Autore: Giovanni Orlandi

A Roma un panino di qualità

Immagine panino roma

           Ancora dal nostro inviato nella capitale ci è pervenuta un interessante segnalazione per un mordi e fuggi, un autentica esperienza di street food di qualità.

          Sergio Esposito nel suo chiosco al Mercato di Testaccio confeziona panini originali e seducenti. Si è speso nella sua lunga esperienza di lavoro tra i macelli e il ristorante della moglie, e si è sempre divertito cucinando. Quando avrebbe potuto andarsene in pensione, ha deciso di aprire un chiosco nel nuovo mercato per fare panini e che panini!!!

            I prezzi sono contenuti, ma ciò nonostante la ricerca della qualità è indubbia: salsicce e alcune carni del Cecchini (via Merulana), Scottona, trippa e polpette, spezzatino di vitella in bianco, trippa e involtini. E’ segnalato il panino il signature, una ciabattina morbida con allesso: salsa verde notevole, carne tenera, non stracotta, umida, leggera.

Sergio Esposito                                                                                                                            

Mercato del Testaccio       

Roma

La torta quattro quarti (alle mele) di Rino Duca, chef de Il Grano di Pepe di Ravarino.

Immagine torta quattro quarti

Ingredienti per 4 persone

burro g 100

farina g 100

uova g 100 (circa due uova di medie dimensioni)

zucchero g 100

lievito per dolci 1/2 bustina

mele a pezzettoni g 500

cannella in polvere 1 presa

Lavorare in un mixer il burro con le uova, lo zucchero, la farina ed il lievito fino ad ottenere un composto liscio ed omogeneo.

Preparare un teglia del diametro (circa di 20-22 cm) foderata con carta da forno e distribuirvi il composto.

Aggiungere le mele a pezzettoni e completate con una spolverata di cannella in polvere.

Cuocere in forno a 180 per circa 30 minuti.

Sfornare, spolverare di zucchero a velo e servire a fette o a quadratini.

il nome quattro quarti deriva dal fatto che i quattro ingredienti principali: burro, farina, uova e zucchero sono sempre in proporzioni uguali ovvero in 4/4.

Come per la torta Quattro Quarti alle pere, suggerisco l’abbinamento ad un vino dolce: Moscato d’Asti oppure Fiori d’Arancio Colli Euganei.

Se invece il caldo vi attanaglia provate(ci) un infuso di karkadè preparato in anticipo, leggermente zuccherato e servito freddo.

I vini dell’azienda agricola Nifo Sarrapochiello.

I dodoci ettari di vigneto sulle pendici del monte Pèntime, nel beneventano hanno il sole in fronte che riesce a baciarli per lunghi tratti della giornata e  sono coltivarli secondo i crismi dell’agricoltura biologica, nel rispetto della natura. Una zona questa del territorio sannita che si distingue per i grandi bianchi, ma non solo.

Falanghina del Sannio è capace di mostrare i muscoli senza perdere in eleganza. I muscoli si avvertono da subito alla vista, con un giallo intenso, sicuramente più acceso delle altre etichette menzionate, tonico e brillante. Il calice è convincente in modo esplosivo all’olfatto, dove la carica del colore si sprigiona in un frutto ampio, con note tropicali, floreali e agrumate.

Immagine vino 2

Falanghina Taburno 2009 Nifo Sarrapochiello. Un vino sorprendente ad un prezzo eccellente, 8 €.

Il suo capolavoro riconosciuto è l’Aglianico del Taburno D’Erasmo Riserva, premiato dalla Guida dell’Espresso come migliore rosso Campano. Prezzo 10 €

Immagine vino 1

 

 

Una Cantina Reggiana in Liguria

Immagine 1

           In uno di quei pertugi infilati tra i carrugi di Chiavari, che proprio non si notano, confuso tra i “farinot” che tanto piacciono agli stranieri, da tempo immemorabile esiste questo autentico tempio del pesce ligure, tanto amato dagli indigeni quanto sconosciuto al grande pubblico degli avventori.  La cosa che più mi ha incuriosito e quasi indispettito (l’avevo sotto il naso) è che frequentando questi portici da quasi vent’anni proprio non lo avevo mai notato e nessuno me lo aveva mai segnalato. C’è voluta l’imbeccata di Matteo Spinola autentico protagonista del gelato a Chiavari (vedansi separata recensione) per procurare l’opportunità. Beh un’autentica sorpresa, un salto, o meglio una piacevolissima promenade, nella più autentica tradizione ligure, con la mano felice di uno chef dal gusto sopraffino, di quelle figure che hanno il dono di trasformare in oro quello che toccano. Piatti assolutamente tradizionali, lo rimarchiamo, ma appaganti perché preparati con la passione di chi sembra debba cucinare per la propria famiglia.

          Così anche un apparentemente semplice piatto di spaghetti allo scoglio diventa un vero e proprio percorso delle delizie, un tripudio di molluschi e crostacei  immersi in un sugo da vertigine, di una delicatezza appetitosa tale da rendere irresistibile il gesto della scarpetta (ben due cestini di focaccia “bruciati” in un batter d’ali). Quel che imbarazza poi è il quantum, una porzione, in apposita teglia, basta e avanza per due persone, …un  difetto….. forse, ma che appagamento!

         Se poi, come è accaduto, la commenda prevedeva a seguire una zuppa di pesce capirete l’imbarazzo. Anche in questo caso un vero capolavoro, con crostacei, molluschi e calamari in abbondanza, tanto da costringere i commensali a una maratona eroica ma ineluttabilmente destinata a concludersi con una resa dolorosissima, per limiti fisiologici, con tanto rammarico.

           E in media res, tra i tavoli decisamente stipati, saldamente presidiati da avventori di razza ligure, scorbutici ma generosi (naturalmente veraci, non quelli con le borse di Prada e le iacchette di Ralph Lorent) sfilavano teglie meravigliose di fritto misto dall’aspetto intrigante, impressione corroborata dalle presenze decisamente appagate dei quasi commensali. I nostri vicini, due turisti dall’aria di quelli che la sanno lunga, dopo due o tre bicchieri di bianchetta genovese (dell’enoteca Bisson) hanno vuotato il sacco, confidando che questo è il miglior locale per qualità/ prezzo di Chiavari. Devo convenire, un’esperienza appagante e di rara perfezione, niente di creativo naturalmente, ma anche un menù classico quando è interpretato con mano felice può lasciare un segno indelebile.

         I prezzi sono allineati a quelli di  tanti altri ristoranti, ma la quantità è talmente abbondante che sfido chiunque a superare i 30 € (vino compreso, se non si esagera).

            I sughi saporiti ci hanno persino consentito di provare un mezzo litro di Gattinara di buona fattura tratto da una cantina  non blasonata ma apprezzabile. Ancora alle h 22, chi è rimasto escluso (meglio prenotare per il fine settimana)  può sperare nel secondo giro. Devo anche confessare che la seconda prova,  a distanza di qualche settimana, ha confermato la prima impressione. Nell’occasione la scelta degli antipasti misti si è rivelata azzeccatissima, ben otto assaggi tra i quali da segnalare i calamari ripeni con un sugo, da scarpetta, inebriante e seducente, quintessenza della cucina di casa, e poi un cous cous di pesce piacevolissimo e delicato, dei gamberi al gorgonzola originali e gradevoli, baccalà e patate, tonno fresco pomodori e cipolla calamari e piselli, insalata russa di mare, e cozze alla marinara freschissime. Tutto gradevole con alcune punte di eccellenza….e poi …ancora spaghetti allo scoglio per una replica irresistibile e al diavolo la dieta.  Impossibile anche questa volta  provare i dolci, peraltro dall’aspetto molto invitante e dichiaratamente fatti in casa. Il conto, sempre quello, impossibile superare la soglia indicata a meno di non volere emulare le imprese di Gargantua e Pantagruele.

TRATTORIA CANTINA REGGIANA

Via  Raggio, 27 – 16043 – Chiavari (GE)  tel: 0185.308338

LAVORO (RAPPORTO) divieto di licenziamento delle lavoratrici gestanti, direttiva del Consiglio n. 92/85/CEE

Corte giustizia Comunita’ Europee, Grande Sez. , 26 febbraio 2008, n. 506/06

Secondo la Grande Sezione della Corte, la direttiva del Consiglio n. 92/85/CEE, del 19 ottobre 1992, concernente l’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento (decima direttiva particolare ai sensi dell’art. 16, par. 1 della direttiva n. 89/391/CEE), e, in particolare, il divieto di licenziamento delle lavoratrici gestanti di cui all’art. 10, punto 1, di tale direttiva, devono essere interpretati nel senso che non riguardano una lavoratrice che si sottopone a fecondazione in vitro qualora, al momento della comunicazione del licenziamento, la fecondazione dei suoi ovuli con gli spermatozoi del partner abbia già avuto luogo, e si sia quindi già in presenza di ovuli fecondati in vitro, ma questi non siano stati ancora trasferiti nell’utero della lavoratrice.

Gli artt. 2, n. 1, e 5, n. 1, della direttiva del Consiglio n. 76/207/CEE, del 9 febbraio 1976, relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro, ostano al licenziamento di una lavoratrice che si trovi in una fase avanzata di un trattamento di fecondazione in vitro, vale a dire tra il prelievo follicolare e il trasferimento immediato degli ovuli fecondati in vitro nel suo utero, purché sia dimostrato che il licenziamento si fondi essenzialmente sul fatto che l’interessata si sia sottoposta a tale trattamento.

