Autore: Giovanni Orlandi

Concorrenza sleale – norme ISO

Concorrenza sleale – norme ISO

Ordinanza Trib.le di Modena Sez. Distaccata di Carpi  in data 7 gennaio 2010

Secondo una recente ordinanza del Tribunale di Modena, Sezione Distaccata di Carpi, emessa a seguito di un ricorso ex art. 700 c.p.c. costituisce atto di concorrenza sleale per contrarietà ai principi della correttezza professionale (art. 2598 n. 3 c.c.) ed appropriazione di pregi (art. 2598 n. 2 c.c.) l’apporre una certificazione ISO sul proprio prodotto qualora le qualità dello stesso non siano più aggiornate alle ultime norme ISO (Tribunale Modena, Sezione distaccata di Carpi, ord. 7 gennaio 2010).

         Le conclusioni dell’ordinanza, poi confermata in sede di reclamo, sono in linea di principio da condividere. Il giudicante ha giustamente ritenuto che “non avrebbe senso, infatti, confidare su un prodotto che promette di essere dotato di caratteristiche realizzate secondo la migliore scienza ed esperienza del momento se questa non è più tale perché superata da conoscenze ed esperienze migliori”. D’altronde, sia la dottrina che la giurisprudenza erano da sempre concordi nel ritenere un caso tipico di illecita appropriazione di pregi l’apposizione al proprio prodotto di certificazione ISO qualora questa fosse avvenuta mentre il prodotto era privo delle qualità certificate (VANZETTI-DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Milano, 2009; e App. Milano, 18 marzo 2006).

         Tuttavia l’ordinanza si spinge oltre ritenendo appunto che, non solo si ha illecita appropriazione di pregi quando il prodotto certificato sia completamente sprovvisto degli standard ISO, ma anche quando questo, per così dire, sia “rimasto indietro” nell’aggiornamento di detti standard, millantando caratteristiche che sono rispondenti alle vecchie norme ISO non più aggiornate con la recente normativa.

Ordinanza

Esaminati gli atti di causa e i documenti allegati;

Ritenuta la propria competenza;

Sciogliendo la riserva assunta all’udienza del 02/12/2009;

Atteso che parte ricorrente lamenta: 1) che la convenuta Y vende viti ad alta resistenza – verosimilmente acquistate da produttori dell’estremo oriente – appartenenti alla classe di resistenza 8.8. ma prive della percentuale del 90% di martensite ‘a cuore’ imposta dalla nuova norma ISO 898:1-2009 entrata in vigore il 31/03/2009; 2) che la convenuta ha falsamente certificato la conformità alla suddetta norma ISO di una partita di viti venduta il 03/06/2009 alla società Z; 3) che sussiste quindi un’ipotesi di concorrenza sleale sotto il profilo dell’appropriazione di pregi, del mendacio ingannevole e della violazione di norme pubblicistiche; 4) che sussiste un pregiudizio imminente – consistente nella necessità di Y di esaurire rapidamente le scorte di magazzino e quindi di immettere sul mercato viti non conformi – ed irreparabile – sviamento della clientela, difficoltà di dimostrare, nel futuro giudizio di merito, le vendite illecite effettuate dalla concorrente e l’entità dei danni da questa provocati ad essa ricorrente -;

 

Atteso che parte ricorrente ha chiesto, conseguentemente, in via cautelare, che sia inibita alla convenuta la commercializzazione di tutte le viti della categoria 8.8 non conformi alla nuova norma ISO (l’individuazione di dette viti andrebbe effettuata risalendo ai medesimi produttori delle viti accertate come non corrispondenti alla norma ISO acquistate da Z e da V s.r.l.) ovvero, in alternativa, che sia inibita la commercializzazione e la certificazione di dette viti non conformi alla suddetta norma ISO se prive della caratteristiche tecniche imposte dalla norma stessa;

Atteso che parte ricorrente, nella memoria depositata in data 16/11/2009, ha integrato le proprie conclusioni aggiungendo una ulteriore subordinata, finalizzata ad imporre alla società convenuta l’eliminazione, sulle viti, sulle scatole, sui documenti commerciali e sui certificati di conformità, di ogni riferimento alla marcatura 8.8 e al nome del produttore, impedendo così alla convenuta di appropriarsi dei pregi derivanti dall’osservanza effettiva della normativa ISO;

