Autore: Giovanni Orlandi

Alimenti. Contraffazione della scadenza . Responsabilità per frode

Alimenti. Ritenuta la responsabilità per frode in commercio anche del dipendente

Cassazione, sentenza n. 3394/2017, Sezione Terza Penale

In un supermercato è stata rilevata una frode dovuta alla correzione della  scadenza di alcuni prodotti alimentari posti in vendita.  Il dipendente si è difeso  affermando di essersi limitato ad eseguire l’ordine impartito dalla responsabile della struttura.

Entrambi però sono stati ritenuti responsabili .

Secondo la Corte, infatti, non è invocabile l’esimente dello stato di necessità ( di cui all’articolo 54 del codice penale) per avere il ricorrente agito, in qualità di lavoratore dipendente, in quanto costretto dalla necessità di non perdere il posto di lavoro. Non è stato ritenuto ricorrere , nella specie, l’elemento essenziale, ai fini dell’operatività della scriminante, dell’inevitabilità del pericolo che, invece, poteva essere facilmente evitato, come hanno sottolineato i giudici del merito, denunziando la condotta illecita della responsabile della struttura, cosicché il ricorrente avrebbe potuto rifiutarsi di ottemperare all’ordine illecito impostogli e avrebbe potuto denunciare l’accaduto ad altri suoi superiori, posto che la predetta aveva anche in precedenti  occasioni e nei confronti di altri lavoratori impartito analoghi ordini illegittimi.
Testo della sentenza

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 23 novembre 2016 – 24 gennaio 2107, n. 3394 Presidente Amoresano – Relatore Di Nicola

Ritenuto in fatto

  1. A. T. e F. P. C. ricorrono per cassazione impugnando la sentenza indicata in epigrafe con la quale la Corte di appello di Palermo ha confermato per la prima e parzialmente riformato per il secondo la sentenza del tribunale di Palermo che aveva condannato i ricorrenti per il reato di cui agli articoli 56, 110, 515 del codice penale, perché, in concorso tra loro, la prima nella qualità di dipendente della “GI.DI. Giacalone distribuzione SRL” e responsabile del punto vendita “Eurospin” con sede in Palermo, e il secondo quale dipendente subordinato alla prima, detenevano per la vendita prodotti alimentari con la data di scadenza alterata, nella specie rappresentati da una decina di confezioni di hot dog, così compiendo atti idonei in modo non equivoco a commettere il reato di frode nell’esercizio del commercio non riuscendo nell’intento per cause indipendenti dalla propria volontà, in Palermo in data anteriore e prossima al dicembre 2009. 2. Per l’annullamento dell’impugnata sentenza i ricorrenti sollevano le seguenti doglianze, qui enunciate ai sensi dell’articolo 173 delle disposizioni di attuazione al codice di procedura penale nei limiti strettamente necessari per la motivazione. 2.1. La T., con un unico mezzo di annullamento, lamenta la violazione della legge processuale e il difetto di motivazione per aver la Corte d’appello fondato il giudizio di colpevolezza sulle propalazioni accusatorie del coimputato, C. F. P., erroneamente ritenute pienamente attendibili sotto il profilo intrinseco, nonché estrinsecamente riscontrate in modo individualizzante, senza aver, e in violazione dell’articolo 194 del codice di procedura penale, proceduto all’esame dei testi de relato, che avrebbero fornito le informazioni alle fonti utilizzate ai fini del riscontro e, prima ancora, senza che nel processo emergessero i nomi delle fonti dichiarative dirette, confezionando in tal modo una motivazione manifestamente illogica e lacunosa, in relazione ai fatti processualmente affermati. 2.2. Il C., con un primo motivo, denunzia la violazione di legge per eccesso di potere nonché, con un secondo motivo, lamenta l’inosservanza e l’erronea applicazione della legge penale per insussistenza dell’elemento soggettivo del reato, sul rilievo che non sarebbe possibile affermare che il ricorrente avesse, nella evidente e provata compromissione totale del suo libero discernimento, cognizione dell’antigiuridicità penale del comportamento impostogli dal diretto superiore sicché, non essendo stato ritenuto applicabile il disposto dell’art. 54 del codice penale, la motivazione confezionata dai giudici del merito si segnalerebbe per difetto di coerenza interna. Deduce, con un terzo motivo, inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità, e decadenza sul rilievo che non sarebbe stato provato in alcun modo che il ricorrente fosse il responsabile del banco frigo e neppure potevano essere utilizzate in tal senso le dichiarazioni auto accusatorie dell’imputato che avevano una valenza esclusivamente contra alios e giammai contra se. Con il quarto motivo, il ricorrente eccepisce la mancata assunzione di prova decisiva e, con il quinto motivo, lamenta la mancanza della motivazione in ordine all’applicabilità della causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto.

Considerato in diritto

  1. I ricorsi non sono fondati. 2. Il primo ed il quarto motivo di impugnazione del C. sono inammissibili in quanto aspecifici. Al di là infatti della loro difficile comprensione, le censure sono state sollevate per la prima volta nel giudizio di legittimità e comunque non si concentrano su punti determinati della decisione impugnata cosicché non svolgono alcuna funzione critica rispetto all’apparato argomentativo della decisione censurata, non consentendo, in tal modo, al giudice dell’impugnazione di operare l’auspicato controllo sulla sentenza impugnata. 3. Il quinto motivo di impugnazione proposto dal C., circa il difetto di motivazione in ordine alla negata applicazione della causa di non punibilità (ex articolo 131-bis del codice penale), è inammissibile per manifesta infondatezza, posto che la Corte territoriale ha correttamente osservato che, sebbene il Tribunale avesse ritenuto di applicare la sola pena pecuniaria, la condotta dell’imputato conservasse un apprezzabile offensività per la pericolosità intrinseca della sua condotta, che aveva cagionato un vulnus alla sicurezza del mercato alimentare. La circostanza che il tentativo di frode posto in essere dall’imputato non sorti effetti pregiudizievoli in ragione del fatto che la sua condotta fu sventata prima di essere consumata, non esclude la obiettiva gravità della frode realizzata su diverse confezioni di Hot Dog ed estrinsecatasi in una condotta che aveva esposto a rischio l’incolumità e la salute di un elevato numero di potenziali consumatori. La motivazione, oltre a possedere i requisiti della adeguatezza e della logicità, è corretta anche in diritto perché l’articolo 131-bis del codice penale richiede, ai fini dell’applicabilità della causa di non punibilità, l’esiguità non solo del danno ma anche del pericolo di offesa al bene tutelato. 4. I restanti motivi, rispettivamente sollevati dai ricorrenti, possono essere congiuntamente esaminati, essendo tra loro strettamente connessi. Essi sono infondati. Per rendersene conto è sufficiente considerare come il C., all’epoca pacificamente responsabile del banco frigo del supermercato, riconobbe, per quanto emerge dal testo della sentenza impugnata, di essere l’autore materiale della condotta contestatagli, affermando, tuttavia, di aver agito su ordine impartitogli dalla T., ordine al quale avrebbe ottemperato per timore di subire ritorsioni sul luogo di lavoro da parte della coimputata. Quest’ultima, in occasione del proprio interrogatorio davanti alla P.G., e in sede di spontanee dichiarazioni, negò di aver posto in essere la condotta contestatale affermando di non aver mai dato delle direttive specifiche al dipendente quanto all’alterazione delle date di scadenza di confezioni di hot dog. 4.1. La Corte d’appello, con logica ed adeguata motivazione, ha ritenuto, quanto alla posizione della T., che la chiamata in correità del C. dovesse ritenersi intrinsecamente attendibile, in quanto quest’ultimo non aveva manifestato ragioni di risentimento nei confronti della coimputata, tali da poterlo indurre a formulare accuse calunniose, e le sue dichiarazioni rese nel corso dell’interrogatorio, e poi in udienza, si erano mantenute costanti e coerenti. Il C., poi, non aveva alcun» precipuo interesse a operare la contraffazione in questione onde, secondo la Corte di appello, la verosimiglianza che fosse stato indotto a porre in essere la condotta illecita su indicazione del suo diretto superiore che, pur non avendo potere di licenziamento, poteva provocare un giudizio negativo nei suoi confronti ed in estrema ipotesi indurre la dirigenza ad un suo licenziamento, avendo poteri di vigilanza sul personale dell’unità operativa. Inoltre, la Corte del merito ha sottolineato come la chiamata in correità del C. avesse trovato significativo riscontro nelle dichiarazioni del teste G., amministratore giudiziario della società GI.DI S.r.l. il quale aveva confermato che la T., quale responsabile del punto vendita in questione, si occupava di diverse funzioni, tra cui anche quella di controllare le date di scadenza dei prodotti esposti in vendita all’interno del supermercato e di segnalare eventuali carenze nella produttività del personale dipendente. A specifica domanda il teste aveva anche confermato di avere ascoltato tutti i dipendenti e di avere appreso che il C. aveva operato su richiesta e determinazione della T. riferendo di avere intrapreso, sulla scorta di tali informazioni, un procedimento disciplinare conclusosi con il licenziamento di quest’ultima, anche in ragione di altre violazioni, e una diversa sanzione disciplinare nei confronti dei lavoratori che avevano ottemperato alle sue prescrizioni illecite. La C., coadiutore dell’amministratore giudiziario e responsabile amministrativa della “GI.DI. Giacalone Distribuzione S.r.l.”, aveva, a sua volta, ricordato che erano stati rinvenuti nei banchi frigo circa una decina di confezioni di hot dog, pronti per la vendita, sui quali era stata contraffatta la data di scadenza, la quale era in origine anteriore di circa venti giorni, e nel magazzino furono rinvenuti i materiali utilizzati per cancellare l’originaria scadenza riportata sulle confezioni, riferendo altresì di avere sentito diversi dipendenti del punto vendita, i quali avevano confermato che la T. aveva dato, anche in altre occasioni e a soggetti diversi dal coimputato C., disposizioni di contraffare le date di scadenza dei prodotti alimentari, soprattutto nel caso in cui si trattava di prodotti in giacenza nel magazzino. La teste aveva ricordato che alcuni lavoratori presentarono al riguardo un documento scritto. Dalle concordanti informazioni offerte dai testi G. e C., i quali non avevano alcun interesse a riferire cose diverse da quelle apprese direttamente sul luogo di lavoro dai dipendenti dell’azienda, la Corte distrettuale ha tratto il corretto convincimento circa l’idoneità delle stesse a fungere da riscontro individualizzante alla chiamata di correità dell’imputato C., sottolineando che la testimonianza de relato, quale quella in oggetto, non è utilizzabile soltanto se, a richiesta della difesa, il giudice non dispone la citazione dei testi alle cui dichiarazioni è stato fatto riferimento, ma dall’esame dei verbali di udienza non emerge che la difesa avesse avanzato tale istanza, sebbene fosse agevole procedere all’identificazione dei lavoratori dipendenti del punto vendita. 4.2. Quanto alla posizione del C., alle rimostranze circa la mancanza dell’elemento soggettivo del reato ed al fatto di essere stato l’imputato costretto ad agire per l’ordine illegittimo impartito dalla coimputata, la Corte del merito ha affermato, condividendo l’analogo approdo cui era giunto il tribunale, che la giustificazione del C. di aver osservato l’ordine illecito impostogli dalla T. per timore di subire ritorsioni lavorative poteva essere presa in considerazione nel caso in cui ad ordinare la condotta vietata fosse stato un soggetto che rivestisse una posizione apicale nell’organigramma aziendale, in quanto il lavoratore non avrebbe avuto altri superiori ai quali denunciare il comportamento illecito impostogli. Tuttavia, nel caso in esame, il C. avrebbe potuto rifiutarsi di ottemperare all’ordine illecito impostogli e avrebbe potuto denunciare l’accaduto ad altri suoi superiori, posto che la T. aveva avanzato richieste irregolari anche nei confronti di altri dipendenti del supermercato e che alcuni di essi si erano rifiutati di adempiere alle sue indebite pretese. Sulla base di ciò, quindi, la Corte territoriale ha escluso che ricorressero, nel caso di specie, i presupposti della scriminante dello stato di necessità poiché, anche a voler ritenere che l’imputato avesse soggettivamente ritenuto di correre il pericolo di essere licenziato o di subire un pregiudizio nella sua posizione lavorativa in seguito al rifiuto opposto alla direttrice, certamente non ricorreva l’altro presupposto della scriminante ossia l’inevitabilità del pericolo che avrebbe potuto essere evitato, appunto, denunziando la condotta illecita della T.. Peraltro, il giudizio di responsabilità a carico dell’imputato è stato fondato sulla sua ampia confessione di essere stato l’autore materiale della contraffazione, in ragione della specifica richiesta avanzatagli dal suo diretto superiore, la coimputata T., cosicché neppure è giustificata la doglianza circa la carenza dell’elemento soggettivo, mentre la censura circa l’inutilizzabilità cantra se delle dichiarazioni auto ed etero accusatorie, oltre ad essere nuova e pertanto non ammissibile, è destituita di qualsiasi fondamento, trattandosi di confessione assunta senza alcuna violazione di norme processuali. 5. L’approdo cui è giunta la Corte del merito è dunque ineccepibile perché, quanto al fulcro della doglianza sollevata dalla T., la giurisprudenza di legittimità ha affermato che, in tema di testimonianza indiretta, il divieto posto dal comma settimo dell’art. 195 cod. proc. pen. non opera in maniera automatica ma solo quando il testimone non sia in grado di fornire elementi idonei ad una univoca ed immediata identificazione della fonte delle informazioni da lui riferite, e non sia possibile discutere, sulla base di dati certi e non seriamente controvertibili, dell’esistenza ed attendibilità di tale fonte (Sez. 6, n. 37370 del 14/05/2014, Romeo, Rv. 260251). Ne consegue che costituisce onere della parte richiedere l’esame del teste de relato, cosicché l’imputato, qualora abbia mostrato disinteresse alla conoscenza della fonte diretta, consentendo la legittima acquisizione del dato processuale costituito dal contenuto della prova orale, non può poi dolersi del fatto che, non essendo stata riferita nominativamente la fonte dalla quale il fatto sia stato appreso, non sia stato possibile escuterla e così inficiando il contenuto della testimonianza indiretta, con l’ulteriore conseguenza che l’onere di richiedere l’esame della fonte diretta vale tanto nel caso in cui questa sia nominativamente indicata, quanto nel caso in cui, come nella specie, sia facilmente identificabile ed alla sua identificazione non si sia pervenuti per il disinteresse mostrato dal soggetto cui la legge attribuisce il potere di chiedere l’esame del teste diretto. E’ pertanto esatta l’affermazione secondo la quale la dichiarazione de relato non è utilizzabile soltanto se, a richiesta della parte interessata, il giudice non abbia disposto la citazione dei testi identificati o facilmente identificabili alle cui dichiarazioni sia stato fatto riferimento (nel caso di specie, tanto il G. quanto la C. avevano riferito di aver appreso il fatto dichiarato, ossia dell’ordine illegittimo impartito dalla T. al C., da tutti i lavoratori del supermercato, dei quali era agevole procedere all’identificazione trattandosi di dipendenti del punto vendita). Né rilevano, al cospetto di una prova dichiarativa ampiamente riscontrata, le affermazioni, che si risolvono in censure fattuali il cui ingresso non è consentito nel giudizio di legittimità, circa l’interesse che il C. avrebbe avuto nell’accusare la T. e dell’eventuale assenza da parte di quest’ultima di un movente che avesse potuto sostenere la condotta denunciata dalla fonte di prova. Allo stesso modo, non è invocabile l’esimente dello stato di necessità, di cui all’articolo 54 del codice penale, per avere il ricorrente agito in qualità di lavoratore dipendente, in quanto costretto dalla necessità di non perdere il posto di lavoro. Infatti, non ricorre, nella specie, l’elemento essenziale, ai fini degl’operatività della scriminante, dell’inevitabilità del pericolo che, invece, poteva essere facilmente evitato, come hanno sottolineato i giudici del merito, denunziando la condotta illecita della T., cosicché il ricorrente avrebbe potuto rifiutarsi di ottemperare all’ordine illecito impostogli e avrebbe potuto denunciare l’accaduto ad altri suoi superiori, posto che la T. aveva anche in diverse occasioni e nei confronti di altri lavoratori impartito analoghi ordini illegittimi. Neppure risulta applicabile la scriminante di cui all’articolo 51 del codice penale perché, secondo un risalente ma ancora valido indirizzo della giurisprudenza di legittimità, tale disposizione, che trova la sua giustificazione nel divieto imposto ai cittadini di sindacare le norme giuridiche e di disubbidire agli ordini legittimi della pubblica autorità, considera non punibili i fatti preveduti dalla legge come reati, se siano commessi per adempiere ad un dovere derivante da tali norme ed ordini. Tuttavia, gli ordini, come si evince dalla precisa e chiara formulazione della legge, debbono emanare da una pubblica autorità, il che significa che i rapporti di subordinazione presi in considerazione sono esclusivamente quelli che sono previsti dal diritto pubblico. Nei rapporti di diritto privato, tra i quali sono compresi quelli che intercorrono tra i privati datori di lavoro e i loro dipendenti, non è applicabile la causa di giustificazione sopra indicata, perché manca un potere di supremazia, inteso in senso pubblicistico, del superiore riconosciuto dalla legge (Sez. 6, n. 133 del 22/10/1971, dep. 1972, Alunni, Rv. 119833). 6. Consegue il rigetto dei ricorsi e la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

 

Reati tributari – Omesso versamento di IVA – Confisca del profitto

Reati tributari – Omesso versamento Iva (art. 10 ter D.Lgs. n. 74 del 2000) – Sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente verso organi della persona giuridica non estranea al reato

La pronuncia in commento si inserisce nel solco della controversa vicenda relativa alla distinzione tra sequestro diretto e sequestro per equivalente, aventi entrambi finalità di confisca. La tematica è da qualche anno a questa parte una tra le più dibattute da dottrina e giurisprudenza, stanti le importanti ricadute anche e soprattutto sul piano del diritto quotidianamente praticato nelle aule giudiziarie.

In particolare, i giudici della Terza sezione di Cassazione hanno ricostruito – anche alla luce del recente arresto delle Sezioni Unite nel caso Gubert – i rapporti tra sequestro preventivo per equivalente nei confronti dell’indagato e sequestro sul patrimonio dell’Ente in tema di reati tributari.

La problematica non è di poco conto atteso che, nella maggior parte dei casi di illecito fiscale, la persona fisica-autore del reato non coincide con il reale beneficiario dell’evasione delle imposte sui redditi o dell’Iva.  Allorché il contribuente sia una persona giuridica, infatti, l’Ente rappresentato dall’autore del reato, pur essendo soggetto ontologicamente differente, trae giovamento dai benefici fiscali derivanti dalla commissione dell’illecito.

La domanda che ne consegue, pertanto, è se, ed in quali circostanze, la divergenza soggettiva nello schema di commissione del reato testé delineato possa riflettersi sull’individuazione del soggetto su cui far ricadere gli effetti della misura cautelare reale finalizzata alla confisca del profitto.

Ebbene, nelle ipotesi tipicamente ricorrenti in materia di reati tributari – come nel caso di omesso versamento d’Iva previsto dall’art. 10 ter D.Lgs. 74/2000 – la Terza Sezione della Cassazione è ormai decisamente propensa a ritenere possibile la confisca diretta del profitto nei confronti della persona giuridica per reati commessi dal legale rappresentante della stessa; confisca da intendere non già per equivalente bensì in via diretta e, dunque, legittima, laddove avente ad oggetto beni fungibili come le somme di denaro.

Dott. Matteo Gambarati

Testo della sentenza

Cassazione penale, Sez. III, 19 novembre 2015, n. 50054 – Pres. Amoresano – Rel. Manzon – P.M. Gaeta (diff.) – Ric. P.P. (Avv. di Santo)Annulla con rinvio Trib. Foggia 24 luglio 2015

 

Omissis. – Ritenuto in fatto: 1. Con ordinanza in data 24/07/2015 il Tribunale di Foggia rigettava la richiesta di riesame proposta da P.P. avverso il decreto di sequestro preventivo del GIP presso il Tribunale stesso in data 11/05/2015 avente ad oggetto beni dell’indagato.

Rilevava il Tribunale che, essendo sufficiente ai fini cautelari l’astratta configurabilità di un reato (nel caso di specie quello di cui al D.L. n. 74 del 2000, art. 10 ter, anno di imposta 2011, Euro 340.429,00 IVA non versata), la mancata escussione preventiva del patrimonio dell’Ente rappresentato dall’indagato (effettivo contribuente) non potevasi considerare condizione di validità del disposto sequestro. Soggiungeva che l’estraneità al reato del P. avrebbe dovuto essere oggetto del giudizio meritale, non potendosene comunque escludere il dolo. Infine affermava la non revocabilità del sequestro essendo finalizzato, ancorché “per equivalente”, alla confisca obbligatoria né la sostituibilità dei beni sequestrati, stante il disposto dell’art. 324 c.p.p., comma 7.

  1. Avverso tale decisione, tramite il difensore fiduciario, propone ricorso per cassazione il P. deducendo un unico motivo articolato in diversi profili di violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), in relazione al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 ter e art. 322 ter c.p.

2.1 Anzitutto censura l’ordinanza impugnata, affermando di non essere l’autore del reato in quanto non firmatario della correlativa dichiarazione annuale IVA, a suo dire non bastando a tal fine la qualifica rivestita di legale rappresentante pro tempore dell’Ente societario soggetto passivo di tale imposta. Il ricorrente si duole della non adeguatezza sul punto della motivazione del Tribunale, a suo dire limitatosi ad un recepimento acritico della tesi accusatoria, senza adeguata ponderazione dei contrari elementi addotti difensivamente.

2.2 Il P. poi lamenta la mancata preventiva escussione del patrimonio dell’Ente rappresentato, affermando la sequestrabilità del patrimonio dello stesso. – Omissis. Considerato in diritto: 1. Il ricorso è fondato.

1.1 Il complesso motivo di ricorso proposto, pur essendo inammissibile per il profilo articolato in ordine agli aspetti inerenti il merito dell’imputazione provvisoria, pacificamente non sindacabili da questa Corte, risulta dirimentemente accoglibile per gli altri profili dedotti.

1.2 Si deve rilevare in premessa che avverso le ordinanze emesse dal Tribunale in sede di riesame ex art. 324 c.p.p., è prevista dall’art. 325, stesso codice, la possibilità del ricorso per cassazione, ma soltanto per violazione di legge. Peraltro la giurisprudenza consolidata di questa Corte ravvisa tale vizio anche nella mancanza assoluta di motivazione o per la presenza di motivazione meramente apparente, in quanto correlate all’inosservanza di precise norme processuali, quali ad esempio l’art. 125 c.p.p. – che impone la motivazione anche per le ordinanze – ma non la manifesta illogicità della motivazione, la quale può denunciarsi nel giudizio di legittimità soltanto tramite lo specifico ed autonomo motivo di ricorso dall’art. 606 c.p.p., lett. e) (cfr. Cass., S.U., n. 5876 del 28.1.2004, P.C. Ferazzi in proc. Bevilacqua, Rv.226710). Sempre le S.U. di questa Corte hanno anche specificato che nella violazione di legge debbono intendersi compresi sia gli “errores in iudicando” o “in procedendo“, sia quei vizi della motivazione così radicali da rendere l’apparato argomentativo posto a sostegno del provvedimento o del tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza, quindi inidoneo a rendere comprensibile l’itinerario logico seguito dal giudice (sentenza n. 25932 del 29.5.2008, Ivanov, Rv. 25932).

Nel caso concreto la motivazione dell’ordinanza impugnata risulta affetta dalle carenze suindicate e deve quindi affermarsi non conforme allo standard previsto dalle norme processuali correlative ed in particolare da quella di cui all’art. 125 c.p.p., comma 3, apparendo tale radicale vizio motivazionale sussistente rispetto ad entrambi i primi due profili della censura articolata dal ricorrente.

1.3 Ciò anzitutto deve essere rilevato rispetto al punto motivazionale inerente la sussistenza del fumus commissi delicti.

Il Tribunale ha in merito evocato risalenti ed ormai superati precedenti giurisprudenziali di questa Corte, essendosene evoluto il correlativo indirizzo ermeneutico nel senso che «Nel sequestro preventivo la verifica del giudice del riesame, ancorché non debba tradursi nel sindacato sulla concreta fondatezza dell’accusa, deve, tuttavia, accertare la possibilità di sussumere il fatto in una determinata ipotesi di reato; pertanto, ai fini dell’individuazione del “fumus commissi delicti“, non è sufficiente la mera “postulazione” dell’esistenza del reato, da parte del pubblico ministero, in quanto il giudice, nella motivazione dell’ordinanza, deve rappresentare le concrete risultanze processuali e la situazione emergente dagli elementi forniti dalle parti, che dimostra indiziariamente la congruenza dell’ipotesi di reato prospettata rispetto ai fatti cui si riferisce la misura cautelare reale» (così, ex multis, Cass., sezione quinta, n. 28515 del 21/05/2014, Ciampani e altri, Rv. 260921).