 
 
 
  Sentenza  della Corte di giustizia delle Comunità europee del 26 febbraio 2008 Nel procedimento C‑506/06, avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell’art. 234 CE, dall’Oberster Gerichtshof (Austria) con decisione 23 novembre 2006, pervenuta in cancelleria il 14 dicembre 2006, nella causa Sabine Mayr contro Bäckerei und Konditorei Gerhard Flöckner OHG, LA CORTE (Grande Sezione), composta dal sig. V. Skouris, presidente, dai sigg. P. Jann, C.W.A. Timmermans, A. Rosas e L. Bay Larsen, presidenti di sezione, dalla sig.ra R. Silva de Lapuerta, dai sigg. K. Schiemann, J. Makarczyk, P. Kūris, E. Juhász, A. Ó Caoimh (relatore), dalla sig.ra P. Lindh e dal sig. M.J.‑C. Bonichot, giudici, ha pronunciato la seguente Sentenza 1 La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’art. 2, lett. a), della direttiva del Consiglio 19 ottobre 1992, 92/85/CEE, concernente l’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento (decima direttiva particolare ai sensi dell’articolo 16, paragrafo 1 della direttiva 89/391/CEE) (GU L 348, pag. 1). 2 Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra la sig.ra Mayr, ricorrente nella causa principale, e il suo ex datore di lavoro, la Bäckerei und Konditorei Gerhard Flöckner OHG (in prosieguo: la «Flöckner»), convenuta nella causa principale, in seguito al licenziamento della sig.ra Mayr da parte della Flöckner. Contesto normativo Normativa comunitaria La direttiva 76/207/CEE 3 L’art. 2, n. 1, della direttiva del Consiglio 9 febbraio 1976, 76/207/CEE, relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro (GU L 39, pag. 40), dispone che «il principio della parità di trattamento implica l’assenza di qualsiasi discriminazione fondata sul [s]esso, direttamente o indirettamente, in particolare mediante riferimento allo stato matrimoniale o di famiglia». 4 Il n. 3 del medesimo art. 2 enuncia che la direttiva 76/207 «non pregiudica le disposizioni relative alla protezione della donna, in particolare per quanto riguarda la gravidanza e la maternità». 5 Ai sensi dell’art. 5, n. 1, della direttiva 76/207: «L’applicazione del principio della parità [di] trattamento per quanto riguarda le condizioni di lavoro, comprese le condizioni inerenti al licenziamento, implica che siano garantire agli uomini e alle donne le medesime condizioni, senza discriminazioni fondate sul sesso». 6 L’art. 34, n. 1, della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 5 luglio 2006, 2006/54/CE, riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego (rifusione) (GU L 204, pag. 23), ha abrogato la direttiva 76/207, come modificata dalla direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 23 settembre 2002, 2002/73/CE (GU L 269, pag. 15). 7 Tuttavia, le direttive 2002/73 e 2006/54 non si applicano ratione temporis ai fatti della causa principale. La direttiva 92/85 8 Dal nono ‘considerando’ della direttiva 92/85 emerge che la protezione della sicurezza e della salute delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento non deve svantaggiare le donne sul mercato del lavoro e non pregiudica le direttive in materia di parità di trattamento tra uomini e donne. 9 Secondo il quindicesimo ‘considerando’ della medesima direttiva, il rischio di essere licenziate per motivi connessi al loro stato può avere effetti dannosi sullo stato fisico e psichico delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento e conviene prevedere un divieto di licenziamento. 10 Ai sensi dell’art. 2, lett. a), della direttiva 92/85, si intende per lavoratrice gestante «ogni lavoratrice gestante che informi del suo stato il proprio datore di lavoro, conformemente alle legislazioni e/o prassi nazionali». 11 L’art. 10 della direttiva 92/85 è formulato come segue: «Per garantire alle lavoratrici [gestanti, puerpere o in periodo di allattamento] ai sensi dell’articolo 2 l’esercizio dei diritti di protezione della sicurezza e della salute riconosciuti nel presente articolo: 1) gli Stati membri adottano le misure necessarie per vietare il licenziamento delle lavoratrici di cui all’articolo 2 nel periodo compreso tra l’inizio della gravidanza e il termine del congedo di maternità di cui all’articolo 8, paragrafo 1, tranne nei casi eccezionali non connessi al loro stato ammessi dalle legislazioni e/o prassi nazionali e, se del caso, a condizione che l’autorità competente abbia dato il suo accordo; 2) qualora una lavoratrice ai sensi dell’articolo 2 sia licenziata durante il periodo specificato nel punto 1), il datore di lavoro deve fornire per iscritto giustificati motivi per il licenziamento; 3) gli Stati membri adottano le misure necessarie per proteggere le lavoratrici di cui all’articolo 2 contro le conseguenze di un licenziamento che a norma del punto 1) è illegittimo». 12 Ai sensi dell’art. 12 della direttiva 92/85: «Gli Stati membri introducono nel loro ordinamento giuridico interno le misure necessarie per consentire a qualsiasi lavoratrice che si ritenga lesa dalla mancata osservanza degli obblighi derivanti dalla presente direttiva di difendere i propri diritti per via legale e/o, conformemente alle legislazioni e/o prassi nazionali, mediante ricorso ad altre istanze competenti». Normativa nazionale 13 L’art. 10 della legge sulla tutela della maternità (Mutterschutzgesetz; in prosieguo: l’«MSchG») è formulato come segue: «1. Le dipendenti non possono essere legittimamente licenziate durante il periodo di gravidanza, né nei quattro mesi successivi al parto, purché abbiano informato il datore di lavoro della loro gravidanza o del parto. 2. Il licenziamento è altresì illegittimo quando il datore di lavoro è informato della gravidanza o del parto entro cinque giorni lavorativi a decorrere dalla comunicazione del licenziamento o dalla sua notifica in caso di licenziamento avvenuto per iscritto. La comunicazione scritta della gravidanza o del parto si considera avvenuta in tempo utile se spedita per posta nel detto termine di cinque giorni. Nel comunicare la sua gravidanza o il parto nel termine di cinque giorni, la lavoratrice deve contestualmente fornire certificato medico attestante la gravidanza o la presunta gravidanza o produrre il certificato di nascita del bambino.(…)». 14 In forza dell’art. 17, n. 1, della legge sulla fecondazione artificiale (Fortpflanzungsmedizingesetz; in prosieguo: l’«FMedG»), le cellule in via di sviluppo, vale a dire – ai sensi dell’art. 1, n. 3, dell’FMedG, – gli ovuli fecondati e le cellule che ne derivano, possono essere conservate per un periodo massimo di dieci anni. 15 Ai sensi dell’art. 8 dell’FMedG, una fecondazione artificiale può essere eseguita solo con il consenso di entrambi i partner, tuttavia la donna può revocare il proprio consenso fino al momento del trasferimento delle cellule in via di sviluppo nel suo corpo. Causa principale e questione pregiudiziale 16 La sig.ra Mayr lavorava per la Flöckner come cameriera dal 3 gennaio 2005. 17 L’8 marzo 2005, nell’ambito di un tentativo di fecondazione in vitro e a seguito di un trattamento ormonale di circa un mese e mezzo, era praticato alla sig.ra Mayr un prelievo follicolare. Il suo medico curante le prescriveva un congedo per malattia dall’8 al 13 marzo 2005. 18 Il 10 marzo 2005, nel corso di una telefonata, la Flöckner comunicava alla sig.ra Mayr che era licenziata con effetto a decorrere dal 26 marzo 2005. 19 Con lettera in pari data, la sig.ra Mayr comunicava alla Flöckner che, nell’ambito di un trattamento di fecondazione artificiale, il trasferimento nel suo utero degli ovuli fecondati era programmato per il 13 marzo 2005. 20 Secondo la decisione di rinvio, è pacifico che alla data della comunicazione del licenziamento della sig.ra Mayr, vale a dire il 10 marzo 2005, gli ovuli ad essa prelevati erano già stati fecondati con gli spermatozoi del suo partner e che quindi, a questa stessa data, sussistevano già ovuli fecondati in vitro. 21 Il 13 marzo 2005, vale a dire tre giorni dopo che la sig.ra Mayr era stata informata del suo licenziamento, due ovuli fecondati venivano trasferiti nell’utero di quest’ultima. 22 La sig.ra Mayr reclamava dalla Flöckner il pagamento dello stipendio e della quota corrispondente della sua retribuzione annuale affermando che il licenziamento comunicato il 10 marzo 2005 era giuridicamente inefficace in quanto, a partire dall’8 marzo 2005, data in cui era avvenuta la fecondazione in vitro dei suoi ovuli, trovava applicazione nei suoi confronti la tutela contro il licenziamento prevista dall’art. 10, n. 1, dell’MSchG. 23 La Flöckner respingeva tale richiesta in quanto al momento della comunicazione del licenziamento non sussisteva gravidanza. 24 Il Landesgericht Salzburg, investito della controversia in primo grado, accoglieva la domanda della sig.ra Mayr ritenendo che, conformemente alla giurisprudenza dell’Oberster Gerichtshof, la tutela contro il licenziamento prevista dall’art. 10 dell’MSchG decorresse dalla fecondazione dell’ovulo. Sarebbe quest’ultima, secondo tale giurisprudenza, a rappresentare il momento iniziale della gravidanza. Il Landesgericht Salzburg ha dunque ritenuto che si dovesse applicare lo stesso criterio nel caso della fecondazione in vitro e che, in caso di insuccesso del trasferimento dell’ovulo, la tutela contro il licenziamento cesserebbe comunque. 