Atteso che la parte resistente si è costituita in giudizio chiedendo il rigetto delle domande avverse e allegandole seguenti eccezioni: a) che l’azione di parte ricorrente avrebbe una portata meramente emulativa stante l’esistenza di un procedimento antidumping davanti ad una commissione dell’Unione Europea che vede contrapposte le stesse parti del presente giudizio; b) che all’epoca dei fatti (maggio 2009) la nuova norma ISO non era ancora stata recepita dalla ISO italiana e che solo dal 9 luglio 2009 essa è entrata in vigore in Italia; c) che la certificazione rilasciata a richiesta della Z s.r.l. è stata carpita inducendo in errore un dipendente di Y; d) che in ogni caso non è vietata la vendita di prodotti appartenenti a standard qualitativi antecedenti stante l’assoluta volontarietà della normativa ISO; e) che le prove tecniche richieste da parte ricorrente al Politecnico di Milano al fine di accertare la presenza della percentuale del 90% di martensite a cuore si basano esclusivamente sulla percezione visiva del tecnico che esegue la valutazione e che i risultati di detto accertamento sono conseguentemente inattendibili; f) che sono inapplicabili nel caso di specie le norme sulla concorrenza sleale dal momento che: f.a.) le imprese non hanno le stesse dimensioni e lo stesso mercato (la ricorrente produce le viti e si rivolge prevalentemente a grossisti mentre la convenuta si limita a commercializzare il prodotto rivogendosi prevalentemente a dettaglianti); f.b.) i pregi asseritamente vantati (la conformità alla normativa ISO) non possono essere ritenuti ‘altrui’ non essendo esclusivi di uno specifico concorrente, trattandosi soltanto di standard di produzione; g) che non sussiste alcun periculum in mora mancando qualunque indizio in ordine alla quantità delle scorte di magazzino di Y ed inoltre non vi è alcuna urgenza di vendere le viti conformi alla precedente normativa ISO non sussistendo alcun divieto alla loro vendita;

osserva

         Norme tecniche ISO e concorrenza sleale

Com’è noto, l’Organizzazione internazionale per la normazione (ISO, International Organization for Standardization) è la più importante organizzazione a livello mondiale per la definizione di norme tecniche. Suoi membri sono gli organismi nazionali di standardizzazione di 157 Paesi del mondo. In Italia le norme ISO vengono recepite, armonizzate e diffuse dall’UNI, il membro che partecipa in rappresentanza dell’Italia all’attività normativa dell’ISO.

Se, da una parte, il rispetto delle regole tecniche dettate dall’ISO per le svariate categorie di prodotti non è, di regola, obbligatorio, tranne nei casi in cui le autorità pubbliche ne impongano il rispetto per motivi di sicurezza pubblica, sembra ovvio, dall’altra, che una certificazione di conformità ISO costituisca una promessa di qualità (cfr. art.1497 c.c.), di pregio del prodotto.

Norme ISO succedutesi nel tempo

Sembra altrettanto ovvio che la certificazione di conformità alle nome ISO non possa che rispettare l’ultima regola emanata dall’Organizzazione. Non avrebbe senso, infatti, confidare su un prodotto che promette di essere dotato di caratteristiche realizzate secondo la migliore scienza ed esperienza del momento se questa non è più tale perché superata da conoscenze ed esperienze migliori.

Il rischio di rimanenze di merci conformi ad ISO superate da nuove norme tecniche incombe dunque sul venditore. Il rigore di questa conclusione si attenua se si considera che le revisioni della norma ISO seguono procedure lunghe e complesse mentre gli accordi di modifica vengono pubblicati con grande anticipo prima dell’entrata in vigore. Parte resistente non ha contestato l’asserto avversario relativo alla circostanza che la prima bozza della nuova norma ISO 2009 risale al 2005.

Sembra evidente che la vendita di tali merci non sia, di regola, vietata, ma se alla vendita dovesse accompagnarsi anche la certificazione di conformità ISO tale certificazione sarebbe del tutto impropria e rientrerebbe tra gli atti non conformi ai principi della correttezza professionale vietati dall’art. 2598 n. 3 c.c.

Tali conclusioni sembrano imporsi in vista della tutela degli interessi della collettività che la norma in esame, direttamente o come riflesso indiretto della tutela della concorrenza tra imprenditori, intende garantire. Sotto quest’ultimo profilo appare scontata la sussistenza di un grave danno per l’imprenditore che, dopo aver affrontato i costi  necessari per allinearsi ai nuovi standard, veda poi venduti sul mercato, a prezzi sensibilmente inferiori, prodotti che si approprino di una conformità ISO inesistente o non più aggiornata.

Vigenza della nuova norma UNI EN ISO 898-1

La nuova norma tecnica invocata da parte ricorrente è entrata in vigore per l’Italia il 9 luglio 2009.

Questa circostanza, eccepita da parte resistente, non è stata oggetto di controeccezione da parte della ricorrente, ed è stata anzi confermata dalla ricorrente (cfr. memoria 16/11/2009 p. 4) che aveva indicato nel 31/03/2009 il giorno di entrata in vigore della norma, riferendosi verosimilmente all’ambito internazionale.

Risulta però che Y abbia venduto le viti di cui è causa anche in data 20 ottobre 2009 e 27 ottobre 2009 rispettivamente alle società D’Arcano Sergio e Cagnasso s.r.l. Nel primo caso la vendita risulta accompagnata da una certificazione di conformità alla norma UNI 3740-3:82 non più in vigore, mentre nel secondo caso manca qualunque certificazione. Parte ricorrente ha fondatamente asserito che la sola indicazione della classe del prodotto 8.8. sulla testa della vite e sulle scatole della confezione è idonea a identificare una vite ad alta resistenza conforme alla norma ISO 898-1 in vigore al momento dell’acquisto.

Alla luce dei fatti accertati le vendite risalenti ad epoca successiva al 9 luglio 2009 (a XXX) sono idonee a configurare atti di concorrenza sleale.