La difesa del P. aveva posto delle questioni in ordine alla ascrivibilità del reato fiscale de quo all’indagato/sequestrato. Si tratta di specifiche argomentazioni difensive, concernenti i tempi e le modalità di assunzione da parte del P. del mandato rappresentativo dell’Unione Sportiva Foggia spa, il fatto che egli non abbia firmato la dichiarazione IVA relativa al 2011, l’assenza dell’elemento soggettivo. Su tali questioni il Tribunale del riesame foggiano non ha risposto (limitandosi alla mera presa d’atto della tesi accusatoria ovvero adducendo una motivazione postergatoria e comunque meramente apparente) mentre, alla luce di detto orientamento della giurisprudenza di questa Corte, doveva farlo.

1.4 Ancor più inconsistente risulta essere la motivazione dell’ordinanza impugnata sul secondo profilo dedotto dal ricorrente, incentrato sulla mancata previa escussione del patrimonio della società rappresentata dall’indagato, limitandosi a citare un unico precedente di legittimità, anch’esso ampiamente superato nell’evoluzione giurisprudenziale di questa Corte in tema di sequestro preventivo “diretto” e per “equivalente”.

Per vero, tuttavia nemmeno il ricorrente pone la questione nei suoi esatti termini giuridici.

Non si tratta infatti di affermare un insussistente beneficium excussionis in favore delle persone fisiche che, agendo quali rappresentanti legali di persone giuridiche, siano autori di reati fiscali del cui profitto si implementi il patrimonio degli Enti rappresentati, quanto piuttosto, ai fini della rispettiva operatività, di distinguere le due tipologie di sequestro preventivo previste dagli artt. 321 c.p.p., comma 2 bis, in riferimento all’art. 322 ter c.p., commi 1 e 2, ossia, a detti fini, di distinguere tra sequestro preventivo “diretto” del profitto del reato fiscale e sequestro preventivo “per equivalente”.

In questo senso ha fatto definitiva chiarezza la sentenza delle S.U. penali di questa Corte n. 10561 del 30/01/2014, Gubert, sia in termini generali sia, per ciò che appunto rileva nel caso in oggetto, relativamente alla corretta consecuzione giuridico- procedimentale tra le due tipologie di sequestro finalizzato alla confisca.

Tale arresto nomofilattico in particolare (punto 2.10 del Considerato in diritto) ha statuito che “È consentito nei confronti di una persona giuridica il sequestro preventivo finalizzato alla confisca di denaro o di altri beni fungibili o di beni direttamente riconducibili al profitto di reato tributario commesso dagli organi della persona giuridica stessa, quando tale profitto (o beni direttamente riconducibili al profitto) sia nella disponibilità di tale persona giuridica”.

“Non è consentito il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente nei confronti di una persona giuridica qualora non sia stato reperito il profitto di reato tributario compiuto dagli organi della persona giuridica stessa, salvo che la persona giuridica sia uno schermo fittizio”.

“Non è consentito il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente nei confronti degli organi della persona giuridica per reati tributari da costoro commessi, quando sia possibile il sequestro finalizzato alla confisca di denaro o di altri beni fungibili o di beni direttamente riconducibili al profitto di reato tributario compiuto dagli organi della persona giuridica stessa in capo a costoro o a persona (compresa quella giuridica) non estranea al reato”.

“La impossibilità del sequestro del profitto di reato può essere anche solo transitoria, senza che sia necessaria la preventiva ricerca generalizzata dei beni costituenti il profitto di reato”.

Risulta dunque evidente che nel caso di specie tali principi di diritto siano stati violati, essendosi fatta applicazione erronea delle norme processuali e sostanziali evocate dal ricorrente. Il Tribunale di Foggia infatti, come detto richiamando un precedente nemmeno effettivamente pertinente, non ha minimamente considerata la possibilità, pure concretamente prospettata dal ricorrente stesso, che la misura cautelare reale preventiva potesse e possa essere attuata “direttamente” sul patrimonio dell’Ente rappresentato, quale percettore/detentore del profitto del reato fiscale ossia della somma pari a quella non versata per l’Iva dovuta in relazione all’anno d’imposta 2011. Ma questa carenza motivazionale è chiara conseguenza delle violazioni di legge che sono state sopra rilevate.

  1. In conclusione l’ordinanza impugnata deve essere annullata con rinvio al Tribunale di Foggia affinché, considerati i principi di diritto enunciati, proceda a nuovo riesame della misura cautelare in oggetto. – Omissis.

Le registrazioni audio e video fatte col cellulare tra i presenti costituiscono prova documentale lecita e perfettamente utilizzabile nel processo

Registrazioni audio e video effettuate tra presenti, valore di prova nel processo (Corte di Cassazione III Sezione Penale Sentenza n. 5421/2017)

Testo della sentenza

Corte di Cassazione, sez. III Penale Sentenza 12 maggio 2016 – 3 febbraio 2017, n. 5241  Presidente Ramacci – Relatore Socci

Ritenuto in fatto  1. Il Tribunale di Perugia, sezione per il riesame, con ordinanza del 23 febbraio 2016, confermava l’ordinanza, del Giudice per le indagini preliminari di Perugia del 4 febbraio 2016, di applicazione nei confronti di T.S. , degli arresti domiciliari, per i reati di cui agli art. 319 quater cod. pen. (capo A) e 609 bis comma 2, n. 1 e 609 septies, comma 4, n. 3 e 4 cod. pen. (capo B),per aver indotto la prostituta P.A.A. ad avere rapporti sessuali, e abusando della sua inferiorità psichica per aver indotto indebitamente M.M. ad avere con lui in due circostanze rapporti sessuali; in (omissis) ; il T. era Brigadiere dei C.C. addetto alla stazione di (omissis) .

  1. Ricorre in Cassazione T.S. , tramite il suo difensore, deducendo i motivi di seguito enunciati, nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’art. 173, comma 1, disp. att., c.p.p..  2.1. Violazione di legge, art. 319 quater del cod. pen.; vizio di motivazione per manifesta illogicità, mancanza e contraddittorietà. T. a dire dell’ordinanza impugnata si sarebbe adoperato in favore della P. ove ci fossero stati problemi con i clienti della prostituta (prospettazione abusiva per l’induzione indebita). L’attività di controllo e di protezione, invece, è un’attività doverosa delle forze dell’ordine e il reato di cui all’art. 319 quater cod. pen. si verifica solo nelle ipotesi di prospettazione di disattendere i propri doveri con indebito vantaggio. La mera rappresentazione da parte del ricorrente di impiegare le sue prerogative di carabiniere a salvaguardia della P. non poteva essere inserita nel paradigma punitivo dell’art. 319 quater del cod. pen.. Manca inoltre un vantaggio indebito per la P. , in vista del quale ella avrebbe concesso i suoi favori sessuali. La maggiore tranquillità e sicurezza nell’esercizio dell’attività meretricio – costituiva una legittima pretesa della P. . Nessuna risorsa appetibile avrebbe costituito la condotta del ricorrente per la P. , e la stessa quindi non sarebbe stata minimamente condizionata dalla prospettazione di generica protezione e tranquillità. Non è spiegato nell’ordinanza impugnata come la condotta del ricorrente avesse espresso efficacia condizionante della condotta della P. . Dagli atti emerge la condizione di assoluta regolarità amministrativa della P. , regolarmente soggiornante in Italia.

2.2. Violazione di legge, art. 609 bis comma 2, n. 1 del cod. pen. sulla conoscenza da parte del ricorrente delle condizioni di inferiorità psichica della parte offesa. Vizio di motivazione. La conoscenza dello stato di inferiorità è il presupposto logico giuridico della norma. Lo stesso deve essere conosciuto e utilizzato dal soggetto per la realizzazione del delitto. L’ordinanza impugnata nella motivazione ritiene la conoscenza dello stato di minorazione psichica della vittima, con un ragionamento circolare, ovvero “conosceva perché non poteva ignorare”. Gli accertamenti medici sulla M. sono successivi ai fatti dell’imputazione (disfunzionalità emotive). Da immagini estratte da Facebook la M. non  appariva affatto gravata da disturbi relazionali.

2.3. Difetto assoluto di motivazione sul concreto ed attuale pericolo di recidivanza criminosa ex art. 274, lettera C del cod. proc. pen.. T. era già sospeso dal servizio e quindi nell’impossibilità di godere della funzione per commettere reati della stessa specie. La motivazione dell’ordinanza che afferma la mancata produzione della sospensione dal servizio è errata poiché normativamente (art. 915 del d. lgs. n. 66 del 2010 – codice dell’ordinamento militare-) la sospensione precauzionale dall’impiego è sempre disposta nei confronti del militare sottoposto a misure cautelari limitative della libertà personale. Ha chiesto quindi l’annullamento del provvedimento impugnato.

Considerato in diritto

  1. Il ricorso è infondato e deve respingersi con condanna del ricorrente alle spese del procedimento. Deve premettersi che le valutazioni compiute dal giudice ai fini dell’adozione di una misura cautelare personale devono essere fondate, secondo le linee direttive della Costituzione, con il massimo di prudenza su un incisivo giudizio prognostico di “elevata probabilità di colpevolezza”, tanto lontano da una sommaria delibazione e tanto prossimo a un giudizio di colpevolezza, sia pure presuntivo, poiché di tipo “statico” e condotto, allo stato degli atti, sui soli elementi già acquisiti dal pubblico ministero, e non su prove, ma su indizi (Corte Cost., sent. n. 121 del 2009, ord. n. 314 del 1996, sent. n. 131 del 1996, sent. n. 71 del 1996, sent. n. 432 del 1995). La specifica valutazione prevista in merito all’elevata valenza indiziante degli elementi a carico dell’accusato, che devono tradursi in un giudizio probabilistico di segno positivo in ordine alla sua colpevolezza, mira, infatti, a offrire maggiori garanzie per la libertà personale e a sottolineare l’eccezionalità delle misure restrittive della stessa. Il contenuto del giudizio da farsi da parte del giudice della cautela è evidenziato anche dagli adempimenti previsti per l’adozione dell’ordinanza cautelare. L’art. 292 c.p.p., come modificato dalla L. n. 332 del 1995, prevedendo per detta ordinanza uno schema di motivazione vicino a quello prescritto per la sentenza di merito dall’art. 546 c.p.p., comma 1, lett. e), impone, invero, al giudice della cautela sia di esporre gli indizi che giustificano in concreto la misura disposta, di indicare gli elementi di fatto da cui sono desunti e di giustificare l’esito positivo della valutazione compiuta sugli stessi elementi a carico, sia di esporre le ragioni per le quali ritiene non rilevanti i dati conoscitivi forniti dalla difesa, e comunque a favore dell’accusato (comma 2, lett. c) e c bis).

3.1. Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, in tema di misure cautelari personali, per gravi indizi di colpevolezza devono intendersi tutti quegli elementi a carico, di natura logica o rappresentativa, che – contenendo in nuce tutti o soltanto alcuni degli elementi strutturali della corrispondente prova – non valgono di per sé a dimostrare, oltre ogni dubbio, la responsabilità dell’indagato e tuttavia consentono, per la loro consistenza, di prevedere che, attraverso la futura acquisizione di ulteriori elementi, saranno idonei a dimostrare tale responsabilità, fondando nel frattempo una qualificata probabilità di colpevolezza (Sez. U, n. 11 del 21/04/1995, dep. 01/08/1995, Costantino e altro, Rv. 202002, e, tra le successive conformi, Sez. 2, n. 3777 del 10/09/1995, dep. 22/11/1995, Tomasello, Rv. 203118; Sez. 6, n. 863 del 10/03/1999, dep. 15/04/1999, Capriati e altro, Rv. 212998; Sez. 6, n. 2641 del 07/06/2000, dep. 03/07/2000, Dascola, Rv. 217541; Sez. 2, n. 5043 del 15/01/2004, dep. 09/02/2004, Acanfora, Rv. 227511). A norma dell’art. 273 c.p.p., comma 1 bis, nella valutazione dei gravi indizi di colpevolezza per l’adozione di una misura cautelare personale si applicano, tra le altre, le disposizioni contenute nell’art. 192 c.p.p., commi 3 e 4, (Sez. F, n. 31992 del 28/08/2002, dep. 26/09/2002, Desogus, Rv. 222377; Sez. 1, n. 29403 del 24/04/2003, dep. 11/07/2003, Esposito, Rv. 226191; Sez. 6, n. 36767 del 04/06/2003, dep. 25/09/2003, Grasso Rv. 226799; Sez. 6, n. 45441 del 07/10/2004, dep. 24/11/2004, Fanara, Rv. 230755; Sez. 1, n. 19867 del 04/05/2005, dep. 25/05/2005, Cricchio, Rv. 232601). Si è, al riguardo, affermato che, se la qualifica di gravità che deve caratterizzare gli indizi di colpevolezza attiene al quantum di “prova” idoneo a integrare la condizione minima per l’esercizio, sulla base di un giudizio prognostico di responsabilità, del potere cautelare, e si riferisce al grado di conferma, allo stato degli atti, dell’ipotesi accusatoria, è problema diverso quello delle regole da seguire, in sede di apprezzamento della gravità indiziaria ex art. 273 c.p.p., per la valutazione dei dati conoscitivi e, in particolare, della chiamata di correo (Sez. U, n. 36267 del 30/05/2006, dep. 31/10/2006, P.G. in proc. Spennato, Rv. 234598). Relativamente alle regole da seguire, questo Collegio ritiene che, alla stregua del condivisibile orientamento espresso da questa Corte, l’art. 273 c.p.p., comma 1 bis, nel delineare i confini del libero convincimento del giudice cautelare con il richiamo alle regole di valutazione di cui all’art. 192 c.p.p., commi 3 e 4, pone un espresso limite legale alla valutazione dei “gravi indizi”.

3.1. Si è, inoltre, osservato che, in tema di misure cautelari personali, quando sia denunciato, con ricorso per Cassazione, vizio di motivazione del provvedimento emesso dal Tribunale del riesame riguardo alla consistenza dei gravi indizi di colpevolezza, il controllo di legittimità è limitato, in relazione alla peculiare natura del giudizio e ai limiti che ad esso ineriscono, all’esame del contenuto dell’atto impugnato e alla verifica dell’adeguatezza e della congruenza del tessuto argomentativo riguardante la valutazione degli elementi indizianti rispetto ai canoni della logica e ai principi di diritto che governano l’apprezzamento delle risultanze probatorie (tra le altre, Sez. 4, n. 2050 del 17/08/1996, dep. 24/10/1996, Marseglia, Rv. 206104; Sez. 6, n. 3529 del 12/11/1998, dep. 01/02/1999, Sabatini G., Rv. 212565; Sez. U, n. 11 del 22/03/2000, dep. 02/05/2000, Audino, Rv. 215828; Sez. 2, n. 9532 del 22/01/2002, dep. 08/03/2002, Borragine e altri, Rv. 221001; Sez. 4, n. 22500 del 03/05/2007, dep. 08/06/2007, Terranova, Rv. 237012), senza che possa integrare vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa e, per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze delle indagini (tra le altre, Sez. U, n. 19 del 25/10/1994, dep. 12/12/1994, De Lorenzo, Rv. 199391; Sez. 1, n. 1496 del 11/03/1998, dep. 04/07/1998, Marrazzo, Rv. 211027; Sez. 1, n. 6972 del 07/12/1999, dep. 08/02/2000, Alberti, Rv. 215331). Il detto limite del sindacato di legittimità in ordine alla gravità degli indizi riguarda anche il quadro delle esigenze cautelari, essendo compito primario ed esclusivo del giudice della cautela valutare “in concreto” la sussistenza delle stesse e rendere un’adeguata e logica motivazione (Sez. 1, n. 1083 del 20/02/1998, dep. 14/03/1998, Martorana, Rv. 210019). Peraltro, secondo l’orientamento di questa Corte, che il Collegio condivide, in tema di misure cautelari, “l’ordinanza del tribunale del riesame che conferma il provvedimento impositivo recepisce, in tutto o in parte, il contenuto di tale provvedimento, di tal che l’ordinanza cautelare e il provvedimento confermativo di essa si integrano reciprocamente, con la conseguenza che eventuali carenze motivazionali di un provvedimento possono essere sanate con le argomentazioni addotte a sostegno dell’altro” (Sez. 2, n. 774 del 28/11/2007, dep. 09/01/2008, Beato, Rv. 238903; Sez. 6, n. 3678 del 17/11/1998, dep. 15/12/1998, Panebianco R., Rv. 212685; Sez. 3, n. 8669 del 15/12/2015 – dep. 03/03/2016, Berlingeri, Rv. 266765).

3.2. Dall’analisi della motivazione dei due provvedimenti (quello impugnato del tribunale e quello del Giudice delle indagini preliminari) non si rinvengono carenze motivazionali e la tesi prospettata dal ricorrente (carenza di gravi indizi di colpevolezza ex art. 273 del cod. proc. pen.) non trova elementi certi negli atti, e né gli stessi, del resto, sono indicati nell’atto di impugnazione, e quindi sono solo ipotesi teoriche, non valutabili in sede di legittimità. Gli elementi indicati dai due provvedimenti, sono gravi, univoci e convergenti nell’indicare il ricorrente autore dei fatti, e di altri fatti anche più gravi ancora in accertamento, descritti nell’imputazione.

  1. L’ordinanza impugnata evidenzia con motivazione adeguata, non contraddittoria e senza manifeste illogicità che il ricorrente aveva anche filmato integralmente gli incontri sessuali con le donne (oltre a quelle di cui all’imputazione anche per altre donne), e dalla visione del filmato e dal contenuto del colloquio emergevano in maniera inconfutabile (documentati dallo stesso indagato con i video) i gravi indizi dei reati in contestazione. Per il capo A, art. 319 quater cod. pen. il Tribunale analizza tutto il colloquio con la prostituta e nello stesso la P. stessa usava esplicitamente il termine “abuso”, di fronte alle richieste di prestazioni sessuali senza il pagamento, e senza protezione, che la P. invece pretendeva (sia il pagamento e sia la protezione). La stessa del resto non si era recata in caserma per offrire i suoi favori sessuali, ma per denunciare una vicenda di persecuzione. Il Tribunale poi correttamente qualifica la condotta come induzione indebita, art. 319 quater cod. pen., come chiarito da questa Corte di Cassazione: “Il delitto di concussione, di cui all’art. 317 cod. pen. nel testo modificato dalla l. n. 190 del 2012, è caratterizzato, dal punto di vista oggettivo, da un abuso costrittivo del pubblico agente che si attua mediante violenza o minaccia, esplicita o implicita, di un danno “contra ius” da cui deriva una grave limitazione della libertà di determinazione del destinatario che, senza alcun vantaggio indebito per sé, viene posto di fronte all’alternativa di subire un danno o di evitarlo con la dazione o la promessa di una utilità indebita e si distingue dal delitto di induzione indebita, previsto dall’art. 319 quater cod. pen. introdotto dalla medesima l. n. 190, la cui condotta si configura come persuasione, suggestione, inganno (sempre che quest’ultimo non si risolva in un’induzione in errore), di pressione morale con più tenue valore condizionante della libertà di autodeterminazione del destinatario il quale, disponendo di più ampi margini decisionali, finisce col prestare acquiescenza alla richiesta della prestazione non dovuta, perché motivata dalla prospettiva di conseguire un tornaconto personale, che giustifica la previsione di una sanzione a suo carico. (In motivazione, la Corte ha precisato che, nei casi ambigui, l’indicato criterio distintivo del danno antigiuridico e del vantaggio indebito va utilizzato, all’esito di un’approfondita ed equilibrata valutazione del fatto, cogliendo di quest’ultimo i dati più qualificanti idonei a contraddistinguere la vicenda concreta)”. (Sez. U, n. 12228 del 24/10/2013 – dep. 14/03/2014, Maldera e altri, Rv. 258470). I vantaggi della prostituta sono correttamente individuati dal Tribunale “…sia in relazione ai controlli che ella avrebbe potuto subire ad opera dei militari dell’Arma, sia in relazione ai pericoli che sarebbero potuti provenire da clienti molesti e pericolosi”. Inoltre in altro video il ricorrente ottiene prestazioni sessuali da una sudamericana che doveva eleggere domicilio per un procedimento a suo carico per furto (rapporto orale).
  2. Per il capo B, art. 609 bis, comma 2, n. 1, e 609 septies, comma 4, n. 3 e 4 del cod. pen., il Tribunale con motivazione adeguata, non contraddittoria e non manifestamente illogica, anche qui con la visione del filmato realizzato dallo stesso indagato, ritiene che “… era impossibile per un uomo adulto non comprendere che la M. era una donna estremamente debole e suggestionabile”; inoltre la M. e l’indagato si conoscevano da molto perché collaboravano ad una manifestazione, “festa dei giochi delle porte”. La stessa poi sentita riferiva di essere stata “esplicitamente minacciata dal Brigadiere che le ricordava che lui era il Maresciallo capo e che avrebbe potuto farle avere dei problemi con la legge ed anche con i suoi genitori”. Il collegio infatti ritiene configurabile il delitto di cui all’art. 609 bis, comma 1, cod. pen. ma si rimette al P.M. per le sue determinazioni nell’esercizio dell’azione penale.
  3. Alcune considerazioni devono necessariamente svolgersi sull’uso delle registrazioni video e sonore nei casi di violenza sessuale. Nel nostro caso le stesse sono state effettuate dall’indagato, ma possono ben essere realizzate dalla stessa vittima di violenze. Le registrazioni, video e/o sonore, tra presenti, o anche di una conversazione telefonica, effettuata da uno dei partecipi al colloquio, o da persona autorizzata ad assistervi – che non commette il reato di cui agli art. 617 e 623 cod. pen., perché autorizzato, Sez. 6, n. 15003 del 27/02/2013 – dep. 02/04/2013, P.C. in proc. B, Rv. 256235 -, costituisce prova documentale valida e particolarmente attendibile, perché cristallizza in via definitiva ed oggettiva un fatto storico – il colloquio tra presenti (e tutto l’incontro, se con video) o la telefonata -; la persona che registra (o, come nel nostro caso, che viene filmata dallo stesso autore del fatto) infatti è pienamente legittimata a rendere testimonianza, e quindi la documentazione del colloquio esclude qualsiasi contestazione sul contenuto dello stesso, anche se la registrazione fosse avvenuta su consiglio o su incarico della Polizia Giudiziaria (Sez. U, n. 36747 del 28/05/2003 – dep. 24/09/2003, Torcasio e altro, Rv. 225466; Sez. 6, n. 12189 del 09/02/2005 – dep. 29/03/2005, Rosi, Rv. 231049; Sez. 5, n. 4287 del 29/09/2015 – dep. 02/02/2016, Pepi, Rv. 265624; Sez. 6, n. 16986 del 24/02/2009 – dep. 22/04/2009, Abis, Rv. 243256; Sez. 2, n. 24288 del 10 giugno 2016). Nel caso di specie non solo la vittima – La M. , sentita – è attendibile quando riferisce delle minacce, ma esiste la registrazione video del rapporto, con la M. , e anche con l’altra vittima, provvidamente effettuati dallo stesso indagato. Nel particolare caso di violenza sessuale in giudizio, le video registrazioni risultano particolarmente valide, per la ricostruzione oggettiva delle violenze. Le moderne tecniche di registrazione, alla portata di tutti, per l’uso massiccio dei telefonini smart, che hanno sempre incorporati registratori vocali e video, e l’uso di app dedicate per la registrazione di chiamate e di suoni, consentono una documentazione inconfutabile ed oggettiva del contenuto di colloqui e/o di telefonate, tra il violentatore e la vittima. La ripresa video copre a 360 gradi tutto il fatto. Nel nostro caso, come sopra visto, la registrazione è stata effettuata dallo stesso ricorrente, ma la stessa potrebbe avvenire legittimamente anche da parte della vittima. Infatti le registrazioni di conversazioni – e di video – tra presenti, compiute di propria iniziativa da uno degli interlocutori, non necessitano dell’autorizzazione del giudice per le indagini preliminari, ai sensi dell’art. 267 del cod. proc. pen. in quanto non rientrano nel concetto di intercettazione in senso tecnico, ma si risolvono, come sopra visto, in una particolare forma di documentazione, non sottoposta ai limiti ed alle formalità delle intercettazioni. Infine va ricordata l’interpretazione della Suprema Corte di Cassazione, consolidata in materia, diritto vivente. Cassazione, Sez. 6, n. 49511 del 01/12/2009 – dep. 23/12/2009, Ticchiati, Rv. 245774, che ha ritenuto: “infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 266, comma secondo, 268, comma terzo e 271, comma primo, cod. proc. pen., per violazione degli artt. 2, 13, 15, comma secondo, 13 e 24, Cost., nella parte in cui non prevedono l’estensione dei limiti di applicabilità della normativa codicistica in materia di intercettazioni telefoniche e ambientali anche alle intercettazioni di conversazioni tra presenti o al telefono svolte non solo da un estraneo, ma anche da uno degli interlocutori della conversazione medesima, trattandosi di situazioni del tutto diverse fra loro e non potendosi in alcun modo equiparare la registrazione effettuata, sia pure occultamente, da uno dei protagonisti della conversazione, all’ingerenza esterna sulla vita privata costituita dall’intercettazione svolta per opera di un terzo”).
  4. Relativamente al pericolo di recidivanza criminosa, terzo motivo del ricorso, si deve osservare che il provvedimento impugnato contiene adeguata e non contraddittoria motivazione, senza vizi di manifesta illogicità, e individua il pericolo di reiterazione dei gravi reati non solo quale appartenente ai carabinieri, ma anche “allorché agisce al di fuori di tale contesto, come nella vicenda della M. e della minore Ma. … anche se non rivestisse più la formale qualifica di Brigadiere dei Carabinieri”. Pertanto ininfluente è la sospensione dal servizio del ricorrente.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati significativi, a norma dell’art. 52 del d. lgs 196/03 in quanto imposto dalla legge.

