Autore: Giovanni Orlandi

Nullità del contratto di lavoro a tempo determinato

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 20 dicembre 2012 – 3 aprile 2013, n. 8120

Presidente Amoroso – Relatore Curzio

La mancanza di specificità delle ragioni giustificative del ricorso alla somministrazione temporanea di lavoro comporta la nullità del contratto di lavoro stesso. Viene infatti richiesto un elevato grado di specificità che consenta facilmente di classificare le suddette ragioni giustificative come legittimanti un contratto a tempo determinato, nonchè la verifica della loro effettività.

Ragioni della decisione

La ABB spa chiede l’annullamento della sentenza della Corte d’appello di Brescia, pubblicata il 13 ottobre 2009, che ha confermato la decisione con la quale il Tribunale di Bergamo aveva dichiarato la nullità del contratto di somministrazione stipulato con la Man Power spa e ordinato alla ABB di riammettere in servizio di Giacomo D..R. dal 9 agosto 2004. modificando la sentenza di primo grado solo in ordine al punto relativo alla entità della detrazione dell’aliunde perceptum.

Il ricorso è articolato in tre motivi.

Il R. si è difeso con controricorso. La ABB spa ha depositato una memoria.
Con il primo motivo la ABB denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 21 d. lgs. 276 del 2003 assumendo che tale norma “impone solo dei requisiti di forma” e che, “contrariamente a quanto affermato dalla Corte di merito, non è quindi richiesta alcuna “specificazione” delle ragioni sottostanti il ricorso al lavoro in somministrazione. Sarebbe pertanto sufficiente “la forma scritta e l’indicazione di una delle fattispecie indicate al comma 1”.

Con il secondo motivo si denunzia “omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio”. Viene denunciata una pretesa contraddizione nel ragionamento giuridico della Corte derivante dal fatto che, da un lato, ha ritenuto generica l’indicazione delle ragioni, dall’altro ha ritenuto di poter entrare nel merito della valutazione, il che attesterebbe che quella formula non era così generica da rendere impossibile valutazione e controllo.

Con il terzo motivo si denunzia “omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio. Violazione dell’art. 20, quarto comma, d. lgs. 276 del 2003”. Con tale motivo si contesta che le ragioni che giustificano la somministrazione debbano essere collegate ad eventi eccezionali, non ripetibili negli stessi tempi e con le medesime modalità, ovvero ad eventi che sconvolgano la normale programmazione e la cui durata non sia prevedibile.

Il ricorso non è fondato e la decisione deve essere confermata, anche se con motivazione in parte diversa da quella sentenza impugnata.

Prima di passare all’esame dei motivi, deve premettersi che tra la Abb spa ed il R. sono intercorsi più rapporti di lavoro a termine, basati su contratti commerciali di somministrazione stipulati tra la ABB spa e l’agenzia di lavoro interinale Man Power spa.

La Corte di Brescia ha dichiarato la nullità del primo contratto commerciale di somministrazione, stipulato il 6 agosto 2004, ritenendo generica l’indicazione delle ragioni del ricorso alla somministrazione. La nullità è stata dichiarata per violazione dell’art. 21 d. lgs 276 del 2003, che così recita: “il contratto di somministrazione di manodopera è stipulato in forma scritta e contiene i seguenti elementi:…… c) i casi e le ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche riferibili all’ordinaria attività dell’utilizzatore;…”.

L’ultimo comma della norma, nella versione applicabile al rapporto in esame “ratione temporis” dispone: “in mancanza di forma scritta, con indicazione degli elementi di cui alle lettere…c) del comma 1, il contratto di somministrazione è nullo e i lavoratori sono considerati a tutti gli effetti alle dipendenze dell’utilizzatore”.

La Corte di Brescia ha poi formulato una motivazione ulteriore, sottolineando che comunque le ragioni addotte risultavano inidonee a giustificare la somministrazione perché sussistevano già agli inizi del 2003, come rilevato dal Tribunale di Bergamo e quindi ben prima dell’epoca di stipulazione del contratto.

Il primo motivo di ricorso affronta la questione esaminata dalla Corte di Brescia nella prima parte della sua motivazione.

La questione è in realtà duplice. Il primo problema è quello di stabilire, in termini generali, se il contratto commerciale di somministrazione tra l’agenzia somministratrice e l’utilizzatore del lavoro interinale debba contenere la specificazione delle ragioni per le quali l’impresa utilizzatrice ricorre alla somministrazione. Problema distinto è poi quello di verificare se le ragioni indicate nel singolo contratto siano o meno specifiche.

La società ricorrente assume che “contrariamente a quanto affermato dalla Corte di merito, non è richiesta alcuna “specificazione” delle ragioni sottostanti il ricorso al lavoro temporaneo somministrato”.

La tesi non è fondata.

La disciplina della somministrazione di lavoro è dettata dagli artt. 20 – 28 del d. lgs. 276 del 2003.

Il primo di tali articoli, Part. 20, è intitolato “condizioni di liceità”, definisce il contratto di somministrazione e distingue tra somministrazione a tempo determinato e a tempo indeterminato.

Con riferimento alla somministrazione a tempo determinato, le condizioni di liceità sono indicate al quarto comma, con questa disposizione: “la somministrazione a tempo determinato è ammessa a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili alla ordinaria attività dell’utilizzatore”.

L’articolo successivo, il 21, statuisce che il contratto di somministrazione di manodopera deve essere stipulato in forma scritta e deve contenere una serie di elementi. Tra gli elementi necessari, il punto c) indica “i casi e le ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo di cui ai commi 3 e 4 dell’art. 20”.

Il termine “casi” è riferito al terzo comma concernente la somministrazione a tempo indeterminato, consentita nella casistica delineata ai punti da a) e i) di quel comma.

Il termine “ragioni” è riferito al quarto comma, concernente il contratto di somministrazione a tempo determinato, ammesso solo in presenza di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo.

Tutto ciò premesso, la risposta da dare al problema concernente la necessità o meno che le ragioni del ricorso alla somministrazione siano specificate, non può che essere positiva.

Come si è visto, la normativa prevede come “condizione di liceità” che il contratto sia stipulato solo in presenza di ragioni rientranti in quelle categorie ed impone di indicarle per iscritto nel contratto a pena di nullità (ultimo comma dell’art. 21); inoltre, il terzo comma dell’art. 27, sancisce che il controllo giudiziale è limitato “all’accertamento della esistenza delle ragioni” (e quindi consiste proprio in tale verifica).