Sussistenza di una fattispecie di concorrenza sleale

Si esamineranno ora più di vicino le eccezioni sollevate da parte resistente.

La circostanza che la certificazione rilasciata a richiesta della Anixter Italia s.r.l. sia stata carpita inducendo in errore un dipendente di X appare del tutto irrilevante se si considera che in altri casi la X ha rilasciato certificazioni di conformità a norme ISO non più in vigore ed inoltre che la testa delle viti vendute continua ad essere marchiata con il numero della classe ISO 8.8.

Analoga irrilevanza manifesta l’eccezione che le prove tecniche richieste da parte ricorrente al Politecnico di Milano al fine di accertare la presenza della percentuale del 90% di martensite a cuore si basino esclusivamente sulla percezione visiva del tecnico che esegue la valutazione e che i risultati di detto accertamento sarebbero conseguentemente inattendibili. La resistente, infatti, ha mostrato di essere consapevole della non conformità alla norma ISO in vigore nel momento in cui ha ammesso l’errore del proprio dipendente nella certificazione rilasciata ad Z.

L’asserita inapplicabilità, nel caso di specie, delle norme sulla concorrenza sleale per il fatto che le imprese odierne contendenti non hanno le stesse dimensioni e lo stesso mercato (la ricorrente produce le viti e si rivolge prevalentemente a grossisti mentre la convenuta si limita a commercializzare il prodotto rivolgendosi prevalentemente a dettaglianti) non sussiste. Infatti, “Sussiste rapporto di concorrenza fra due società quando due imprenditori, pur operando a diversi livelli di mercato, commercializzando prodotti almeno analoghi e si rivolgono ad una medesima categoria di consumatori. (Tribunale Monza, 19 ottobre 1988 Soc. Computerland Europe c. Soc. Polli centro arredamento Giur. it. 1989, I,2,860 (nota). “In tema di concorrenza sleale, presupposto indefettibile dell’illecito è la sussistenza di una situazione di concorrenzialità tra due o più imprenditori, derivante dal contemporaneo esercizio di una medesima attività industriale o commerciale in un ambito territoriale anche solo potenzialmente comune, e quindi la comunanza di clientela, la quale non è data dalla identità soggettiva degli acquirenti dei prodotti, bensì dall’insieme dei consumatori che sentono il medesimo bisogno di mercato e, pertanto, si rivolgono a tutti i prodotti che sono in grado di soddisfare quel bisogno. La sussistenza di tale requisito va verificata anche in una prospettiva potenziale, dovendosi esaminare se l’attività di cui si tratta, considerata nella sua naturale dinamicità, consenta di configurare, quale esito di mercato fisiologico e prevedibile, sul piano temporale e geografico, e quindi su quello merceologico, l’offerta dei medesimi prodotti, ovvero di prodotti affini e succedanei rispetto a quelli offerti dal soggetto che lamenta la concorrenza sleale. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, nella parte in cui, nonostante il diverso pregio dei prodotti delle parti ed il diverso livello dei negozi presso cui essi erano reperibili, aveva ritenuto sussistente la confondibilità tra gli stessi, in virtù della loro appartenenza alla medesima categoria merceologica e dell’adozione di un marchio fortemente confondibile, che avrebbero potuto indurre il pubblico a ritenere entrambi i prodotti riconducibili all’attività della medesima impresa). (Cassazione civile, sez. I, 22 luglio 2009, n. 17144 Soc. calzature Carpan c. Soc. Salvatore Ferragamo Italia Red. Giust. civ. Mass. 2009, 7-8).

Oltre all’innegabile fumus boni juris sussiste anche il periculum in mora, desumibile dalla circostanza che, anche dopo l’inizio del procedimento la resistente continua a vendere viti esplicitamente od implicitamente certificate come conformi alla normativa ISO. Non rileva dunque la mancanza di qualunque indizio in ordine alla quantità delle scorte di magazzino di Y.

Le conclusioni qui accolte appaiono, del resto, confortate da significativi precedenti della giurisprudenza di merito. “Costituisce appropriazione di pregi e comunicazione ingannevole l’apposizione di un marchiaggio, attestante la conformità dei prodotti alle norme di sicurezza UNI EN 124 e successive modifiche, con cui l’imprenditore attribuisce caratteristiche specifiche al proprio prodotto, considerate estremamente positive dagli operatori del mercato e tali da costituire possibile ragione di preferenza, non riscontrabili nel chiusino da esso commercializzato e, invece, costituenti una peculiarità di quelli prodotti dalla concorrente. Nel contempo, la comunicazione ha un suo intrinseco carattere ingannevole nei confronti dei possibili acquirenti ed utilizzatori, censurabile a prescindere dal fatto che altro concorrente distribuisca prodotti con – effettivamente – quelle caratteristiche. (Corte appello Milano, 18 marzo 2006 Soc. R. prefabbricati c. Soc. N. e altro Giur. it. 2006, 10 1867 con osservazione di MASSARO).