25 Tuttavia l’Oberlandesgericht Linz, giudice di appello in materia di diritto del lavoro e diritto sociale, annullava la sentenza del Landesgericht Salzburg e respingeva la domanda della sig.ra Mayr, con l’argomento che, qualunque sia il momento della gestazione a partire dal quale si producono effettivamente le variazioni ormonali, una gravidanza isolata dal corpo della donna sarebbe impensabile e che, di conseguenza, nell’ipotesi di una fecondazione in vitro, la gravidanza inizierebbe soltanto dal momento del trasferimento dell’ovulo fecondato nel corpo della donna. Soltanto a partire da tale momento opererebbe pertanto la tutela della gestante contro la risoluzione del contratto di lavoro. 26 Tale sentenza pronunciata in appello ha formato oggetto di ricorso per «Revision» (ricorso per cassazione) dinanzi all’Oberster Gerichtshof. Secondo la giurisprudenza di quest’ultimo, la tutela garantita dall’art. 10 dell’MSchG interviene solo se, al momento del licenziamento, la gravidanza ha avuto effettivamente inizio. L’inderogabile finalità della tutela della maternità consisterebbe nel preservare la salute della madre e del bambino nell’interesse di questi ultimi e, nel caso della tutela contro il licenziamento, disciplinare o non disciplinare, nell’assicurare i mezzi di sussistenza della madre. L’esigenza di tutela per tutta la durata della modifica dello stato della donna sussisterebbe indipendentemente dal fatto che sia già avvenuto o meno l’impianto dell’ovulo fecondato nella mucosa uterina (altresì detto «annidamento») e il fatto che la prova della gravidanza sia o meno agevole da fornire è al riguardo privo di rilevanza. L’annidamento dell’ovulo fecondato nella mucosa uterina sarebbe, secondo l’opinione scientifica dominante, soltanto una fase, a partire dal concepimento, dello stato di gravidanza in atto e non potrebbe essere scelto arbitrariamente, nel contesto della tutela contro il licenziamento, come momento di inizio della gravidanza. 27 Tuttavia, tale giurisprudenza dell’Oberster Gerichtshof relativa all’art. 10 dell’MSchG sarebbe fondata esclusivamente su casi di concepimento in utero, vale a dire di concepimento naturale. Tale giudice dichiara che si tratta della prima volta in cui è chiamato a pronunciarsi sulla questione di quale sia il momento a partire dal quale la gestante benefici della tutela contro il licenziamento prevista dall’art. 10 dell’MSchG nel caso di una fecondazione in vitro. 28 Ritenendo che la controversia di cui è investito richieda l’interpretazione di disposizioni comunitarie, l’Oberster Gerichtshof ha deciso di sospendere il giudizio e di sottoporre alla Corte la seguente questione pregiudiziale: «Se rappresenti una “lavoratrice gestante” ai sensi dell’art. 2, lett. a), prima frase, della direttiva [92/85] la lavoratrice che si sottopone ad una fecondazione in vitro, qualora al momento della comunicazione del licenziamento i suoi ovuli siano stati già fecondati con gli spermatozoi del partner, e si sia quindi già in presenza di embrioni in vitro, ma questi non siano stati ancora trasferiti nel corpo della donna». Sulla questione pregiudiziale 29 Con tale questione il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se la direttiva 92/85 e, in particolare, il divieto di licenziamento delle lavoratrici gestanti disposto dall’art. 10, n. 1, di tale direttiva debbano essere interpretati nel senso che riguardano una lavoratrice che si sottopone a fecondazione in vitro qualora, al momento della comunicazione del licenziamento, la fecondazione dei suoi ovuli con gli spermatozoi del partner abbia già avuto luogo, e si sia quindi già in presenza di ovuli fecondati in vitro, ma questi non siano stati ancora trasferiti nell’utero della lavoratrice. 30 Occorre osservare, in via preliminare, che la fecondazione in vitro consiste nella fecondazione di un ovulo al di fuori del corpo della donna. Secondo la Commissione delle Comunità europee, tale operazione comprende diverse fasi quali, in particolare, la stimolazione ormonale delle ovaie finalizzata alla maturazione di più ovuli contemporaneamente, il prelievo follicolare, il prelievo degli ovuli, la fecondazione di uno o più ovuli con spermatozoi precedentemente preparati, il trasferimento dell’ovulo o degli ovuli fecondati nell’utero il terzo o il quinto giorno seguente il prelievo degli stessi, tranne nel caso in cui gli ovuli fecondati siano conservati mediante congelazione, e l’impianto. 31 Riguardo alla direttiva 92/85, occorre ricordare che il suo scopo consiste nel promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento. 32 In tale ambito, la Corte ha parimenti rilevato che lo scopo perseguito dalle norme del diritto comunitario sul principio di parità tra i sessi nel settore dei diritti delle donne gestanti o puerpere è quello di tutelare le lavoratrici prima e dopo il parto (v. sentenze 8 settembre 2005, causa C‑191/03, McKenna, Racc. pag. I‑7631, punto 42, e 11 ottobre 2007, causa C‑460/06, Paquay, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 28). 33 Già prima dell’entrata in vigore della direttiva 92/85 la Corte ha stabilito che, in forza del principio di non discriminazione e, in particolare, degli artt. 2, n. 1, e 5, n. 1, della direttiva 76/207, una tutela contro il licenziamento dev’essere riconosciuta alla donna non solo durante il congedo di maternità, ma anche durante l’intero periodo della gravidanza. Secondo la Corte, un licenziamento durante tali periodi può riguardare solo le donne e costituisce quindi una discriminazione diretta basata sul sesso (v., in tal senso, sentenze 8 novembre 1990, causa C‑179/88, Handels‑ og Kontorfunktionærernes Forbund, Racc. pag. I‑3979, punto 13; 30 giugno 1998, causa C‑394/96, Brown, Racc. pag. I‑4185, punti 16, 24 e 25; McKenna, cit., punto 47, nonché Paquay, cit., punto 29). 34 Proprio in considerazione dei rischi che un eventuale licenziamento fa gravare sullo stato fisico e psichico delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento, ivi compreso il rischio particolarmente grave di spingere la lavoratrice gestante ad interrompere volontariamente la gravidanza, il legislatore comunitario ha previsto, ai sensi dell’art. 10 della direttiva 92/85, una protezione specifica per la donna sancendo il divieto di licenziamento nel periodo compreso tra l’inizio della gravidanza e il termine del congedo di maternità (v. sentenze 14 luglio 1994, causa C‑32/93, Webb, Racc. pag. I‑3567, punto 21; Brown, cit., punto 18; 4 ottobre 2001, causa C‑109/00, Tele Danmark, Racc. pag. I‑6993, punto 26; McKenna, cit., punto 48, e Paquay, cit., punto 30). 35 Occorre altresì rilevare che, nel corso di detto periodo, l’art. 10 della direttiva 92/85 non ha previsto alcuna eccezione o deroga al divieto di licenziamento delle lavoratrici gestanti, tranne nei casi eccezionali non connessi al loro stato e a condizione che il datore di lavoro fornisca per iscritto giustificati motivi per tale licenziamento (citate sentenze Webb, punto 22; Brown, punto 18; Tele Danmark, punto 27, e Paquay, punto 31). 36 È alla luce degli scopi perseguiti dalla direttiva 92/85, e più in particolare dal suo art. 10, che occorre stabilire se la tutela contro il licenziamento prevista da tale disposizione si estenda ad una lavoratrice che si trovi nelle circostanze di cui alla causa principale. 37 Orbene, tanto dalla formulazione dell’art. 10 della direttiva 92/85 quanto dallo scopo principale perseguito da quest’ultima, ricordato al punto 31 della presente sentenza, emerge che, per beneficiare della tutela contro il licenziamento riconosciuta da tale articolo, la gravidanza in questione deve aver avuto inizio. 38 Al riguardo si deve osservare che, pur essendo vero, come ha rilevato il governo austriaco, che il trattamento di fecondazioni artificiali e cellule in via di sviluppo costituisce un tema sociale particolarmente delicato in numerosi Stati membri, contrassegnato dalle molteplici tradizioni e sistemi di valore di questi ultimi, la Corte non è chiamata, con la presente domanda di pronuncia pregiudiziale, ad affrontare questioni di natura medica o etica, ma deve limitarsi ad un’interpretazione giuridica delle disposizioni rilevanti della direttiva 92/85, tenuto conto della formulazione, dell’economia e degli scopi di quest’ultima. 39 Orbene, dal quindicesimo ‘considerando’ della direttiva 92/85 emerge che il divieto di licenziamento previsto nel suo art. 10 ha lo scopo di evitare che il rischio di licenziamento per motivi connessi al loro stato possa avere effetti dannosi sulla condizione fisica e psichica delle lavoratrici gestanti. 40 È pertanto evidente, come ha peraltro rilevato il governo austriaco, che al fine di garantire la sicurezza e la tutela delle lavoratrici gestanti deve tenersi conto della prima data possibile di inizio della gravidanza. 