La conseguenza di tutto ciò è che tali ragioni devono essere indicate per iscritto nel contratto e devono essere indicate, in quella sede, con un grado di specificazione tale da consentire di verificare se rientrino nella tipologia di ragioni cui è legata la legittimità del contratto e da rendere possibile la verifica della loro effettività.

L’indicazione, pertanto, non può essere tautologica, né può essere generica. Non può risolversi in una parafrasi della norma, ma deve esplicitare il collegamento tra la previsione astratta e la situazione concreta.

Nel caso in esame le ragioni del ricorso al lavoro in somministrazione sono state indicate in “punte di più intensa attività produttiva”, alle quali non era possibile far ricorso con i normali assetti produttivi aziendali, determinate “dall’acquisizione di commesse” o dal “lancio di nuovi prodotti”.

Questa indicazione delle ragioni in sede contrattuale è stata valutata dalla giurisprudenza di legittimità sufficientemente specifica. Esaminando una situazione del tutto simile, si è affermato: “….si tratta di causali ben note e sperimentate nella pratica contrattuale, che hanno rinvenuto espressa consacrazione in risalenti norme legali relative al contratto al termine (ed, in particolare, nel d.l. n. 876 del 1977, convertito nella l. n. 18 del 1978, che ha introdotto la disciplina del contratto a termine per punte stagionali”, poi estesa dalla l. n. 79 del 1983, art. 8-bis a tutti i settori economici, anche diversi da quello commerciale e turistico), e conferma negli orientamenti della stessa giurisprudenza, che, sotto il vigore della precedente disciplina della materia, ne aveva patrocinato una interpretazione allargata, e cioè comprensiva anche delle punte di intensificazione dell’attività produttiva di carattere meramente gestionale (v. già Cass. n. 3988/1986), sì da rispondere, in perfetta consonanza con gli orientamenti contrattuali, alle più svariate esigenze aziendali di flessibilità organizzativa delle imprese.
Ne deriva che le punte di intensa attività “non fronteggiabili con il ricorso al normale organico risultano sicuramente ascrivibili nell’ambito di quelle ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili all’ordinaria attività dell’utilizzatore, che consentono, ai sensi del d. Igs. n. 276 del 2003, art. 20, comma 4, il ricorso alla somministrazione di lavoro a tempo determinato e che il riferimento alle stesse ben può costituire valido requisito formale del relativo contratto, ai sensi dell’art. 21, comma 1, lett. c, della legge stessa” (Cass. 21 febbraio 2012, n. 2521).

Il fatto che siano state indicate più causali è anch’esso stato considerato dalla giurisprudenza di legittimità, che, occupandosi dei contratti a termine ha affermato il principio di diritto per il quale la pluralità di ragioni di apposizione del termine non collide con il criterio della specificità, a condizione che entrambe le ragioni specificate per iscritto rispondano a tale requisito e tra le stesse non sussista incompatibilità o intrinseca contraddittorietà (Cass. 16 marzo 2010, n. 6328; ma già Cass. 17 giugno 2008, n. 16396, nonché Cass. 22 febbraio 2012, n. 2622).

Quanto sinora affermato concerne il problema della specificità delle ragioni indicate nel contratto commerciale di somministrazione a spiegazione del ricorso alla somministrazione. Come si è detto, le ragioni devono essere specificamente indicate e quelle indicate nel contratto in esame possono essere considerate specifiche.

Problema distinto è quello della verifica della sussistenza in concreto di tali ragioni.

Potrebbe accadere che le ragioni siano indicate nel contratto in modo specifico e perfettamente confacente a quanto richiesto dalla legge, ma che poi la concreta utilizzazione del lavoratore non abbia alcun collegamento con tali ragioni.

Anche sul punto la giurisprudenza di legittimità si è espressa (Cass. 8 maggio 2012, n. 6933, cui si rinvia anche per i richiami).

La verifica della corrispondenza dell’impiego concreto del lavoratore a quanto affermato nel contratto è l’oggetto centrale del controllo giudiziario. Non vi sarebbe stato bisogno di una norma specifica a tal fine, perché valgono le regole generali dell’ordinamento. Tuttavia, una norma specifica si rinviene nel d.lgs. 276 del 2003 ed è costituita dal terzo comma dall’art. 27. Tale norma precisa che il giudice non può sindacare nel merito le scelte tecniche, organizzative o produttive in ragione delle quali un’impresa ricorre alla somministrazione, ma deve limitare il suo controllo, “all’accertamento delle ragioni che (la) giustificano”, cioè che giustificano il ricorso alla somministrazione. Il controllo giudiziario è concentrato quindi nella verifica della effettività di quanto previsto in sede contrattuale (sul punto, cfr., Cass. 6933 del 2012, cit.; 2521 del 2012 cit. e 15610 del 2011).

Questo accertamento è di competenza del giudice di merito e quindi, se motivato in maniera adeguata e priva di contraddizioni, non può essere rivalutato in sede di legittimità.

Nel caso in esame la Corte di Brescia ha effettuato la verifica con riferimento alle due ragioni indicate dalla società a spiegazione della necessità di in incremento produttivo temporaneo (punte di produttività), rilevando che in realtà solo una delle due ragioni indicate risultava accertata, quella relativa alla introduzione di un nuovo prodotto, ma che tuttavia anch’essa non poteva essere considerata idonea perché non vi era corrispondenza temporale tra il lancio del nuovo prodotto ed il ricorso alla somministrazione, poiché vi era una sfasatura di circa un anno e mezzo.

La motivazione in fatto della decisione sul punto non può dirsi né contraddittoria, né insufficiente e le critiche formulate nel ricorso attengono a valutazioni di merito che sono estranee al giudizio di legittimità e sono pertanto inammissibili in questa sede.

Nella memoria per l’udienza la società ha chiesto l’applicazione dell’art. 32, commi 5-7, della legge n. 183 del 2010, emanata dopo la proposizione del ricorso per cassazione. La richiesta non può essere accolta perché il capo della decisione relativo al risarcimento del danno, non essendo stato oggetto di specifici motivi d’impugnazione, è passato in giudicato (Cass. 3 gennaio 2011, n. 65, 4 gennaio 2011, n. 80, 3 febbraio 2011 n. 2452).

Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato. Le spese devono essere poste a carico della parte che perde il giudizio.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alla rifusione al controricorrente delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in 50,00 Euro per esborsi, nonché in 3.500,00 Euro per compensi professionali, oltre accessori come per legge.

Contratto preliminare – obbligo di conservazione

Contratto preliminare – obbligo di conservazione

 

Corte di Cassazione, sentenza n. 1377 depositata il 17 gennaio 2012

Suscita interesse il principio affermato da tale sentenza che attiene a interessi di natura esclusivamente tributaria e che deve indurre a riflettere e a correggere condotte che potrebbero essere autorizzate diversi principi affermati dalla stessa Corte, in un ottica esclusivamente civilistica, in particolare laddove è stato affermato che l’atto pubblico di vendita sostituisce del tutto i patti contenuti nel preliminare di vendita, atto che dopo la stipulazione del definitivo sembra quindi perdere ogni rilievo al punto da rendere apparentemente inutile la sua conservazione.

         Con questa pronuncia, infatti, la Cassazione penale statuisce che è obbligatorio conservare la convenzione preliminare.

Risponde, infatti, del reato di occultamento e distruzione delle scritture contabili l’agente immobiliare che occulta o distrugge contratti preliminari, impedendo di fatto all’Amministrazione finanziaria la riscossione delle imposte sulle provvigioni.

 

Nel caso in esame, la condotta incriminata è quella disciplinata dall’art. 10 del D.Lgs. 74/2000, ai sensi del quale, salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da 6 mesi a 5 anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, ovvero di consentire l’evasione a terzi, occulti o distrugga, in tutto o in parte, non solo le “scritture contabili” ma anche “i documenti” di cui è obbligatoria la conservazione, in modo da non consentire la ricostruzione dei redditi o del volume d’affari.

La norma citata, secondo la Suprema Corte, intende anche assicurare la possibilità che attraverso il vaglio della documentazione contabile sia possibile operare un controllo delle attività imprenditoriali ai fini fiscali, come lascia intendere il dato testuale laddove fa riferimento alla“ricostruzione dei redditi o del volume d’affari” nell’intento di impedire l’occultamento della distruzione dei documenti.

La regola poi è confortata anche dal disposto dell’articolo 2214, co.2, CC che impone la tenuta delle scritture contabili che siano richieste dalla natura e dalle dimensioni dell’impresa. Inoltre si consideri che normalmente è previsto il versamento, da parte di chi acquista, di una caparra della quale è data quietanza dell’atto, così da conferire al contratto il valore di documento comprovante l’operazione di riscossione della quale deve essere assicurata la conservazione.

Il fatto che la norma faccia riferimento alle scritture richieste dalla natura dell’impresa ha consentito alla giudice di ritenere obbligato alla custodia l’agente immobiliare che consegue il diritto alla provvigione con la conclusione dell’affare cioè con la stipula del contratto preliminare e non per effetto della conclusione del rogito notarile, con la conseguenza che per l’agente immobiliare la provvigione conseguita costituisce un ricavo imponibile.

Estinzione della società, cancellazione dell’ente capacità processualee legittimazione

(Cass. Civ., sez I, 15 ottobre 2012, n. 17637 in Diritto e Giustizia 2012)

La pronuncia di legittimità in commento ha stabilito il principio per cui con la cancellazione viene meno la soggettività dell’ente, e con esso la sua capacità processuale, nonché la legittimazione attiva e passiva dei suoi organi, la quale, relativamente ai processi in corso, si trasferisce ai singoli soci.

Questi ultimi, infatti, a seguito della estinzione, divengono non solo responsabili nei confronti dei creditori sociali per i crediti rimasti insoddisfatti, nei limiti delle somme da loro riscosse nel bilancio finale di liquidazione, ma anche partecipi della comunione sui beni residuati dalla liquidazione o sopravvenuti alla cancellazione, con conseguente configurabilità di una successione a titolo universale che dà luogo, sul piano processuale, all’applicabilità dell’art. 110 c.p.c. Prima della cancellazione, invece, la legittimazione processuale spetta unicamente ai liquidatori ai quali l’assemblea della società abbia attribuito la rappresentanza della stessa, ai sensi dell’art. 2487 c.c., verificandosi, per effetto dell’iscrizione della nomina nel registro delle imprese, la cessazione della carica degli amministratori ed il sub ingresso dei liquidatori nei relativi poteri.

Tale pronuncia si è posta quindi come un superamento in senso confermativo di quell’orientamento risalente della giurisprudenza secondo il quale l’atto formale di cancellazione di una società dal Registro delle Imprese, così come il suo scioglimento, con l’instaurazione della fase di liquidazione, non determinava l’estinzione della società ove non si fossero esauriti tutti i rapporti giuridici ad essa facenti capo a seguito della procedura di .liquidazione, ovvero non fossero definite tutte le controversie giudiziarie in corso con i terzi, e non determinava, conseguentemente, in relazione a detti rapporti rimasti in sospeso e non definiti la perdita della legittimazione processuale della società ed un mutamento della rappresentanza sostanziale e processuale della stessa, che permaneva in capo ai medesimi organi che la rappresentavano prima della cancellazione (cfr, ex multis, Cass. Civ. 646/2007; Cass. Civ. 3221/1999).

         Sia quindi che si segua il nuovo orientamento della Cassazione sia che si voglia optare per quello più risalente la ratiosottesa alle due scelte di campo è unica e cioè evitare che il processo si interrompa per il solo effetto della volontaria cancellazione, non rinvenendosi un successore della stessa legittimato a proseguirlo, e la società estinta possa agevolmente sottrarsi alle proprie obbligazioni (così App. Milano, Sez. I, ord. 1482/2008).

 

Concorrenza sleale – norme ISO

Concorrenza sleale – norme ISO

Ordinanza Trib.le di Modena Sez. Distaccata di Carpi  in data 7 gennaio 2010

Secondo una recente ordinanza del Tribunale di Modena, Sezione Distaccata di Carpi, emessa a seguito di un ricorso ex art. 700 c.p.c. costituisce atto di concorrenza sleale per contrarietà ai principi della correttezza professionale (art. 2598 n. 3 c.c.) ed appropriazione di pregi (art. 2598 n. 2 c.c.) l’apporre una certificazione ISO sul proprio prodotto qualora le qualità dello stesso non siano più aggiornate alle ultime norme ISO (Tribunale Modena, Sezione distaccata di Carpi, ord. 7 gennaio 2010).