Sul tipo di provvedimenti più idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione sul merito

Parte ricorrente ha chiesto che sia inibita alla convenuta la commercializzazione di tutte le viti della categoria 8.8 non conformi alla nuova norma ISO ovvero, in alternativa, che sia inibita la commercializzazione e la certificazione di dette viti non conformi alla suddetta norma ISO se prive della caratteristiche tecniche imposte dalla norma stessa. Nella memoria depositata in data 16/11/2009, la ricorrente ha integrato le proprie conclusioni aggiungendo una ulteriore subordinata, finalizzata ad imporre alla società convenuta l’eliminazione, sulle viti, sulle scatole, sui documenti commerciali e sui certificati di conformità, di ogni riferimento alla marcatura 8.8 e al nome del produttore.

Ritiene il giudicante che il tipo di provvedimento più idoneo ad assicurare gli effetti della decisione sul merito sia il primo richiesto, vale a dire l’inibitoria alla Y s.p.a. di commercializzare e certificare viti non conformi alle norme tecniche in vigore al momento della vendita, con la specificazione che la vendita di prodotti non conformi potrà avvenire soltanto dietro espressa certificazione che il prodotto non è conforme alle norme ISO in vigore.

Per questi motivi

Visto l’art. 700 c.p.c.

–                      Inibisce a Y di commercializzare e certificare viti ad alta resistenza appartenenti alla classe 8.8. non conformi alle norme ISO in vigore al momento della vendita.

–                      La vendita di detti prodotti non conformi potrà avvenire soltanto dietro espressa certificazione che il prodotto non è conforme alle norme ISO in vigore al momento della vendita stessa.

–                      Fissa il termine di giorni sessanta per l’inizio del giudizio di merito.

Si comunichi a cura della Cancelleria.

Carpi, 7 gennaio 2010

 

Il Giudice Designato

Del fondo patrimoniale 2

Del fondo patrimoniale 2

Cass.  n. 4011 del 19 febbraio 2013

 

Ancora una pronuncia, freschissima, in tema di fondo patrimoniale e un’ulteriore conferma del declino inarrestabile cui sembra destinato tale  istituto  quale strumento per la  difesa del patrimonio familiare. Un declino sancito da un’avversione della giurisprudenza che ormai appare conclamato e che dipende forse da una tendenza all’abuso per fini elusivi.

Con la sentenza in oggetto la Suprema Corte, statuendo a proposito di un ricorso presentato da un contribuente che aveva proposto opposizione ad una esecuzione immobiliare inerente immobili conferiti in fondo patrimoniale, ha affermato il principio che  in ipotesi di  debito contratto nei confronti di un istituto di credito per ragioni legate all’esercizio di un’impresa o comunque di carattere lavorativo, il debito stesso può essere considerato come contratto nell’interesse della famiglia.  In caso di inadempienza quindi  la banca può sottoporre al pignoramento l’immobile conferito nel fondo patrimoniale.

L’orientamento espresso da questa recente sentenza, che  trova peraltro conforto in alcune pronunce precedenti (Cass. 18.09.2001 n. 11683 e Cass. 07. 07. 2009 n. 15.862 ), muove da una interpretazione estensiva del concetto di “bisogni della famiglia” di cui all’art. 170 cc..  Tale norma infatti prevede che l’esecuzione sui beni del fondo e sui frutti di esso non può aver luogo per debiti che il creditore conosceva essere stati contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia”. Secondo la Corte, l’espressione “bisogni della famiglia” non deve essere circoscritta alle sole necessità strettamente necessarie ed essenziali del nucleo familiare,  ma comprende ogni esigenza più ampia,  riconducibile alle esigenze di mantenere i bisogni e le esigenze quotidiane nonché a un equilibrato sviluppo della famiglia, con esclusione quindi delle sole esigenze di natura voluttuaria o ispirate da intento speculativo.

In tale quadro, quindi, si è ritenuta operare la presunzione che anche i debiti derivanti dall’attività professionale o d’impresa di uno dei coniugi, anche se finalizzati ad accrescere la sua capacità lavorativa, devono intendersi destinati  indirettamente ad accrescere il reddito disponibile per il mantenimento dei bisogni della famiglia. Ne discende che grava sul debitore, in sede di opposizione al pignoramento, l’onere di dimostrare che i debiti derivanti dall’attività professionale o d’impresa sono stati contratti per ragioni estranee ai bisogni della famiglia.

Del fondo patrimoniale

Del fondo patrimoniale

CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. III CIVILE – SENTENZA 5 marzo 2013, n.5385 – Pres. Uccella – est. Frasca

 

De profundis per l’istituto del fondo patrimoniale? Verrebbe da rispondere in senso affermativo leggendo questa sentenza delle Sezioni Unite, che affronta un caso invero peculiare, laddove il ricorrente contesta la legittimità dell’iscrizione ipotecaria dell’esattore su un bene conferito in fondo patrimoniale.

Sebbene l’attenzione degli ermellini, nella fattispecie, si incentri sul problema dell’onere della prova, appare sempre più evidente l’intento della giurisprudenza di circoscrivere l’efficacia “protettiva”  del Fondo patrimoniale, per scoraggiare o vanificare il tentativo frequente di utilizzare l’istituto al fine di sottrarre i beni così vincolati all’aggressione dei creditori (i quali ricorrono sovente  all’azione revocatoria ordinaria ex art. 2901 c.c. per di annullare l’atto di conferimento).