41 Tuttavia, anche supponendo, nel caso di una fecondazione in vitro, che tale data coincida con il momento del trasferimento degli ovuli fecondati nell’utero della donna, non è ammissibile, per ragioni relative al rispetto del principio della certezza del diritto, che la tutela istituita dall’art. 10 della direttiva 92/85 sia estesa al caso in cui, alla data della comunicazione del licenziamento, il trasferimento degli ovuli fecondati in vitro nell’utero della lavoratrice non sia ancora avvenuto. 42 Infatti, come emerge dalle osservazioni sottoposte alla Corte e dai paragrafi 43‑45 delle conclusioni dell’avvocato generale, prima del trasferimento nell’utero della donna interessata, i detti ovuli fecondati possono, in taluni Stati membri, essere conservati per un periodo più o meno esteso; la normativa nazionale in questione nella causa principale prevede a tale proposito la possibilità di conservare gli ovuli fecondati fino a dieci anni. Di conseguenza, l’applicazione ad una lavoratrice della tutela contro il licenziamento sancita dall’art. 10 della direttiva 92/85 prima dell’impianto degli ovuli fecondati potrebbe avere l’effetto di concedere il beneficio di tale tutela anche qualora il trasferimento degli ovuli fecondati, per un qualsivoglia motivo, sia rimandato per diversi anni o addirittura si sia definitivamente rinunciato a un tale trasferimento, e la fecondazione in vitro sia stata praticata come semplice misura cautelativa. 43 Tuttavia, anche se la direttiva 92/85 non è applicabile a una situazione come quella di cui alla causa principale, nondimeno la Corte, conformemente alla propria giurisprudenza, può prendere in considerazione norme di diritto comunitario alle quali il giudice nazionale non ha fatto riferimento nel formulare la propria questione (sentenze 12 dicembre 1990, causa C‑241/89, SARPP, Racc. pag. I‑4695, punto 8, e 26 aprile 2007, causa C‑392/05, Alevizos, Racc. pag. I‑3505, punto 64). 44 Nel corso del procedimento dinanzi alla Corte i governi ellenico e italiano, nonché la Commissione, hanno suggerito che, pur non essendo possibile inferire dalla direttiva 92/85 la tutela contro il licenziamento di una lavoratrice in una situazione come quella di cui alla causa principale, tale lavoratrice potrebbe eventualmente far valere la tutela contro la discriminazione fondata sul sesso riconosciuta dalla direttiva 76/207. 45 A tale proposito occorre ricordare che l’art. 2, n. 1, della direttiva 76/207 precisa che «il principio della parità di trattamento implica l’assenza di qualsiasi discriminazione fondata sul sesso, direttamente o indirettamente, in particolare mediante riferimento allo stato matrimoniale o di famiglia». Ai sensi dell’art. 5, n. 1, della medesima direttiva, «[l]’applicazione del principio della parità di trattamento per quanto riguarda le condizioni di lavoro, comprese le condizioni inerenti al licenziamento, implica che siano garantite agli uomini e alle donne le medesime condizioni, senza discriminazioni fondate sul sesso». 46 Come emerge dal punto 33 della presente sentenza, la Corte ha già stabilito che, in forza del principio di non discriminazione e, in particolare, degli artt. 2, n. 1, e 5, n. 1, della direttiva 76/207, una tutela contro il licenziamento dev’essere riconosciuta alla donna non solo durante il congedo di maternità, ma anche durante l’intero periodo della gravidanza. Secondo la Corte, il licenziamento di una lavoratrice a motivo della sua gravidanza o per un motivo basato sostanzialmente su tale stato può riguardare solo le donne e costituisce quindi una discriminazione diretta basata sul sesso (v., in tal senso, citate sentenze Handels‑ og Kontorfunktionærernes Forbund, punto 13; Brown, punti 16, 24 e 25; McKenna, punto 47, nonché Paquay, punto 29). 47 Poiché la decisione di rinvio non indica le ragioni per le quali la Flöckner ha licenziato la sig.ra Mayr, spetta al giudice del rinvio determinare le circostanze rilevanti della controversia di cui è investito e, poiché il licenziamento della ricorrente nella causa principale è intervenuto quando la stessa era in congedo di malattia per sottoporsi ad un trattamento di fecondazione in vitro, verificare se un siffatto licenziamento sia basato essenzialmente sul fatto che essa si sottoponesse a tale trattamento. 48 Qualora fosse questa la ragione del licenziamento della ricorrente nella causa principale, occorre determinare se essa valga indistintamente per i lavoratori dei due sessi o se, invece, sia valida esclusivamente per una delle due categorie. 49 La Corte ha già rilevato che, poiché i lavoratori dei due sessi sono esposti alle malattie nella stessa misura, se una lavoratrice viene licenziata per assenza dovuta a malattia nelle stesse condizioni di un lavoratore non vi è discriminazione diretta fondata sul sesso (v. citata sentenza Handels‑ og Kontorfunktionærernes Forbund, punto 17). 50 Certamente i lavoratori di entrambi i sessi possono avere un impedimento di carattere temporaneo ad effettuare il loro lavoro a causa dei trattamenti medici che debbano seguire. Tuttavia, gli interventi di cui trattasi nella causa principale, vale a dire un prelievo follicolare e il trasferimento nell’utero della donna degli ovuli prelevati immediatamente dopo la loro fecondazione, riguardano direttamente soltanto le donne. Ne consegue che il licenziamento di una lavoratrice a causa essenzialmente del fatto che essa si sottoponga a questa fase importante di un trattamento di fecondazione in vitro costituisce una discriminazione diretta fondata sul sesso. 51 Ammettere la possibilità che un datore di lavoro licenzi una lavoratrice in circostanze come quelle di cui alla causa principale sarebbe peraltro in contrasto con la finalità di tutela perseguita dall’art. 2, n. 3, della direttiva 76/207, qualora, ovviamente, il licenziamento si fondasse essenzialmente sul fatto del trattamento di fecondazione in vitro e, in particolare, sugli interventi specifici menzionati nel punto precedente che un siffatto trattamento comporta. 52 Di conseguenza, gli artt. 2, n. 1, e 5, n. 1, della direttiva 76/207 ostano al licenziamento di una lavoratrice che, in circostanze quali quelle di cui alla causa principale, si trovi in una fase avanzata di un trattamento di fecondazione in vitro, vale a dire tra il prelievo follicolare e il trasferimento immediato degli ovuli fecondati in vitro nel suo utero, purché sia dimostrato che il licenziamento si fondi essenzialmente sul fatto che l’interessata si sia sottoposta a tale trattamento. 53 Alla luce delle considerazioni sin qui svolte, occorre rispondere alla questione sottoposta che la direttiva 92/85 e, in particolare, il divieto di licenziamento delle lavoratrici gestanti previsto nell’art. 10, punto 1, di tale direttiva devono essere interpretati nel senso che non riguardano una lavoratrice che si sottopone a fecondazione in vitro qualora, al momento della comunicazione del licenziamento, la fecondazione dei suoi ovuli con gli spermatozoi del partner abbia già avuto luogo, e si sia quindi già in presenza di ovuli fecondati in vitro, ma questi non siano stati ancora trasferiti nell’utero della lavoratrice. 54 Tuttavia, gli artt. 2, n. 1, e 5, n. 1, della direttiva 76/207 ostano al licenziamento di una lavoratrice che, in circostanze quali quelle di cui alla causa principale, si trovi in una fase avanzata di un trattamento di fecondazione in vitro, vale a dire tra il prelievo follicolare e il trasferimento immediato degli ovuli fecondati in vitro nel suo utero, purché sia dimostrato che il licenziamento si fondi essenzialmente sul fatto che l’interessata si sia sottoposta a tale trattamento. Sulle spese 55 Nei confronti delle parti nella causa principale il presente procedimento costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione. Per questi motivi, la Corte (Grande Sezione) dichiara: La direttiva del Consiglio 19 ottobre 1992, 92/85/CEE, concernente l’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento (decima direttiva particolare ai sensi dell’articolo 16, paragrafo 1 della direttiva 89/391/CEE), e, in particolare, il divieto di licenziamento delle lavoratrici gestanti di cui all’art. 10, punto 1, di tale direttiva devono essere interpretati nel senso che non riguardano una lavoratrice che si sottopone a fecondazione in vitro qualora, al momento della comunicazione del licenziamento, la fecondazione dei suoi ovuli con gli spermatozoi del partner abbia già avuto luogo, e si sia quindi già in presenza di ovuli fecondati in vitro, ma questi non siano stati ancora trasferiti nell’utero della lavoratrice. Gli artt. 2, n. 1, e 5, n. 1, della direttiva del Consiglio 9 febbraio 1976, 76/207/CEE, relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro, ostano al licenziamento di una lavoratrice che, in circostanze quali quelle di cui alla causa principale, si trovi in una fase avanzata di un trattamento di fecondazione in vitro, vale a dire tra il prelievo follicolare e il trasferimento immediato degli ovuli fecondati in vitro nel suo utero, purché sia dimostrato che il licenziamento si fondi essenzialmente sul fatto che l’interessata si sia sottoposta a tale trattamento.
 