         Le conclusioni dell’ordinanza, poi confermata in sede di reclamo, sono in linea di principio da condividere. Il giudicante ha giustamente ritenuto che “non avrebbe senso, infatti, confidare su un prodotto che promette di essere dotato di caratteristiche realizzate secondo la migliore scienza ed esperienza del momento se questa non è più tale perché superata da conoscenze ed esperienze migliori”. D’altronde, sia la dottrina che la giurisprudenza erano da sempre concordi nel ritenere un caso tipico di illecita appropriazione di pregi l’apposizione al proprio prodotto di certificazione ISO qualora questa fosse avvenuta mentre il prodotto era privo delle qualità certificate (VANZETTI-DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Milano, 2009; e App. Milano, 18 marzo 2006).

         Tuttavia l’ordinanza si spinge oltre ritenendo appunto che, non solo si ha illecita appropriazione di pregi quando il prodotto certificato sia completamente sprovvisto degli standard ISO, ma anche quando questo, per così dire, sia “rimasto indietro” nell’aggiornamento di detti standard, millantando caratteristiche che sono rispondenti alle vecchie norme ISO non più aggiornate con la recente normativa.

Ordinanza

Esaminati gli atti di causa e i documenti allegati;

Ritenuta la propria competenza;

Sciogliendo la riserva assunta all’udienza del 02/12/2009;

Atteso che parte ricorrente lamenta: 1) che la convenuta Y vende viti ad alta resistenza – verosimilmente acquistate da produttori dell’estremo oriente – appartenenti alla classe di resistenza 8.8. ma prive della percentuale del 90% di martensite ‘a cuore’ imposta dalla nuova norma ISO 898:1-2009 entrata in vigore il 31/03/2009; 2) che la convenuta ha falsamente certificato la conformità alla suddetta norma ISO di una partita di viti venduta il 03/06/2009 alla società Z; 3) che sussiste quindi un’ipotesi di concorrenza sleale sotto il profilo dell’appropriazione di pregi, del mendacio ingannevole e della violazione di norme pubblicistiche; 4) che sussiste un pregiudizio imminente – consistente nella necessità di Y di esaurire rapidamente le scorte di magazzino e quindi di immettere sul mercato viti non conformi – ed irreparabile – sviamento della clientela, difficoltà di dimostrare, nel futuro giudizio di merito, le vendite illecite effettuate dalla concorrente e l’entità dei danni da questa provocati ad essa ricorrente -;

 

Atteso che parte ricorrente ha chiesto, conseguentemente, in via cautelare, che sia inibita alla convenuta la commercializzazione di tutte le viti della categoria 8.8 non conformi alla nuova norma ISO (l’individuazione di dette viti andrebbe effettuata risalendo ai medesimi produttori delle viti accertate come non corrispondenti alla norma ISO acquistate da Z e da V s.r.l.) ovvero, in alternativa, che sia inibita la commercializzazione e la certificazione di dette viti non conformi alla suddetta norma ISO se prive della caratteristiche tecniche imposte dalla norma stessa;

Atteso che parte ricorrente, nella memoria depositata in data 16/11/2009, ha integrato le proprie conclusioni aggiungendo una ulteriore subordinata, finalizzata ad imporre alla società convenuta l’eliminazione, sulle viti, sulle scatole, sui documenti commerciali e sui certificati di conformità, di ogni riferimento alla marcatura 8.8 e al nome del produttore, impedendo così alla convenuta di appropriarsi dei pregi derivanti dall’osservanza effettiva della normativa ISO;

Atteso che la parte resistente si è costituita in giudizio chiedendo il rigetto delle domande avverse e allegandole seguenti eccezioni: a) che l’azione di parte ricorrente avrebbe una portata meramente emulativa stante l’esistenza di un procedimento antidumping davanti ad una commissione dell’Unione Europea che vede contrapposte le stesse parti del presente giudizio; b) che all’epoca dei fatti (maggio 2009) la nuova norma ISO non era ancora stata recepita dalla ISO italiana e che solo dal 9 luglio 2009 essa è entrata in vigore in Italia; c) che la certificazione rilasciata a richiesta della Z s.r.l. è stata carpita inducendo in errore un dipendente di Y; d) che in ogni caso non è vietata la vendita di prodotti appartenenti a standard qualitativi antecedenti stante l’assoluta volontarietà della normativa ISO; e) che le prove tecniche richieste da parte ricorrente al Politecnico di Milano al fine di accertare la presenza della percentuale del 90% di martensite a cuore si basano esclusivamente sulla percezione visiva del tecnico che esegue la valutazione e che i risultati di detto accertamento sono conseguentemente inattendibili; f) che sono inapplicabili nel caso di specie le norme sulla concorrenza sleale dal momento che: f.a.) le imprese non hanno le stesse dimensioni e lo stesso mercato (la ricorrente produce le viti e si rivolge prevalentemente a grossisti mentre la convenuta si limita a commercializzare il prodotto rivogendosi prevalentemente a dettaglianti); f.b.) i pregi asseritamente vantati (la conformità alla normativa ISO) non possono essere ritenuti ‘altrui’ non essendo esclusivi di uno specifico concorrente, trattandosi soltanto di standard di produzione; g) che non sussiste alcun periculum in mora mancando qualunque indizio in ordine alla quantità delle scorte di magazzino di Y ed inoltre non vi è alcuna urgenza di vendere le viti conformi alla precedente normativa ISO non sussistendo alcun divieto alla loro vendita;

osserva

         Norme tecniche ISO e concorrenza sleale

Com’è noto, l’Organizzazione internazionale per la normazione (ISO, International Organization for Standardization) è la più importante organizzazione a livello mondiale per la definizione di norme tecniche. Suoi membri sono gli organismi nazionali di standardizzazione di 157 Paesi del mondo. In Italia le norme ISO vengono recepite, armonizzate e diffuse dall’UNI, il membro che partecipa in rappresentanza dell’Italia all’attività normativa dell’ISO.

Se, da una parte, il rispetto delle regole tecniche dettate dall’ISO per le svariate categorie di prodotti non è, di regola, obbligatorio, tranne nei casi in cui le autorità pubbliche ne impongano il rispetto per motivi di sicurezza pubblica, sembra ovvio, dall’altra, che una certificazione di conformità ISO costituisca una promessa di qualità (cfr. art.1497 c.c.), di pregio del prodotto.