Gioverà ricordare che ai creditori e consentito procedere in via esecutiva (e quindi anche a iscrivere ipoteca) su beni costituiti in fondo patrimoniale soltanto nel caso in cui il credito sia stato contratto per uno scopo non estraneo ai bisogni familiari e, quando – ancorché sia stato contratto per uno scopo estraneo a tali bisogni – il titolare del credito per cui si procede non conosceva tale estraneità.

Nella circostanza il disfavore della giurisprudenza nei confronti di questo Istituto, ormai evidente, si manifesta attraverso la formulazione del principio per cui l’onere della prova  dell’esistenza dei presupposti per sottrarre i beni alle azioni esecutive dei creditori grava  su colui che intende opporre l’impignorabilità dei beni per effetto del vincolo rappresentato dal conferimento nel fondo patrimoniale. In particolare, l’interessato dovrà dare prova della finalità per cui è stata contratta l’obbligazione e della relazione esistente tra il fatto generatore della obbligazione stessa e i bisogni della famiglia, nonché della consapevolezza da parte del creditore di tale relazione.

Può essere utile osservare, a conferma della crescente avversione della magistratura per questo  istituto, che con sentenza 8991/03 la Corte di Cassazione ha ritenuto di applicare la regola della piena responsabilità del fondo anche nei riguardi di obbligazioni risarcitorie da illecito. Non è superfluo osservare che, in tale ottica, è irrilevante che l’obbligazione sia stata contratta prima o dopo la costituzione del fondo.

FALLIMENTO – PEGNO DI CREDITO

                                                                                                  Cass. civ., Sez. Un., 2 ottobre 2012, n. 16725

L’automatica trasformazione del pegno di credito alla consegna in pegno di titoli per effetto di un’apposita convenzione tra le parti, determina una sostituzione dell’oggetto del pegno equivalente ad una nuova garanzia. Nella descritta circostanza, inoltre, la convenzione sarebbe posta in essere in violazione del divieto di patto commissorio, perché l’appropriazione dei titoli da parte della banca, successivamente alla consegna, realizza un effetto sostanzialmente analogo al patto commissorio, in quanto la banca finirebbe in tal modo per appropriarsi dell’oggetto del credito del cliente

Non è assistita da prelazione ai fini dell’ammissione al passivo fallimentare la convenzione di pegno avente ad oggetto non titoli di stato, ma il credito del cliente nei confronti della banca all’acquisto ed alla consegna di una determinata quantità di titoli per un controvalore altrettanto determinato, senza che tali titoli risultino ancora materialmente formati al momento della convenzione, né successivamente. In merito deve rilevarsi che il pegno di credito all’acquisto ed alla consegna di titoli non ancora emessi ha natura di pegno di credito futuro, avente effetti obbligatori fino a quando non si verifica la consegna, pertanto inidoneo ad attribuire prelazione, che sorge solo dopo la specificazione e la consegna. A differenza del pegno di credito alla consegna di denaro o altra cosa fungibile (art. 2803 c.c.), già esistenti al momento della convenzione, i titoli di Stato, in regime di materializzazione, non possono dirsi ancora esistenti fino a quando non viene formato il documento che li incorpora e, dunque, fino a quando non ha luogo la individuazione, non può ritenersi sussistente alcuna prelazione.

La nouvelle vague della pizza

   Berberè, light pizza & food, di Beniamino Bilali e Matteo Aloe,  a Castel Maggiore (BO).