 
 

 

Responsabilità da prodotto difettoso, onere della prova

Corte di Cassazione Sez. III, 8 ottobre 2007, n. 20985

Con il seguente arresto la Corte di Cassazione ha affermato il seguente principio: << Nell’ipotesi di responsabilità civile da prodotti difettosi, disciplinata dal d. P.R. 24 maggio1988, n. 224, il primo comma dell’art. 8 del citato d.p.r. (“Il danneggiato deve provare il danno, il difetto e la connessione causale tra difetto e danno …”) va interpretato nel senso che detto danneggiato deve provare (oltre al danno ed alla connessione causale predetti) che l’uso del prodotto ha comportato risultati anomali rispetto alle normali aspettative e tali da evidenziare la sussistenza di un difetto ai sensi di cui all’art. 5 D.P.R. cit.; invece il produttore deve provare (ex artt. 6 ed 8 D.P.R. cit.), che è probabile che il difetto non esistesse ancora nel momento in cui il prodotto è stato messo in circolazione. >>

Ha altresì puntualizzato che il Giudice del rinvio dovrà tenere presente – a proposito dell’onere probatorio in questione – la norma dell’art. 12 del d.P.R. 24 maggio1988, n. 224. “Clausole di esonero da responsabilità” : “1. È nullo qualsiasi patto che escluda o limiti preventivamente, nei confronti del danneggiato, la responsabilità prevista dal presente decreto”, articolo la cui applicazione è era stata invocata dal ricorrente nell’ambito di argomentazioni strettamente connesse con l’accolta censura.

 

CORTE DI CASSAZIONE CIVILE

Sez. III, 8 ottobre 2007, n. 20985

Pres. Nicastro – Est. Talevi – P.M. (conf.) – D. B. c. Mentor Corporation spa ed altra

Svolgimento del processo. – Nell’impugnata decisione lo svolgimento del processo è esposto come segue.

“Con citazione affidata alla notifica mediante servizio postale il 21 giugno 1995 D. B. conveniva avanti al Tribunale di Mantova la Mentor Corporation e la spa Comesa per sentirle condannare in solido al risarcimento dei danni da lei patiti per la rottura di una protesi mammaria di fabbricazione della prima e distribuita dalla seconda.

Precisava che, sottopostasi ad intervento di mastectomia radicale per neoplasia mammaria presso l’ospedale di Mantova, le era stata applicata, in data 1 febbraio 1992, una protesi mammaria di fabbricazione della Mentor.

Purtroppo, in data 14 maggio 1994 ella aveva notato una certa asimmetria e, sottopostasi a visita, era stato accertato che la protesi, costituita in sostanza da un involucro contenente soluzione salina, si era inspiegabilmente svuotata e la soluzione si era diffusa nei tessuti circostanti. Si era imposto, pertanto, altro intervento, praticato il 9 giugno 1994 presso l’ospedale di Verona per la rimozione dell’involucro e il drenaggio dei tessuti, operazione cui erano seguite altre terapie e previsione di altra operazione di alta specializzazione e di corrispondente costo.

Lamentava gravi danni sia materiali, sia di comprensibile riverbero psichico e precisava che la protesi rimossa era tuttora custodita “…presso il reparto di 2^ divisione chirurgia plastica presso gli istituti ospedalieri di Verona di Borgo Trenta…”.

Resisteva la Comesa spa, negando proprie responsabilità contrattuali o extracontrattuali quanto meno per assoluto difetto dell’elemento psicologico. Precisava, infatti, di essere stata semplice fornitrice della protesi in questione, pervenutale dal fabbricante in confezione sterile e sigillata destinata all’apertura e al controllo da parte del chirurgo in sede di applicazione, così che nulla poteva a lei essere imputato, non senza considerare la propria carenza di legittimazione passiva inammissibile essendo l’azione nei di lei confronti nella ipotesi, qui ricorrente, che il produttore della cosa asseritamente difettosa fosse noto. Infine contestava, difettando al riguardo ogni prova, che la protesi avesse avuto effettivamente vizi.

Resisteva anche la Mentor osservando che la disciplina codicistica era stata integrata dalla legge n. 224 del 1988 che aveva introdotto una particolare figura di responsabilità extracontrattuale di tipo “oggettivo”, vale a dire svincolata dalla colpa del produttore e basata, invece, sul mero rapporto di causalità tra il difetto del prodotto e il danno. La legge stabilisce, infatti, che “il produttore è responsabile del danno cagionato da difetti del suo prodotto” (art..), ma precisa che”un prodotto è difettoso quando non offre la sicurezza che ci si può legittimamente attendere” alla luce di una serie di fattori fra cui “…il modo in cui il prodotto è stato messo in circolazione, la sua presentazione, le istruzioni e le avvertenze fornite..”(art.5).

Premesso ciò, sottolineava la convenuta come la protesi in questione fosse messa in commercio corredata di dettagliate istruzioni che senza mezzi termini ammonivano il consumatore sulle possibilità di rischio del suo impiego, sui limiti di affidabilità, sulle controindicazioni, sulle situazioni in cui era addirittura sconsigliato l’impiego e, in particolare, sulla possibilità, espressamente prevista, di sgonfiamento legata ad una lunga serie di fattori possibili e individuati, nonché ad una serie ulteriore di fattori inconoscibili.

Sottolineava anche la Mentor che non si trattava affatto di un prodotto in libero commercio, bensì di un prodotto non reclamizzato, né offerto direttamente al pubblico, ma fornito su espressa richiesta del medico a propria volta tenuto ad informare il paziente di tutti i rischi e le controindicazioni di esso, così che l’attrice doveva essere pienamente consapevole di tutto ciò nel momento in cui aveva accettato di lasciarsi impiantare la protesi de qua, con conseguente assenza di ogni responsabilità a carico della deducente anche alla luce del disposto dell’articolo 10 della legge secondo cui “…il risarcimento non è dovuto quando il danneggiato sia stato consapevole del difetto del prodotto e del pericolo che ne derivava e nondimeno vi si sia volontariamente sottoposto …”.

Osservava, poi, che, sempre secondo la legge, “…la responsabilità è esclusa…se il difetto che ha cagionato il danno non esisteva quando il produttore ha messo in circolazione il prodotto…”. Precisava che, prima di uscire dalla fabbrica, ciascuna protesi viene sottoposta ad accurati controlli qualitativi e a sterilizzazione e, in ogni caso, le informazioni allegate prevedevano ben specifici test che il chirurgo avrebbe dovuto effettuare sulla protesi prima di impiantarla. Orbene, se il chirurgo impiantò la protesi, ciò vuol dire che i test avevano dato risultati soddisfacenti e, se così fu se ne trae necessariamente che non esistevano difetti al momento della messa in circolazione del prodotto. Se, viceversa, il giudizio implicito (di assenza di difetti) era stato determinato dalla non corretta esecuzione dei test nonostante le raccomandazioni di essa produttrice, di certo della cattiva riuscita dell’impianto l’attrice non aveva titolo per dolersi nei confronti del produttore. Inoltre, le protesi venivano consegnate vuote, essendo compito del chirurgo provvedere al loro riempimento, al momento dell’impiego, con una soluzione salina e secondo specifiche istruzioni fornite dalla Mentor, così che se tutto ciò era stato fatto ne conseguiva necessariamente che la protesi era apparsa integra al chirurgo che aveva deciso, quindi di impiantarla. Non senza considerare che l’articolo 8 secondo comma della Legge stabilisce che “…ai fini dell’esclusione da responsabilità prevista nell’articolo 6 lettera b, è sufficiente dimostrare che, tenuto conto delle circostanze, è probabile che il difetto non esistesse ancora nel momento in cui il prodotto è stato messo in circolazione…”. Contestava, infine, il nesso causale fra le voci di danno indicate dall’attrice e l’episodio contestato, ribadendo, in ogni caso, l’assenza di propria responsabilità.

Alla causa era riunita altra causa nel frattempo instaurata dalla Mentor nei confronti di F. B. e dell’ospedale Carlo Poma di Mantova dai quali, nella rispettiva qualità di chirurgo che aveva proceduto all’impianto della protesi e di ospedale presso cui l’operazione era stata eseguita, la Mentor chiedeva essere manlevata nell’ipotesi di accoglimento della domanda attrice.

Entrambi si erano costituiti con unico patrocinio respingendo ogni addebito.

Si procedeva a tentativo di conciliazione che non riusciva, quindi a consulenza tecnica medica e, infine, dopo alcune deduzioni e controdeduzioni e l’assunzione di prova testimoniale, la causa era decisa con sentenza 13 giugno 2001 che accoglieva la domanda svolta nei confronti della Mentor e della spa Comesa, nonché la domanda di manleva svolta da quest’ultima nei confronti della Mentor, che condannava alle spese nei confronti di B. e dell’ospedale Carlo Poma e, in solido con la Comesa, nei confronti dell’attrice.

Appellava la Mentor con citazione notificata il 16 ottobre 2001 e, nel contraddittorio della B., che resisteva al gravame proponendo impugnazione incidentale, della spa Comesa e di F. B., il quale avanzava domanda di condanna della spa Mentor per lite temeraria e dell’ospedale Carlo Poma, la causa era trattenuta in decisione sulle sopra trascritte conclusioni.