Norme ISO succedutesi nel tempo

Sembra altrettanto ovvio che la certificazione di conformità alle nome ISO non possa che rispettare l’ultima regola emanata dall’Organizzazione. Non avrebbe senso, infatti, confidare su un prodotto che promette di essere dotato di caratteristiche realizzate secondo la migliore scienza ed esperienza del momento se questa non è più tale perché superata da conoscenze ed esperienze migliori.

Il rischio di rimanenze di merci conformi ad ISO superate da nuove norme tecniche incombe dunque sul venditore. Il rigore di questa conclusione si attenua se si considera che le revisioni della norma ISO seguono procedure lunghe e complesse mentre gli accordi di modifica vengono pubblicati con grande anticipo prima dell’entrata in vigore. Parte resistente non ha contestato l’asserto avversario relativo alla circostanza che la prima bozza della nuova norma ISO 2009 risale al 2005.

Sembra evidente che la vendita di tali merci non sia, di regola, vietata, ma se alla vendita dovesse accompagnarsi anche la certificazione di conformità ISO tale certificazione sarebbe del tutto impropria e rientrerebbe tra gli atti non conformi ai principi della correttezza professionale vietati dall’art. 2598 n. 3 c.c.

Tali conclusioni sembrano imporsi in vista della tutela degli interessi della collettività che la norma in esame, direttamente o come riflesso indiretto della tutela della concorrenza tra imprenditori, intende garantire. Sotto quest’ultimo profilo appare scontata la sussistenza di un grave danno per l’imprenditore che, dopo aver affrontato i costi  necessari per allinearsi ai nuovi standard, veda poi venduti sul mercato, a prezzi sensibilmente inferiori, prodotti che si approprino di una conformità ISO inesistente o non più aggiornata.

Vigenza della nuova norma UNI EN ISO 898-1

La nuova norma tecnica invocata da parte ricorrente è entrata in vigore per l’Italia il 9 luglio 2009.

Questa circostanza, eccepita da parte resistente, non è stata oggetto di controeccezione da parte della ricorrente, ed è stata anzi confermata dalla ricorrente (cfr. memoria 16/11/2009 p. 4) che aveva indicato nel 31/03/2009 il giorno di entrata in vigore della norma, riferendosi verosimilmente all’ambito internazionale.

Risulta però che Y abbia venduto le viti di cui è causa anche in data 20 ottobre 2009 e 27 ottobre 2009 rispettivamente alle società D’Arcano Sergio e Cagnasso s.r.l. Nel primo caso la vendita risulta accompagnata da una certificazione di conformità alla norma UNI 3740-3:82 non più in vigore, mentre nel secondo caso manca qualunque certificazione. Parte ricorrente ha fondatamente asserito che la sola indicazione della classe del prodotto 8.8. sulla testa della vite e sulle scatole della confezione è idonea a identificare una vite ad alta resistenza conforme alla norma ISO 898-1 in vigore al momento dell’acquisto.

Alla luce dei fatti accertati le vendite risalenti ad epoca successiva al 9 luglio 2009 (a XXX) sono idonee a configurare atti di concorrenza sleale.

Sussistenza di una fattispecie di concorrenza sleale

Si esamineranno ora più di vicino le eccezioni sollevate da parte resistente.

La circostanza che la certificazione rilasciata a richiesta della Anixter Italia s.r.l. sia stata carpita inducendo in errore un dipendente di X appare del tutto irrilevante se si considera che in altri casi la X ha rilasciato certificazioni di conformità a norme ISO non più in vigore ed inoltre che la testa delle viti vendute continua ad essere marchiata con il numero della classe ISO 8.8.

Analoga irrilevanza manifesta l’eccezione che le prove tecniche richieste da parte ricorrente al Politecnico di Milano al fine di accertare la presenza della percentuale del 90% di martensite a cuore si basino esclusivamente sulla percezione visiva del tecnico che esegue la valutazione e che i risultati di detto accertamento sarebbero conseguentemente inattendibili. La resistente, infatti, ha mostrato di essere consapevole della non conformità alla norma ISO in vigore nel momento in cui ha ammesso l’errore del proprio dipendente nella certificazione rilasciata ad Z.

L’asserita inapplicabilità, nel caso di specie, delle norme sulla concorrenza sleale per il fatto che le imprese odierne contendenti non hanno le stesse dimensioni e lo stesso mercato (la ricorrente produce le viti e si rivolge prevalentemente a grossisti mentre la convenuta si limita a commercializzare il prodotto rivolgendosi prevalentemente a dettaglianti) non sussiste. Infatti, “Sussiste rapporto di concorrenza fra due società quando due imprenditori, pur operando a diversi livelli di mercato, commercializzando prodotti almeno analoghi e si rivolgono ad una medesima categoria di consumatori. (Tribunale Monza, 19 ottobre 1988 Soc. Computerland Europe c. Soc. Polli centro arredamento Giur. it. 1989, I,2,860 (nota). “In tema di concorrenza sleale, presupposto indefettibile dell’illecito è la sussistenza di una situazione di concorrenzialità tra due o più imprenditori, derivante dal contemporaneo esercizio di una medesima attività industriale o commerciale in un ambito territoriale anche solo potenzialmente comune, e quindi la comunanza di clientela, la quale non è data dalla identità soggettiva degli acquirenti dei prodotti, bensì dall’insieme dei consumatori che sentono il medesimo bisogno di mercato e, pertanto, si rivolgono a tutti i prodotti che sono in grado di soddisfare quel bisogno. La sussistenza di tale requisito va verificata anche in una prospettiva potenziale, dovendosi esaminare se l’attività di cui si tratta, considerata nella sua naturale dinamicità, consenta di configurare, quale esito di mercato fisiologico e prevedibile, sul piano temporale e geografico, e quindi su quello merceologico, l’offerta dei medesimi prodotti, ovvero di prodotti affini e succedanei rispetto a quelli offerti dal soggetto che lamenta la concorrenza sleale. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, nella parte in cui, nonostante il diverso pregio dei prodotti delle parti ed il diverso livello dei negozi presso cui essi erano reperibili, aveva ritenuto sussistente la confondibilità tra gli stessi, in virtù della loro appartenenza alla medesima categoria merceologica e dell’adozione di un marchio fortemente confondibile, che avrebbero potuto indurre il pubblico a ritenere entrambi i prodotti riconducibili all’attività della medesima impresa). (Cassazione civile, sez. I, 22 luglio 2009, n. 17144 Soc. calzature Carpan c. Soc. Salvatore Ferragamo Italia Red. Giust. civ. Mass. 2009, 7-8).