 

UNIECO in Liquidazione coatta amministrativa, istruzioni per l’uso

 Liquidazione coatta amministrativa, formazione dello stato passivo – Domande di ammissione al passivo, rivendicazione, restituzione e separazione, termini       

(segue) ………………..a particolari tipologie di imprese  (per l’interesse pubblico della loro natura o dell’attività che esercitano) quali a mero titolo esemplificativo: le banche, le assicurazioni, le società di intermediazione finanziaria (ecc.), le società fiduciarie e di revisione (art.1, 2 d.l. 233/1986) gli enti pubblici, gli imprese sociali, gli istituti autonomi di case popolari,  le società cooperative ecc…

Si tratta di una procedura concorsuale finalizzata alla liquidazione dei beni – per il soddisfacimento delle ragioni creditorie prima di determinare l’estinzione dell’impresa – mediante la quale la pubblica amministrazione interviene direttamente nella gestione della crisi d’impresa

Fatta questa breve premessa di carattere generale alla quale faranno seguito poi altri capitoli per consentire un’inquadratura di carattere  generale, gioverà intercalare la trattazione con il richiamo di pronunce giurisprudenziali che hanno affrontato aspetti controversi della disciplina giuridica in materia di LCA.

Sembra utile, in chiave pragmatica, prendere spunto da pronunce che contribuiscono a fare chiarezza in punto a ammissione al passivo dei crediti e a rivendicazione, restituzione e separazione su cose mobili possedute dall’impresa.

Tra le sentenze di legittimità  va menzionata una pronuncia non recentissima, ma pur sempre attuale, che ha il merito di avere risolto un dubbio che può assalire chi si  accinge ad affrontare gli adempimenti   riguardanti  la presentazione delle domande di ammissione al passivo. Pare utile puntualizzare che secondo il disposto dell’art. 207 Legge Fall. Entro quindici giorni dal ricevimento della comunicazione i creditori e le altre persone indicate dal comma precedente possono far pervenire al commissario mediante posta elettronica certificata le loro osservazioni o istanze”.

Il termine di 15 gg. previsto dalla norma potrebbe legittimare qualche legittima preoccupazione per i non addetti ai lavori o a chi si dovesse cimentare nel reperimento dei documenti da allegare alla domanda (che, come avremo modo di osservare, non è una semplice formalità e non va sottovalutata). Ebbene, può considerarsi principio ormai acquisito che detto termine (decorrente dal ricevimento della comunicazione mediante la quale il Commissario comunica le somme risultanti a credito di ciascuno secondo le scritture contabili e i documenti dell’impresa) non è perentorio.

Secondo la Corte di Cassazione, infatti: “Nella procedura di liquidazione coatta amministrativa, l’inosservanza dei termini previsti dagli artt. 207 e 208 della legge fall. Non comporta l’improponibilità delle domande di ammissione al passivo e di rivendicazione, restituzione e separazione di beni mobili, verificandosi la relativa preclusione esclusivamente a seguito del deposito in cancelleria dell’elenco dei creditori, il quale determina il passaggio dalla fase preliminare di accertamento del passivo, che si svolge davanti al commissario liquidatore ed ha natura amministrativa, alla seconda fase eventuale, avente carattere giurisdizionale, nel cui ambito trovano collocazione le opposizioni e le impugnazioni, nonché le insinuazioni tardive.” (Cassazione civile, sez. I, 12/02/2008,  n. 3380).

Testo della sentenza

  LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE                                           SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:                           Dott. PROTO     Vincenzo                         –  Presidente   –  Dott. PLENTEDA   Donato                           –  Consigliere  –  Dott. RORDORF   Renato                           –  Consigliere  –  Dott. CECCHERINI Aldo                             –  Consigliere  –  Dott. PANZANI   Luciano                     –  rel. Consigliere  –  ha pronunciato la seguente:                                                             sentenza                                        sul ricorso proposto da:                                             COMPAGNIA TIRRENA  DI  ASSICURAZIONI S.P.A. in  liquidazione  coatta amministrativa, in persona del commissario liquidatore                                                        – ricorrente – contro                                                               CASSA DI  PREVIDENZA AGENTI del Gruppo Tirrena in  liquidazione,  in persona del  liquidatore  Dott.               F.S avverso la  sentenza della Corte d’appello di  Roma  n.  799/05  del 21.2.2005;

Fatto SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Cassa di Previdenza Agenti del Gruppo Tirrena proponeva opposizione allo stato passivo della Compagnia Tirrena s.p.a. in liquidazione coatta amministrativa chiedendo l’immediata restituzione di tutte le somme dei conti individuali che componevano il patrimonio della Cassa di Previdenza stessa, per l’importo di L. 13.279.305.000, oltre a L. 450.433.000. In suberdine domandava la restituzione almeno del 70% degli importi ora detti. Domandava inoltre gli interessi e la rivalutazione monetaria sulle somme in parola a far tempo dal 1.1.1992. In ulteriore subordine la Cassa chiedeva l’ammissione al passivo della liquidazione coatta in via privilegiata dei crediti relativi alle somme ora dette, ai sensi degli artt. 2753 – 2754 c.c., e/o art. 2751 bis c.c., n. 3, oltre interessi e rivalutazione.

Osservava in sintesi la Cassa che sino al 31.12.1991 essa aveva investito le attività rappresentate dai conti individuali degli agenti ad essa iscritti mediante deposito in conti correnti fruttiferi aperti presso la Compagnia Tirrena; che tale forma di investimento era cessata nel 1992 quando la compagnia era stata sottoposta ad amministrazione straordinaria; che essa aveva invano domandato la restituzione delle somme versate e che neppure la richiesta di conversione del 70% delle somme investite in titoli azionari della compagnia era stata accolta; che dal 1.1.1992 la Compagnia aveva anche cessato di versare alla Cassa la quota di contribuzione a proprio carico, quota che al 31.5.1993 ammontava a L. 450.433.000; che tale ultimo importo non era stato neppure inserito nello stato passivo della procedura di liquidazione coatta.

Ad avviso della Cassa il commissario liquidatore aveva illegittimamente ammesso le somme dovute al passivo della procedura di liquidazione coatta, anzichè provvedere alla loro restituzione, trattandosi di patrimonio distinto da quello della compagnia assoggettata a procedura concorsuale. E l’ammissione era avvenuta in via chirografaria, senza riconoscimento del privilegio invece dovuto.

Costituendosi in giudizio la liquidazione coatta eccepiva l’inammissibilità della domanda di rivendicazione trattandosi di credito relativo ad una somma di denaro confusasi nel patrimonio della compagnia e la decadenza della Cassa dall’azione di rivendicazione L. Fall., ex art. 207. Eccepiva ancora la non spettanza del privilegio.

Il Tribunale di Roma accoglieva l’opposizione, condannando la liquidazione coatta all’immediato pagamento della somma di L. 13.279.305.000, pari ad Euro 6.858,190,00, oltre agli interessi legali dal 1.1.1992 sino al soddisfo, somma da imputarsi sulle immediate disponibilità attive della gestione liquidatoria con priorità anche rispetto ai crediti di cui alla L. Fall., art. 116, ed occorrendo anche previa revocazione dei pagamenti già effettuati fino a concorrenza della somma dovuta. Il Tribunale ammetteva inoltre la Cassa al passivo della procedura di liquidazione coatta in privilegio ex art. 2751 bis c.c., n. 3, per L. 450.433.000, pari ad Euro 232.630,00.

La Corte d’appello di Roma con sentenza 21.2.2005, n. 799, rigettava l’appello principale della liquidazione coatta.

Osservava che questa Corte con la sentenza 10131/97 aveva affermato la rivendicabilità di somme di denaro nel caso di deposito in cui le cose fungibili depositate – tra cui anche il denaro – non fossero state individuate al momento della consegna, qualora il rivendicante fosse in grado di dimostrare che si era determinata una situazione idonea ad escludere che i beni rivendicati si fossero confusi nel patrimonio del fallito, nella specie della liquidazione coatta amministrativa.

Nel caso in esame dalla prova testimoniale era risultato che la Compagnia Tirrena accantonava le quote di contributo dovute alla Cassa, maggiorate degli interessi maturati di anno in anno, contabilizzandole separatamente, si che quella liquidità era altro rispetto al patrimonio della Compagnia. Tale situazione era ancor più netta a far tempo dal 31.12.1991, quando era venuto meno il riconoscimento degli interessi sulle somme versate dagli agenti. La giacenza delle somme presso la Compagnia non rappresentava un investimento attuato dalla Cassa, ma era conseguenza della funzione di supporto amministrativo-contabile svolto dall’impresa di assicurazioni in favore della Cassa ai sensi dell’art. 19 della Convenzione Nazionale delle Casse di Previdenza Agenti del 1953, resa efficace erga omnes in virtù del D.P.R. 18 marzo 1961, n. 387, in forza della L. n. 741 del 1959.

Se era vero che un teste aveva dichiarato che i fondi della Cassa erano finanza di cui la compagnia si serviva, non vi era prova che da ciò fosse derivata confusione delle somme nel patrimonio dell’impresa assicurativa e non risultava che ciò fosse avvenuto dopo il 31.12.1991. In ogni caso, ai sensi degli artt. 15 e 16 della Convenzione, la Compagnia doveva mettere le somme nell’immediata disponibilità della Cassa quando si verificassero gli eventi previsti dagli artt. 15 e 16 della Convenzione stessa (trasferimento dell’agente ad altra Cassa o definitiva cessazione dell’attività agenziale). Lo stesso teste aveva dichiarato che in bilancio la posta relativa alle somme di pertinenza della Cassa era perfettamente individuabile.

Le somme in questione pertanto, pur essendo presso la Compagnia, non erano nella sua disponibilità ed erano sempre ben determinabili nel loro ammontare.

La Corte d’appello riteneva inoltre che sulle somme in linea capitale fossero dovuti gli interessi non potendo trovare applicazione la L. Fall., art. 55, trattandosi di credito che non concorreva alla formazione del passivo concorsuale. Per questo stesso motivo il credito non soggiaceva al divieto di azioni ordinarie di condanna ed esecutive nei confronti della procedura.

Infine la Corte d’appello affermava che non vi era stata decadenza della Cassa dall’azione di rivendicazione delle somme, che non era stata chiesta per la prima volta, come sostenuto dall’appellante, con l’opposizione a stato passivo e quindi con un’inammissibile mutatio libelli. Il commissario liquidatore nella scheda allegata alla comunicazione di rigetto della domanda, aveva dato atto di ciò.

I contributi relativi al periodo dal 31.12.1991 al 30.5.1993 andavano ammessi al passivo in via privilegiata ex art. 2751 bis c.c., n. 3, trattandosi di quote di contribuzione dovute dal datore di lavoro, consistenti in quote di retribuzione dovute agli agenti, aventi finalità previdenziale e costituenti salario differito. Tali contributi rappresentavano una forma di trattamento di fine rapporto e quindi un’indennità dovuta per la cessazione del rapporto di lavoro, come previsto dalla norma citata.

Avverso la sentenza ricorre per cassazione la Compagnia Tirrena Assicurazioni in liquidazione coatta amministrativa articolando cinque motivi. Resiste con controricorso la Cassa di previdenza, che ha anche proposto ricorso incidentale condizionato con unico motivo.

La Compagnia ha replicato con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memorie.

Diritto MOTIVI DELLA DECISIONE

  1. Con il primo motivo del ricorso principale la Compagnia Tirrena Assicurazioni in liquidazione coatta deduce violazione degli artt. 1362, 1363 c.c. e segg., artt. 1762, 1782, 1813, 1834, 2741 c.c., degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonchè della L. Fall., artt. 103, 207, 208, 209, difetto e contraddittorietà di motivazione.

Il richiamo alla sentenza 10131/97 di questa Corte sarebbe errato, perchè tale pronuncia avrebbe ammesso la rivendica di cose fungibili individuate soltanto nel genere, ove risultasse che il depositario non ne poteva disporre e che esse erano rimaste separate dal suo patrimonio, ma non avrebbe esteso tale principio al denaro.

Nel ritenere che le somme versate dalla Cassa fossero separate dal patrimonio della Compagnia la Corte Territoriale avrebbe mal motivato, non considerando che la pretesa separazione non era altro che la mera indicazione di una posta debitoria nel bilancio della società assicuratrice, senza che ad essa corrispondesse una specifica modalità di gestione idonea ad escludere la confusione. La Corte d’appello nel richiamare la deposizione del teste D., aveva riportato il passo della deposizione in cui questi dava atto che la Compagnia anche dal punto di vista contabile non distingueva tra i singoli conti intestati agli agenti. La mera indicazione della somma complessiva non era altro che l’indicazione del debito nei confronti della Cassa. Negli stessi termini si erano espressi i testi D’. e F..

Ancora la Corte territoriale avrebbe mal motivato nel ritenere che la Compagnia avesse il divieto di utilizzare le somme investite dalla Cassa, perchè non avrebbe accertato l’esistenza di un divieto legale o contrattuale in capo alla compagnia all’utilizzo delle somme ed anzi la stessa Corte d’appello aveva riconosciuto che la Tirrena Assicurazioni aveva utilizzato le somme in parola, come risultava evidente anche dal fatto che essa riconosceva un interesse alla Cassa sulle stesse.

Osserva inoltre la ricorrente principale che la Corte d’appello avrebbe travisato la natura dell’operazione posta in essere dalla Cassa, che non aveva ad oggetto, come ritenuto, le quote di contributo che la Compagnia era tenuta a versare alla Cassa in misura pari ad una percentuale delle provvigioni spettanti agli agenti, ma le somme che la Cassa investiva presso la Compagnia, come aveva dichiarato il teste D..

Le somme depositate presso la Compagnia erano vincolate e la Cassa non ne aveva la disponibilità, come risulterebbe sia dalla deposizione della teste F. sia dal verbale 23.4.1983 del Comitato Amministratore della Cassa degli Agenti e dal successivo verbale del 5.5.1984.

La Corte d’appello avrebbe errato nell’argomentare la disponibilità delle somme da parte della Cassa con riferimento alle somme dovute agli agenti ai sensi degli artt. 15 e 16 della Convenzione, perchè il vincolo riguardava le somme che non dovevano essere smobilitate a seguito del trasferimento degli agenti ad altra Cassa o della definitiva cessazione del rapporto di agenzia, somme il cui ammontare poteva essere facilmente calcolato con i metodi attuariali.

Nell’argomentare la disponibilità delle somme da parte della Cassa dall’art. 19 della Convenzione che attribuiva alla Compagnia il servizio amministrativo della gestione, oltre a porre a fondamento dei rapporti tra le parti un titolo giuridico non invocato dalle stesse, la Corte avrebbe errato, perchè la norma individuerebbe soltanto il soggetto tenuto al servizio amministrativo per la gestione, senza nulla dire in ordine al titolo in virtù del quale avviene la gestione stessa.

Scaduta l’ultima convenzione, dopo il 31 dicembre 1991 la Compagnia aveva continuato a detenere le somme non in virtù degli obblighi derivanti dal servizio amministrativo, ma perchè non era in grado di adempiere all’obbligazione di restituzione delle somme, come riferito dal teste D’..

  1. Con il secondo motivo la ricorrente liquidazione coatta deduce violazione dell’art. 2697 c.c., L. Fall., artt. 55, 103, 207, 208, 209, nonchè difetto e contraddittorietà della motivazione.

La Cassa non avrebbe mai rivendicato gli importi richiesti, se non in sede di opposizione a stato passivo e ciò risulterebbe dalla scheda del commissario liquidatore, da cui risulta che l’ammissione al passivo era stata disposta come da domanda.

La rivendica costituirebbe una mutatio libelli non consentita. La Corte non avrebbe considerato che a pag. 22 della comparsa di costituzione in appello la Cassa aveva dato atto di aver richiesto per la prima volta al commissario liquidatore la restituzione delle somme soltanto dopo il 14.2.1995 e quindi 21 mesi dopo l’apertura della liquidazione, con conseguente decadenza L. Fall., ex artt. 207 e 208.

Nel ritenere sufficiente il dato che la rivendicazione risultava dalla scheda del commissario liquidatore, la Corte romana non avrebbe considerato che la rivendica era comunque intervenuta oltre il termine di 15 giorni previsto dalla L. Fall., art. 207. Ed in difetto di comunicazione da parte del commissario, la domanda doveva essere proposta, ai sensi dell’art. 208, entro 60 giorni dalla pubblicazione sulla G.U. del provvedimento di liquidazione.

Era onere della Cassa provare il rispetto di uno dei due termini.

3 – Con il terzo motivo, la ricorrente principale deduce, in via subordinata violazione della L. Fall., artt. 103, 207 e 209 e del D.L. 30 gennaio 1979, n. 26, convertito in L. n. 95 del 1979, nonchè difetto di motivazione.

La condanna pronunciata dalla Corte d’appello alla restituzione delle somme violerebbe il divieto, sancito dalle norme testè citate, di pronunciare condanna al pagamento di somme di denaro nei confronti di una procedura concorsuale, massime nel procedimento di opposizione a stato passivo, ostandovi il divieto di formazione di titoli di esecuzione individuale.

Nell’invocare una pronuncia di questa Corte (Cass. 2362/97) che aveva ammesso tale azione nei confronti di una procedura di amministrazione straordinaria per crediti di lavoro prededucibili contratti dagli organi della procedura e sorti dopo la dichiarazione dello stato d’insolvenza, la Corte territoriale non avrebbe considerato che la fattispecie in esame era completamente diversa e che la giurisprudenza maggioritaria di Cassazione era in senso contrario, non essendo comunque concepibile un’esecuzione nei confronti di una procedura di esecuzione collettiva.

  1. Con il quarto motivo del ricorso principale la ricorrente liquidazione coatta deduce violazione dell’art. 1224 c.c. L. Fall., artt. 55, 103, 203, L. n. 95 del 1979, art. 1, u.c., nonchè difetto di motivazione.

Nel riconoscere gli interessi sulle somme rivendicate la Corte d’appello non avrebbe considerato che gli interessi erano sospesi ai sensi della L. Fall., art. 55, e della L. n. 95 del 1979, art. 1, dal giorno di apertura della procedura di amministrazione straordinaria e comunque dall’assoggettamento a liquidazione coatta.

Nel ritenere che gli interessi fossero dovuti perchè si trattava di somme sottratte al concorso dei creditori, la Corte territoriale non avrebbe considerato che la res da restituire era pur sempre una somma di denaro e che quindi l’esigenza di tutela dei creditori comportava la sospensione del corso degli interessi. Per l’ipotesi di diversa interpretazione, la ricorrente solleva questione di legittimità costituzionale della L. Fall., art. 55, nella parte in cui non prevede la sospensione del decorso degli interessi quando sia questione di restituzione di somme rivendicate, per disparità di trattamento con le ulteriori fattispecie disciplinate.

  1. Con il quinto motivo la ricorrente principale deduce violazione degli artt. 1362, 1363 c.c., art. 2751 bis c.c., n. 3, nonchè difetto di motivazione.

Nel riconoscere il privilegio sul credito relativo alla somma di Euro 232.630 relativa alla contribuzione omessa nel periodo dal 31.12.1991 al 27.5.1993 la Corte d’appello non avrebbe considerato che le prestazioni erogate dalla Cassa degli agenti e quindi le contribuzioni ad essa dovute sono diverse dalle indennità di fine rapporto cui è accordato il privilegio, posto che vengono riconosciute soltanto al termine della carriera lavorativa dell’agente e non già ad ogni cessazione del rapporto di agenzia. Si trattava inoltre di omessa contribuzione alla Cassa e non di indennità di fine rapporto. La norma di cui all’art. 2751 bis c.c., n. 3, è norma eccezionale, che non può essere oggetto di interpretazione estensiva al di là dei casi espressamente considerati.

  1. Con l’unico motivo del ricorso incidentale condizionato la Cassa di Previdenza deduce che, se non rivendicabile come patrimonio separato, il credito della Cassa stessa dovrebbe essere ammesso al passivo della liquidazione coatta in via privilegiata ai sensi dell’art. 2751 bis c.c., n. 3, e, in subordine, ai sensi degli artt. 2753 e 2754 c.c.. Formula pertanto domanda in tal senso.
  2. Va disposta la riunione dei ricorsi ai sensi dell’art. 335 c.p.c..

E’ preliminare l’esame del secondo motivo del ricorso principale, con cui la ricorrente ha dedotto l’inammissibilità della domanda di rivendica perchè tardiva, in quanto proposta per la prima volta in sede di opposizione a stato passivo con inammissibile mutatio libelli rispetto all’originaria domanda di insinuazione al passivo del credito poi oggetto di rivendica.

In proposito la Corte d’appello ha osservato che la domanda era già stata proposta al commissario liquidatore prima che questi formasse lo stato passivo della liquidazione coatta il 22.1.2001. Ha desunto tale circostanza da un passaggio della motivazione dell’ammissione del credito al passivo in via chirografaria contenuto nella scheda redatta dal commissario liquidatore, allegata alla comunicazione di ammissione diretta al creditore, in cui si da atto che la “Cassa Previdenza Agenti del gruppo Tirrena ..ebbe a versare la somma rivendicata nelle casse della compagnia a titolo di investimento”.

Osserva la Corte d’appello che il riferimento alla rivendicazione rende palese che tale domanda era già stata proposta.

Obietta ora la ricorrente che non era sufficiente per ritenere la domanda tempestivamente proposta verificare che essa fosse anteriore alla chiusura dello stato passivo, perchè dovevano essere stati alternativamente rispettati i termini all’uopo previsti dalla L. Fall., artt. 207 e 208.L’art. 207, prevede che a seguito della comunicazione da parte del commissario a ciascun creditore delle somme risultanti a credito secondo le scritture contabili e i documenti dell’impresa (comunicazione che va fatta anche a coloro che possono presentare domande di rivendicazione, restituzione, separazione), il creditore e gli altri legittimati possano far pervenire al commissario le loro osservazioni o istanze entro quindici giorni dal ricevimento della raccomandata. L’art. 208 stabilisce che coloro che non hanno ricevuto la comunicazione in parola, possono chiedere con raccomandata entro sessanta giorni dalla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale del provvedimento di liquidazione, il riconoscimento dei propri crediti e la restituzione dei loro beni.

Va osservato che, come è stato più volte affermato dalla dottrina, il procedimento di accertamento del passivo nella fase preliminare che si svolge davanti al commissario liquidatore è contrassegnato dalla previsione di termini che hanno carattere ordinatorio, come si evince dal fatto che non è prevista alcuna sanzione per la loro inosservanza anche alla luce del disposto dell’art. 152 c.p.c., comma 2.

Nella procedura della liquidazione coatta amministrativa l’elenco dei creditori compilato dal commissario per la formazione dello stato passivo ha natura di atto amministrativo. Soltanto con il deposito in cancelleria si determinano una serie di preclusioni (l’elenco non può più essere variato nè revocato, i creditori non possono più proporre le domande di cui alla L. Fall., art. 208, i creditori ed i terzi non possono più presentare le osservazioni e le istanze di cui alla L. Fall., art. 207) ed inizia una seconda fase eventuale, a carattere giurisdizionale, nel cui ambito trovano collocazione le opposizioni e le impugnazioni di cui alla L. Fall., artt. 98 e 100 (L. Fall., art. 209, comma 2), oltre che le insinuazioni tardive (Cass. 15.9.2004, n. 18579).