Con sentenza 8.1 -20.5.2003 la Corte d’Appello di Brescia decideva come segue: “1n riforma della sentenza 13 giugno 2001 del giudice unico del Tribunale di Mantova, respinge la domanda di D. B. e ne compensa le spese con Mentor Corporation e spa Co.Me.Sa.. Condanna la Mentor Corporation a rifondere a F. B. e all’ospedale Carlo Poma di Mantova le spese dei due gradi liquidate in complessivi € 3,000,00 quanto al primo ed € 3.500,00 quanto al presente”.

Contro questa decisione ha proposto ricorso per tassazione D. B..

Ha resistito con controricorso la Mentor Corporation.

  1. B. ha depositato memoria.

Motivi della decisione. – Con il primo motivo di ricorso D. B. denuncia “Violazione e falsa applicazione della norma di diritto in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c. violazione dpr 224/88 e agli artt. 1490-1494-2043 c.c.” esponendo varie dog1ianze; le prime di queste vanno riassunte come segue. Accogliendo in toto le tesi difensive dell’appellante Mentor Corporation il Giudice dell’Appello, omettendo qualsiasi considerazione sulle opposte tesi difensive dell’appellata B., ha violato il fondamento della normativa posta a tutela del consumatore, stravolgendone, con un ragionamento incompleto, incoerente ed illogico, lo spirito e il contenuto. Orbene in base al d.p.r. 24 maggio 1988 n. 224 il produttore è responsabile per i danni causati da difetti dei suoi prodotti. Il giudice d’appello ha ritenuto che dopo due anni e quattro mesi (lasso temporale assolutamente inaccettabile) dalla installazione lo svuotamento della protesi non concreta difetto quanto piuttosto manifestazione della possibile esistenza di un difetto. L’onere della prova dell’assenza di difetti incombe in ogni caso sul produttore non sul consumatore come ha erroneamente ritenuto, stravolgendo lo spirito della norma, il Giudice d’Appello (“incombeva all’attrice dimostrare:. . . il difetto e il nesso causale tra questo e il danno”; v. a pag. 10 sentenza Corte D’Appello) né può essere soppressa o limitata la responsabilità del produttore con clausole esonerative o limitative della responsabilità come erroneamente ritenuto dallo stesso giudice. Il tribunale di Mantova, correttamente e conformemente allo spirito della norma, con sentenza 597/01 ha sottolineato che “il fatto che il produttore non garantisca la durata illimitata della protesi non può portare ad escludere la sua responsabilità in tutti quei casi in cui la protesi ha avuto una durata tanto limitata nel tempo (nella fattispecie poco più di due anni) da deludere le aspettative, anche le più pessimistiche, di un paziente che decide di sottoporsi ad un intervento chirurgico”. L’art. 12 del DPR 224/88 stabilisce il divieto assoluto di clausole di esonero della responsabilità.. Nel caso in esame, dalla copiosa documentazione prodotta in atti dalla dr.ssa B. relativa al contenzioso dei consumatori portatori di protesi di produzione Mentor Corporation in essere negli USA, ingiustificatamente trascurata dal giudice d’appello, appare più che evidente la responsabilità del produttore per quella tipologia di protesi. La Mentor Corporation non ha superato l’onere della prova dell’assenza di difetti, né ha superato il principio del neminem laedere che implica l’onere di vigilare affinché i beni non presentino difetti di sicurezza tali da arrecare danno alle persone.

Il primo punto essenziale affrontato dalla parte ricorrente riguarda dunque il sopra citato onere della prova.

La Corte d’Appello basa il suo assunto sul seguente rilievo:

“. . . Pur se il d.p.r. 24 maggio 1988 n.224 ha reso più accessibile la tutela extracontrattuale avendo sollevato il danneggiato dall’onere di dimostrare la colpa del produttore, per altro verso ha ribadito la necessità che egli dimostri “…il danno, il difetto e la connessione causale tra difetto e danno…”(art. 8). Che nella specie danno vi sia stato, a parte le distinzioni proposte dall’odierna appellante fra conseguenze dirette dello svuotamento e affezioni meglio ricollegabili alla morbilità pregressa, è, sostanzialmente, fuori discussione. Ciò che incombeva all’attrice dimostrare erano quindi gli altri due requisiti, vale a dire il difetto e il nesso causale fra questo e il danno ….”.

Da tale brano e dal contesto della motivazione si evince: che secondo detta Corte il danneggiato ha l’onere di provare tra l’altro che il produttore ha messo in circolazione un prodotto con il difetto che ha cagionato il danno.

Se ci si limita a considerare il primo comma dell’art. 8 cit. (avente il contenuto citato nella sentenza) tale tesi interpretativa può apparire a prima vista fondata.

Ma la questione va in realtà affrontata considerando il complesso di norme in questione.

In particolare il secondo comma di detto art. 8 recita: “… Il produttore deve provare i fatti che possono escludere la responsabilità secondo le disposizioni dell’art. 6. ai fini dell’esclusione da responsabilità prevista nell’art. 6, lettera b), è sufficiente dimostrare che, tenuto conto delle circostanze, è probabile che il difetto non esistesse ancora nel momento in cui il prodotto è stato messo in circolazione.”.

L’articolo 6 (“Esclusione della responsabilità”) citato da detta norma stabilisce quanto segue: “1. La responsabilità e esclusa: a) se il produttore non ha messo il prodotto in circolazione; b) se il difetto che ha cagionato il danno non esisteva quando il produttore ha messo il prodotto in circolazione….”.

La circostanza che il legislatore abbia incluso nell’onere probatorio a carico del produttore la circostanza di cui al punto b) ora citato, e cioè abbia previsto che sia detto produttore a dover provare che “… Il difetto che ha cagionato il danno non esisteva quando il produttore ha messo il prodotto in circolazione….”, rende impossibile sostenere che un onere siffatto gravi sul danneggiato. In altri termini esclude che il danneggiato debba dimostrare la sussistenza del difetto fin dal momento in cui il produttore ha messo il prodotto in circolazione.

A questo punto l’unica interpretazione logicamente possibile e coerente con la ratio del D.P.R. in esame (chiaramente volta ad assicurare una maggiore tutela del danneggiato) consiste nell’interpretare il primo coma dell’art. 8 cit. (art. 8. Prova 1. “Il danneggiato deve provare il danno, il difetto e la connessione causale tra difetto e danno …”) nel senso che detto danneggiato deve dimostrare (oltre al danno ed alla connessione causale predetta) che l’uso del prodotto ha comportato risultati anomali rispetto alle normali aspettative; e cioè ha l’onere di provare (secondo le specifiche previsioni del legislatore contenute nell’art. 5: “… Art. 5. Prodotto difettoso. 1. Un prodotto è difettoso quando non offre la sicurezza che ci si può legittimamente attendere tenuto conto di tutte le circostanze, tra cui: …”) che il prodotto (durante detto uso) si è dimostrato “… Difettoso …” non offrendo “… La sicurezza che ci si …” poteva “… Legittimamente attendere tenuto conto di tutte le circostanze …” di cui al prosieguo dell’art. 5 cit.

Una volta che il danneggiato ha dimostrato che il prodotto ha evidenziato il difetto durante l’uso, che ha subito un danno e che quest’ultimo è in connessione causale con detto difetto, è il produttore che ha l’onere di provare che quest’ultimo (il difetto riscontrato) non esisteva quando ha posto il prodotto in circolazione.

Nella fattispecie in esame D. B. aveva dunque l’onere di dimostrare che nel corso dell’uso (entro un congruo periodo di tempo dall’impianto) la protesi aveva manifestato il difetto (si era vuotata), che vi era stato un danno e che sussisteva il suddetto nesso eziologico.

La Mentor Corporation doveva a questo punto adempiere l’onere probatorio previsto dall’art. 6 ed 8 cit. dimostrando, in particolare, che era probabile che il difetto non esistesse ancora nel momento in cui il prodotto era stato emesso in circolazione (in altre parole la problematica dei traumatismi dopo l’impianto rientrava – in linea generale – nell’ambito dell’onere probatorio incombente su detta società).

In conclusione va enunciato il seguente principio di diritto: “il primo comma dell’art. 8 del D. P. R. 24 maggio 1988, n. 224 (“Il danneggiato deve provare il danno, il difetto e la connessione causale tra difetto e danno …”) va interpretato nel senso che detto danneggiato deve provare (oltre al danno ed alla connessione causale predetti) che l’uso del prodotto ha comportato risultati anomali rispetto alle normali aspettative e tali da evidenziare la sussistenza di un difetto ai sensi di cui all’art. 5 D.P.R. cit.; invece il produttore deve provare (ex artt. 6 ed 8 D.P.R. cit.), che è probabile che il difetto non esistesse ancora nel momento in cui il prodotto è stato emesso in circolazione.”.

La corte di merito non ha applicato tale principio di diritto.

L’impugnata sentenza va dunque cassata.

Le ulteriori doglianze debbono ritenersi assorbite (e potranno essere riproposte nel giudizio di rinvio) in quanto tutte le risultanze probatorie dovranno essere riprese in esame dal Giudici del rinvio alla luce del principio ora enunciato (tenendo peraltro anche presente l’art. 12. Clausole di esonero da responsabilità: “1. È nullo qualsiasi patto che escluda o limiti preventivamente, nei confronti del danneggiato, la responsabilità prevista dal presente decreto”, articolo la cui applicazione è giustamente invocata dal ricorrente nell’ambito di argomentazioni strettamente connesse con la censura – sopra accolta – circa l’onere probatorio in questione).