Oltre all’innegabile fumus boni juris sussiste anche il periculum in mora, desumibile dalla circostanza che, anche dopo l’inizio del procedimento la resistente continua a vendere viti esplicitamente od implicitamente certificate come conformi alla normativa ISO. Non rileva dunque la mancanza di qualunque indizio in ordine alla quantità delle scorte di magazzino di Y.

Le conclusioni qui accolte appaiono, del resto, confortate da significativi precedenti della giurisprudenza di merito. “Costituisce appropriazione di pregi e comunicazione ingannevole l’apposizione di un marchiaggio, attestante la conformità dei prodotti alle norme di sicurezza UNI EN 124 e successive modifiche, con cui l’imprenditore attribuisce caratteristiche specifiche al proprio prodotto, considerate estremamente positive dagli operatori del mercato e tali da costituire possibile ragione di preferenza, non riscontrabili nel chiusino da esso commercializzato e, invece, costituenti una peculiarità di quelli prodotti dalla concorrente. Nel contempo, la comunicazione ha un suo intrinseco carattere ingannevole nei confronti dei possibili acquirenti ed utilizzatori, censurabile a prescindere dal fatto che altro concorrente distribuisca prodotti con – effettivamente – quelle caratteristiche. (Corte appello Milano, 18 marzo 2006 Soc. R. prefabbricati c. Soc. N. e altro Giur. it. 2006, 10 1867 con osservazione di MASSARO).

Sul tipo di provvedimenti più idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione sul merito

Parte ricorrente ha chiesto che sia inibita alla convenuta la commercializzazione di tutte le viti della categoria 8.8 non conformi alla nuova norma ISO ovvero, in alternativa, che sia inibita la commercializzazione e la certificazione di dette viti non conformi alla suddetta norma ISO se prive della caratteristiche tecniche imposte dalla norma stessa. Nella memoria depositata in data 16/11/2009, la ricorrente ha integrato le proprie conclusioni aggiungendo una ulteriore subordinata, finalizzata ad imporre alla società convenuta l’eliminazione, sulle viti, sulle scatole, sui documenti commerciali e sui certificati di conformità, di ogni riferimento alla marcatura 8.8 e al nome del produttore.

Ritiene il giudicante che il tipo di provvedimento più idoneo ad assicurare gli effetti della decisione sul merito sia il primo richiesto, vale a dire l’inibitoria alla Y s.p.a. di commercializzare e certificare viti non conformi alle norme tecniche in vigore al momento della vendita, con la specificazione che la vendita di prodotti non conformi potrà avvenire soltanto dietro espressa certificazione che il prodotto non è conforme alle norme ISO in vigore.

Per questi motivi

Visto l’art. 700 c.p.c.

–                      Inibisce a Y di commercializzare e certificare viti ad alta resistenza appartenenti alla classe 8.8. non conformi alle norme ISO in vigore al momento della vendita.

–                      La vendita di detti prodotti non conformi potrà avvenire soltanto dietro espressa certificazione che il prodotto non è conforme alle norme ISO in vigore al momento della vendita stessa.

–                      Fissa il termine di giorni sessanta per l’inizio del giudizio di merito.

Si comunichi a cura della Cancelleria.

Carpi, 7 gennaio 2010

 

Il Giudice Designato

Del fondo patrimoniale 2

Del fondo patrimoniale 2

Cass.  n. 4011 del 19 febbraio 2013

 

Ancora una pronuncia, freschissima, in tema di fondo patrimoniale e un’ulteriore conferma del declino inarrestabile cui sembra destinato tale  istituto  quale strumento per la  difesa del patrimonio familiare. Un declino sancito da un’avversione della giurisprudenza che ormai appare conclamato e che dipende forse da una tendenza all’abuso per fini elusivi.

Con la sentenza in oggetto la Suprema Corte, statuendo a proposito di un ricorso presentato da un contribuente che aveva proposto opposizione ad una esecuzione immobiliare inerente immobili conferiti in fondo patrimoniale, ha affermato il principio che  in ipotesi di  debito contratto nei confronti di un istituto di credito per ragioni legate all’esercizio di un’impresa o comunque di carattere lavorativo, il debito stesso può essere considerato come contratto nell’interesse della famiglia.  In caso di inadempienza quindi  la banca può sottoporre al pignoramento l’immobile conferito nel fondo patrimoniale.

L’orientamento espresso da questa recente sentenza, che  trova peraltro conforto in alcune pronunce precedenti (Cass. 18.09.2001 n. 11683 e Cass. 07. 07. 2009 n. 15.862 ), muove da una interpretazione estensiva del concetto di “bisogni della famiglia” di cui all’art. 170 cc..  Tale norma infatti prevede che l’esecuzione sui beni del fondo e sui frutti di esso non può aver luogo per debiti che il creditore conosceva essere stati contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia”. Secondo la Corte, l’espressione “bisogni della famiglia” non deve essere circoscritta alle sole necessità strettamente necessarie ed essenziali del nucleo familiare,  ma comprende ogni esigenza più ampia,  riconducibile alle esigenze di mantenere i bisogni e le esigenze quotidiane nonché a un equilibrato sviluppo della famiglia, con esclusione quindi delle sole esigenze di natura voluttuaria o ispirate da intento speculativo.

In tale quadro, quindi, si è ritenuta operare la presunzione che anche i debiti derivanti dall’attività professionale o d’impresa di uno dei coniugi, anche se finalizzati ad accrescere la sua capacità lavorativa, devono intendersi destinati  indirettamente ad accrescere il reddito disponibile per il mantenimento dei bisogni della famiglia. Ne discende che grava sul debitore, in sede di opposizione al pignoramento, l’onere di dimostrare che i debiti derivanti dall’attività professionale o d’impresa sono stati contratti per ragioni estranee ai bisogni della famiglia.

Del fondo patrimoniale

Del fondo patrimoniale

CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. III CIVILE – SENTENZA 5 marzo 2013, n.5385 – Pres. Uccella – est. Frasca

 

De profundis per l’istituto del fondo patrimoniale? Verrebbe da rispondere in senso affermativo leggendo questa sentenza delle Sezioni Unite, che affronta un caso invero peculiare, laddove il ricorrente contesta la legittimità dell’iscrizione ipotecaria dell’esattore su un bene conferito in fondo patrimoniale.