Provato da Il Giurista goloso Ottobre 2012

L’Italia della pizza s’è desta. Finalmente è sorto un movimento spontaneo che punta alla qualità e a valorizzare un prodotto ormai svilito e standardizzato, lontano parente di quella tradizione gastronomica d’eccellenza che rappresenta il vanto del nostro paese.   Ingredienti sempre più scadenti,  polemiche sulla provenienza del  pomodoro (cinese ?) e la mozzarella (sarà vera mozzarella ?)  e così via, e poi l’impasto sovente indigeribile e immangiabile appena la pizza si raffredda.                                                                                                                                      V’è una schiera, che va facendo proseliti, di giovani pizzaioli scienziati, veri e propri alchimisti che avvalendosi di ingredienti di grande qualità e tutti rigorosamente di produzione nazionale, sperimentando  e riscoprendo le tradizioni, ottengono risultati davvero sorprendenti.   Desta particolare interesse e piacevolissima sensazione scoprire che l’attenzione dedicata alla lievitazione e alle farine, consente di  realizzare impasti estremamente digeribili, tanto da fare degradare quelli comunemente  proposti  dalle pizzerie “standard” ad  attentati alla salute.  Viene quasi spontaneo,  d’acchito,  affermare  “Questa non è una pizza, o sì, forse, anche no, non credo proprio, può essere. Chissà.”  E che è allora? Acqua, farina, lievito e ingredienti di primissima qualità. Eh no, nemmeno questo. Perché il buon Beniamino del Berberè si è “inventato” anche l’impasto senza aggiunta di lievito: idrolisi degli amidi, gelatinizzazione; per l’uomo della strada è la possibilità di mangiare un impasto molto più digeribile perché privo di lieviti aggiunti, se poi gli vogliamo aggiungere un valore più filosofico è la vera rivincita del grano e del naturale: nulla si aggiunge rispetto quello che già c’è, solo acqua, sale e farina. Non di sola idrolisi ci si nutre, a rotazione vengono proposti vari impasti speciali. Va segnalato  per merito e originalità anche il “7effe”: 7 farine diverse: mais, riso, segale, grano duro, grano tenero, saraceno, farro. Poi c’è il classico, farina macinata a pietra, lievito madre, cottura in forno a legna e tanto amore. L’alter ego, Matteo Aloe, è  responsabile del topping, di tutto quello che a fresco viene appoggiato sopra questo disco pastoso. Prodotti di grande qualit, a cominciare dai pomodori San Marzano acquistati di una seria cooperativa e poi dalla burrata e dalla mozzarella di bufala autentiche e  i capperi di Pantelleria, tutti prodotti selezionatissimi. A livello di impasto, Beniamino Bilali ha davvero poco da imparare: straordinario il gusto, la digeribilità, il concetto applicato all’arte della panificazione.  E conversando abbiamo scopertaio che l’impasto viene fatto lievitare dalle 24 alle 48 h a temperatura costante di 26° (mentre nelle pizzerie “standard” i panetti vengono mantenuti alla temperatura di 6° gradi per garantire la durata, anche se così facendo la lievitazione non giunge a compimento, è inibita  la fase tecnicamente definita “lattica” ) In pochi altri posti come in questo sentirete il vero sapore emozionante dei cereali. E poco importa se una pizza costa anche 10-12 €, il salto di qualità giustifica ampiamente il prezzo. Ottima la selezione di vini bio e soprattutto di birre, validissimo anche il servizio: in una serata da tutto esaurito i tempi di servizio sono stati perfetti e anche il personale non ha lesinato spiegazioni e sorrisi.   Originali i dolci e di buona fattura .  Personale all’altezza, cortese e disponibile. La qualità val bene una trasferta . Il successo di pubblico  suggerisce la prenotazione.

Berberè, light pizza & food Presso Le Piazze – Lifestyle Shopping Centre Via Pio La Torre n°4/b – 40013 Castel Maggiore – BO +39.051.705715 Prezzo: da 10 a 20 euro. Impasto speciale: aggiunta di due euro Chiuso: lunedì

 

 

Contratto preliminare – obbligo di conservazione

Corte di Cassazione nella sentenza n. 1377 depositata il 17 gennaio 2012

 Suscita interesse il principio affermato da tale sentenza che attiene a interessi di natura esclusivamente tributaria e che deve indurre a riflettere e a correggere condotte che potrebbero essere autorizzate diversi principi affermati dalla stessa Corte, in un ottica esclusivamente civilistica, in particolare laddove è stato affermato che l’atto pubblico di vendita sostituisce del tutto i patti contenuti nel preliminare di vendita, atto che dopo la stipulazione del definitivo sembra quindi perdere ogni rilievo al punto da rendere apparentemente inutile la sua conservazione.

Con questa pronuncia, infatti, la Cassazione penale statuisce che è obbligatorio conservare la convenzione preliminare.

Risponde, infatti, del reato di occultamento e distruzione delle scritture contabili l’agente immobiliare che occulta o distrugge contratti preliminari, impedendo di fatto all’Amministrazione finanziaria la riscossione delle imposte sulle provvigioni.

Nel caso in esame, la condotta incriminata è quella disciplinata dall’art. 10 del D.Lgs. 74/2000, ai sensi del quale, salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da 6 mesi a 5 anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, ovvero di consentire l’evasione a terzi, occulti o distrugga, in tutto o in parte, non solo le “scritture contabili” ma anche “i documenti” di cui è obbligatoria la conservazione, in modo da non consentire la ricostruzione dei redditi o del volume d’affari.

La norma citata, secondo la Suprema Corte, intende anche assicurare la possibilità che attraverso il vaglio della documentazione contabile sia possibile operare un controllo delle attività imprenditoriali ai fini fiscali, come lascia intendere il dato testuale laddove fa riferimento alla“ricostruzione dei redditi o del volume d’affari” nell’intento di impedire l’occultamento della distruzione dei documenti.

La regola poi è confortata anche dal disposto dell’articolo 2214, co.2, CC che impone la tenuta delle scritture contabili che siano richieste dalla natura e dalle dimensioni dell’impresa. Inoltre si consideri che normalmente è previsto il versamento, da parte di chi acquista, di una caparra della quale è data quietanza dell’atto, così da conferire al contratto il valore di documento comprovante l’operazione di riscossione della quale deve essere assicurata la conservazione.

Il fatto che la norma faccia riferimento alle scritture richieste dalla natura dell’impresa ha consentito alla giudice di ritenere obbligato alla custodia l’agente immobiliare che consegue il diritto alla provvigione con la conclusione dell’affare cioè con la stipula del contratto preliminare e non per effetto della conclusione del rogito notarile, con la conseguenza che per l’agente immobiliare la provvigione conseguita costituisce un ricavo imponibile.