Di conseguenza soltanto il deposito dello stato passivo in cancelleria impedisce al creditore ed al terzo rivendicante di proporre le domande rispettivamente di ammissione al passivo e di rivendicazione, restituzione e separazione dei beni mobili.

Correttamente pertanto la Corte d’appello ha ritenuto tempestiva la domanda di rivendicazione proposta dalla Cassa di Previdenza, una volta accertato in fatto che tale domanda era stata proposta prima del deposito dello stato passivo in cancelleria da parte del commissario liquidatore.

  1. Venendo ora all’esame del primo motivo del ricorso principale, con cui la ricorrente contesta le conclusioni cui è pervenuto il giudice d’appello in ordine alla separazione dal patrimonio della compagnia assicuratrice delle somme riferibili ai conti individuali degli agenti iscritti alla Cassa di previdenza, occorre muovere dai principi affermati in proposito dalla giurisprudenza di questa Corte, che ha avuto occasione di pronunciarsi principalmente con riferimento alla rivendicazione dei valori mobiliari affidati da un privato ad una fiduciaria, sia prima che successivamente all’entrata in vigore della L. n. 1 del 1991, materia poi ampiamente regolata dalla normativa successiva con riferimento alle SIM, alle società di gestione del risparmio e alle SICAV (D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, art. 57; D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385, artt. 86, 91).

Con riferimento ai soggetti incaricati di operazioni di investimento per conto terzi in strumenti finanziari il D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 22, stabilisce il principio della c.d. doppia separazione patrimoniale in quanto il patrimonio dell’intermediario (impresa di investimento, società di gestione del risparmio, società di gestione armonizzata, intermediario finanziario D.Lgs. n. 58 del 1998, ex art. 107, banca) va tenuto distinto da quello dei singoli clienti ed il patrimonio di ogni cliente va tenuto distinto da quello degli altri. La violazione del divieto è sanzionata penalmente (art. 168 T.U.).

Dalla disciplina dettata dal R.D.L. 12 marzo 1936, n. 375, art. 91, richiamato dal D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 57, si ricava che il principio della separazione trova piena attuazione anche in caso di procedura concorsuale. Nel caso in cui il principio di separazione sia stato rispettato dall’intermediario, i commissari liquidatori dovranno procedere alla restituzione a ciascun cliente degli strumenti finanziari di sua competenza. Nel caso invece che l’obbligo di separazione sia stato completamente violato e vi sia stata totale confusione tra i mezzi amministrati della clientela e quelli dell’intermediario finanziario, gli investitori non potranno che concorrere con gli altri creditori sul patrimonio indifferenziato, trasformandosi il diritto alla restituzione in via specifica nel credito dell’equivalente da far valere al passivo chirografario.

Più complesso è il caso che sia stato mantenuto distinto il patrimonio dell’intermediario da quello della clientela, ma non sia invece possibile distinguere, in tutto od in parte, tra il patrimonio di spettanza dei singoli clienti. Per questa ipotesi, ove la massa patrimoniale indistinta sia sufficiente a soddisfare in forma specifica i diritti vantati da tutti i clienti, i commissari dovranno procedere alle restituzioni. Ove invece gli strumenti finanziari non risultino sufficienti per l’effettuazione di tutte le restituzioni, i commissari procedono, ove possibile, alle restituzioni ai sensi del comma 1 in proporzione dei diritti per i quali ciascuno dei clienti è stato ammesso alla sezione separata dello stato passivo, ovvero alla liquidazione degli strumenti finanziari di pertinenza della clientela ed alla ripartizione del ricavato secondo la medesima proporzione (art. 91, comma 2, citato T.U. bancario).

Questa disciplina non può trovare applicazione al di fuori dei casi espressamente considerati. In passato la giurisprudenza di questa Corte (Case. 20.2.1984, n. 1200; Cass. 16 maggio 1990, n. 4262; 20 febbraio 1984, n. 2633; Cass. 18.10.2001, n. 12718) aveva in più occasioni affermato che le domande di rivendicazione, restituzione o separazione, previste dalla L. Fall., art. 103, sono ammissibili soltanto se la cosa è stata determinata nella sua specifica e precisa individualità e che, in caso contrario, è configurabile (solo) un diritto di credito (alla restituzione del tantundem) azionabile nei confronti della curatela del fallimento secondo le modalità e con gli effetti previsti dalla L. Fall., art. 93 e segg..

Ciò sulla premessa che, in linea di massima, le cose fungibili che non siano state individuate al momento della consegna, entrano nella disponibilità di chi le riceve, il quale acquista il diritto di servirsene e, appunto per questo, ne diventa proprietario, pur essendo tenuto a restituirne altrettante della stessa specie e qualità. Ciò deriva dalla disciplina dettata dall’art. 1782 c.c., il quale tuttavia precisa che il passaggio della proprietà dal depositante al depositario non costituisce una conseguenza indefettibile della fungibilità delle cose depositate, poichè tale effetto si realizza solo se al depositario è concessa (anche) la facoltà di servirsi di tali beni nel proprio interesse: in tal caso il deposito viene ad assolvere anche una funzione di credito nell’interesse del depositario e questo spiega perchè a tale contratto si applichino, in quanto compatibili, le norme sul mutuo (art. 1782 c.c., comma 2).

Pertanto quando sia questione di una somma di denaro, bene fungibile per eccellenza, deve ritenersi che in linea di principio colui che la riceve ne acquisti la proprietà per confusione, con la conseguenza che il depositante sarà titolare soltanto del diritto di credito alla restituzione del tantundem da far valere, nel caso di procedura concorsuale, secondo le regole del concorso con gli altri creditori.

Tuttavia Cass. 14.10.1997, n. 10031, ha affermato che anche per il periodo precedente all’entrata in vigore della citata L. n. 1 del 1991, al fiduciante va riconosciuto il diritto di far valere, nei confronti degli organi della eventuale procedura concorsuale “medio tempore” instauratasi nei confronti della società, il diritto alla restituzione dei beni in precedenza ad essa affidati, dovendo ritenersi, all’uopo, sufficiente la dimostrazione di una situazione idonea ad impedire che la cosa della quale si reclami la restituzione si sia confusa con il patrimonio del fallito, (“rectius”, del sottoposto a liquidazione coatta) per essere entrata a far parte dei beni di sua proprietà: pur occorrendo, perchè si realizzi una situazione siffatta, in linea di principio, che la “res” sia “determinata” nella sua specifica e precisa individualità (L. Fall., art. 103). Si è aggiunto che, per l’acquisto della proprietà da parte di chi riceve in deposito una quantità di denaro o di altre cose fungibili, è pur sempre necessario che, alla semplice detenzione, si aggiunga (quantomeno implicitamente) la facoltà di servirsi del bene, non essendo la sua natura fungibile sufficiente, di per sè sola, a determinare il prodursi di tale effetto, mentre le società fiduciarie, non potendo disporre o, comunque, utilizzare nel proprio interesse i beni loro affidati, risultano, in concreto, mere depositarle di beni costituenti una massa patrimoniale distinta, a tutti gli effetti, dal loro personale patrimonio e, come tale, sottratta alle azioni esecutive degli eventuali creditori. Ancora si è osservato che la eventuale commistione dei conti tra più fiducianti non è idonea, di per sè, ad impedire il riconoscimento della separatezza dei beni intestati alla società nell’interesse di tali soggetti, perchè detta commistione non coinvolge i rapporti tra fiducianti e fiduciaria, ma è limitata a quelli che intercorrono tra i singoli fiducianti nell’ambito di una massa patrimoniale composta da beni dei quali questi ultimi sono i proprietari “effettivi”.

Nel caso esaminato questa Corte argomentò la separatezza delle somme di denaro versate dai fiducianti alla fiduciaria perchè le investisse nel loro interesse, acquistando titoli ed altri valori mobiliari che rimanevano nella titolarità formale della società, ma effettiva dei fiducianti, dal complesso della disciplina di legge che, già prima dell’entrata in vigore della L. n. 1 del 1991, escludeva che tali società potessero liberamente disporre dei beni ricevuti in consegna. Tale disciplina regolava l’attività di tali società – qualificando, da un lato, i fiducianti quali “effettivi proprietari” dei beni affidati in amministrazione fiduciaria e avendo cura, dall’altro, di prescrivere che le disponibilità liquide e i valori mobiliari “dei fiducianti” dovessero essere depositati presso terzi “in conti rubricati come di amministrazione fiduciaria” – sì che tali beni costituivano una massa patrimoniale “distinta”, a tutti gli effetti dal patrimonio della fiduciaria e, come tale, sottratta alle azioni esecutive dei suoi creditori.

Con riferimento al regime giuridico introdotto dalla L. n. 1 del 1991, poi confermato dalla disciplina successivamente entrata in vigore, questa Corte ha affermato che tale legge ha stabilito il principio della cosiddetta doppia separazione patrimoniale (poi ripreso, come s’è detto dalla successiva disciplina in materia di intermediazione finanziaria), che implica separazione del patrimonio della società da quello gestito per conto e nell’interesse dei clienti, nonchè, all’interno di quest’ultimo, reciproca separazione dei beni e dei valori riferibili individualmente a ciascun cliente.

Tale principio è ispirato dallo scopo di garantire un’efficace tutela degli investitori, soprattutto nel caso di crisi dell’intermediario, realizzata mediante la sottrazione dei beni alla liquidazione concorsuale, permettendo all’investitore l’immediato e completo recupero di quelli riconducibili al proprio patrimonio.

Tuttavia, questa tutela è garantita appieno soltanto nel caso in cui il regime di separazione sia stato effettivamente rispettato, con la conseguenza che, qualora ciò non sia accaduto – sia in quanto la società abbia confuso, in tutto o in parte, il proprio patrimonio con quello dei clienti, sia in quanto abbia violato la regola della reciproca separazione dei patrimoni dei singoli clienti l’investitore è titolare esclusivamente di un diritto di credito nei confronti dell’intermediario, che concorre con gli altri crediti vantati dai terzi nei confronti di quest’ultimo, in virtù di una regola ricavabile anche dal D.Lgs. n. 415 del 1996, art. 34, comma 3 (poi sostituito dal D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 57, comma 3), e dal rinvio ivi contenuto al D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 91 (Cass. 11.3.2005, n. 5383; Cass. 5.4.2006, n. 7878).

Nel caso in esame la Corte d’appello ha ritenuto che le somme in questione rimanessero separate dal patrimonio della compagnia assicuratrice perchè:

  1. a) tali somme erano contabilizzate separatamente e corrispondevano ad un’autonoma posta di bilancio;
  2. b) dopo il 31.12.1991, data a far tempo dalla quale essendo scaduta la Convenzione tra la compagnia e la Cassa di previdenza era venuto meno il diritto di quest’ultima di pretendere gli interessi sulle somme depositate, la giacenza del denaro presso la compagnia non costituiva una forma di investimento, come si sarebbe potuto argomentare dal fatto che veniva corrisposto un interesse, ma rappresentava attuazione della funzione di supporto amministrativo- contabile che la compagnia assicuratrice doveva svolgere per conto della Cassa ai sensi dell’art. 19 della Convenzione tra la compagnia stessa e la Cassa;
  3. c) se anche era emerso che il denaro in questione era finanza di cui la compagnia si serviva (così il teste D’., secondo la sentenza impugnata), non era stato provato che ne derivasse confusione dei patrimoni nè che, se confusione vi era stata, essa fosse stata autorizzata dalla Cassa;
  4. d) in ogni caso non era dato sapere se tale situazione si fosse realizzata anche dopo il 31.12.1991;
  5. e) in ogni caso la compagnia doveva tenere a disposizione della Cassa, ai sensi degli artt. 15 e 16 della Convenzione, le somme necessarie per far fronte ai rimborsi nei confronti degli agenti che cambiavano compagnia e quindi Cassa di previdenza o cessavano definitivamente il loro rapporto di agenzia.

E’ evidente la violazione di legge ed il vizio di motivazione in cui è incorsa la sentenza impugnata nel far applicazione dei principi sanciti dalla giurisprudenza di questa Corte.

Come s’è detto, in tanto può affermarsi che vi sia separazione tra il patrimonio del depositante e quello del depositario, pur in presenza di un deposito di cose fungibili, in quanto non ricorrano le condizioni previste dall’art. 1782 c.c., che danno luogo ad un deposito irregolare, con acquisto della proprietà dei beni da parte del depositario, tenuto alla restituzione del tantumdem eiusdem generis et qualitatis, secondo la disciplina del mutuo. Occorre a tal fine che si verifichino alcune condizioni. In primo luogo che il depositario non abbia facoltà di servirsi della cosa; in secondo luogo che non si sia comunque determinata confusione tra il patrimonio del depositario ed il denaro o i beni fungibili affidati dal depositante.

Il difetto di tali condizioni comporta che trovi applicazione la regola generale sancita dall’art. 1782 c.c., in forza della quale il depositario acquista la proprietà del bene fungibile ed il depositante acquista la titolarità del corrispondente diritto di credito, da far valere nelle forme dell’insinuazione al passivo.

La Corte d’appello ha affermato che la compagnia assicuratrice non aveva facoltà di servirsi delle somme versate dalla Cassa, ma nel contempo ha riconosciuto che le somme depositate dalla Cassa erano fruttifere e che un teste aveva dichiarato che si trattava di finanza che la compagnia utilizzava. Ciò implica all’evidenza confusione tra il patrimonio della compagnia e le somme depositate dalla Cassa, non risultando dalla sentenza impugnata che la compagnia fosse vincolata a forme di investimento “dedicate”, idonee cioè a mantenere le sorti del capitale della Cassa investito autonome dalle sorti del restante capitale della compagnia.

Nè evidentemente vale a dimostrare la sussistenza della separazione la mera circostanza che alle somme depositate corrispondesse un’autonoma posta nel bilancio della compagnia, perchè tale posta di per se stessa non indicava se tali somme fossero individuate e gestite come un patrimonio separato ovvero se si trattasse di un semplice credito della Cassa nei confronti della compagnia, che ovviamente doveva essere iscritto in bilancio.

La Corte d’appello ha aggiunto che dopo il 31.12.1991, essendo scaduta la Convenzione tra la compagnia e la Cassa, non erano più dovuti interessi ed ha ritenuto che di conseguenza il titolo in virtù del quale la compagnia gestiva le somme fosse l’obbligo derivante dalla Convenzione (art. 19) di esperire il servizio amministrativo-contabile per conto della Cassa. Nel pervenire a tale conclusione, peraltro, la Corte non sembra aver considerato che la gestione del servizio amministrativo – contabile per conto della Cassa non dimostra ancora che tale gestione avvenisse in regime di separazione patrimoniale rispetto al patrimonio della compagnia.

Va sottolineato a questo proposito che l’art. 19 della Convenzione (che la Corte può esaminare direttamente in base al principio iura novit curia, in quanto atto a contenuto normativo, reso efficace erga omnes con D.P.R. 18 marzo 1961, n. 387) si limita a stabilire che il servizio amministrativo per la gestione della Cassa viene svolto da personale dipendente dalla Compagnia, messo gratuitamente a disposizione della Cassa, aggiungendo che ogni altro onere fa carico agli iscritti alla Cassa. La norma non contiene alcuna disposizione da cui si possa ricavare l’esistenza di una separazione delle somme gestite dal patrimonio dell’impresa assicuratrice.

La Corte di merito non da conto della deposizione del teste D’., così come riportata dalla ricorrente a pag. 47 del ricorso. Il teste ha dichiarato di aver respinto le richieste di restituzione avanzate dalla Cassa, dopo il 31.12.1991 e quindi quando non erano più dovuti interessi, perchè un esborso di oltre venti miliardi avrebbe provocato un depauperamento troppo ingente.

La Corte d’appello non ha considerato che tale dichiarazione sembra implicare che vi fosse piena confusione tra il patrimonio della compagnia e le somme ad essa affidate dalla Cassa, tanto che la compagnia, essendo insorte le difficoltà che avrebbero dato luogo all’apertura della procedura concorsuale, non era in condizioni di restituire le somme perchè ciò avrebbe inciso in maniera rilevante sulla sua liquidità.

Infine anche il ricorso all’argomento che vi fosse separazione perchè la compagnia doveva comunque tenere a disposizione le somme necessarie per liquidare gli agenti ai sensi degli artt. 15 e 16 della Convenzione (passaggio di agenti ad altra Cassa di previdenza e cessazione definitiva dell’attività di agente) cela un evidente vizio logico. La circostanza che la compagnia dovesse garantirsi una certa liquidità per far fronte agli obblighi correnti nei confronti della Cassa, peraltro quantificabili con il ricorso al metodo attuariale come osserva la ricorrente principale, non dice ancora nulla sul regime giuridico delle somme depositate. Tale esigenza di liquidità, infatti, poteva anche derivare dall’esistenza di un diritto di credito della Cassa nei confronti della compagnia, in difetto di ogni separazione di patrimoni nè più nè meno di come accade ogni giorno nei rapporti tra banca e clienti. Come questa Corte ha già osservato (Cass. 11.3.2005, n. 5383; Cass. 5.4.2006, n. 7878), il diritto del depositante a rivendicare le cose fungibili depositate sussiste soltanto in quanto l’obbligo di separazione dei patrimoni sia stato rispettato. Tale principio, affermato espressamente dal legislatore con riferimento alla disciplina delle società fiduciarie e di investimento finanziario, è in realtà espressione di una regola di carattere più generale. Posto infatti che il patrimonio del debitore costituisce la garanzia dei suoi creditori secondo il fondamentale dettato dell’art. 2740 c.c., in tanto tale principio è derogabile in quanto i beni che si pretende di sottrarre alla garanzia dei creditori siano esattamente individuati o, ove si tratti di beni fungibili, come tali non specificamente individuabili, siano sottratti alla regola della confusione nel patrimonio del debitore in forza del divieto di disporne stabilito per legge o per convenzione in capo al debitore stesso, purchè tale regola sia stata in concreto rispettata.

Va sottolineato che la disciplina speciale dettata dapprima per le società fiduciarie e poi per gli intermediari finanziari, ha segnato un mutamento nell’atteggiamento tradizionale del legislatore diretto in passato a ripartire il danno derivante dall’insolvenza su una più vasta cerchia di soggetti, sì da limitarne l’incidenza unitaria. Il concorso, è stato osservato, è figura che esige da un lato una massa di creditori aventi diritti omogenei e, almeno tendenzialmente, paritetici; dall’altro lato, una massa patrimoniale costituente la garanzia generica e comune di quei crediti. La disciplina speciale crea invece delle masse separate, evitando che ai soggetti titolari di diritti su tali masse possano estendersi i tradizionali principi propri del concorso.

La giurisprudenza di questa Corte ha individuato i casi ed i limiti per cui le regole dettate dalla legislazione speciale possono essere estese ad altre ipotesi. Ove non ricorrano tali condizioni, non resta che applicare la regola generale del concorso, che esclude la rivendica di una somma di denaro, riconoscendo un mero diritto di credito, sottoposto a quella regola generale.

Il terzo ed il quarto motivo del ricorso principale, proposti in via subordinata, rimangono assorbiti.

  1. Con il quinto motivo del ricorso la ricorrente principale si duole che la Corte d’appello abbia ritenuto sussistente il diritto della Cassa ad essere ammessa al passivo per il credito relativo ai contributi maturati dal 1.1.1992 al 27.5.1993 in via privilegiata ai sensi dell’art. 2751 bis c.c., n. 3. La Corte d’appello ha ritenuto che tale credito corrisponda a quote di contribuzione previste a carico del datore di lavoro – compagnia assicuratrice, consistenti in una parte delle provvigioni dovute agli agenti, quote che hanno natura e finalità previdenziale e costituiscono salario differito.

Spetterebbe il privilegio di cui all’art. 2751 bis c.c., n. 3, perchè tali somme sarebbero destinate “ad alimentare presso la Cassa le disponibilità destinate ad erogare ai singoli agenti una forma integrativa del trattamento di fine rapporto”. Si tratterebbe quindi di indennità dovute per la cessazione del rapporto di lavoro cui fa riferimento la norma citata.

Obietta la ricorrente che i contributi in parola sono dovuti alla Cassa e non rappresentano quindi una prestazione retributiva differita dovuta agli agenti di assicurazione ed, inoltre, che le prestazioni dovute agli agenti dalla Cassa, ai sensi dell’art. 16 della Convenzione Nazionale del 24.6.1953, resa efficace erga omnes, sono dovute soltanto nel caso di definitiva cessazione dell’attività di agente e non in ogni caso di cessazione del rapporto di agenzia, sì che non possono essere equiparate alle indennità previste dall’art. 2751 bis c.c., n. 3, norma di stretta interpretazione.

Replica la controricorrente osservando che il credito trae la sua origine dal rapporto di agenzia e pertanto è irrilevante che le somme siano dovute ad una Cassa di previdenza, anzichè agli agenti direttamente. Non si tratterebbe di contributi relativi a prestazioni previdenziali erogate dalla Cassa, ma di prestazioni che hanno carattere retributivo.

Il motivo è fondato.

Va premesso che ai sensi dell’art. 2751 bis c.c., n. 3, è riconosciuto il privilegio generale mobiliare sulle provvigioni derivanti dal rapporto di agenzia, dovute per l’ultimo anno di prestazione, e sulle indennità dovute per la cessazione del rapporto medesimo. Con tale ultima espressione il legislatore ha chiaramente inteso far riferimento all’indennità di cessazione del rapporto dovuta dal preponente all’agente stabilita dall’art. 1751 c.c., applicabile agli agenti di assicurazione in virtù del disposto dell’art. 1753 c.c., in quanto non derogato dalla disciplina collettiva e dagli usi, nei limiti della compatibilità con la natura dell’attività assicurativa.

Alla luce di tale disciplina può essere oggetto di discussione ( ma la questione non è rilevante ai fini del decidere) se il privilegio spetti soltanto sulle indennità di fine rapporto dovute in base alla disciplina di legge o anche sulle indennità stabilite dagli accordi economici collettivi.

Nel caso in esame, peraltro, non è questione delle somme dovute dalla preponente compagnia di assicurazioni agli agenti, ma di contributi che debbono essere versati in virtù della Convenzione nazionale del 24.6.1953, resa efficace erga omnes con D.P.R. 18 marzo 1961, n. 387, dalla compagnia alla Cassa di Previdenza degli agenti.

A fronte di tali contributi si forma un capitale destinato ad alimentare un’assicurazione sulla vita ovvero un contratto di capitalizzazione ovvero ancora all’incremento del conto individuale intestato all’agente che, alla definitiva cessazione dell’attività agenziale, sarà corrisposto all’agente dalla Cassa (cfr. art. 11 e segg. della Convenzione, nel testo approvato con D.P.R. n. 387 del 1961, pubblicato sul supplemento ordinario G.U. n. 128 del 25.5.1961, come già detto direttamente conoscibile da questa Corte trattandosi di atto normativo cui si applica il principio iura novit curia).

Va aggiunto che ai sensi dell’art. 16 della Convenzione “nel caso di scioglimento del contratto di agenzia con abbandono dell’attività agenziale” vengono consegnati all’agente la polizza di assicurazione o il contratto di assicurazione nonchè l’importo della liquidazione del conto individuale”.

E’ dunque evidente che altro è il credito dell’agente nei confronti della Cassa di Previdenza alla cessazione definitiva del rapporto di agenzia, altro è il credito per i contributi dovuti alla Cassa da parte dell’impresa di assicurazioni ai sensi dell’art. 6 della Convenzione, commisurato all’ammontare delle provvigioni maturate nell’anno in favore dell’agente, contribuzione cui si aggiunge quella a carico dell’agente ai sensi del successivo art. 8 della Convenzione.

Tale credito sorge in capo alla Cassa per effetto della disciplina dettata dalla Convenzione nei confronti dell’impresa assicuratrice ed è del tutto differente dall’indennità di fine rapporto prevista dall’art. 1751 c.c., e dalle forme sostitutive previste dalla contrattazione collettiva. Queste ultime indennità sorgono infatti in capo all’agente nei confronti del preponente e presuppongono la cessazione del contratto di agenzia tra preponente ed agente; il credito contributivo invece sorge in capo alla Cassa di Previdenza nei confronti dell’impresa di assicurazione per effetto del maturare delle provvigioni in favore dell’agente ed è destinato ad alimentare le varie forme di previdenza (in senso lato) previste dalla Convenzione a favore dell’agente in una con la contribuzione a carico dell’agente.