I1 Giudice del rinvio va individuato nella medesima Cotte di Appello di Brescia in diversa composizione.

A detto Giudice va rimessa anche la decisione sulle spese del giudizio di c.

Nullità del contratto di lavoro a tempo determinato

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 20 dicembre 2012 – 3 aprile 2013, n. 8120

Presidente Amoroso – Relatore Curzio

La mancanza di specificità delle ragioni giustificative del ricorso alla somministrazione temporanea di lavoro comporta la nullità del contratto di lavoro stesso. Viene infatti richiesto un elevato grado di specificità che consenta facilmente di classificare le suddette ragioni giustificative come legittimanti un contratto a tempo determinato, nonchè la verifica della loro effettività.

Ragioni della decisione

La ABB spa chiede l’annullamento della sentenza della Corte d’appello di Brescia, pubblicata il 13 ottobre 2009, che ha confermato la decisione con la quale il Tribunale di Bergamo aveva dichiarato la nullità del contratto di somministrazione stipulato con la Man Power spa e ordinato alla ABB di riammettere in servizio di Giacomo D..R. dal 9 agosto 2004. modificando la sentenza di primo grado solo in ordine al punto relativo alla entità della detrazione dell’aliunde perceptum.

Il ricorso è articolato in tre motivi.

Il R. si è difeso con controricorso. La ABB spa ha depositato una memoria.
Con il primo motivo la ABB denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 21 d. lgs. 276 del 2003 assumendo che tale norma “impone solo dei requisiti di forma” e che, “contrariamente a quanto affermato dalla Corte di merito, non è quindi richiesta alcuna “specificazione” delle ragioni sottostanti il ricorso al lavoro in somministrazione. Sarebbe pertanto sufficiente “la forma scritta e l’indicazione di una delle fattispecie indicate al comma 1”.

Con il secondo motivo si denunzia “omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio”. Viene denunciata una pretesa contraddizione nel ragionamento giuridico della Corte derivante dal fatto che, da un lato, ha ritenuto generica l’indicazione delle ragioni, dall’altro ha ritenuto di poter entrare nel merito della valutazione, il che attesterebbe che quella formula non era così generica da rendere impossibile valutazione e controllo.

Con il terzo motivo si denunzia “omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio. Violazione dell’art. 20, quarto comma, d. lgs. 276 del 2003”. Con tale motivo si contesta che le ragioni che giustificano la somministrazione debbano essere collegate ad eventi eccezionali, non ripetibili negli stessi tempi e con le medesime modalità, ovvero ad eventi che sconvolgano la normale programmazione e la cui durata non sia prevedibile.

Il ricorso non è fondato e la decisione deve essere confermata, anche se con motivazione in parte diversa da quella sentenza impugnata.

Prima di passare all’esame dei motivi, deve premettersi che tra la Abb spa ed il R. sono intercorsi più rapporti di lavoro a termine, basati su contratti commerciali di somministrazione stipulati tra la ABB spa e l’agenzia di lavoro interinale Man Power spa.

La Corte di Brescia ha dichiarato la nullità del primo contratto commerciale di somministrazione, stipulato il 6 agosto 2004, ritenendo generica l’indicazione delle ragioni del ricorso alla somministrazione. La nullità è stata dichiarata per violazione dell’art. 21 d. lgs 276 del 2003, che così recita: “il contratto di somministrazione di manodopera è stipulato in forma scritta e contiene i seguenti elementi:…… c) i casi e le ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche riferibili all’ordinaria attività dell’utilizzatore;…”.

L’ultimo comma della norma, nella versione applicabile al rapporto in esame “ratione temporis” dispone: “in mancanza di forma scritta, con indicazione degli elementi di cui alle lettere…c) del comma 1, il contratto di somministrazione è nullo e i lavoratori sono considerati a tutti gli effetti alle dipendenze dell’utilizzatore”.

La Corte di Brescia ha poi formulato una motivazione ulteriore, sottolineando che comunque le ragioni addotte risultavano inidonee a giustificare la somministrazione perché sussistevano già agli inizi del 2003, come rilevato dal Tribunale di Bergamo e quindi ben prima dell’epoca di stipulazione del contratto.

Il primo motivo di ricorso affronta la questione esaminata dalla Corte di Brescia nella prima parte della sua motivazione.

La questione è in realtà duplice. Il primo problema è quello di stabilire, in termini generali, se il contratto commerciale di somministrazione tra l’agenzia somministratrice e l’utilizzatore del lavoro interinale debba contenere la specificazione delle ragioni per le quali l’impresa utilizzatrice ricorre alla somministrazione. Problema distinto è poi quello di verificare se le ragioni indicate nel singolo contratto siano o meno specifiche.

La società ricorrente assume che “contrariamente a quanto affermato dalla Corte di merito, non è richiesta alcuna “specificazione” delle ragioni sottostanti il ricorso al lavoro temporaneo somministrato”.

La tesi non è fondata.

La disciplina della somministrazione di lavoro è dettata dagli artt. 20 – 28 del d. lgs. 276 del 2003.

Il primo di tali articoli, Part. 20, è intitolato “condizioni di liceità”, definisce il contratto di somministrazione e distingue tra somministrazione a tempo determinato e a tempo indeterminato.

Con riferimento alla somministrazione a tempo determinato, le condizioni di liceità sono indicate al quarto comma, con questa disposizione: “la somministrazione a tempo determinato è ammessa a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili alla ordinaria attività dell’utilizzatore”.

L’articolo successivo, il 21, statuisce che il contratto di somministrazione di manodopera deve essere stipulato in forma scritta e deve contenere una serie di elementi. Tra gli elementi necessari, il punto c) indica “i casi e le ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo di cui ai commi 3 e 4 dell’art. 20”.

Il termine “casi” è riferito al terzo comma concernente la somministrazione a tempo indeterminato, consentita nella casistica delineata ai punti da a) e i) di quel comma.

Il termine “ragioni” è riferito al quarto comma, concernente il contratto di somministrazione a tempo determinato, ammesso solo in presenza di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo.

Tutto ciò premesso, la risposta da dare al problema concernente la necessità o meno che le ragioni del ricorso alla somministrazione siano specificate, non può che essere positiva.

Come si è visto, la normativa prevede come “condizione di liceità” che il contratto sia stipulato solo in presenza di ragioni rientranti in quelle categorie ed impone di indicarle per iscritto nel contratto a pena di nullità (ultimo comma dell’art. 21); inoltre, il terzo comma dell’art. 27, sancisce che il controllo giudiziale è limitato “all’accertamento della esistenza delle ragioni” (e quindi consiste proprio in tale verifica).

La conseguenza di tutto ciò è che tali ragioni devono essere indicate per iscritto nel contratto e devono essere indicate, in quella sede, con un grado di specificazione tale da consentire di verificare se rientrino nella tipologia di ragioni cui è legata la legittimità del contratto e da rendere possibile la verifica della loro effettività.

L’indicazione, pertanto, non può essere tautologica, né può essere generica. Non può risolversi in una parafrasi della norma, ma deve esplicitare il collegamento tra la previsione astratta e la situazione concreta.

Nel caso in esame le ragioni del ricorso al lavoro in somministrazione sono state indicate in “punte di più intensa attività produttiva”, alle quali non era possibile far ricorso con i normali assetti produttivi aziendali, determinate “dall’acquisizione di commesse” o dal “lancio di nuovi prodotti”.

Questa indicazione delle ragioni in sede contrattuale è stata valutata dalla giurisprudenza di legittimità sufficientemente specifica. Esaminando una situazione del tutto simile, si è affermato: “….si tratta di causali ben note e sperimentate nella pratica contrattuale, che hanno rinvenuto espressa consacrazione in risalenti norme legali relative al contratto al termine (ed, in particolare, nel d.l. n. 876 del 1977, convertito nella l. n. 18 del 1978, che ha introdotto la disciplina del contratto a termine per punte stagionali”, poi estesa dalla l. n. 79 del 1983, art. 8-bis a tutti i settori economici, anche diversi da quello commerciale e turistico), e conferma negli orientamenti della stessa giurisprudenza, che, sotto il vigore della precedente disciplina della materia, ne aveva patrocinato una interpretazione allargata, e cioè comprensiva anche delle punte di intensificazione dell’attività produttiva di carattere meramente gestionale (v. già Cass. n. 3988/1986), sì da rispondere, in perfetta consonanza con gli orientamenti contrattuali, alle più svariate esigenze aziendali di flessibilità organizzativa delle imprese.
Ne deriva che le punte di intensa attività “non fronteggiabili con il ricorso al normale organico risultano sicuramente ascrivibili nell’ambito di quelle ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili all’ordinaria attività dell’utilizzatore, che consentono, ai sensi del d. Igs. n. 276 del 2003, art. 20, comma 4, il ricorso alla somministrazione di lavoro a tempo determinato e che il riferimento alle stesse ben può costituire valido requisito formale del relativo contratto, ai sensi dell’art. 21, comma 1, lett. c, della legge stessa” (Cass. 21 febbraio 2012, n. 2521).

