ed in secondo luogo alla liquidazione del danno extracontrattuale derivante dalla potenziale incommerciabilità dell’opera stessa. Il giudice ordinava inoltre l’estensione del contraddittorio nei confronti del co-titolare del diritto d’autore del defunto maestro Mario Schifano: M. G. Il chiamato G.C. si costituiva in giudizio con comparsa di costituzione del 2 maggio 2016, chiarendo che non era più proprietario dell’opera e chiedendo quindi che venisse pronunciato il suo difetto di legittimazione passiva. Si costituiva anche M. G., aderendo alle difese di parte convenuta. Le istanze istruttorie delle parti venivano successivamente disattese, avendo il giudice istruttore ritenuto ininfluente ai fini del decidere l’accertamento del fatto che i colori utilizzati per la realizzazione dell’opera  sub iudice erano i colori tradizionalmente utilizzati dal maestro Mario Schifano per la realizzazione delle proprie opere e ritenuta pacifica fra le parti l’ulteriore circostanza che la casa d’aste Christie’s International vendeva le opere del maestro solo se accompagnate dalla dichiarazione di autenticità resa dall’Archivio Beta. Sulla base quindi degli elementi acquisiti al fascicolo, la causa veniva rimessa al collegio con assegnazione dei termini di legge. 
La domanda non può essere accolta. Così come precisato dalla stessa parte attrice all’udienza del 17 dicembre 2015, l’oggetto principale dell’azione è l’accertamento della paternità dell’opera di cui la società attrice è attualmente proprietaria. Non è in discussione fra le parti il principio, ripetutamente affermato dalle corti, per cui ciascun esperto possa rilasciare un parere (expertise) in ordine all’autenticità di un’opera d’arte e che conseguentemente non vi può essere un soggetto che si possa arrogare in via esclusiva il diritto di rilasciare pareri sull’autenticità di un’opera. Oggetto, quindi, del presente giudizio è eminentemente se, nell’ipotesi di discordanza fra pareri, ovvero nella loro incertezza, l’autenticità dell’opera possa essere ottenuta giudizialmente, ovverosia se sussista un diritto, ed un conseguente potere, giudiziale, di accertare con carisma di verità l’autenticità di un’opera d’arte. La questione non è nuova: già in passato le corti si sono occupate del problema dell’accertamento giudiziale dell’autenticità dell’opera d’arte (v. Cass. 2765/82,  Foro it., 1982, I, 2864), escludendo che lo stesso potesse essere effettuato mediante riferimento all’art. 72 l. not. (autentica di sottoscrizione), ma ammettendo che si potesse accertare la falsità dell’autentica rilasciata dall’artista, giungendo ad ipotizzare anche un’ipotesi di danno all’integrità del patrimonio del potenziale acquirente nell’ipotesi di autentica non corrispondente all’effettiva paternità dell’opera (ipotesi, questa, non coltivata dalla successiva giurisprudenza di merito).L’autentica dell’artista non è quindi  ex se un dato inoppugnabile sull’autenticità dell’opera, potendosi ben verificare l’ipotesi di artista che, anche per esigenze di denaro, o per altri interessi, autentichi opere non originali, così come la parallela ipotesi di un artista che si rifiuti di autenticare opere proprie, ma costituisce piuttosto un dato oggettivo dotato di speciale autorevolezza, credibilità e pregnanza (una presunzione iuris tantum, come si direbbe in linguaggio giuridico), che può comunque essere disattesa da un parere di segno diverso.Il riportare l’«autentica» nell’alveo dei pareri, expertise, seppure in considerazione del valore che assume sul mercato l’autentica da parte dello stesso esecutore, consente di risolvere, con un certo agio, le questioni giuridiche portate all’attenzione di questo collegio e di potere affermare i seguenti principî: ciascuno, compreso naturalmente l’artista esecutore, può rilasciare pareri sull’autenticità di un’opera d’arte; — l’autentica è un’opinione «privilegiata» di un artista che si assume la paternità di un’opera d’arte; — ogni parere, nella