 

Una trattoria non banale a Ferrara

Un amico fidato ci segnala un locale del centro storico in cui si sta davvero bene. Potrebbe sembrare una banalità, ma chi gira un pochino sa bene quanto sia complicato trovare un valido indirizzo dentro le mura cittadine. La cucina in salsa siculo-ferrarese del Sorpasso è la risposta alle vostre domande. Piatti semplici, fatti come si deve, senza sconti sulla materia prima. Qualche schizzo di personalità, quel pizzico che distingue il cuoco banale dal cuoco vero. Fanno quello che sanno fare, senza esagerazioni, e lo fanno bene. Una ricetta tanto semplice quanto rara.  Carta che spazia allegramente tra la città estense e la Trinacria. Menu tradizionale a 20 euro che odora di miracolo, straordinaria la scelta di dedicare una parte della carta ai cosiddetti “improponibili”: la lingua, la crema d’aglio, il fegato in rete di maiale, le sarde in saòr… Fossero queste le cose improponibili… Anche l’ambiente è specchio della proposta: allegro e di carattere. I tavoli con le piastrelle decorate, le sedie dipinte da Beatrice Piva ispirate ai canti dell’Orlando Furioso: tutto fa colore e tutto aiuta ad allietare la sosta. Vini pochi, ma non banali, con qualche bella chicca bio come il nostro Litrozzo Bianco 2010 dell’Azienda Agricola Le Coste di Gradoli, un toccasana in una calda domenica di giugno. Questo vino, semplicemente, finisce in un baleno. Un vulcano, nel vero senso del termine. Stagionalità, attenzione ai prodotti, semplicità. Non la tecnica dello stellato, ma l’attenzione e la passione per il proprio lavoro di un bravo ristoratore che cucina con le mani e con il cuore. Ecco la ricetta per la Trattoria che vuole fare la Trattoria e non ama travestirsi.
Trattoria Sorpasso Via Saraceno, 118 Ferrara Tel.+39.0532.790289 Prezzo Medio alla carta: 35 euro Menu “Ferrara Mia!” (tradizionale ferrarese): euro 20 con calice di vino Chiuso tutto martedì e sabato a pranzo

Successioni . L’azione di petizione ereditaria comporta l’accettazione tacita dell’eredità

Cassazione civile Sentenza 18/11/2011, n. 24332

La Suprema Corte conferma, nell’ambito di una singolare e complessa vicenda successoria, che la proposizione dell’azione di petizione ereditaria determina l’acquisizione definitiva della qualità di erede operando come accettazione tacita.

  A seguito del decesso di un facoltoso cittadino italiano, che però risultava titolare di molteplici proprietà anche in Venezuela, si apre una successione testamentaria che, secondo le ultime volontà dello stesso, avrebbe dovuto beneficiare esclusivamente due cittadini del paese sudamericano.

  In realtà, però, alcuni potenziali eredi legittimi, un fratello e due nipoti di figli di fratelli premorti, contestano la validità del  testamento .

  La vicenda, però, ha un esito abbreviato in quanto i due nipoti concludono con gli eredi testamentari una transazione, che porta all’estinzione di tutti e due i giudizi in essere (uno promosso davanti a giudice italianio ed uno nanti ad autorità venezuelana), con cui i cittadini sudamericani rinunciano alla loro condizione di eredi testamentari e i nipoti stessi dichiarano di trasferire ai primi, dietro corrispettivo, determinati beni immobili e mobili.

    A questo punto, si inserisce nella vicenda un avvocato italiano che, dichiarandosi beneficiato dal fratello del de cuius di un legato testamentario avente per oggetto tutte le proprie partecipazioni societarie, pretende che fra queste ve ne siano anche alcune in relazione alla successione apertasi all’inizio di questa vicenda.

     Questi promuove un giudizio nei confronti dei nipoti che hanno concluso la transazione e della società che è stata oggetto di accordi in essa contenuti sostenendo che, pur non avendo il suo dante causa partecipato all’accordo transattivo, deve comunque considerarsi destinatario di una quota di eredità.

      I giudici della  Suprema Corte  non possono far altro che osservare che gli eredi testamentari avevano, a tutti gli effetti della legge italiana, accettato tacitamente l’eredità nel momento in cui avevano promosso azione di petizione ereditaria ex art. 533 cod. civ. davanti al giudice italiano e che, come noto, una volta conseguito il titolo di erede lo stesso non può più venir meno.  Il principio è pacifico tant’è che i giudici richiamano  “ex multis” un precedente di legittimità (Cass. 4 maggio 1999, n. 4414), ribadendo in maniera inequivoca che, la rinuncia di cui alla più volte richiamata transazione, aveva chiaramente avuto come corrispettivo il trasferimento di alcuni beni immobili e mobili in virtù dell’esclusivo consenso dei nipoti ex fratre del de cuius e che quindi nessun ruolo aveva in essa svolto il fratello rimasto inerte.