Sebbene l’attenzione degli ermellini, nella fattispecie, si incentri sul problema dell’onere della prova, appare sempre più evidente l’intento della giurisprudenza di circoscrivere l’efficacia “protettiva”  del Fondo patrimoniale, per scoraggiare o vanificare il tentativo frequente di utilizzare l’istituto al fine di sottrarre i beni così vincolati all’aggressione dei creditori (i quali ricorrono sovente  all’azione revocatoria ordinaria ex art. 2901 c.c. per di annullare l’atto di conferimento).

Gioverà ricordare che ai creditori e consentito procedere in via esecutiva (e quindi anche a iscrivere ipoteca) su beni costituiti in fondo patrimoniale soltanto nel caso in cui il credito sia stato contratto per uno scopo non estraneo ai bisogni familiari e, quando – ancorché sia stato contratto per uno scopo estraneo a tali bisogni – il titolare del credito per cui si procede non conosceva tale estraneità.

Nella circostanza il disfavore della giurisprudenza nei confronti di questo Istituto, ormai evidente, si manifesta attraverso la formulazione del principio per cui l’onere della prova  dell’esistenza dei presupposti per sottrarre i beni alle azioni esecutive dei creditori grava  su colui che intende opporre l’impignorabilità dei beni per effetto del vincolo rappresentato dal conferimento nel fondo patrimoniale. In particolare, l’interessato dovrà dare prova della finalità per cui è stata contratta l’obbligazione e della relazione esistente tra il fatto generatore della obbligazione stessa e i bisogni della famiglia, nonché della consapevolezza da parte del creditore di tale relazione.

Può essere utile osservare, a conferma della crescente avversione della magistratura per questo  istituto, che con sentenza 8991/03 la Corte di Cassazione ha ritenuto di applicare la regola della piena responsabilità del fondo anche nei riguardi di obbligazioni risarcitorie da illecito. Non è superfluo osservare che, in tale ottica, è irrilevante che l’obbligazione sia stata contratta prima o dopo la costituzione del fondo.

FALLIMENTO – PEGNO DI CREDITO

                                                                                                  Cass. civ., Sez. Un., 2 ottobre 2012, n. 16725

L’automatica trasformazione del pegno di credito alla consegna in pegno di titoli per effetto di un’apposita convenzione tra le parti, determina una sostituzione dell’oggetto del pegno equivalente ad una nuova garanzia. Nella descritta circostanza, inoltre, la convenzione sarebbe posta in essere in violazione del divieto di patto commissorio, perché l’appropriazione dei titoli da parte della banca, successivamente alla consegna, realizza un effetto sostanzialmente analogo al patto commissorio, in quanto la banca finirebbe in tal modo per appropriarsi dell’oggetto del credito del cliente

Non è assistita da prelazione ai fini dell’ammissione al passivo fallimentare la convenzione di pegno avente ad oggetto non titoli di stato, ma il credito del cliente nei confronti della banca all’acquisto ed alla consegna di una determinata quantità di titoli per un controvalore altrettanto determinato, senza che tali titoli risultino ancora materialmente formati al momento della convenzione, né successivamente. In merito deve rilevarsi che il pegno di credito all’acquisto ed alla consegna di titoli non ancora emessi ha natura di pegno di credito futuro, avente effetti obbligatori fino a quando non si verifica la consegna, pertanto inidoneo ad attribuire prelazione, che sorge solo dopo la specificazione e la consegna. A differenza del pegno di credito alla consegna di denaro o altra cosa fungibile (art. 2803 c.c.), già esistenti al momento della convenzione, i titoli di Stato, in regime di materializzazione, non possono dirsi ancora esistenti fino a quando non viene formato il documento che li incorpora e, dunque, fino a quando non ha luogo la individuazione, non può ritenersi sussistente alcuna prelazione.

La nouvelle vague della pizza

   Berberè, light pizza & food, di Beniamino Bilali e Matteo Aloe,  a Castel Maggiore (BO).

Provato da Il Giurista goloso Ottobre 2012

L’Italia della pizza s’è desta. Finalmente è sorto un movimento spontaneo che punta alla qualità e a valorizzare un prodotto ormai svilito e standardizzato, lontano parente di quella tradizione gastronomica d’eccellenza che rappresenta il vanto del nostro paese.   Ingredienti sempre più scadenti,  polemiche sulla provenienza del  pomodoro (cinese ?) e la mozzarella (sarà vera mozzarella ?)  e così via, e poi l’impasto sovente indigeribile e immangiabile appena la pizza si raffredda.                                                                                                                                      V’è una schiera, che va facendo proseliti, di giovani pizzaioli scienziati, veri e propri alchimisti che avvalendosi di ingredienti di grande qualità e tutti rigorosamente di produzione nazionale, sperimentando  e riscoprendo le tradizioni, ottengono risultati davvero sorprendenti.   Desta particolare interesse e piacevolissima sensazione scoprire che l’attenzione dedicata alla lievitazione e alle farine, consente di  realizzare impasti estremamente digeribili, tanto da fare degradare quelli comunemente  proposti  dalle pizzerie “standard” ad  attentati alla salute.  Viene quasi spontaneo,  d’acchito,  affermare  “Questa non è una pizza, o sì, forse, anche no, non credo proprio, può essere. Chissà.”  E che è allora? Acqua, farina, lievito e ingredienti di primissima qualità. Eh no, nemmeno questo. Perché il buon Beniamino del Berberè si è “inventato” anche l’impasto senza aggiunta di lievito: idrolisi degli amidi, gelatinizzazione; per l’uomo della strada è la possibilità di mangiare un impasto molto più digeribile perché privo di lieviti aggiunti, se poi gli vogliamo aggiungere un valore più filosofico è la vera rivincita del grano e del naturale: nulla si aggiunge rispetto quello che già c’è, solo acqua, sale e farina. Non di sola idrolisi ci si nutre, a rotazione vengono proposti vari impasti speciali. Va segnalato  per merito e originalità anche il “7effe”: 7 farine diverse: mais, riso, segale, grano duro, grano tenero, saraceno, farro. Poi c’è il classico, farina macinata a pietra, lievito madre, cottura in forno a legna e tanto amore. L’alter ego, Matteo Aloe, è  responsabile del topping, di tutto quello che a fresco viene appoggiato sopra questo disco pastoso. Prodotti di grande qualit, a cominciare dai pomodori San Marzano acquistati di una seria cooperativa e poi dalla burrata e dalla mozzarella di bufala autentiche e  i capperi di Pantelleria, tutti prodotti selezionatissimi. A livello di impasto, Beniamino Bilali ha davvero poco da imparare: straordinario il gusto, la digeribilità, il concetto applicato all’arte della panificazione.  E conversando abbiamo scopertaio che l’impasto viene fatto lievitare dalle 24 alle 48 h a temperatura costante di 26° (mentre nelle pizzerie “standard” i panetti vengono mantenuti alla temperatura di 6° gradi per garantire la durata, anche se così facendo la lievitazione non giunge a compimento, è inibita  la fase tecnicamente definita “lattica” ) In pochi altri posti come in questo sentirete il vero sapore emozionante dei cereali. E poco importa se una pizza costa anche 10-12 €, il salto di qualità giustifica ampiamente il prezzo. Ottima la selezione di vini bio e soprattutto di birre, validissimo anche il servizio: in una serata da tutto esaurito i tempi di servizio sono stati perfetti e anche il personale non ha lesinato spiegazioni e sorrisi.   Originali i dolci e di buona fattura .  Personale all’altezza, cortese e disponibile. La qualità val bene una trasferta . Il successo di pubblico  suggerisce la prenotazione.