diversa valenza, a seconda che promani dall’autore ovvero da soggetti che abbiano maturato credibilità nel mondo accademico e dell’arte, può essere messo in discussione da un parere di segno diverso, fatto questo che spesso non consente di pervenire ad un giudizio di assoluta certezza sulla paternità dell’opera; — in assenza di dati inoppugnabili, quali la documentazione fotografica dell’artista mentre realizza l’opera, non è possibile quindi accertare se un’opera pittorica sia veramente attribuibile ad un certo autore sulla sola base del tratto ovvero della firma, se non in termini probabilistici. — non esiste quindi un diritto, giudizialmente tutelabile, all’accertamento dell’autenticità di un’opera. — Quest’ultima affermazione merita un chiarimento. Al di là delle difficoltà oggettive e fattuali per la riconduzione di un dipinto ad un artista, questo collegio dubita che possa essere garantito dall’ordinamento giuridico un diritto all’accertamento  pro veritate dell’appartenenza di un’opera d’arte ad uno specifico artista, per due ragioni principali, la prima in diritto, la seconda in fatto. Va premesso che, in punto di diritto, se è vero che l’azione di accertamento giudiziale o cognizione ha per obiettivo l’enunciare l’esistenza di un diritto come volontà prescrittiva della legge nel dirimere un caso concreto, allora verrebbe qui in considerazione esclusivamente l’attività di «mero accertamento», ovvero la diversa esigenza di determinare la certezza o meno sull’esistenza di un diritto. L’accertamento infatti qui non appare finalizzato a conferire verità processuale ed a rendere effettiva una norma applicabile nel caso concreto, bensì solo ad accertare un diritto in sé astrattamente considerato. L’attenzione deve essere quindi focalizzata su quale sia il diritto che parte attrice ritiene dover essere oggetto dell’accertamento giudiziale. Tale diritto non può riguardare naturalmente la proprietà dell’opera, essendo pacifico ed indiscusso che l’opera d’arte pittorica sub iudice appartiene a parte attrice, né può riguardare il diritto morale d’autore, che pacificamente, per stessa ammissione di parte attrice, appartiene ai sensi dell’art. 20 l.d.a., agli eredi dell’autore defunto, ovvero — in astratto — allo stesso materiale artefice dell’opera d’arte e che comunque, come si dirà in seguito, nulla ha a che fare con l’autentica dell’opera.In assenza di diritto oggetto di mero accertamento non vi può essere azione esperibile. Non vi è infatti un diritto processualmente accertabile. Nel domandare giudizialmente l’accertamento della paternità dell’opera, parte attrice domanda quindi, in sostanza, non l’accertamento di un diritto, bensì la verifica dell’esistenza di tutta una serie di qualità del bene, quali il tratto, i colori, l’uso di una determinata tela o di un certo soggetto, i quali, se insieme considerati, possono condurre e concorrere ad un giudizio di probabilità in relazione all’esecuzione da parte di un determinato artista, che operava secondo schemi noti. Ma l’azione giudiziale non può che arrestarsi di fronte alla percezione delle caratteristiche dell’opera. Il giudizio di sintesi sulla riconducibilità dell’opera pittorica all’artista non può essere demandato al giudice, poiché, come si è detto, l’azione di accertamento, anche mero, è comunque finalizzata alla sussistenza di diritti, non di dati fattuali. Non ignora questo giudicante, così come peraltro ripetutamente sottolineato da parte attrice nei propri atti, che la Corte d’appello di Milano, in ipotesi analoga (ma non identica, poiché in tale fattispecie una galleria si era pronunciata per la non genuinità dell’opera, mentre nell’ipotesi odierna la convenuta si è semplicemente limitata ad affermare di non avere elementi sufficienti per potersi pronunciare sull’opera), ha affermato il principio della possibilità di accertare giudizialmente la paternità dell’opera d’arte. La pronuncia della Corte d’appello di Milano — in cui il principio  de