Vendita. Garanzia di buon funzionamento. Utilizzo del bene prima dell’integrale montaggio. Danno irrisarcibile

Cassazione Civ.  11.06.11 n. 9467

Nella fattispecie Tizio, titolare di un’officina meccanica, ordinava alla società Alfa S.p.A. un ponte sollevatore per autoveicoli, che, in seguito della consegna effettuata direttamente dalla società costruttrice, veniva poi installato dal tecnico specializzato incaricato dalla venditrice stessa.  In seguito ad un sinistro occorso per un’improvvisa inclinazione del ponte, Tizio, che  aveva riportato gravi lesioni,  instaurava  una causa per la risoluzione del contratto e le conseguenti statuizioni risarcitorie e restitutorie.

La Corte d’appello di Milano rigettava il gravame, e confermava la sentenza di primo grado, ritenendo l’incidente ascrivibile all’esclusiva colpa dell’infortunato, il quale, benché messo a conoscenza della provvisorietà del montaggio del macchinario, ancora necessitante di alcuni elementi e della necessità di un secondo intervento per la definitiva messa in opera, aveva imprudentemente ritenuto di metterlo in funzione pur essendo lo stesso non ancora idoneo all’uso.

La Corte di Cassazione respingendo il ricorso confermava le precedenti decisioni affermando che non sussiste responsabilità per vizi della cosa venduta o per difettoso funzionamento se l’acquirente imprudente utilizza il macchinario acquistato prima del suo definitivo montaggio.

Societario. Maggioranza fraudolenta a verbale, illecito penale

Cassazione penale Sentenza 12/01/2012, n. 555

Integra il reato ex art. 2636 c.c. l’adozione di provvedimenti da parte dell’assemblea sociale, la cui regolare costituzione sia stata fraudolentemente attestata nel verbale.

Interessante decisione della Suprema Corte in relazione al delitto di influenza illecita sull’assemblea.

 Questo il caso sottoposto al vaglio dei giudici di legittimità: la Corte di appello di Palermo confermava la sentenza di prime cure, la quale aveva affermato la penale responsabilità dell’imputato in ordine al reato di cui all’art. 2636 c.c., perché, quale amministratore unico di una s.r.l., aveva ripetutamente determinato le maggioranze nelle assemblee sociali con atti fraudolenti, di fatto impedendo a due delle tre socie di parteciparvi, condotte poste in essere con finalità di conseguimento di un ingiusto profitto. In particolare, si era appurato che l’imputato – marito di una delle tre socie della s.r.l. – a causa di perdite di esercizio che non voleva, nella sua veste, far emergere, aveva convocato le assemblee sociali del 2004 e del 2006, nel primo caso facendo figurare a verbale la presenza di una socia, che invece non era stata neppure convocata; nel seconda, attribuendo alla moglie la titolarità di quote sufficienti per la valida costituzione della assemblea, nonostante così non fosse. In entrambe le assemblee erano state prese determinazioni funzionali all’intento preso di mira dall’imputato, quali l’approvazione del bilancio del 2003 e la rinnovazione della carica di amministratore. Nel ricorrere per cassazione, tra i motivi di ricorso la difesa censurava la motivazione della sentenza d’appello, che, a suo avviso, confermato la sentenza di primo grado nonostante l’assenza di prova circa: la falsificazione di documentazione sottoposta ai soci, le interferenze sulla regolare formazione delle delibere assembleari, il ricorso ad artifici, la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato. La Cassazione ha respinto il ricorso prendendo le mosse dal dato normativo: nel prevedere il reato di “illecita influenza sull’assemblea” l’art. 2636 c.c., «punisce la condotta di chiunque compia qualsiasi atto di natura fraudolenta che di fatto determini in maniera alterata la maggioranza della assemblea dei soci, quando tale condotta è finalizzata al conseguimento di un ingiusto profitto». Sotto il profilo oggettivo, il reato è perciò integrato da «qualsiasi operazione che artificiosamente permetta di alterare la formazione delle maggioranze assemblea, rendendo così di fatto possibile il conseguimento di risultati vietati dalla legge o non consentiti dallo statuto della società» (in senso conforme, Cass., Sez. I, 3 marzo 2009) . Nel caso di specie, la Corte ha evidenziato come l’attività fraudolenta fosse consistita – come esattamente affermato dai giudici di merito – nella falsa rappresentazione della presenza della maggioranza dei soci alle assemblee, in una’occasione facendo figurare come presente, con la falsificazione della relativa firma sul verbale, una socia invece assente; nell’altra attestando la titolarità in capo alla socia, nonché moglie dell’imputato, di un numero di quote sufficiente a costituire la maggioranza, ciò che non corrispondeva alla titolarità reale. Quanto, poi, all’elemento soggettivo, il dolo in capo all’imputato era stato esattamente desunto dalle modalità dalla la condotta dell’imputato, la quale non trovava altra spiegazione se non in quella di poter agire indisturbato, senza, cioè, dover subire il controllo dei soci, che avrebbero potuto esautorarlo, e senza, soprattutto, rendere conto delle perdite subite. Proprio il non dovere sottoporsi al giudizio negativo dei soci comportava, per l’imputato, il vantaggio di continuare ad esercitare una carica altrimenti destinata ad essere revocata, carica che gli consentiva invece di controllare un’attività commerciale in cui egli aveva interesse, anche quale marito di una socia al 33 % del capitale sociale.