Il fatto che siano state indicate più causali è anch’esso stato considerato dalla giurisprudenza di legittimità, che, occupandosi dei contratti a termine ha affermato il principio di diritto per il quale la pluralità di ragioni di apposizione del termine non collide con il criterio della specificità, a condizione che entrambe le ragioni specificate per iscritto rispondano a tale requisito e tra le stesse non sussista incompatibilità o intrinseca contraddittorietà (Cass. 16 marzo 2010, n. 6328; ma già Cass. 17 giugno 2008, n. 16396, nonché Cass. 22 febbraio 2012, n. 2622).

Quanto sinora affermato concerne il problema della specificità delle ragioni indicate nel contratto commerciale di somministrazione a spiegazione del ricorso alla somministrazione. Come si è detto, le ragioni devono essere specificamente indicate e quelle indicate nel contratto in esame possono essere considerate specifiche.

Problema distinto è quello della verifica della sussistenza in concreto di tali ragioni.

Potrebbe accadere che le ragioni siano indicate nel contratto in modo specifico e perfettamente confacente a quanto richiesto dalla legge, ma che poi la concreta utilizzazione del lavoratore non abbia alcun collegamento con tali ragioni.

Anche sul punto la giurisprudenza di legittimità si è espressa (Cass. 8 maggio 2012, n. 6933, cui si rinvia anche per i richiami).

La verifica della corrispondenza dell’impiego concreto del lavoratore a quanto affermato nel contratto è l’oggetto centrale del controllo giudiziario. Non vi sarebbe stato bisogno di una norma specifica a tal fine, perché valgono le regole generali dell’ordinamento. Tuttavia, una norma specifica si rinviene nel d.lgs. 276 del 2003 ed è costituita dal terzo comma dall’art. 27. Tale norma precisa che il giudice non può sindacare nel merito le scelte tecniche, organizzative o produttive in ragione delle quali un’impresa ricorre alla somministrazione, ma deve limitare il suo controllo, “all’accertamento delle ragioni che (la) giustificano”, cioè che giustificano il ricorso alla somministrazione. Il controllo giudiziario è concentrato quindi nella verifica della effettività di quanto previsto in sede contrattuale (sul punto, cfr., Cass. 6933 del 2012, cit.; 2521 del 2012 cit. e 15610 del 2011).

Questo accertamento è di competenza del giudice di merito e quindi, se motivato in maniera adeguata e priva di contraddizioni, non può essere rivalutato in sede di legittimità.

Nel caso in esame la Corte di Brescia ha effettuato la verifica con riferimento alle due ragioni indicate dalla società a spiegazione della necessità di in incremento produttivo temporaneo (punte di produttività), rilevando che in realtà solo una delle due ragioni indicate risultava accertata, quella relativa alla introduzione di un nuovo prodotto, ma che tuttavia anch’essa non poteva essere considerata idonea perché non vi era corrispondenza temporale tra il lancio del nuovo prodotto ed il ricorso alla somministrazione, poiché vi era una sfasatura di circa un anno e mezzo.

La motivazione in fatto della decisione sul punto non può dirsi né contraddittoria, né insufficiente e le critiche formulate nel ricorso attengono a valutazioni di merito che sono estranee al giudizio di legittimità e sono pertanto inammissibili in questa sede.

Nella memoria per l’udienza la società ha chiesto l’applicazione dell’art. 32, commi 5-7, della legge n. 183 del 2010, emanata dopo la proposizione del ricorso per cassazione. La richiesta non può essere accolta perché il capo della decisione relativo al risarcimento del danno, non essendo stato oggetto di specifici motivi d’impugnazione, è passato in giudicato (Cass. 3 gennaio 2011, n. 65, 4 gennaio 2011, n. 80, 3 febbraio 2011 n. 2452).

Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato. Le spese devono essere poste a carico della parte che perde il giudizio.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alla rifusione al controricorrente delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in 50,00 Euro per esborsi, nonché in 3.500,00 Euro per compensi professionali, oltre accessori come per legge.

Contratto preliminare – obbligo di conservazione

Contratto preliminare – obbligo di conservazione

 

Corte di Cassazione, sentenza n. 1377 depositata il 17 gennaio 2012

Suscita interesse il principio affermato da tale sentenza che attiene a interessi di natura esclusivamente tributaria e che deve indurre a riflettere e a correggere condotte che potrebbero essere autorizzate diversi principi affermati dalla stessa Corte, in un ottica esclusivamente civilistica, in particolare laddove è stato affermato che l’atto pubblico di vendita sostituisce del tutto i patti contenuti nel preliminare di vendita, atto che dopo la stipulazione del definitivo sembra quindi perdere ogni rilievo al punto da rendere apparentemente inutile la sua conservazione.

         Con questa pronuncia, infatti, la Cassazione penale statuisce che è obbligatorio conservare la convenzione preliminare.

Risponde, infatti, del reato di occultamento e distruzione delle scritture contabili l’agente immobiliare che occulta o distrugge contratti preliminari, impedendo di fatto all’Amministrazione finanziaria la riscossione delle imposte sulle provvigioni.

 

Nel caso in esame, la condotta incriminata è quella disciplinata dall’art. 10 del D.Lgs. 74/2000, ai sensi del quale, salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da 6 mesi a 5 anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, ovvero di consentire l’evasione a terzi, occulti o distrugga, in tutto o in parte, non solo le “scritture contabili” ma anche “i documenti” di cui è obbligatoria la conservazione, in modo da non consentire la ricostruzione dei redditi o del volume d’affari.

La norma citata, secondo la Suprema Corte, intende anche assicurare la possibilità che attraverso il vaglio della documentazione contabile sia possibile operare un controllo delle attività imprenditoriali ai fini fiscali, come lascia intendere il dato testuale laddove fa riferimento alla“ricostruzione dei redditi o del volume d’affari” nell’intento di impedire l’occultamento della distruzione dei documenti.

La regola poi è confortata anche dal disposto dell’articolo 2214, co.2, CC che impone la tenuta delle scritture contabili che siano richieste dalla natura e dalle dimensioni dell’impresa. Inoltre si consideri che normalmente è previsto il versamento, da parte di chi acquista, di una caparra della quale è data quietanza dell’atto, così da conferire al contratto il valore di documento comprovante l’operazione di riscossione della quale deve essere assicurata la conservazione.

Il fatto che la norma faccia riferimento alle scritture richieste dalla natura dell’impresa ha consentito alla giudice di ritenere obbligato alla custodia l’agente immobiliare che consegue il diritto alla provvigione con la conclusione dell’affare cioè con la stipula del contratto preliminare e non per effetto della conclusione del rogito notarile, con la conseguenza che per l’agente immobiliare la provvigione conseguita costituisce un ricavo imponibile.

Estinzione della società, cancellazione dell’ente capacità processualee legittimazione

(Cass. Civ., sez I, 15 ottobre 2012, n. 17637 in Diritto e Giustizia 2012)

La pronuncia di legittimità in commento ha stabilito il principio per cui con la cancellazione viene meno la soggettività dell’ente, e con esso la sua capacità processuale, nonché la legittimazione attiva e passiva dei suoi organi, la quale, relativamente ai processi in corso, si trasferisce ai singoli soci.

Questi ultimi, infatti, a seguito della estinzione, divengono non solo responsabili nei confronti dei creditori sociali per i crediti rimasti insoddisfatti, nei limiti delle somme da loro riscosse nel bilancio finale di liquidazione, ma anche partecipi della comunione sui beni residuati dalla liquidazione o sopravvenuti alla cancellazione, con conseguente configurabilità di una successione a titolo universale che dà luogo, sul piano processuale, all’applicabilità dell’art. 110 c.p.c. Prima della cancellazione, invece, la legittimazione processuale spetta unicamente ai liquidatori ai quali l’assemblea della società abbia attribuito la rappresentanza della stessa, ai sensi dell’art. 2487 c.c., verificandosi, per effetto dell’iscrizione della nomina nel registro delle imprese, la cessazione della carica degli amministratori ed il sub ingresso dei liquidatori nei relativi poteri.

Tale pronuncia si è posta quindi come un superamento in senso confermativo di quell’orientamento risalente della giurisprudenza secondo il quale l’atto formale di cancellazione di una società dal Registro delle Imprese, così come il suo scioglimento, con l’instaurazione della fase di liquidazione, non determinava l’estinzione della società ove non si fossero esauriti tutti i rapporti giuridici ad essa facenti capo a seguito della procedura di .liquidazione, ovvero non fossero definite tutte le controversie giudiziarie in corso con i terzi, e non determinava, conseguentemente, in relazione a detti rapporti rimasti in sospeso e non definiti la perdita della legittimazione processuale della società ed un mutamento della rappresentanza sostanziale e processuale della stessa, che permaneva in capo ai medesimi organi che la rappresentavano prima della cancellazione (cfr, ex multis, Cass. Civ. 646/2007; Cass. Civ. 3221/1999).

         Sia quindi che si segua il nuovo orientamento della Cassazione sia che si voglia optare per quello più risalente la ratiosottesa alle due scelte di campo è unica e cioè evitare che il processo si interrompa per il solo effetto della volontaria cancellazione, non rinvenendosi un successore della stessa legittimato a proseguirlo, e la società estinta possa agevolmente sottrarsi alle proprie obbligazioni (così App. Milano, Sez. I, ord. 1482/2008).