quo è peraltro concentrato in poche e assiomatiche righe motivazionali — non può però essere condivisa.Il giudice meneghino, infatti, è partito dal presupposto — corretto — che oggetto dell’azione di accertamento è esclusivamente «una situazione giuridica di natura sostanziale» e quindi non una situazione di mero fatto, ma ha di seguito affermato l’equivalenza tra la paternità artistica dell’opera e la natura stessa del bene. La paternità dell’opera non sarebbe quindi un fatto estraneo al bene stesso, ma si integrerebbe nel bene fino a diventare parte essenziale «del contenuto del diritto di proprietà», sovrapponendo quindi la proprietà quale signoria sul bene, con le qualità estrinseche del bene. Quest’ultima affermazione non può essere condivisa. Non è qui infatti in contestazione il diritto di proprietà di un’opera (il dipinto è incontestatamente di proprietà della società Alfa), bensì le caratteristiche che potrebbero orientare il compratore al suo acquisto e, in sostanza, il valore di mercato che le viene attribuito sulla base dell’apprezzamento del mondo dell’arte. Ad avviso di questo collegio debbono invece sempre essere tenuti distinti il contenuto proprio del diritto assoluto di proprietà, che equivale all’uso esclusivo del bene e dal diritto di escludere i terzi dal godimento dell’opera, dall’accertamento delle qualità e del valore dell’opera mediante certo riferimento ad un determinato soggetto esecutore, che non può avvenire se non in termini probabilistici. Se il primo diritto è tutelabile dall’ordinamento sotto le forme del diritto soggettivo, il secondo può essere tutelato solo nelle forme dell’accertamento tecnico, lasciando poi spazio a opinioni, tra le quali svolgono un ruolo fondamentale le expertise, tra cui la stessa autentica dell’autore. Solo l’artista, infatti, sa con certezza se l’opera gli appartenga o meno (ma non è detto che tale certezza si riverberi nel contenuto dell’autentica). Il problema dell’attendibilità del-l’expertise può essere quindi traslato, tal quale, anche all’autentica fatta dall’esecutore (o presunto tale). Una volta deceduto l’esecutore, la certezza sulla paternità dell’opera diventa ancora più labile e maggiore rilievo assumono i pareri degli esperti. Non è quindi irragionevole pensare, come ha fatto parte attrice, che un parere, se superficiale e grossolano, e se proveniente da soggetto cui il mondo dell’arte attribuisce credibilità, sia potenzialmente foriero di un danno contrattuale risarcibile, secondo i tradizionali schemi dell’esecuzione imperita di un incarico. Ma tale parere deve essere di marchiana grossolanità e deve strutturarsi  ex se come atto illecito (quale l’affermare la falsità di ciò che si sa essere autentico al solo fine di danneggiare un terzo). Appare quindi difficile configurare un illecito risarcibile sulla sola base di un cauto parere, come quello oggetto del presente procedimento, che si limita a sospendere ogni giudizio («non sussistono elementi sufficienti per poter attribuire tale opera alla mano del pittore defunto») e, nel dubbio sull’autenticità, non consenta l’inserimento dell’opera in un archivio. Si entra quindi in un discorso di puro apprezzamento delle caratteristiche dell’opera, il quale non è di pertinenza del giudice per mezzo dell’azione di accertamento, ma che eventualmente, come si è accennato, può trovare un limitato riconoscimento esclusivamente nelle forme dell’accertamento descrittivo (che trovano spazio nel nostro ordinamento nelle forme di cui all’art. 696 c.p.c. ovvero per il ricorso per descrizione ex 129 cod. proprietà industriale previsto dal codice della proprietà industriale). Del bene, quindi, possono essere solo cristallizzati i dati evidenti dell’opera, ma mai il giudizio sulla sua autenticità, stante anche, e qui viene in considerazione l’elemento fattuale di cui si accennava in precedenza, l’esistenza di un settore di nicchia dove pochissimi sono gli esperti relativi ad un determinato artista. 