Tanto basta per affermare che non spetta il privilegio previsto dall’art. 2751 bis c.c., n. 3, che si riferisce alle indennità di fine rapporto spettanti agli agenti e non può essere esteso, anche in ragione del principio di stretta interpretazione delle norme in materia di privilegio, ad un credito che ha natura diversa e sorge nei confronti di un soggetto che non è l’agente. Altra e diversa questione, che non deve essere ora affrontata, è se tale credito possa essere assistito da altra forma di privilegio ed in particolare da quello previsto dall’art. 2754 c.c..

  1. Resta da esaminare il motivo di ricorso incidentale con cui la Cassa di Previdenza per l’ipotesi di accoglimento del ricorso principale, ripropone i motivi dell’appello incidentale con cui aveva domandato il riconoscimento del privilegio per il credito relativo alle somme rivendicate, credito ammesso invece al passivo della procedura di liquidazione coatta da parte del commissario liquidatore in via chirografaria.

Tale motivo è inammissibile.

Va infatti richiamato il principio più volte affermato da questa Corte, secondo il quale è inammissibile, per difetto di interesse, il ricorso incidentale, della parte vittoriosa in secondo grado per le questioni, domande o eccezioni, rilevanti per la decisione, da essa prospettate e non decise, neppure implicitamente, in quanto assorbite da quelle accolte (Cass. 23.5.2006, n. 12153; Cass. 16.5.2006, n. 11371; Cass. 18.5.2005, n. 10420; Cass. 18.10.2006, n. 22346). Tali questioni debbono essere riproposte al giudice di rinvio.

In conclusione in accoglimento del primo e del quinto motivo di ricorso la sentenza impugnata va cassata con rinvio alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione, che pronuncerà anche sulle spese del giudizio di Cassazione.

PQM P.Q.M.

La. Corte riunisce i ricorsi; accoglie il primo ed il quinto motivo del ricorso principale, rigetta il secondo, assorbiti gli altri;

dichiara inammissibile il ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione, anche per le spese.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 13 dicembre 2007.

Depositato in Cancelleria il 12 febbraio 2008

 

 

 

 

 

 

Appalto. La garanzia decennale per gravi difetti è dovuta solo per le opere di iniziale fabbricazione o anche per le opere postume di ristrutturazione dell’edificio ? Cassazione Sez. Un. Civili, 27 Marzo 2017, n. 7756

 

“L’art. 1669 c.c. è applicabile, ricorrendone tutte le altre condizioni, anche alle opere di ristrutturazione edilizia e, in genere, agli interventi manutentivi o modificativi di lunga durata su immobili preesistenti, che (rovinino o) presentino (evidente pericolo di rovina o) gravi difetti incidenti sul godimento e sulla normale utilizzazione del bene, secondo la destinazione propria di quest’ultimo“.

All’affermazione di questo importante principio le Sezioni Unite della Corte di Cassazione – chiamate a dirimere un contrasto giurisprudenziale – sono giunte a conclusione di un esauriente analisi esegetica e dell’evoluzione giurisprudenziale,  convenendo che anche ove i gravi vizi riguardino opere non di nuova  costruzione, ma più limitate, aventi ad oggetto riparazioni straordinarie, ristrutturazioni, restauri o altri interventi di natura edilizia, può essere  invocata la garanzia decennale dovuta dall’appaltatore  ai sensi dell’’art. 1669 c.c.

Nella fattispecie, alcuni condomini avevano evocato in giudizio l’impresa appaltatrice che aveva eseguito opere di ristrutturazione edilizia sull’edificio condominiale ( afferenti scale interne, balconi e sottotetti) per ottenere il risarcimento dei danni dovuti a gravi difetti che si erano manifestati a seguito di detti lavori .

Invero,  la Corte già in passato aveva ritenuto più volte applicabili le regole disciplinate dall’art 1669 cc a prescindere dal fatto che i vizi, purchè gravi, riguardassero opere riguardanti “costruzioni nuove”.

La casistica in proposito, come segnala la Corte, è moto ampia e, senza pretesa di essere esaurienti, non è inutile segnalare che sono  stati ritenuti gravi difetti dell’opera, rilevanti ai fini dell’art. 1669 c.c: la pavimentazione interna ed esterna di una rampa di scala e di un muro di recinzione (sentenza n. 2238/12); opere di pavimentazione e di impiantistica (n. 1608/00); infiltrazioni d’acqua, umidità nelle murature e in generale problemi rilevanti d’impermeabilizzazione (nn. 84/13, 21351/05, 117/00, 4692/99, 2260/98, 2775/97, 3301/96, 10218/94, 13112/92, 9081/92, 9082/91, 2431/86, 1427/84, 6741/83, 2858/83, 3971/81, 3482/81, 6298/80, 4356/80, 206/79, 2321/77, 1606/76 e 1622/72); un ascensore panoramico esterno ad un edificio (n. 20307/11); l’inefficienza di un impianto idrico (n. 3752/07); l’inadeguatezza recettiva d’una fossa biologica (n. 13106/95); l’impianto centralizzato di riscaldamento (nn. 5002/94, 7924/92, 5252/86 e 2763/84); il crollo o il disfacimento degli intonaci esterni dell’edificio (nn. 6585/86, 4369/82 e 3002/81, 1426/76); il collegamento diretto degli scarichi di acque bianche e dei pluviali discendenti con la condotta fognaria (n. 5147/87); infiltrazioni di acque luride (n. 2070/78). Dunque la Corte ha ritenuto che lo scopo della norma ( operando una ricostruzione storica della norma a far luogo dal codice napoleonico  attraverso il codice civile del 1865 sino a  quello odierno) sia quello di garantire il pacifico godimento dell’immobile secondo la sua propria destinazione.

Secondo la logica sottesa a tali argomentazioni giuridiche è del tutto indifferente che i gravi difetti riguardino una costruzione interamente nuova o un’opera edile ristrutturata, essendo irrazionale la previsione di un trattamento diverso tra fabbricazione iniziale e ristrutturazione edilizia, dato che entrambe potrebbero essere foriere di gravi pregiudizi.

Testo della sentenza

 Corte di Cassazione, sez. Unite Civili, sentenza 10 gennaio – 27 marzo 2017, n. 7756 Presidente Di Palma – Relatore Manna

Svolgimento del processo

Gli odierni ricorrenti, partecipanti tutti al condominio di via (omissis) , convenivano in giudizio innanzi al locale Tribunale la società venditrice Fonte Sajano s.r.l. e la società P.F. e C. s.n.c., che su incarico di quest’ultima aveva eseguito sull’edificio interventi di ristrutturazione edilizia. Domandavano la condanna delle società convenute, in solido tra loro, al risarcimento dei danni consistenti in un esteso quadro fessurativo esterno ed interno delle pareti del fabbricato ed altri gravi difetti di costruzione. Nel resistere in giudizio entrambe le convenute chiamavano in causa la società che aveva eseguito gli intonaci, la Edilcentro s.r.l., per esserne tenute indenni. Nella contumacia della società chiamata in causa, il Tribunale, ritenuta la ricorrenza di gravi difetti dell’opera, accoglieva la domanda e condannava le società convenute al pagamento della somma di Euro 71.503,50, a titolo di responsabilità per danni ex art. 1669 c.c.. Impugnata dalla P.F. e C. s.n.c., tale decisione era ribaltata dalla Corte d’appello di Ancona, che con sentenza pubblicata il 12.7.2012 rigettava la domanda. Richiamato il precedente di Cass. n. 24143/07, la Corte territoriale osservava che ai fini dell’applicazione dell’art. 1669 c.c. la costruzione di un edificio o di altra cosa immobile destinata a lunga durata costituisce presupposto e limite della responsabilità dell’appaltatore. E poiché nella specie erano stati eseguiti solo interventi di ristrutturazione edilizia (con cambiamento di destinazione d’uso da ufficio ad abitazione), comprendenti la realizzazione di nuovi balconi ai primi due piani, di una scala in cemento armato e di nuovi solai ai sottotetti, non si trattava della nuova costruzione di un’immobile, ma di una mera ristrutturazione. Di qui l’inapplicabilità della norma anzi detta. La cassazione di questa sentenza è chiesta dagli odierni ricorrenti sulla base di un solo motivo. Vi resiste con controricorso la P.F. & C. s.n.c.. La Fonte Sajano s.r.l. in liquidazione e la Edilcentro s.r.l. non hanno svolto attività difensiva. La terza sezione civile di questa Corte, ravvisando un contrasto di giurisprudenza sulla riconducibilità all’art. 1669 c.c. anche delle opere edilizie eseguite su di un fabbricato preesistente, ha rimesso la causa al primo Presidente, che l’ha assegnata a queste Sezioni unite. Entrambe le parti, ricorrente e controricorrente, hanno depositato memoria.

Motivi della decisione

  1. – Con l’unico motivo di ricorso parte ricorrente deduce la “violazione e falsa applicazione dell’art. 1669 c.c. in relazione all’art. 360, nn. 3 e 5 c.p.c.”. Espone che la sentenza impugnata avrebbe erroneamente ritenuto che la ristrutturazione edilizia di un fabbricato non possa rientrare nella previsione dell’art. 1669 c.c.; lamenta che la Corte territoriale abbia omesso di motivare sull’entità dei lavori di ristrutturazione del fabbricato, nonché sulla consistenza e sulla rilevanza dei vizi accertati dal c.t.u.; deduce che) rispetto al caso esaminato da Cass. n. 24143/07, quello in oggetto concerne interventi edilizi di carattere straordinario riconducibili all’ipotesi di cui all’art. 1669 c.c.; e richiama, tra altre pronunce di questa Corte, Cass. n. 18046/12 per affermare che la ridetta norma è applicabile non solo alle nuove costruzioni, ma anche alle opere di ristrutturazione immobiliare e a quelle che siano comunque destinate ad avere lunga durata. 2. – Sotto quest’ultimo profilo, quello dell’ambito oggettivo coperto dall’art. 1669 c.c., l’ordinanza interlocutoria della terza sezione rileva un contrasto nella giurisprudenza di questa Corte (precisamente all’interno della seconda sezione). E senza mostrare di voler prendere partito per l’una o l’altra tesi, quella che esclude o quella che afferma l’applicabilità dell’art. 1669 c.c. anche alle ristrutturazioni immobiliari, ritiene che emerga ad ogni modo un contrasto sui principi di diritto affermati, al di là delle possibili peculiarità “fattuali” delle singole situazioni esaminate. 2.1. – Sulla peculiare questione in oggetto anche la dottrina mostra di dividersi. Pacifica l’applicabilità dell’art. 1669 c.c. ai casi di ricostruzione o di costruzione di una nuova parte dell’immobile, come ad esempio la sopraelevazione, che è essa stessa una “nuova costruzione”, prevale l’opinione dell’estensibilità della norma anche alle ipotesi di interventi di tipo manutentivo – modificativo che debbano avere una lunga durata nel tempo. Ciò sia nel caso in cui a seguito delle riparazioni o delle modifiche collassi l’intera e preesistente struttura immobiliare, indipendentemente dall’importanza in sé della parte riparata o modificata, sia ove la rovina o i gravi difetti riguardino direttamente quest’ultima. Ed escluse le riparazioni non di lunga durata, come quelle ordinarie, e quelle aventi ad oggetto parti strutturali anch’esse non destinate a conservarsi nel tempo, deve dunque ammettersi l’applicazione dell’art. 1669 c.c. nelle situazioni inverse. Si osserva da alcuni che, in definitiva, il problema è lo stesso che si presenta allorché rovini o sia gravemente difettosa soltanto una porzione dell’originario edificio, visto che la stessa norma contempla anche l’ipotesi che l’immobile rovini “in parte”. Non solo, ma si ipotizza che la soluzione inversa si presterebbe a dubbi di legittimità costituzionale, considerato che gli artt. 1667 e 1668 c.c., del pari riguardanti la responsabilità dell’appaltatore, si applicano ad opere consistenti in mere modificazioni o riparazioni, mentre l’art. 1669 c.c. restrittivamente inteso condurrebbe, irrazionalmente e in violazione dell’art. 3 Cost., ad applicare l’art. 1667 c.c. ancorché l’opera consista, previa demolizione, in una ricostruzione totale o parziale, del tutto sovrapponibile ad una costruzione ex novo. Minoritaria la tesi opposta, che rispetto alla disciplina degli artt. 1667 e 1668 c.c. ravvisa nell’art. 1669 c.c. una norma di carattere speciale. Si afferma che essa, insuscettibile di applicazione analogica, integri una garanzia vera e propria e una disposizione di favore per il committente, motivata dal fatto che nelle opere di lunga durata alcuni difetti possono presentarsi anche a distanza di molto tempo. L’art. 1669 c.c. riguarderebbe, per tale dottrina, le opere eseguite ex novo dalle fondamenta ovvero quelle dotate di propria autonomia in senso tecnico (come ad esempio una sopraelevazione). 3. – La giurisprudenza di questa Corte ha affrontato in maniera esplicita e diretta il tema di cui si discute solo in tre occasioni. O meglio in due, per le- – ragioni che seguono. 3.1. – La prima con sentenza n. 24143/07. Riferita ad un caso di opere d’impermeabilizzazione e pavimentazione del terrazzo condominiale d’un edificio preesistente, detta pronuncia ha osservato che l’art. 1669 c.c. delimita con una certa evidenza il suo ambito di applicazione alle opere aventi ad oggetto la costruzione di edifici o di altri beni immobili di lunga durata, ivi inclusa la sopraelevazione di un fabbricato preesistente, di cui ravvisa la natura di costruzione nuova ed autonoma. Non anche, però, le modificazioni o le riparazioni apportate ad un edificio o ad altre preesistenti cose immobili, da identificare a norma del’art. 812 c.c.. A tale conclusione è pervenuta attraverso l’interpretazione letterale della norma, laddove questa “raccorda il termine “opera” a quello di “edifici o di altre cose immobili, destinate per loro natura a lunga durata”, per poi connettere e disciplinare le conseguenze dei vizi costruttivi della medesima opera, così significando che la costruzione di un edificio o di altra cosa immobile, destinata per sua natura a lunga durata, costituisce presupposto e limite di applicazione della responsabilità prevista in capo all’appaltatore”. La conseguenza, conclude, è che ove non ricorra la costruzione d’un edificio o di altre cose immobili di lunga durata, ma un’opera di mera riparazione o modificazione su manufatti preesistenti, non è applicabile l’art. 1669 c.c. ma, ricorrendone le condizioni, le norme sulla garanzia ex art. 1667 c.c. Infine, detta sentenza ha escluso che questa Corte Suprema abbia mai affrontato ex professo la questione, se non nella vigenza del c.c. del 1865, sotto l’art. 1639 (si tratta della sentenza n. 754 del 1934, la quale nell’escludere l’applicabilità della norma alla copertura con asfalto d’un lastrico solare, si limitò, in realtà, ad affermare unicamente che la norma “ha, come è comune insegnamento, carattere eccezionale, e non può perciò essere estesa fuori dei casi ivi preveduti della fabbricazione di un edificio o d’altra opera notabile”: n.d.r.). 3.1.1. – In senso puramente adesivo è la n. 10658/15 (massimata in maniera del tutto conforme), avente ad oggetto lavori di consolidamento di una villetta preesistente che avevano provocato gravi fessurazioni su di un corpo di fabbrica aggiuntovi. A ben vedere, tuttavia, la motivazione chiarisce che il giudice d’appello, ricondotta la fattispecie all’art. 1669 c.c., aveva escluso la responsabilità dell’appaltatore a tale titolo non essendovi prova che questi avesse indicato i lavori da eseguire, né che fosse stato messo al corrente dei difetti strutturali che avevano determinato le lesioni riscontrate. Sicché, in definitiva, la Corte territoriale aveva escluso sia il nesso eziologico tra le opere eseguite dall’appaltatore e i danni lamentati, sia una colpa di lui. Il consenso prestato a Cass. n. 24143/07 è frutto, dunque, di una considerazione svolta ad abundantiam rispetto alla ratio decidendi, basata su altro; il che rende dubbio che detto precedente possa effettivamente militare nell’ambito della tesi negativa.  3.2. – Di segno opposto la sentenza più recente, n. 22553/15, secondo cui risponde ai sensi dell’art. 1669 c.c. anche l’autore di opere realizzate su di un edificio preesistente, allorché queste incidano sugli elementi essenziali dell’immobile o su elementi secondari rilevanti per la funzionalità globale. In quella fattispecie, le opere avevano riguardato lavori di straordinaria manutenzione presso uno stabile condominiale, consistiti nel rafforzamento dei solai e delle rampe delle scale (queste ultime ricostruite completamente). Nel darsi carico dei due precedenti massimati di segno contrario all’avviso espresso, detta sentenza ravvisa una “diversa valutazione complessiva delle emergenze fattuali”, più che un “contrasto sincrono di giurisprudenza”. Afferma, quindi, che la lettura della norma giustifica una diversa impostazione ermeneutica, “perché non a caso il legislatore discrimina tra edificio o altra cosa immobile destinata a lunga durata, da un lato, e opera, dall’altro. L’opera cui allude la norma non si identifica necessariamente con l’edificio o con la cosa immobile destinata a lunga durata, ma ben può estendersi a qualsiasi intervento, modificativo o riparativo, eseguito successivamente all’originaria costruzione dell’edificio, con la conseguenza che anche il termine compimento, ai fini della delimitazione temporale decennale della responsabilità, ha ad oggetto non già l’edificio in sé considerato, bensì l’opera, eventualmente realizzata successivamente alla costruzione dell’edificio”. Ha osservato, inoltre, che “l’etimologia del termine costruzione non necessariamente deve essere ricondotta alla realizzazione iniziale del fabbricato, ma ben può riferirsi alle opere successive realizzate sull’edificio pregresso, che abbiano i requisiti dell’intervento costruttivo”. Pertanto, anche “gli autori di tali interventi di modificazione o riparazione possono rispondere ai sensi dell’art. 1669 c.c. allorché le opere realizzate abbiano una incidenza sensibile sugli elementi essenziali delle strutture dell’edificio ovvero su elementi secondari od accessori, tali da compromettere la funzionalità globale dell’immobile stesso”. Per contro, prosegue la sentenza, “nessun valore può essere attribuito con riguardo alla responsabilità di cui all’art. 1669 c. c. alle classificazioni urbanistiche predisposte dal legislatore al diverso fine del recupero di manufatti preesistenti: la differenza dei parametri di riferimento giustifica l’integrale responsabilità dell’appaltatore sia in presenta di interventi di manutenzione straordinaria sia in ipotesi di manutenzione ordinaria ai sensi dell’art. 31 della legge n. 457 del 1978”. 3.3. – Invece, Cass. n. 18046/12, richiamata tra altre nel motivo di ricorso, non pare prendere posizione nell’un senso piuttosto che nell’altro, sebbene in quel caso fosse sul tappeto, perché dedotta dalla ricorrente venditrice – (ri)costruttrice, la differenza tra l’imperfetta realizzazione di immobili di nuova costruzione, rientrante nell’art. 1669 c.c., e i difetti di specifici lavori di ristrutturazione, che sosteneva non riconducibili alla norma. In detta sentenza, infatti, questa Corte ha ritenuto la censura non accoglibile in parte per difetto di autosufficienza, e in parte perché la pronuncia impugnata faceva riferimento all’inadeguatezza sia dei lavori di completa ristrutturazione compiuti dai venditori a stregua della concessione, sia di quelli di rifinitura, mentre le censure della ricorrente attenevano alla configurabilità, affermata dalla Corte territoriale, della violazione dell’art. 1669 c.c. in relazione solo a tali ultimi lavori. 