Berberè, light pizza & food Presso Le Piazze – Lifestyle Shopping Centre Via Pio La Torre n°4/b – 40013 Castel Maggiore – BO +39.051.705715 Prezzo: da 10 a 20 euro. Impasto speciale: aggiunta di due euro Chiuso: lunedì

 

 

Contratto preliminare – obbligo di conservazione

Corte di Cassazione nella sentenza n. 1377 depositata il 17 gennaio 2012

 Suscita interesse il principio affermato da tale sentenza che attiene a interessi di natura esclusivamente tributaria e che deve indurre a riflettere e a correggere condotte che potrebbero essere autorizzate diversi principi affermati dalla stessa Corte, in un ottica esclusivamente civilistica, in particolare laddove è stato affermato che l’atto pubblico di vendita sostituisce del tutto i patti contenuti nel preliminare di vendita, atto che dopo la stipulazione del definitivo sembra quindi perdere ogni rilievo al punto da rendere apparentemente inutile la sua conservazione.

Con questa pronuncia, infatti, la Cassazione penale statuisce che è obbligatorio conservare la convenzione preliminare.

Risponde, infatti, del reato di occultamento e distruzione delle scritture contabili l’agente immobiliare che occulta o distrugge contratti preliminari, impedendo di fatto all’Amministrazione finanziaria la riscossione delle imposte sulle provvigioni.

Nel caso in esame, la condotta incriminata è quella disciplinata dall’art. 10 del D.Lgs. 74/2000, ai sensi del quale, salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da 6 mesi a 5 anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, ovvero di consentire l’evasione a terzi, occulti o distrugga, in tutto o in parte, non solo le “scritture contabili” ma anche “i documenti” di cui è obbligatoria la conservazione, in modo da non consentire la ricostruzione dei redditi o del volume d’affari.

La norma citata, secondo la Suprema Corte, intende anche assicurare la possibilità che attraverso il vaglio della documentazione contabile sia possibile operare un controllo delle attività imprenditoriali ai fini fiscali, come lascia intendere il dato testuale laddove fa riferimento alla“ricostruzione dei redditi o del volume d’affari” nell’intento di impedire l’occultamento della distruzione dei documenti.

La regola poi è confortata anche dal disposto dell’articolo 2214, co.2, CC che impone la tenuta delle scritture contabili che siano richieste dalla natura e dalle dimensioni dell’impresa. Inoltre si consideri che normalmente è previsto il versamento, da parte di chi acquista, di una caparra della quale è data quietanza dell’atto, così da conferire al contratto il valore di documento comprovante l’operazione di riscossione della quale deve essere assicurata la conservazione.

Il fatto che la norma faccia riferimento alle scritture richieste dalla natura dell’impresa ha consentito alla giudice di ritenere obbligato alla custodia l’agente immobiliare che consegue il diritto alla provvigione con la conclusione dell’affare cioè con la stipula del contratto preliminare e non per effetto della conclusione del rogito notarile, con la conseguenza che per l’agente immobiliare la provvigione conseguita costituisce un ricavo imponibile.

 

Una trattoria non banale a Ferrara

Un amico fidato ci segnala un locale del centro storico in cui si sta davvero bene. Potrebbe sembrare una banalità, ma chi gira un pochino sa bene quanto sia complicato trovare un valido indirizzo dentro le mura cittadine. La cucina in salsa siculo-ferrarese del Sorpasso è la risposta alle vostre domande. Piatti semplici, fatti come si deve, senza sconti sulla materia prima. Qualche schizzo di personalità, quel pizzico che distingue il cuoco banale dal cuoco vero. Fanno quello che sanno fare, senza esagerazioni, e lo fanno bene. Una ricetta tanto semplice quanto rara.  Carta che spazia allegramente tra la città estense e la Trinacria. Menu tradizionale a 20 euro che odora di miracolo, straordinaria la scelta di dedicare una parte della carta ai cosiddetti “improponibili”: la lingua, la crema d’aglio, il fegato in rete di maiale, le sarde in saòr… Fossero queste le cose improponibili… Anche l’ambiente è specchio della proposta: allegro e di carattere. I tavoli con le piastrelle decorate, le sedie dipinte da Beatrice Piva ispirate ai canti dell’Orlando Furioso: tutto fa colore e tutto aiuta ad allietare la sosta. Vini pochi, ma non banali, con qualche bella chicca bio come il nostro Litrozzo Bianco 2010 dell’Azienda Agricola Le Coste di Gradoli, un toccasana in una calda domenica di giugno. Questo vino, semplicemente, finisce in un baleno. Un vulcano, nel vero senso del termine. Stagionalità, attenzione ai prodotti, semplicità. Non la tecnica dello stellato, ma l’attenzione e la passione per il proprio lavoro di un bravo ristoratore che cucina con le mani e con il cuore. Ecco la ricetta per la Trattoria che vuole fare la Trattoria e non ama travestirsi.
Trattoria Sorpasso Via Saraceno, 118 Ferrara Tel.+39.0532.790289 Prezzo Medio alla carta: 35 euro Menu “Ferrara Mia!” (tradizionale ferrarese): euro 20 con calice di vino Chiuso tutto martedì e sabato a pranzo