È opportuno, a questo punto, effettuare una significativa distinzione tra la cognizione relativa alla paternità dell’opera ed il diritto morale di autore, che è stato ripetutamente evocato, impropriamente, nel presente procedimento, e che invece si sostanzia nel diritto dell’autore di ottenere verso altri il riconoscimento dell’opera come propria rispetto a possibili usurpazioni, di opporsi alla sua modifica e di ritirarla dal mercato. Il diritto morale di autore non corrisponde, a ben guardare, al diritto di autentica, ben potendo, come si è detto, l’autore anche autenticare quadri non propri (fattispecie, queste, già venute alla ribalta in passato in pronunce di carattere giurisdizionale). Il diritto morale d’autore ha un contenuto sostanzialmente oppositivo, che mira quindi a tutelare l’opera d’arte da possibili interferenze che possano essere esercitate dall’esterno, sia in relazione alla paternità dell’opera, quando altri se ne appropri, sia in relazione al suo uso, sia relativamente ad eventuali manipolazioni.«Rivendicare la paternità dell’opera» (art. 20 l.d.a.) non significa quindi autenticare opere d’arte, ma un’attività di opposizione ad atti usurpativi che altri possano commettere. Tipico è il caso dell’artista che veda la sua opera erroneamente attribuita a terzi. La rivendica quindi dà per presupposta l’attribuzione dell’opera ad un artista o l’acquiescenza del destinatario della rivendica, tanto è vero che, se più artisti rivendichino contemporaneamente un’opera d’arte, nessuno di loro potrebbe qualificarsi come autore sulla sola base della rivendica. La tutela del diritto morale di autore è quindi più agevole di quella relativa all’accertamento della paternità dell’opera, perché generalmente ha per presupposto pacifico tra le parti l’attribuzione dell’opera originaria ad un determinato soggetto-autore. Più complessa è la fattispecie nella quale il diritto morale di autore venga esercitato dagli eredi ex art. 20 l.d.a., poiché effettivamente possono insorgere dubbi sull’effettiva riferibilità dell’opera al dante causa di coloro che agiscono per la tutela del diritto d’autore. Anche qui la prova della non genuinità dell’opera è però astrattamente più agevole di quella sull’autenticità: possono concorrere all’accertamento della non autenticità dell’opera elementi oggettivi come l’uso di determinati colori inesistenti all’epoca della realizzazione dell’opera, ovvero la rappresentazione di eventi non ancora verificatisi al momento della realizzazione dell’opera, ovvero la rappresentazione di oggetti non ancora conosciuti al momento della presunta realizzazione dell’opera. Come si è detto, radicalmente diversa è la fattispecie dell’autentica. Le abilità dei falsari si possono estendere sia all’uso dei medesimi colori, delle medesime tele, dei medesimi materiali e possono estendersi anche (nell’ipotesi in cui il falsario sia egli stesso un artista di pregio) all’uso dei medesimi tratti e alla realizzazione di una firma sostanzialmente analoga a quella dell’artista. Non può affermarsi, quindi, che spetti agli eredi un diritto esclusivo ad attestare l’autenticità dell’opera. Gli eredi, come altri soggetti qualificati, possono esclusivamente dare un parere significativo e autorevole sull’autenticità dell’opera d’arte per aver condiviso con l’artista defunto momenti di vita, esperienze ideali e per avere potuto, più di altre persone, osservare l’artista mentre realizzava un’opera d’arte, ma non possono attestare  pro veritate l’appartenenza dell’opera all’artista. E, d’altronde, si è anche chiarito che anche lo stesso artista non può attribuire pro veritate l’opera a sé stesso.
In conclusione, un accertamento giudiziale mirato alla verifica che una determinata opera d’arte presenta dei tratti analoghi a quelli di un noto artista ovvero dei colori compatibili con quelli utilizzati dall’artista, ovvero una firma verosimilmente compatibile con quella dell’artista, si può tradurre solo in un giudizio di verosimiglianza e, conseguentemente, in un ulteriore parere. Si tenga poi ulteriormente presente come, in punto di fatto, le corti si limiterebbero a disporre una consulenza tecnica di ufficio e ad operare un giudizio di credibilità di tale c.t.u.; l’accertamento giudiziale sull’autenticità dell’opera sarebbe quindi un’expertise validata dalle corti, trasportando in tribunale la dialettica tra diversi pareri che regna nel mondo dell’arte. Ed è quanto esattamente successo nella sentenza della Corte d’appello di Milano dell’11 dicembre del 2002 ( id., Rep. 2003, voceConsulente tecnico, n. 14), dove il giudizio di autenticità dell’opera si è sostanzialmente fondato su una maggiore credibilità di una perizia rispetto ad un’altra, ribaltando quanto in precedenza affermato dal tribunale di primo grado, che aveva invece ritenuto maggiormente convincente il parere poi disatteso dal giudice di secondo grado. Venendo poi alla domanda risarcitoria avanzata da parte attrice relativa ad una superficialità da parte della convenuta nel rilascio della perizia, si osserva come la stessa sia infondata. Non è stata data prova del fatto che la perizia della convenuta fosse caratterizzata dalla dolosa volontà di pregiudicare l’attrice. E d’altronde l’expertise era formulata con caratteri dubitativi che escludono alla radice un’ipotesi di dolo. Parte attrice lamenta poi una situazione di carattere fattuale: ovverosia la circostanza per cui il mercato dell’arte ed i grandi mediatori internazionali come le case d’asta attribuiscano particolare significato al parere dell’Archivio Beta. Anche qui questo collegio non dispone dei mezzi giuridici necessari per intervenire. Ne consegue la reiezione della domanda di parte attrice.