4. – Queste Sezioni unite aderiscono all’orientamento meno restrittivo, ritenendolo sostenibile sulla base di ragioni d’interpretazione storico-evolutiva, letterale e teleologica. 4.1. – In primo luogo vale premettere e chiarire che anche opere più limitate, aventi ad oggetto riparazioni straordinarie, ristrutturazioni, restauri o altri interventi di natura immobiliare, possono rovinare o presentare evidente pericolo di rovina del manufatto, tanto nella porzione riparata o modificata, quanto in quella diversa e preesistente che ne risulti altrimenti coinvolta per ragioni di statica. L’attenzione va, però, soffermata principalmente sull’ipotesi dei “gravi difetti”, sia perché confinaria rispetto al regime ordinario degli artt. 1667 e 1668 c.c., sia per il rilievo specifico che i “gravi difetti” assumono nel caso in oggetto, sia per le ragioni di carattere generale che emergeranno più chiaramente di seguito. 4.2. – Innumerevoli altre volte la giurisprudenza di questa Corte, pur non esaminando in maniera immediata e consapevole la questione in esame, si è occupata dell’art. 1669 c.c., presupponendone (per difetto di contrasto fra le parli o per altre ragioni) l’applicabilità anche in riferimento ad opere limitate. Ed è pervenuta a soluzioni applicative di detta norma che appaiono poter prescindere dalla necessità logica di un’edificazione ab imo o di una costruzione ex novo. Si è ritenuto, infatti, che sono gravi difetti dell’opera, rilevanti ai fini dell’art. 1669 c.c., anche quelli che riguardano elementi secondari ed accessori (come impermeabilizzazioni, rivestimenti, infissi ecc.) purché tali da compromettere la funzionalità globale dell’opera stessa e che, senza richiedere opere di manutenzione straordinaria, possono essere eliminati solo con interventi di manutenzione ordinaria ai sensi dell’art. 31 legge n. 457/78 e cioè con “opere di riparazione, rinnovamento e sostituzione delle finiture degli edifici” o con “opere necessarie per integrare o mantenere in efficienza gli impianti tecnologici esistenti” (sentenze nn. 1164/95 e 14449/99; in senso del tutto analogo e con riferimento a carenze costruttive anche di singole unità immobiliari, v. n. 8140/04, che ha ritenuto costituire grave difetto lo scollamento e la rottura, in misura percentuale notevole rispetto alla superficie rivestita, delle mattonelle del pavimento dei singoli appartamenti; da premesse conformi procedono le nn. 11740/03, 81/00, 456/99, 3301/96 e 1256/95; di un apprezzabile danno alla funzione economica o di una sensibile menomazione della normale possibilità di godimento dell’immobile, in relazione all’utilità cui l’opera è destinata, parlano le sentenze nn. 1393/98, 1154/02, 7992/97, 5103/95, 1081/95, 3644/89, 6619/88, 6229/83, 2523/81, 1178/80, 839/80, 1472/75 e 1394/69). Esemplificando, sono stati inquadrati nell’ambito della norma in oggetto i gravi difetti riguardanti: la pavimentazione interna ed esterna di una rampa di scala e di un muro di recinzione (sentenza n. 2238/12); opere di pavimentazione e di impiantistica (n. 1608/00); infiltrazioni d’acqua, umidità nelle murature e in generale problemi rilevanti d’impermeabilizzazione (nn. 84/13, 21351/05, 117/00, 4692/99, 2260/98, 2775/97, 3301/96, 10218/94, 13112/92, 9081/92, 9082/91, 2431/86, 1427/84, 6741/83, 2858/83, 3971/81, 3482/81, 6298/80, 4356/80, 206/79, 2321/77, 1606/76 e 1622/72); un ascensore panoramico esterno ad un edificio (n. 20307/11); l’inefficienza di un impianto idrico (n. 3752/07); l’inadeguatezza recettiva d’una fossa biologica (n. 13106/95); l’impianto centralizzato di riscaldamento (nn. 5002/94, 7924/92, 5252/86 e 2763/84); il crollo o il disfacimento degli intonaci esterni dell’edificio (nn. 6585/86, 4369/82 e 3002/81, 1426/76); il collegamento diretto degli scarichi di acque bianche e dei pluviali discendenti con la condotta fognaria (n. 5147/87); infiltrazioni di acque luride (n. 2070/78). Se ne ricava, inconfutabile nella sua oggettività, un dato di fatto. Nell’economia del ragionamento giuridico sotteso ai casi sopra menzionati, che fa leva sulla compromissione del godimento dell’immobile secondo la sua propria destinazione, è del tutto indifferente che i gravi difetti riguardino una costruzione interamente nuova. La circostanza che le singole fattispecie siano derivate o non dall’edificazione primigenia di un fabbricato non muta i termini logico-giuridici dell’operazione ermeneutica compiuta in ormai quasi mezzo secolo di giurisprudenza, perché non preordinata al (né dipendente dal) rispetto dell’una o dell’altra opzione esegetica in esame. Spostando l’attenzione sulle componenti non strutturali del risultato costruttivo e sull’incidenza che queste possono avere sul complessivo godimento del bene, la giurisprudenza ha mostrato di porsi dall’angolo visuale degli elementi secondari ed accessori. Questo non implica di necessità propria che si tratti della prima realizzazione dell’immobile, essendo ben possibile che l’opus oggetto dell’appalto consista e si esaurisca in questi stessi e soli elementi. Ferma tale angolazione, a fortiori deve ritenersi che ove l’opera appaltata consista in un intervento di più ampio respiro edilizio (come, appunto, una ristrutturazione), quantunque non in una nuova costruzione, l’art. 1669 c.c. sia ugualmente applicabile. In conclusione, considerare anche gli elementi “secondari” ha significato distogliere il focus dal momento “fondativo” dell’opera per direzionarlo sui “gravi difetti” di essa; per desumere i quali è stato necessario indagare altro, vale a dire l’aspetto funzionale del prodotto conseguito. 5. – Come la previsione dei “gravi difetti” dell’opera sia il risultato d’un progressivo allontanamento del precetto dal suo nucleo originario, lo dimostra la storia della norma. Derivata dall’art. 1792 del codice napoleonico (il quale stabiliva che “Si l’edifice construit a prix fait, perit en tout ou en partie par le vice de la construction, meme par le vice du sol, les architecte et entrepreneur en sont roonsables pendant dix ans”), essa così recitava sotto l’art. 1639 del c.c. del 1865: “Se nel corso di dieci anni dal giorno in cui fu compiuta la fabbricazione di un edificio o di altra opera notabile, l’uno o l’altra rovina in tutto o in parte, o presenta evidente pericolo di rovinare per difetto di costruzione o per vizio del suolo, l’architetto e l’imprenditore ne sono responsabili”. Rispetto all’ascendente francese, la norma aveva, dunque, aggiunto un quid pluris (cioè le altre opere notabili e il pericolo di rovina). Ma – si noti – aveva mantenuto inalterato il soggetto della seconda proposizione subordinata (“…l’uno o l’altra…”), cioè l’edificio, cui appunto aveva aggiunto “altra opera notabile”. Un ulteriore e consapevole passo in avanti è stato operato dal codice civile del 1942, il quale prevede che quando si tratta di edifici o di altre cose immobili destinate per la loro natura a lunga durata, se, nel corso di dieci anni dal compimento, l’opera, per vizio del suolo o per difetto della costruzione, rovina in tutto o in parte, ovvero presenta evidente pericolo di rovina o gravi difetti, l’appaltatore è responsabile nei confronti del committente e dei suoi aventi causa, purché sia fatta la denunzia entro un anno dalla scoperta. Si legge nella relazione del Guardasigilli (par. 704): “Innovando poi al codice del 1865 si è creduto di non dover limitare la sfera di applicazione della norma in questione alle sole ipotesi di rovina di tutto o parte dell’opera o di evidente pericolo di rovina, ma si è estesa la garanzia anche alle ipotesi in cui l’opera presenti gravi difetti. Naturalmente questi difetti devono essere molto gravi, oltre che riconoscibili al momento del collaudo, e devono incidere sempre sulla sostanza e sulla stabilità della costruzione, anche se non minacciano immediatamente il crollo di tutta la costruzione o di una parte di essa o non importano evidente pericolo di rovina. Non vi è dubbio che la giurispruden.za farà un’applicazione cauta di questa estensione, in conseguenza del carattere eccezionale della responsabilità dell’appaltatore”. (Il riferimento alla riconoscibilità dei gravi difetti al momento del collaudo è, ad evidenza, un fuor d’opera. Concessa per un decennio, la garanzia ex art. 1669 c.c. copre anche e soprattutto i gravi difetti che si manifestino soltanto in progresso di tempo). Come si è visto, però, la postulata eccezionalità dell’art. 1669 c.c. non è valsa ad arginarne l’applicazione. Chiamata a dotare il sintagma “gravi difetti” di un orizzonte di senso, la giurisprudenza ha ovviamente seguito l’unica strada percorribile, quella di stemperare la vaghezza del concetto giuridico al calore dei fatti. 5.1. – Il mutamento di prospettiva nel codice del 1942 è evidente per due ragioni. La prima, d’ordine logico, è che la nozione di “gravi difetti” per la sua ampiezza è omogenea a qualunque opera, edilizia e non, per cui meglio si presta al riferimento, del pari generico, alle altre cose immobili. In secondo luogo, e l’argomento è di indole letterale, mentre nel testo del 1865 il soggetto della seconda proposizione subordinata era l’edificio o altra opera notabile (“l’uno o l’altra”), nella frase che vi corrisponde nell’art. 1669 c.c. il soggetto diviene “l’opera”, nozione che rimanda al risultato cui è tenuto l’appaltatore (art. 1655 c.c.). E dunque qualsiasi opera su di un immobile destinato a lunga durata, a prescindere dal fatto che, ove di natura edilizia, essa consista o non in una nuova fabbrica. Ben si comprende, allora, che nell’ampliare il catalogo dei casi di danno rilevante ai sensi dell’art. 1669 c.c., l’aggiunta dei “gravi difetti” ha comportato per trascinamento l’estensione dell’area normativa della disposizione, includendovi qualsiasi opera immobiliare che (per traslato) sia di lunga durata e risulti viziata in grado severo per l’inadeguatezza del suolo o della costruzione. Ne è seguita, coerente nel suo impianto complessivo, l’interpretazione teleologica fornita dalla giurisprudenza, che è andata oltre l’originaria visione dell’art. 1669 c.c. come norma di protezione dell’incolumità pubblica, valorizzando la non meno avvertita esigenza che l’immobile possa essere goduto ed utilizzato in maniera conforme alla sua destinazione. Completano e confermano la validità di tale esito ermeneutico, l’irrazionalità (non conforme ad un’interpretazione costituzionalmente orientata) di un trattamento diverso tra fabbricazione iniziale e ristrutturazione edilizia, questa non diversamente da quella potendo essere foriera dei medesimi gravi pregiudizi; e la pertinente osservazione (v. la richiamata sentenza n. 22553/15) per cui costruire, nel suo significato corrente (oltre che etimologico) implica non l’edificare per la prima volta e dalle fondamenta, ma l’assemblare tra loro parti convenientemente disposte (cum struere, cioè ammassare insieme). 6. – Così ricomposta (la storia e) l’esegesi della norma, il vincolo letterale su cui l’interpretazione restrittiva dell’art. 1669 c.c. pretende di fondarsi perde la propria base logico-giuridica. Infatti, riferire l’opera alla “costruzione” e questa a un nuovo fabbricato, inteso quale presupposto e limite della responsabilità aggravata dell’appaltatore (come ritiene Cass. n. 24143/07), non sembra possibile proprio dal punto di vista letterale. Si noti che nel testo della norma il sostantivo “costruzione” rappresenta un nomen actionis, nel senso che sta per “attività costruttiva”; e non potrebbe essere altrimenti, visto che se esso valesse (come mostra d’intendere la sentenza appena citata) quale specificazione riduttiva del soggetto (l’opera) della (terza, nel testo vigente) proposizione subordinata, si avrebbe una duplicazione di concetti ad un tempo inutile e fuorviante. Inoltre, il supposto impiego sinonimico di “costruzione” quale nuovo edificio, porterebbe a intendere la norma come se affermasse che l’opera può rovinare per difetto suo proprio. Lettura criptica, questa, che restituirebbe inalterato all’interprete il problema ermeneutico, dovendosi stabilire cosa sia il vizio proprio di un’opera; salvo convenire che esso è quello che deriva (da un vizio del suolo o) dal difetto di costruzione, così confermandosi che quest’ultimo sostantivo allude, appunto, all’attività dell’appaltatore. Non senza aggiungere che supponendo la tesi qui non condivisa, a) sarebbe stato ben più logico un diverso incipit della norma (e cioè, “Quando si tratta (della costruzione) di edifici…”); e b) il termine “costruzione” risulterebbe irriferibile agli altri immobili di lunga durata, pure contemplati dall’art. 1669 c.c., per i quali, paradossalmente, questa sarebbe applicabile solo se rovina, evidente pericolo di rovina o gravi difetti dipendessero da vizio del suolo, cioè da una soltanto delle due cause ivi indicate (e, per soprammercato, proprio quella che naturaliter fa pensare alle opere murarie). Ancora. Incentrando l’interpretazione dell’art. 1669 c.c. sul concetto di “costruzione” quale nuova edificazione, diverrebbe (se non automatico, almeno) spontaneo il rinvio al concetto normativo di costruzione così come elaborato dalla giurisprudenza di questa Corte in materia di distanze. E, in effetti, Cass. n. 24143/07 sembra presupporlo lì dove afferma (cosa in sé condivisibile) che la norma in commento ricomprende la sopraelevazione, la quale è costruzione nuova ed autonoma rispetto all’edificio sopraelevato. Ma è una tematica del tutto estranea, quella degli artt. 873 e ss. c.c., il rimando alla quale sortirebbe effetti contraddittori e inaccettabili anche per la tesi seguita dal citato precedente, sol che si consideri che ai fini delle distanze è costruzione un balcone (v. sentenza n. 18282/16), ma non la ricostruzione fedele, integrale e senza variazioni plano-volumetriche di un edificio preesistente (v. ordinanza S.U. n. 21578/11 e sentenza n. 3391/09). 6.1. – Non meno controvertibile l’altro argomento – la specialità o l’eccezionalità della norma – utilizzato dall’interpretazione restrittiva dell’art. 1669 c.c. per escluderne l’applicazione analogica. In disparte il fatto che (i) solo di specialità potrebbe trattarsi, nel senso che la responsabilità aggravata prevista da detta disposizione è speciale rispetto al regime ordinario del risarcimento del danno per colpa ai sensi dell’art. 1668, 1 comma c.c.; che (ii) tale specialità si è già attenuata fortemente allorché la giurisprudenza di questa Corte ha ammesso, oltre all’azione risarcitoria, quella di riduzione del prezzo, di condanna specifica all’eliminazione dei difetti dell’opera e di risoluzione, che costituiscono il contenuto della garanzia ordinaria cui è tenuto l’appaltatore (per l’affermativa, che sembra ormai consolidata, cfr. nn. 815/16, 8140/04, 8294/99, 10624/96, 1406/89 e 2763/84; contra, le più risalenti sentenze nn. 2954/83, 2561/80 e 1662/68); e che (iii) l’analogia serve a disciplinare ciò che non è positivizzato, non a riposizionare i termini di una regolamentazione data; tutto ciò a parte, quanto fin qui considerato dimostra come l’art. 1669 c.c. includa a pieno titolo gli interventi manutentivi o modificativi di lunga durata, la cui potenziale incidenza tanto sulla rovina o sul pericolo di rovina quanto sul normale godimento del bene non opera in modo dissimile dalle ipotesi di edificazione ex novo. Pertanto, la pur indubbia specialità della protezione di lunga durata accordata al committente (protezione che resiste anche al collaudo: cfr. Cass. nn. 7914/14, 1290/00 e 4026/74), non interferisce con la questione in oggetto. 7. – Poco o punto rilevante, e dunque non decisiva ai fini in esame, la natura extracontrattuale della responsabilità ex art. 1669 c.c. – con carattere di specialità rispetto alla previsione generale dell’art. 2043 c.c. – costantemente affermata dalla giurisprudenza (tanto che Cass. nn. 4035/17 e 1674/12 hanno escluso che la relativa controversia possa rientrare nell’ambito della clausola che si limiti a compromettere in arbitri le liti nascenti da un contratto d’appalto). Tutt’altro che monolitica, invece, è al riguardo la dottrina. Ammessa anche dalle sentenze nn. 24143/07 e 10658/15, che come detto escludono l’applicazione dell’art. 1669 c.c. alle ipotesi di riparazioni o modificazioni, la tesi della natura extracontrattuale di detta responsabilità; qualificata come ex lege (cfr. Cass. n. 261/70 e il brano della relazione al c.c. del 1942 riportato supra al paragrafo 5) e prevista per ragioni di ordine pubblico e di tutela dell’incolumità personale dei cittadini, quindi, inderogabile e irrinunciabile (v. Cass. n. 81/00), ha anch’essa origini remote, essendo stata altrettanto costantemente affermata dalla giurisprudenza sotto l’impero del c.c. del 1865 a partire dagli anni venti del XX secolo. Ciò allo scopo di riconoscere l’azione risarcitoria anche agli acquirenti del costruttore-venditore, essendo invalsa già in allora, con lo sviluppo delle attività edilizie, l’unificazione delle due figure. 7.1. – Ai limitati fini che qui rilevano può solo osservarsi che, come sopra detto, la categoria dei gravi difetti tende a spostare il baricentro dell’art. 1669 c.c. dall’incolumità dei terzi alla compromissione del godimento normale del bene, e dunque da un’ottica pubblicistica ed aquiliana ad una privatistica e contrattuale. Oltre a ciò, va considerata la maggior importanza che sul tema della tutela dei terzi ha assunto, invece, l’esperienza dell’appalto pubblico; l’espresso riconoscimento dell’azione anche agli aventi causa del committente (i quali possono agire anche contro il costruttore-venditore: fra le tante, v. Cass. nn. 467/14, 9370/13 e 2238/12 e 4622/02), il che ha privato del suo principale oggetto la teoria della responsabilità extracontrattuale ex art. 1669 c.c.; i più recenti approdi della dottrina sull’efficacia ultra partes del contratto; e – da ultima, ma non ultima – la possibilità che tale efficacia operi in favore dei terzi nei casi previsti dalla legge (art. 1372, cpv. c.c.). Tutto ciò rende ormai meno attuale il tema della natura extracontrattuale della responsabilità di cui all’art. 1669 c.c., che se non ha esaurito la propria funzione storica (per difetto di rilevanza non è questa la sede per appurarlo), di sicuro ha perso l’originaria centralità che aveva nell’interpretazione della norma. 8. – Per le considerazioni svolte l’unico motivo di ricorso deve ritenersi fondato. Consegue la cassazione della sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Ancona, che nel decidere il merito si atterrà al seguente principio di diritto: “l’art. 1669 c.c. è applicabile, ricorrendone tutte le altre condizioni, anche alle opere di ristrutturazione edilizia e, in genere, agli interventi manutentivi o modificativi di lunga durata su immobili preesistenti, che (rovinino o) presentino (evidente pericolo di rovina o) gravi difetti incidenti sul godimento e sulla normale utilizzazione del bene, secondo la destinazione propria di quest’ultimo”. 9. – Al giudice di rinvio è rimessa, ai sensi dell’art. 385, terzo comma, c.p.c., anche la statuizione sulle spese del presente giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso e cassa la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Ancona, che provvederà anche sulle spese di cassazione.

 

 

 

 

Reati tributari. Sussiste il reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti se

“Il reato di emissione di fatture od altri documenti per operazioni inesistenti […] ricorra, da un lato, ove i beni o i servizi siano effettivamente entrati nella sfera giuridico-patrimoniale dell’impresa utilizzatrice delle fatture e, dall’altro lato, ove sussista l’elemento della simulazione soggettiva, ossia la rappresentazione documentale della provenienza della prestazione oggetto dell’imposizione, da un soggetto giuridico differente da quello indicato in fattura il quale, dunque, l’abbia effettivamente erogata”.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza n. 24307/17; depositata il 17 maggio

Testo della sentenza

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 19 gennaio – 17 maggio 2017, n. 24037
Presidente Amoroso – Relatore Renoldi

Ritenuto in fatto

1. A seguito di una verifica fiscale effettuata dall’Agenzia Entrate – Direzione Regionale della Liguria nei confronti della società E.R.M. S.p.A. era emerso che in occasione della cessione, da parte della predetta società, del 49% delle quote della partecipata I. S.r.l. a favore di una società olandese del gruppo russo L., era stata indicato, quale onere accessorio, il versamento della somma di 3.368.750 euro di imponibile quale corrispettivo dell’attività di mediazione svolta da F.C., legale rappresentante della F. S.r.I., la quale svolgeva attività di commercio al dettaglio di articoli di cancelleria e che in data 3/12/2008 aveva emesso, in relazione a tale operazione, la fattura n. 111 (per un importo di 4.042.500 euro, pari alla somma di 3.368.750 euro di imponibile maggiorata del 20% a titolo di IVA da corrispondere).
Il successivo controllo, eseguito nei confronti della società F. S.r.l., aveva consentito di appurare che sul conto corrente bancario alla stessa intestato era stata effettivamente accreditata, in data 18/12/2008, la somma di 3.655.093,75 euro (divergente dalla somma indicata in fattura in quanto comprensiva anche di una ritenuta di acconto a favore della F.); e che i risultati dell’operazione non erano stati, però, riportati nella dichiarazione IVA, presentata dalla società di capitali di cui era legale rappresentante l’odierno imputato.
Inoltre, da ulteriori accertamenti eseguiti dalla Guardia di Finanza era, altresì, emerso che le somme corrisposte per la ricordata provvigione erano successivamente affluite, nell’arco di circa un trimestre, sui conti personali di C., il quale aveva successivamente eseguito una serie di prelievi da tali conti. E tuttavia, lo stesso C. non aveva indicato, nella propria dichiarazione dei redditi, le somme percepite per la mediazione svolta, sicché la Guardia di finanza aveva calcolato in 1.732.661 euro l’imposta da costui evasa a titolo di IRPEF.
1.1. A seguito di tali accertamenti, la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Genova aveva, quindi, chiesto il rinvio a giudizio di F.C., ipotizzando, nei suoi confronti, i delitti di cui agli artt. 81 cpv. cod. pen., 4 del D.Igs. n. 74/2000 (capo 1), 8 comma 1 del D.Igs. n. 74/2000 (capo 2), 4 del D.Igs. n. 74/2000 (capo 3). Secondo l’ipotesi accusatoria, infatti, C., in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, nella sua qualità di legale rappresentante della F. S.r.l. ed al fine di evadere le imposte sui redditi e l’IVA, aveva per un verso omesso di indicare, nella dichiarazione annuale della società relativa all’anno 2008, le somme dalla stessa percepite ed attestate dalla fattura n. 111 del 3/12/2008 per 3.678.750,00 euro, con Iva non versata pari a 673.750,00 euro e IRES a 926.406,25 euro, e, dunque, elementi attivi per un ammontare superiore al 10% di quelli dichiarati, realizzando così un’evasione dell’imposta superiore a 103.291,38 euro (capo 1); e, per altro verso, egli aveva omesso di indicare, nella propria dichiarazione dei redditi relativa all’anno 2008, al fine di evadere le imposte Irpef, le somme percepite a titolo di provvigione per la ricordata attività di mediazione (costituenti elementi attivi di ammontare superiore 103.91,38 euro ed al 10% di quelli dichiarati), realizzando così un’evasione Irpef pari a 1.732.661 euro (capo 3). Inoltre, secondo la tesi accusatoria, al fine di realizzare quest’ultima attività illecita a proprio personale vantaggio, C. aveva fittiziamente emesso, nella sua qualità di legale rappresentante della Fin cor S.r.I., la fattura n. 111 del 3/12/2008 per 3.678.750 euro in relazione ad un’operazione soggettivamente inesistente (capo 2).
1.2. Con sentenza in data 15/01/2015, emessa all’esito di giudizio abbreviato, il Giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale di Genova aveva, quindi, condannato F.C., con la diminuente del rito e con la recidiva reiterata infraquinquennale, alla pena di quattro anni e sei mesi di reclusione, riconoscendolo colpevole dei reati, unificati dal vincolo della continuazione, contestati ai capi 2) e 3) dell’imputazione; e disponendo, altresì, la confisca per equivalente degli immobili e delle somme di denaro in sequestro fino alla concorrenza del valore di € 1.732.661,00. Con lo stesso provvedimento C. era stato, invece, assolto, con la formula “perché il fatto non sussiste”, in relazione al delitto di cui all’art. 4 del D.Igs. n. 74/2000, contestato al capo 1);
ciò sul presupposto che l’attività di mediazione, dal lato della società, configurasse un’operazione inesistente e che, di conseguenza, la F. S.r.l. non avesse, in realtà, percepito alcun reddito da tale attività.
2. Con sentenza in data 10/12/2015 la Corte di appello di Genova riformò, solo in parte, la pronuncia di primo grado, ritenendo che la E.R.M. S.p.A. avesse versato una somma pari a 387.406,25 euro a titolo di ritenuta d’acconto e che, pertanto, la somma evasa a titolo di IRPEF fosse pari a soli 1.345.254,75 euro, per l’effetto riducendo la confisca all’importo corrispondente.
3. Avverso la sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione lo stesso C., a mezzo del proprio difensore, sollecitando il suo proscioglimento in relazione al reato di cui al n. 2) del capo di imputazione, nonché l’accoglimento delle doglianze relative al trattamento sanzionatorio e la limitazione dell’ammontare dell’imposta evasa a soli 1.055.542,30 euro.
A sostegno dell’impugnazione C. ha dedotto sei motivi di censura.
3.1. Con il primo di essi, il ricorrente denuncia, ex art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen., la mancanza di motivazione in relazione al fatto che l’attività di mediazione svolta dalla E. dissimulasse, fin dall’inizio, un meccanismo volto a consentire a C. di non pagare le imposte sul reddito delle persone fisiche.
3.2. Con il secondo motivo deduce, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen., la contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione per avere la sentenza affermato che l’intera operazione sarebbe stata realizzata da C. attraverso lo schermo costituito dalla società di capitali F. S.r.l. in modo da garantire il patrimonio personale dell’imputato ed in quanto la sanzione prevista per l’omessa dichiarazione era più lieve rispetto a quella per la frode fiscale. In realtà ove C. avesse agito, fin dal principio, con il proposito di evadere le imposte sui futuri emolumenti, avrebbe operato come persona fisica e non per il tramite della società, atteso che in caso di accertamento fiscale egli sarebbe incorso soltanto nella violazione dell’art. 4 D.Igs. n. 74/2000, laddove operando, invece, come amministratore della F. sarebbe incorso, come poi avvenuto, anche nella violazione dell’art. 8 del predetto decreto.
3.3. Con il terzo motivo, il ricorrente deduce, ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e) cod. proc. pen., l’erronea interpretazione dell’art. 530 cod. proc. pen. nonché l’illogicità della motivazione con riferimento al principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio. Dopo avere ribadito le ragioni per le quali la condotta di C., quale legale rappresentante della F., avrebbe configurato una violazione della normativa fiscale IVA ed IRES e non una evasione IRPEF dello stesso imputato, realizzata quale persona fisica, il ricorso argomenta in ordine al fatto che la fattura n. 111 non sarebbe riferibile ad una operazione soggettivamente inesistente; ciò sul presupposto che tale situazione ricorrerebbe quando “uno dei soggetti dell’operazione sia rimasto del tutto estraneo alla stessa”, laddove, nel caso di specie, la F. avrebbe realmente percepito le somme pattuite per l’attività di mediazione, la quale ovviamente non avrebbe potuto che essere svolta, concretamente, da una persona fisica, individuata proprio in F.C.. Il fatto che, poi, quest’ultimo avesse effettuato una serie di prelievi dai conti correnti della società, avrebbe potuto, al più, rilevare come inadempienza ai doveri impostigli dalla sua qualità di Amministratore Unico della F. S.r.l..
3.4. Con il quarto motivo, il ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b) cod. proc. pen., l’inosservanza e/o erronea applicazione degli artt. 220 disp. att. cod. proc. pen., 191 cod. proc. pen., 234 cod. proc. pen. in relazione alla prova della sussistenza del reato di cui all’art. 8, comma 1, d.lgs. n. 74/2000. Ciò in quanto l’Agenzia delle Entrate – Direzione Regionale della Liguria, dopo che era emersa l’esistenza di indizi di reità aveva, comunque, proseguito nell’attività amministrativa di indagine ed accertamento, laddove il citato art. 220 dispone che, in tal caso, le operazioni debbano proseguire con l’osservanza delle disposizioni del codice di procedura penale. Per tale motivo, le risultanze contenute nella nota in data 6/07/2011, inviata dalla Agenzia delle Entrate, acquisite dopo la data del 16/05/2011 e fino a quella dell’inoltro della stessa, sarebbero state inutilizzabili ex art. 234, comma 2 cod. proc. pen..
3.5. Con il quinto motivo il ricorrente censura, ex art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen., la manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata in ordine alla eccesiva severità del trattamento sanzionatorio, fondata sul presupposto che l’imputato non avesse riparato l’illecito, senza però tenere conto sia del suo precedente stato detentivo, sia della sottoposizione dei suoi beni a sequestro preventivo, sia della brevità dei tempi processuali, che non gli avrebbero permesso, suo malgrado, di attivare alcuna iniziativa riparatoria.
3.6. Con il sesto motivo si lamenta, ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e) cod. proc. pen., la erronea applicazione dell’art. 4 d.lgs. n. 74/2000 e la contraddittorietà e/o manifesta illogicità della motivazione per avere la sentenza impugnata ritenuto che, quale base imponibile, sia stata correttamente indicata (ai fini delle imposte dirette), la somma di 4.042.500,00 euro comprensiva di IVA, avendo C. introitato tutto quanto aveva percepito. In realtà, dal momento che all’imputato era stata contestata la sola evasione IRPEF, non si sarebbe dovuto tenere conto dell’IVA, pari a 673.750,00 euro.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è manifestamente infondato.
2. Occorre muovere, secondo l’ordine logico, dal quarto motivo di impugnazione, con il quale si censura la violazione dell’art. 220 disp. att. cod. proc. pen..
2.1. Sul punto, rileva preliminarmente il Collegio come la nota in data 6/07/2011 dell’Agenzia Entrate – Direzione Regionale della Liguria sia stata trasmessa, secondo quanto ammesso dalla stessa difesa dell’imputato, ex art. 331 cod. proc. pen., sicché è innanzitutto infondata la tesi secondo cui essa configuri un documento extraprocessuale ricognitivo di natura amministrativa, dovendo essa essere qualificata, ai sensi del comma 4 del citato art. 331, quale denuncia, presentata dall’autorità amministrativa, di un reato perseguibile di ufficio.
Nondimeno, è invece corretto il richiamo difensivo alla previsione dell’art. 220 disp. att. cod. proc. pen., secondo cui quando nel corso di attività ispettive o di vigilanza previste da leggi o decreti emergono indizi di reato e non meri sospetti, “gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant’altro possa servire per l’applicazione della legge penale sono compiuti con l’osservanza delle disposizioni del codice”.
Pertanto, come riconosciuto dallo stesso ricorrente, la parte di documento, compilata prima dell’insorgere degli indizi, ha sempre efficacia probatoria ed è come tale utilizzabile, mentre non può assumere una siffatta valenza quella redatta successivamente, qualora non siano state rispettate le disposizioni del codice di procedura penale (v. Sez. 3, n. 7930 del 30/01/2015, Marchetti e altro, Rv. 262518).
A tale proposito questa Corte ha pure osservato come, dalla semplice lettura della norma, emerga che la stessa presuppone, per la sua applicazione, la sussistenza della mera possibilità di attribuire rilevanza penale al fatto riscontrato nel corso dell’inchiesta amministrativa e, nel momento in cui esso viene rilevato, a prescindere dalla circostanza che esso possa essere riferito ad una persona determinata (Sez. 2, n. 2601 del 13/12/2005, Cacace, Rv. 233330;
Sez. U, n. 45477 del 28/11/2001, Raineri, Rv. 220291).
Ove le richiamate condizioni si verifichino, è dunque necessario che, a pena di inutilizzabilità, vengano osservate le disposizioni del codice di rito, ma soltanto per il compimento degli atti necessari all’assicurazione delle fonti di prova ed alla raccolta di quant’altro necessario per l’applicazione della legge penale (Sez. 3, n. 7930 del 30/01/2015, Marchetti e altro, Rv. 262518; Sez. 3, n. 27682 del 17/06/2014, Palmieri, Rv. 259948). Epperaltro, se le forme del codice di procedura penale devono essere osservate soltanto ove si faccia luogo al compimento degli atti necessari alla raccolta ed all’assicurazione delle fonti di prova, ciò significa che ogni qual volta non si debba fare luogo all’espletamento di atti garantiti, non è necessario osservare le norme del codice di rito.
Al fine di stabilire quando tale condizione sussista, l’art. 114 disp. att. cod. proc. pen. prevede che “nel procedere al compimento degli atti indicati nell’art. 356 [cod. proc. pen.], la polizia giudiziaria avverte la persona sottoposta alle indagini, se presente, che ha facoltà di farsi assistere dal difensore di fiducia”.
Ciò posto, dal contenuto testuale della norma in esame emerge con chiarezza che le attività ispettive fiscali non rientrano tra quelle indicate dall’art. 356 cod. proc. pen., che l’art. 114 disp. att. cod. proc. pen., espressamente richiama. In altre parole, la disposizione in esame impone l’avviso del diritto all’assistenza del difensore solo ed esclusivamente nel caso in cui si proceda al compimento di uno degli atti indicati dall’art. 356 cod. proc. pen., il quale, a sua volta, stabilisce che il difensore della persona nei cui confronti vengono svolte le indagini ha facoltà di assistere, senza diritto di essere preventivamente avvisato, agli atti previsti dagli artt. 352 (perquisizioni) e 354 (accertamenti urgenti sui luoghi, sulle cose e sulle persone e sequestro) oltre che all’immediata apertura del plico autorizzata dal pubblico ministero a norma dell’art. 353, comma 2, cod. proc. pen.. E’ questa una elencazione tassativa, come si desume dal puntuale richiamo ai singoli atti elencati.
Consegue alle considerazioni fin qui svolte che non avendo la Corte di legittimità la possibilità di un accesso indiscriminato agli atti del procedimento penale, al fine di verificare la utilizzabilità del risultato di singole attività di acquisizione di elementi indiziari è indispensabile che il ricorso specifichi quali risultati dell’attività investigativa debbano ritenersi, per le ragioni più sopra esposte, inutilizzabili.
2.2. Orbene, nel caso di specie, la difesa di C. si è limitata a censurare tutte le attività di accertamento e di acquisizione di documenti compiute successivamente alla data del 16/05/2011, allorché l’Agenzia delle entrate aveva instaurato il contraddittorio con la Società E.R.M. allo scopo di ottenere chiarimenti in merito alla natura ed al contenuto delle mediazioni oggetto di fatturazione, ritenendosi che da tale momento potesse ritenersi acclarata l’esistenza di reati tributari quali quelli previsti dagli artt. 4 e 8, comma 1 del D.Lgs. n. 74/2000. Sotto altro profilo, poi, il ricorso non contiene alcuna indicazione in ordine alla rilevanza della dedotta inutilizzabilità del materiale probatorio, non specificando quali conseguenze deriverebbero sotto il profilo della complessiva inidoneità del materiale probatorio residuo a dimostrare la responsabilità dell’imputato per i reati a lui ascritti.
Del resto, come osservato dalla sentenza impugnata, successivamente all’inoltro della notizia di reato, il Pubblico ministero aveva conferito una delega di indagini, ai sensi dell’art. 370 cod. proc. pen., alla Guardia di Finanza, sicché i riscontri rispetto all’originaria segnalazione era provenuti, soprattutto, dall’attività investigativa successivamente posta in essere; a nulla rilevando che detta delega, come osservato dalla difesa, fosse stata rilasciata in data 27/09/2011, non essendo tale circostanza indicativa, come invece opina il ricorrente, di un’affermazione di responsabilità basata su atti d’indagine inutilizza bili.
A fronte di doglianze formulate, in sede di ricorso, in maniera del tutto generica e non essendo, dunque, possibile, alla stregua di censure assolutamente aspecifiche verificare l’incidenza, sul materiale probatorio raccolto, dei lamentati vizi di inutilizzabilità di alcuni atti (cd. prova di resistenza), deve conclusivamente rilevarsi la manifesta infondatezza della questione dedotta con il quarto motivo di impugnazione.
3. Venendo, quindi, al terzo motivo di ricorso, giova in premessa ricordare che al giudice di legittimità non è consentito ipotizzare alternative opzioni ricostruttive della vicenda fattuale, sovrapponendo la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi, saggiando la tenuta logica della pronuncia portata alla sua cognizione mediante un raffronto tra l’apparato argomentativo che la sorregge ed eventuali altri modelli di ragionamento mutuati dall’esterno (Sez. Un., n. 12 del 31/05/2000, Jakani, Rv. 216260; in termini v. Sez. 2, n. 20806 del 5/05/2011, Tosto, Rv. 250362). Ne consegue che, quando i giudici di merito abbiano motivato, alla stregua di un percorso argornentativo scevro da profili di illogicità, le ragioni di fatto poste a fondamento della propria decisione, al giudice di legittimità non è consentito censurarne, sul piano della ricostruzione dei fatti, le scelte compiute accedendo ad ipotesi alternative, ove anche dotate di un maggiore grado di persuasività.
3.1. Tanto premesso, osserva il Collegio che, nel caso di specie, i giudici di merito hanno offerto una spiegazione perfettamente logica e plausibile del complesso delle ragioni per cui si è ritenuto che C. avesse svolto l’attività di intermediazione tra la ERG e la L. non come legale rappresentante della F. S.r.I., sottolineando, in primo luogo, come le due società non avrebbero potuto certo rivolgersi, per lo svolgimento di un’attività così peculiare, che certamente richiedeva competenze anche specialistiche, ad una società costituita per commerciare, al dettaglio, articoli di cancelleria; come le somme percepite da F. fossero successivamente confluite su conti riconducibili a C. o, comunque, fatte oggetto di prelievi in contanti da parte dell’imputato; come un altro degli intermediari coinvolti nell’operazione avesse avviato una causa civile nei confronti della persona fisica di C. in relazione ad una quota della provvigione pagata da E. S.p.A. e come lo stesso C. avesse avviato, personalmente e non nella qualità di amministratore unico della F. S.r.l., un’analoga iniziativa giudiziaria nei confronti della società L.. Elementi dai quali i giudici di merito hanno tratto, in maniera del tutto logica, il convincimento, criticato genericamente con il primo motivo di ricorso, secondo cui “il meccanismo ideato nascondeva ab initio un interesse di C. a non pagare le imposte come persona fisica”, sicché la F. S.r.l. fosse servita a realizzare un’operazione fraudolenta per il fisco venendo, non a caso, subito posta in liquidazione, il 31/12/2009, una volta esaurito l’affare.
3.2. A fronte di tale ricostruzione dei fatti, attraverso cui la sentenza impugnata ha adeguatamente esplicato, con percorso motivazionale coerente ed immune da censure logiche, le ragioni per le quali ha ritenuto che C. avesse agito in proprio e non nella qualità di legale rappresentante della società formalmente investita dell’attività di mediazione, il ricorso per un verso articola delle mere censure in fatto e, per altro verso, si limita a prospettare una ipotesi alternativa e, dunque, una differente lettura del materiale probatorio, sottolineando come fosse lecito che la società avesse compiuto atti giuridici esulanti dal suo oggetto sociale (circostanza mai messa in dubbio dai giudici di merito, i quali avevano, invece, rilevato come fosse del tutto inverosimile che una società che commerciava in articoli di cancelleria fosse stata incaricata di gestire una delicata operazione di mediazione, per svariati milioni di euro, tra società operanti nel settore petrolifero) o come potessero darsi altre possibili spiegazioni della condotta tenuta da C., il quale aveva effettuato ripetuti prelievi dai conti della società.
Ne consegue, dunque, sotto il profilo illustrato, la declaratoria di manifesta infondatezza della censura, atteso che il ricorso finisce per sollecitare un controllo da parte del giudice di legittimità che pacificamente esorbita, per le ragioni già illustrate, dagli stretti confini assegnati alla sua cognizione.
3.3. Sotto altro e concorrente profilo, è manifestamente infondata l’ulteriore questione, dedotta dal ricorrente, in relazione alla non configurabilità, nel caso di specie, di operazioni soggettivamente inesistenti.
In proposito, infatti, la difesa di C., dopo avere premesso che l’operazione di mediazione nella compravendita Erg-L. era stata prevista contrattualmente, atteso che F. S.r.l. era stata incaricata con il Mediation and Service Agreement del 21/06/2008, ha sottolineato altresì come fosse destituita di fondamento l’affermazione secondo cui la stessa F. non avesse percepito alcun effettivo reddito dall’operazione, avendo la E. effettivamente versato, in data 19/12/2008, l’importo dovuto sul c/c 437380 intestato a F. S.r.I., acceso presso la Banca C.. E per tale motivo, dal momento che nessuno dei soggetti dell’operazione era rimasto del tutto estraneo alla stessa, avrebbe fatto difetto il presupposto indispensabile per configurare una operazione soggettivamente inesistente, così come richiesto dalla giurisprudenza di legittimità.
3.3.1. Tale ricostruzione è, però, giuridicamente infondata.
Ritiene, infatti, il Collegio che il reato di emissione di fatture od altri documenti per operazioni inesistenti, previsto dall’art. 8 del D.Lgs. n. 74 del 2000, pacificamente configurabile anche in caso di fatturazione solo soggettivamente falsa, ricorra, da un lato, ove i beni o i servizi siano effettivamente entrati nella sfera giuridico-patrimoniale dell’impresa utilizzatrice delle fatture (in questo caso la Erg) e, dall’altro lato, ove sussista l’elemento della simulazione soggettiva, ossia la rappresentazione documentale della provenienza della prestazione oggetto dell’imposizione, da un soggetto giuridico differente da quello indicato in fattura, il quale, dunque, l’abbia effettivamente erogata.
Tale interpretazione, infatti, è consentita, innanzitutto, sia dall’argomento testuale, fondato sull’ampiezza della previsione normativa, la quale si riferisce genericamente ad “operazioni inesistenti”; sia dall’argomento teleologico, fondato sulla considerazione per cui, anche in tali casi, è possibile conseguire il fine illecito indicato dalla norma in esame, ovvero consentire ai terzi l’evasione delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto (cfr. Sez. 3, n. 20353 del 17/03/2010, dep. 28/05/2010, Bizzozzero e altro, Rv. 247110; Sez. 3, n. 14707 del 14/11/2007, dep. 09/04/2008, Rossi e altri, Rv. 239658). Inoltre, lo stesso art. 1, comma 1, lett. a) del d.lgs. n. 74 del 2000 stabilisce che “per “fatture o altri documenti per operazioni inesistenti” si intendono le fatture o gli altri documenti aventi rilievo probatorio analogo in base alle norme tributarie, emessi a fronte di operazioni non realmente effettuate in tutto o in parte o che indicano i corrispettivi o l’imposta sul valore aggiunto in misura superiore a quella reale, ovvero che riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi”.
Ne consegue che le operazioni soggettivamente inesistenti devono ritenersi configurabili anche quando, come nel caso di specie, la fattura rechi l’indicazione di un soggetto erogatore della prestazione imponibile (nel caso di specie la F.) diverso da quello effettivo (individuato nello stesso C.). Anche in una siffatta ipotesi, del resto, il documento esprime una chiara capacità decettiva, idonea a impedire la identificazione degli attori effettivi delle operazioni commerciali, precludendo o comunque ostacolando la possibilità dell’accertamento tributario e palesando, in questo modo, un nucleo di disvalore che ne giustifica pienamente la riconducibilità all’area del penalmente rilevante.
Sulla base delle considerazioni che precedono, il terzo motivo deve ritenersi manifestamente infondato, così come i primi due motivi di ricorso, i quali attengono a profili di ricostruzione della complessiva vicenda, con particolare riguardo al carattere fraudolento dell’intera operazione, secondo il ricorrente rimasto indimostrato; sicché gli stessi debbono ritenersi confutati alla stregua delle considerazioni svolte nell’analisi del terzo motivo.
3.4. Quanto, poi, al sesto motivo di ricorso, con il quale C. lamenta l’indebito computo, ai fini della evasione Irpef contestata al capo 3) dell’imputazione, delle somme dovute a titolo di IVA, ritiene il Collegio che le censure difensive siano totalmente inconferenti.
Infatti, nel caso di specie all’imputato non è stato contestato, al predetto capo di imputazione, il mancato versamento dell’IVA, quanto piuttosto, come ben evidenziato dai giudici di merito, il fatto che l’intera somma, comprensiva anche dell’IVA al 20%, fosse stata interamente introitata dall’imputato, sicché correttamente il calcolo dell’evasione dell’imposta sui redditi delle persone fisiche ha tenuto conto anche dell’ulteriore somma percepita e non dichiarata.
Ne consegue la manifesta infondatezza del relativo motivo di censura.
3.5. Venendo, infine, al quinto motivo di impugnazione, relativo alle questioni poste con riferimento al trattamento sanzionatorio, con l’atto di appello il ricorrente ne aveva chiesto il sensibile contenimento, sollecitando una rideterminazione della pena base a partire dal minimo edittale nonché il riconoscimento delle attenuanti generiche, da considerare equivalenti alla recidiva contestata. Ed a tal fine aveva sottolineato l’illogicità della decisione del giudice di prime cure, il quale aveva attribuito rilevanza al fatto che C. non avesse attivato alcuna iniziativa riparatoria, ciò che, tuttavia, l’imputato non sarebbe stato nelle condizioni di fare, dal momento che egli era stato dapprima detenuto in Svizzera, quindi aveva patito il sequestro preventivo dei beni e, infine, si era trovato, a seguito della rapida chiusura delle indagini preliminari ed alla immediata instaurazione del giudizio abbreviato, di fronte a cadenze processuali contratte e, comunque, assai ravvicinate.
Nel rispondere a tali doglianze, la sentenza impugnata aveva affermato che C. aveva chiesto di essere giustificato dalla predetta condizione, laddove “dalle proprie colpe non si può trarre un beneficio”; ciò che, si duole oggi il ricorrente, non sarebbe stato in realtà mai sostenuto in sede di impugnazione.
Similmente, il ricorso opina che il primo gravame non abbia mai affermato, diversamente da quanto riportato nella sentenza di secondo grado, che la condizione di contumacia dell’imputato non potesse giustificare l’asserito atteggiamento “di disinteresse del C. alle conseguenze del reato”.
3.5.1. In proposito, rileva nondimeno il Collegio che la Corte territoriale ha sviluppato, a partire dalla prima censura dell’imputato, una più articolata valutazione, fondata sul fatto che, da un lato, non possa invocarsi una situazione di asserita inesigibilità di condotte riparatorie da parte di chi vi abbia dato causa e che, dall’altro lato, C. non si fosse comunque attivato, sul piano riparatorio, successivamente alla sua liberazione. Tale apprezzamento deve ritenersi del tutto immune da vizi di natura logica e, come tale, non censurabile in questa sede, essendo la valutazione compiuta dai giudici genovesi sostanzialmente incentrata sull’assenza di qualunque manifestazione di disponibilità a farsi carico, anche parzialmente, delle conseguenze delle proprie condotte illecite, con ciò essendosi fatta corretta applicazione degli indici dettati dall’art. 133 cod. pen., con particolare riguardo al n. 3 del comma 2, relativo alla rilevanza da attribuire, sul piano dosimetrico, alla condotta susseguente al reato.
3.5.2. Analogamente, il ricorso censura il passaggio motivazionale con cui la Corte aveva rigettato la parte del motivo di appello sul trattamento sanzionatorio con cui si chiedeva la determinazione di una pena base inferiore, sul presupposto che le precedenti condotte di rilevanza penale dell’imputato venissero valutate due volte: in primis al momento della determinazione della pena base e, in un momento successivo, in sede di aumento per la recidiva.
Anche in relazione a tale profilo va, nondimeno, rilevato che le censure mosse al provvedimento si fondano sulla estrapolazione di una parte della più articolata motivazione resa dalla Corte d’appello, la quale ha, invece, sottolineato come l’entità della pena base, determinata in misura pari a tre anni di reclusione, trovasse giustificazione “più ancora che nella personalità negativa del C., nell’elevato importo dell’evasione fiscale, molto superiore al milione di euro”, con ciò palesandosi la sostanziale inconferenza delle deduzioni difensive espresse sul punto nel ricorso, avendo i giudici di merito fatto buon governo dei criteri enunciati negli artt. 132 e 133 cod. pen. che orientano l’esercizio della discrezionalità nella commisurazione del trattamento sanzionatorio; esercizio non censurabile in questa sede attraverso doglianze dirette a determinare una nuova valutazione della congruità della pena, la cui commisurazione non sia frutto, come in questo caso, di mero arbitrio o di ragionamento illogico (Sez. 5, n. 5582 del 30/09/2013, dep. 4/02/2014, Ferrario, Rv. 259142).
Pertanto, anche le doglianze sviluppate con il quinto motivo di impugnazione sono manifestamente infondate.
4. Alla stregua delle considerazioni che precedono il ricorso deve essere, dunque, dichiarato inammissibile.
Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in 2.000,00 euro.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di euro 2.000 (duemila) in favore della Cassa delle Ammende.

Reati edilizi . Se v’è buona fede l’ignoranza può escludere la colpa

“Nelle fattispecie contravvenzionali la buona fede può acquistare rilevanza giuridica solo a condizione che essa si traduca nella mancanza di consapevolezza dell’illiceità del fatto e che derivi da un elemento positivo estraneo all’agente, consistente in una circostanza che induca alla convinzione della liceità del comportamento tenuto”

Testo della sentenza

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 7 febbraio – 18 maggio 2017, n. 24585
Ritenuto in fatto

  1. Con sentenza in data 4/07/2016 il Tribunale di Asti aveva assolto, con la formula “perché il fatto non costituisce reato”, M.N. , S.G. e Ma.Sa. in relazione ai reati di cui agli artt. 71 (capo a) e 93 e 95 (capo b) del d.p.r. n. 380 del 2001, per avere: la prima in qualità di committente, il secondo di esecutore ed il terzo di direttore dei lavori, eseguito opere in conglomerato cementizio armato – consistenti in un muro di confine, in piloni di sostegno del cancello, in un muretto di recinzione su strada – in violazione dell’art. 64, commi 2, 3 e 4, nonché per avere omesso di presentare allo Sportello unico per l’edilizia la denuncia delle predette opere strutturali prima del loro inizio; fatti accertati in (omissis) .

1.1. Secondo il primo giudice, infatti, pur essendo stata pacificamente dimostrata la realizzazione delle opere sopra menzionate, dall’istruttoria dibattimentale era, altresì, emerso che i manufatti, costruiti in cemento armato, non erano destinati ad assolvere alcuna funzione statica e che, per tale motivo, gli imputati avevano ritenuto di non dovere presentare preventivamente la denuncia prevista dall’art. 65 del d.p.r. n. 380/2001 per le opere in conglomerato cementizio armato, che l’art. 53, comma 1 considera come tali, appunto, solo quando assolvano ad una funzione statica. Sulla base della riportata interpretazione della normativa di riferimento, avallata dalla Circolare del Ministero dei lavori pubblici 14/02/1974, n. 11951, gli imputati si erano, dunque, consapevolmente determinati a non presentare la denuncia in questione, incorrendo in un errore scusabile, siccome indotto da una normativa suscettibile di differenti opzioni esegetiche e non potendo attribuirsi rilievo dirimente al contrario indirizzo della giurisprudenza di legittimità, che gli imputati non sarebbero stati tenuti a conoscere. 2. Avverso la predetta sentenza ha presentato ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Asti, deducendo, con un unico motivo di impugnazione proposto ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b) cod. proc. pen., l’inosservanza o erronea applicazione della legge penale in relazione alla sola contravvenzione di cui agli artt. 93 e 95 del d.p.r. n. 380 del 2001 contestata al capo b). Ciò sul presupposto che tale figura di reato sia applicabile a tutte le opere realizzate in zona sismica, indipendentemente dalla funzione statica dalle stesse svolte; e non essendo stato, per altro verso, dimostrato che gli imputati versassero, nella specie, in una situazione di errore scusabile, anche tenuto conto del consolidato indirizzo interpretativo della giurisprudenza di legittimità in materia di obblighi di informazione sulla normativa settoriale.

Considerato in diritto

  1. Il ricorso è fondato. 2. Con la fattispecie descritta al capo b) della rubrica è stato contestato agli imputati di avere omesso di presentare allo Sportello unico per l’edilizia la denuncia delle opere strutturali indicate al capo a) – consistenti di un muro di confine, dei piloni di sostegno di un cancello, di un muretto di recinzione su strada – prima di procedere al loro inizio. Come correttamente posto in luce dal ricorrente, la contravvenzione de qua sanziona, al comma 1, l’omesso preavviso scritto allo sportello unico delle “costruzioni, riparazioni e sopraelevazioni” alla cui presentazione è tenuto chiunque intenda procedervi “nelle zone sismiche di cui all’articolo 83”. Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di questa Corte il reato in contestazione resta integrato indipendentemente sia dalle caratteristiche dell’opera edilizia, che può consistere in qualsiasi intervento edilizio – con la sola eccezione di quelli di semplice manutenzione ordinaria – effettuato in zona sismica, comportante o meno l’esecuzione di opere in conglomerato cementizio armato (Sez. 3, n. 48005 del 17/09/2014, dep. 20/11/2014, Gulizzi e altro, Rv. 261155), sia dal grado di sismicità dell’area, essendo il reato de quo configurabile anche in caso di esecuzione di lavori in zona inclusa tra quelle a basso indice sismico (v. Sez. 3, n. 22312 del 15/02/2011, dep. 6/06/2011, Morini, Rv. 250369). Ne consegue che, già sotto il profilo dell’elemento oggettivo, la sentenza impugnata si mostra gravemente carente, essendosi la stessa soffermata unicamente sulle caratteristiche dell’opera in rapporto alla sua funzione statica ed ai conseguente obbligo di denuncia, senza in alcun modo affrontare il concorrente profilo della sismicità dell’area interessata dall’intervento, la quale avrebbe, dunque, imposto di ottemperare agli obblighi comunicativi. 3. Sotto altro aspetto, si è opinato, da parte della difesa degli imputati, e il primo giudice ha condiviso tale prospettazione, che gli stessi sarebbero incorsi in errore scusabile per avere deciso di non presentare la denuncia allo Sportello unico sulla base della Circolare del Ministero dei lavori pubblici 14/02/1974, n. 11951, non essendo gli stessi tenuti a conoscere il contrario indirizzo della giurisprudenza di legittimità, che affermerebbe, in siffatte ipotesi, la rilevanza penale dell’omissione della denuncia e, per converso, l’irrilevanza delle eventuali previsioni difformi da parte delle circolari amministrative. 3.1. Sul punto, osserva il Collegio che la consolidata produzione giurisdizionale di questa Corte è ormai pervenuta ad affermare, sulla scia della fondamentale sentenza n. 368/88 della Corte costituzionale, che nelle fattispecie contravvenzionali la buona fede può acquistare rilevanza giuridica solo a condizione che essa si traduca nella mancanza di consapevolezza dell’illiceità del fatto e che derivi da un elemento positivo estraneo all’agente, consistente in una circostanza che induca alla convinzione della liceità del comportamento tenuto, la prova della sussistenza del quale deve essere fornita dall’imputato, unitamente alla dimostrazione di avere compiuto tutto quanto poteva per osservare la norma violata (Sez. 3, n. 35314 del 20/05/2016, dep. 23/08/2016, P.M. in proc. Oggero, Rv. 268000; Sez. 4, n. 9165 del 5/02/2015, dep. 2/03/2015, Felli, Rv. 262443; Sez. 3, n. 42021 del 18/07/2014, dep. 9/10/2014, Paris, Rv. 260657; Sez. 3, n. 49910 del 4/11/2009, dep. 30/12/2009, Cangialosi e altri, Rv. 245863; Sez. 3, n. 46671 del 5/10/2004, dep. 1/12/2004, Sferlazzo, Rv. 230889; Sez. 3, n. 12710 del 29/11/1994, dep. 21/12/1994, D’Alessandro, Rv. 200950). Ciò sul presupposto che gli inderogabili doveri di solidarietà sociale stabiliti dall’art. 2 Cost. impongono al destinatario di una determinata normativa di adempiere a stringenti oneri informativi, i quali richiedono che, prima di porre in essere l’attività disciplinata da specifiche disposizioni, egli si adoperi per sciogliere i dubbi che eventualmente concernano il lecito svolgimento di essa o le particolari modalità previste per la sua esecuzione. Ora, se per un verso non può in assoluto escludersi che la presenza di determinate circolari amministrative possa contribuire a delineare un quadro regolativo confuso e scarsamente idoneo a orientare il comportamento dei consociati (rientrando, l’ipotesi delle circolari, tra gli esempi offerti dalla citata sentenza n. 364/88 per configurare una situazione di scarsa perspicuità dell’assetto normativo, tale eventualmente determinare un errore scusabile), deve nondimeno rilevarsi che, nel caso di specie, le circolari invocate riguardavano, come già osservato (v. supra § 2), tutt’altro oggetto rispetto alla problematica che viene, qui, in rilievo: ovvero l’obbligatorietà della preventiva denuncia di opere in cemento armato inidonee ad assolvere una funzione statica e non, come invece sarebbe stato necessario, l’obbligatorietà della comunicazione connessa alla sismicità dell’area interessata dall’intervento edificatorio. Consegue a quanto appena rilevato che, in ogni caso, anche sotto questo dirimente profilo, deve escludersi qualunque rilevanza, sotto il profilo scusante, a quanto stabilito dalla cennata circolare e, corrispondentemente, al convincimento maturato dagli imputati alla stregua delle sue disposizioni. 4. Alla luce delle considerazioni che precedono, il ricorso deve essere accolto, sicché la sentenza impugnata deve essere annullata limitatamente al reato di cui al capo b), con rinvio ai Tribunale di Asti.

P.Q.M.

annulla la sentenza impugnata limitatamente al reato di cui al capo b) e rinvia al Tribunale di Asti.

Tutela de credito. Quale il rimedio se il debitore cede l’azienda a terzi ?

Sovente capita di imbattersi in casi di cessione d’azienda o di ramo d’azienda strumentali  posti in essere da società o imprese indebitate.

In questo caso ai creditori insoddisfatti non resta sovente altra alternativa che rivolgersi al cessionario per riscuotere i loro crediti.

E’ altrettanto frequente, tuttavia, soprattutto quando l’operazione è finalizzata ad eludere la garanzia del credito, che il cessionario tenda a sottrarsi .

Per inciso e brevemente riepilogando la disciplina civilistica,  occorre sottolineare che ai sensi dell’articolo 2560 c.c. – fermo restando che l’alienante non è liberato dai debiti, inerenti l’esercizio dell’azienda ceduta anteriori al trasferimento, se non risulta che creditori vi abbiano consentito –  nel trasferimento dell’azienda commerciale, l’acquirente dell’azienda stessa risponde dei debiti suddetti a condizione che essi risultino dai libri contabili obbligatori.

Proprio questo è il punto. Infatti, spesso accade che il cessionario corresponsabile non collabori e resista, mentre l’onere della prova (che il debito risulti dei libri contabili) grava sul creditore.

Può accadere quindi che il dì cessionario affermi di non avere ricevuto la copia delle scritture contabili perché, ad esempio, le stesse sono andate smarrite (tra l’altro i piccoli imprenditori non sono obbligati alla tenuta delle scritture contabili).

Ora, la giurisprudenza interpreta la norma dell’articolo 2560 c.c. in maniera restrittiva, nel senso che non consente di ovviare altrimenti alla prova dell’annotazione del debito sulle scritture contabili (ad esempio per via testimoniale o anche semplicemente dimostrando che il cessionario sapeva). Lo stesso consolidato indirizzo tende a ritenere che “i libri contabili obbligatori” sono soltanto quelli previsti dall’articolo 2214 cpc vale a dire il libro giornale e il libro inventari e non altri tra i quali ad esempio registro Iva acquisti, e   persino che la inesistenza per qualunque ragione delle scritture contabili preclude il sorgere della responsabilità del cessionario.

Aggiungersi che i libri contabili non sono documenti pubblici e per questo i terzi non possono accedervi.

In questo quadro complesso si inserisce la sentenza che si annota, di indubbio interesse perché suggerisce una  soluzione per aggirare gli ostacoli che la  rigida normativa civilistica ( applicata in maniera, per lo più intransigente , dalla giurisprudenza)  detta per disciplinare il regime dei crediti nel contesto della cessione d’azienda.

Secondo il Tribunale di Parma, infatti, il giudice può desumere argomenti di prova ai sensi dell’articolo 116 cpc in pregiudizio della parte ( in genere il cessionario)  che non abbia ottemperato ( e quindi si sia sottratto)  all’ordine  di esibizione  in giudizio delle scritture contabili dell’azienda ceduta), dovendosi ritenere ammessi i fatti che avrebbero dovuto essere dimostrati attraverso le scritture contabili non esibite.

A tale proposito la Corte territoriale richiama anche un precedente conforme della Corte di Cassazione (Cass. n. 188 del 1996) .

Altri rimedi esperiti, da creditori che hanno subito il depauperamento del patrimonio aziendale, per contrastare manovre elusive della garanzia del credito, nella casistica sono l’azione revocatoria del contratto di  cessione d’azienda e l’azione di responsabilità dei creditori verso gli amministratori che hanno ceduto l’azienda.

V’è da osservare, per inciso, che la soluzione suggerita da questa sentenza non può trovare applicazione laddove la cessione d’azienda riguarda la piccola impresa per la quale non vige l’obbligo della tenuta delle scritture contabili civilistiche.

Testo della sentenza

Tribunale Parma, 23 agosto 2016 – Giud. Cicriò – Euroaudiomedical Service 2008 seri (avv. Borri) – BT Enia Telecomunicazioni spa (avv. Cantelli).

Azienda – Cessione di ramo – Omessa esibizione dei libri contabili – Responsabilità per debiti

Omissis.Motivi della decisione.

L’appello non è fondato. Con ordinanza del 6 luglio 2010 il giudice di pace ordinò ad EuroAudioMedical srl in liqui­dazione c all’attuale appellante Euroaudiomedical Service 2008 seri {rispettivamente cedente e cessionario del ramo di azienda giusta atto del 15 gennaio 2009) l’esibizione in giudizio dei libri contabili obbligatori relativi agli esercizi 2003 – 2005 della società cedente. Risulta pacifico, per quanto rileva in questa sede, che l’appellante non ebbe ad ottemperare a tale richiesta (correttamente notificata presso la sua sede legale) e la sua asserzione di non esserne nella disponibilità della documentazione richiesta è del tut­to destituita di credibilità posto che in base a minimi criteri di avvedutezza nelle transazioni commerciali, è da ritenere che una società che acquisisca un ramo di azienda, rispon­dendo dei debiti sociali dell’alienante ove risultanti dai libri contabili obbligatori ex art. 2560 secondo comma cc, ne­cessariamente si premunirà di acquisire e compulsare gli stessi prima di determinarsi a procedere alla stipula per poi conservarli al fine di poterli opporre ad eventuali cre­ditori. Ciò secondo l’appellante non sarebbe avvenuto nel caso in esame e la deduzione di essersi accontentata delle dichiarazioni del legale rappresentante della cedente circa l’inesistenza di debiti a carico del ramo di azienda non è minimamente credibile, se non volendo ritenere, anche alla luce degli stretti rapporti di parentela tra gli amministratori delle due società, che la cessione sia stata architettata al fine di frodare i creditori della cedente. Si può quindi condividere la valutazione operata dal giudice di prime cure se­condo cui l’appellante volontariamente abbia omesso di procedere alla produzione in giudizio delle scritture conta­bili, con la conseguenza che tale condotta possa assurgere quale argomento di prova ai sensi dell’art. 116 secondo comma epe, dovendosi ritenere ammessi i fatti che avreb­bero dovuto essere dimostrati attraverso le scritture conta­bili non esibite.

La giurisprudenza intatti (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 188 del 1996), dall’ingiustificata inottemperanza all’ordine di esibizione emesso ai sensi dell’art. 210 cod. proc. civ, ha ritenuto che il giudice possa desumere argomenti di prova, ai sensi dell’art. 116 c.p.c, in pregiudizio della parte che non vi abbia ottemperato, in base al principio della vici­nanza della prova (Sez. 2, Sentenza n. 20110 del 02/09/ 2013) ed alla leale collaborazione delle parti con il giudice.

L’appello deve pertanto essere respinto dovendosi ritenere sussistente la responsabilità dell’appellante per i debiti re­lativi all’azienda ceduta ai sensi dell’art. 2560 secondo com­ma ce, il che assorbe il secondo motivo di appello. – Omìssis

 

 

Testamento olografo.  E’ valido un testamento redatto con “mano guidata” ?

 

Secondo  Cass. civile, sez. VI, 06/03/2017 n. 5505   in presenza di aiuto e di guida della mano del testatore da parte di una terza persona, per la redazione di un testamento olografo, tale intervento del terzo, di per sè, escluda il requisito dell’autografia di tale testamento, indispensabile per la validità del testamento olografo, a nulla rilevando l’eventuale corrispondenza del contenuto della scheda alla volontà del testatore. Nella fattispecie  un amico di vecchia data del defunto  lo aveva aiutato a scrivere il testamento, avendo preso la mano destra del de cuius,  guidandola mentre l’altro dettava, atteso che il D.F. aveva un tremolio e non riusciva a scrivere da solo.

Occorre in proposito ricordare che è affermazione ricorrente nella giurisprudenza di legittimità  che il testatore, il quale a causa del suo stato di salute o per carenza di istruzione, redige il testamento olografo con l’aiuto di altra persona che gli guida la mano, indubbiamente collabora alla materiale compilazione del documento, quanto meno sorreggendo la penna e contribuendo alla formulazione delle lettere, tuttavia, ciò comporta la mancanza dell’autografia, elemento indispensabile per la validità del testamento olografo, nel quale si richiede che data, testo dell’atto e sottoscrizione provengano esclusivamente dal testatore e qualora il de cuius, per redigere il testamento olografo, abbia fatto ricorso all’aiuto materiale di altra persona che ne abbia sostenuto e guidato la mano nel compimento di tale operazione, tale circostanza è sufficiente ad escludere il requisito della autografia, a nulla rilevando l’eventuale corrispondenza del contenuto della scheda testamentaria alla reale volontà del testatore.

 

Testo della sentenza

Cassazione civile, sez. VI, 06/03/2017, (ud. 13/01/2017, dep. 06/03/2017)

Fatto

Motivi In Fatto Ed In Diritto Della Decisione

Il Tribunale di Vercelli e la Corte d’Appello di Torino, poi, per quanto ancora rileva in questa sede, hanno concordemente ravvisato la nullità del testamento olografo recante la data del 29/9/1997, con il quale il defunto D.F.G. disponeva in favore della moglie V.E.T. del castello di sua proprietà, con tutti i suoi arredi e della tenuta in località (OMISSIS).

Per l’effetto hanno accolto la domanda proposta dalle sorelle (e loro aventi causa) del de cuius, affermando che la successione era totalmente regolata dalla legge, con il concorso quindi su tutti i beni relitti sia del coniuge che delle sorelle.

In particolare la Corte d’Appello, nel confermare la valutazione già espressa dal giudice di prime cure, ha ritenuto che il testamento di cui sopra era stato redatto con “mano guidata”, e che per l’effetto fosse nullo in quanto privo del requisito dell’olografia, atteso che, come emergeva dalla deposizione del teste M.E., amico di vecchia data del defunto, questi lo aveva aiutato a scrivere il testamento, avendo preso la mano destra del de cuius, guidandola mentre l’altro dettava, atteso che il D.F. aveva un tremolio e non riusciva a scrivere da solo.

In motivazione la sentenza di appello ha altresì aggiunto che dalla deposizione del M. emergeva che non appariva del tutto chiaro se si fosse limitato solo a guidare la mano del testatore ovvero se avesse scritto il testo dell’atto mortis causa sotto dettatura, ma che tale dubbio non era idoneo ad immutare la conclusione circa l’assenza di autografia dell’atto.

In punto di diritto ha infatti osservato che in ragione del particolare rigore formale richiesto dal legislatore per il testamento, e tenuto conto della particolare semplicità di redazione del testamento olografo che deve indurre a prevenire la possibilità di interventi perturbatori della volontà del testatore, deve privilegiarsi la tesi maggioritaria nella giurisprudenza secondo cui il testamento a mano guidata dal terzo deve ritenersi affetto da nullità.

Dopo avere riepilogato i precedenti di legittimità che hanno sposato la tesi più rigorosa, la Corte d’Appello si è fatta anche carico di evidenziare il precedente contrario costituito da Cass. n. 32/1992, che però non riteneva di condividere, proprio in ragione delle esposte esigenze di natura formalistica immanenti al sistema legislativo in materia testamentaria.

Avverso questa sentenza la convenuta ha proposto ricorso per cassazione sulla base di due motivi, cui hanno resistito, con controricorso le parti vittoriose in grado di appello.

Con il primo motivo di ricorso si denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt. 602 e 606 c.c., ritenendosi che la conclusione della Corte distrettuale sarebbe erronea nell’affermare la nullità anche nel caso di testamento a mano guidata, nel caso in cui il terzo collabori solo nella redazione del gesto grafico, sorreggendo la mano del testatore, che comunque è consapevole dell’atto che sta compiendo e del suo effettivo contenuto.

Nella fattispecie ricorreva appunto tale situazione, in quanto era emerso dalla stessa deposizione del teste M. che al D.F. era interamente riconducibile il contenuto del testamento, dovendo quindi escludersi sia l’allografia dell’atto sia il pericolo che risultino tradite le effettive volontà.

Al fine di sorreggere tale assunto si è richiamato il precedente di questa Corte n. 32/1992 che ha appunto ritenuto valido il testamento in un caso in cui la mano del testatore era stata accompagnata dal terzo al fine di eliminare scarti e tremoli nel gesto grafico.

Ritiene il Collegio che le puntuali indicazioni fornite dalla Corte distrettuale a favore della tesi più rigorosa, corredate di precisi riferimenti alla giurisprudenza di questa Corte, che nella quasi totalità dei casi in cui si è occupata della fattispecie della mano del testatore, guidata dal terzo, è pervenuta alla conclusione della nullità del testamento, non consentano di ravvisare la sussistenza del dedotto errore di diritto.

In tal senso, come già affermato dalla Cassazione nella recente ordinanza della Sesta sezione n. 24882/2013, deve ritenersi che, in presenza di aiuto e di guida della mano del testatore da parte di una terza persona, per la redazione di un testamento olografo, tale intervento del terzo, di per sè, escluda il requisito dell’autografia di tale testamento, indispensabile per la validità del testamento olografo, a nulla rilevando l’eventuale corrispondenza del contenuto della scheda alla volontà del testatore (cfr. Cass. 17.3.1993 n. 3163; cfr. anche Cass. n. 681 del 1949; Cass. n. 7636 del 1991; Cass. n. 11733 del 2002; Cass. 30.10.2008 n. 26258).

In tale ultimo precedente, la Corte si è premurata anche di fornire una condivisibile lettura della portata della sentenza n. 32 del 7.1.1992, che parte ricorrente pone a fondamento della richiesta di rivalutazione dell’orientamento maggioritario, sposato anche dal giudice di merito nel provvedimento gravato, osservando che nel caso deciso in quella circostanza il testatore si era fatto guidare la mano solo per vergare la data della scheda con maggiore chiarezza, sicchè la validità di tale testamento era dipesa dal fatto che il difetto di autografia concerneva solo la data, ovvero un elemento la cui mancanza comporta solo l’annullabilità e non la nullità del testamento ex art. 606 c.c., commi 1 e 2.

In ogni caso, anche a voler soprassedere alle giustamente segnalate diversità di cui alla vicenda decisa nel 1992, deve ritenersi decisamente più corrispondente alla ratio della norma la soluzione che perviene alla nullità per difetto di olografia per ogni ipotesi di intervento del terzo che guidi la mano del testatore, trattandosi di condotta che appare in ogni caso idonea ad alterare la personalità e l’abitualità del gesto scrittorio, requisiti indispensabili perchè possa parlarsi di autografia, laddove la diversa soluzione auspicata da parte della ricorrente, condizionerebbe l’accertamento della validità o meno del testamento alla verifica di ulteriori circostanze, quali la effettiva finalità dell’aiuto del terzo, ovvero la verifica della corrispondenza effettiva del testo scritto alla volontà dell’adiuvato, che minerebbero in maniera evidente le finalità di chiarezza e semplificazione che sono alla base della disciplina del testamento olografo.

Ne discende che deve darsi continuità alla prevalente giurisprudenza di legittimità cui ha aderito anche la Corte di merito, non palesandosi la necessità, contrariamente a quanto richiesto dalla ricorrente, della rimessione della questione alle Sezioni Unite.

Nel caso di specie, emerge poi che l’intervento della mano del M. – come accertato adeguatamente in fatto dalla Corte torinese – ha interessato l’intero testo della scheda, dovendosi quindi reputare corretta la conclusone cui è pervenuto il giudice di merito, circa la nullità per difetto di autografia.

Il rigetto del primo motivo, e la conseguente affermazione della correttezza della conclusione in punto di nullità in caso di testamento redatto da mano guidata, rende poi del tutto evidente anche l’assorbimento del secondo motivo di ricorso che investe l’omessa disamina da parte della Corte distrettuale di un fatto decisivo, costituito dalla permanenza in capo al de cuius alla data di redazione del testamento, della capacità di scrivere, in quanto, anche laddove fosse accertato che la stessa permaneva, ai fini della risoluzione della vicenda rileva unicamente la circostanza che poi il testamento sia stato redatto con modalità che ne determinano la nullità.

In definitiva deva ravvisarsi la manifesta infondatezza del ricorso (con riferimento a tutti i motivi), essendo state decise nella sentenza impugnata questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e non offrendo l’esame dei motivi elementi per mutare l’orientamento di detta giurisprudenza, ravvisandosi, altresì, l’adeguatezza e la logicità della disamina delle circostanze di fatto.

Il ricorso deve pertanto essere rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto l’art. 13, comma 1 quater, del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

PQM

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso delle spese in favore delle controricorrenti che liquida per ognuno dei due gruppi di controricorrenti in complessivi Euro 5.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15 sui compensi, ed accessori come per legge;

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente del contributo unificato dovuto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, art. 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 13 gennaio 2017.

Depositato in Cancelleria il 6 marzo 2017

 

 

 

 

 

Novità dal mondo legislativo. Riforma giustizia penale; Fondi per le vittime dell’amianto; Tabelle in materia di danno non patrimoniale

  • Riforma della giustizia penale   
  • E’ stata approvata dal Senato alcuni giorni orsono la nuova riforma della giustizia penale. Il progetto di legge che ha suscitato la reazione dell’avvocatura soprattutto per l’allungamento dei tempi della prescrizione (che determinerebbe una dilatazione dei tempi dei processi per l’inevitabile “rilassamento” che comporterebbe in un contesto giudiziario già inefficiente) con quel che ne consegue per le persone sottoposte a processo portatori di legittime aspettative di vedere risolti in tempi “ragionevoli” le vicende giudiziarie che li riguardano)
  • Questi in sintesi i tratti salienti della riforma.
  • Prescrizione più lunga – per i nuovi processi – e sospensione del decorso della prescrizione in caso di sentenze di condanna di primo e secondo grado; stretta sulla diffusione delle intercettazioni (un archivio riservato, sotto la responsabilità del pm, custodirà i contenuti delle intercettazioni inutilizzabili a qualunque titolo o contenenti dati personali, e che non siano inseriti nelle richieste cautelari. I difensori potranno esaminarle o ascoltarle ma non trascriverle), inoltre è prevista anche la legittimazione dell’uso dei trojan (meglio noti come virus informatici) per le intercettazioni; pene più alte per i reati contro il patrimonio; aumento del numero dei reati procedibili a querela, con possibilità di redenzione tramite condotte riparatorie; maggiori facoltà nel procedimento per le persone offese; potenziamento dell’aspetto rieducativo e di risocializzazione dell’esecuzione penale; reintroduzione del concordato in appello.
  • Per effetto di alcune modifiche introdotte sino all’ultimo momento il progetto di legge dovrà tornare alla camera.

 

I fondi a favore degli eredi di coloro che sono deceduti pere esposizione all’amianto

L’auspicio è che il legislatore, come già accade in altri  paesi europei ( tra i quali Francia, Belgio e Olanda), riconosca  che le malattie dell’amianto rappresentano un problema  di natura sociale  che va affrontato sul piano del welfare, e alimenti i fondi destinati a erogare prestazioni aggiuntive a carico dello Stato, a favore degli eredi dei lavoratori vittime dell’esposizione ad amianto.

E’ stato pubblicato sulla G.U. n. 1 del 2 gennaio 2017 il decreto interministeriale del 27/10/2016 (dei ministeri del lavoro e delle politiche sociali e delle finanze) che prevede prestazioni economiche erogabili a favore degli eredi di coloro che sono deceduti a seguito di patologie asbesto-correlate per esposizione all’amianto, nell’esecuzione delle operazioni portuali nei porti nei quali hanno trovato applicazione le disposizioni della legge 27 marzo 1992, n. 257.

Il decreto è stato emanato in attuazione dell’art. 1, comma 278, della Legge 28/12/2105 n. 208 (stabilità 2016) che aveva “istituito nello stato di previsione del Ministero  del  lavoro  e delle politiche sociali il Fondo  per  le  vittime  dell’amianto,  in favore degli eredi di coloro che sono deceduti a seguito di patologie asbesto-correlate per esposizione all’amianto  nell’esecuzione  delle operazioni portuali nei porti nei quali hanno trovato applicazione le disposizioni della legge 27 marzo 1992, n. 257, con una dotazione  di 10 milioni di euro per ciascuno degli anni  2016,  2017  e  2018”.

Il nuovo Fondo ha una dotazione di 10 milioni di euro per ciascuno degli anni 2016, 2017 e 2018.

IL decreto segue quello del 29/4/2016 (su G.U. n. 134 del 10/6/2016), emanato in attuazione del comma 277, dello stesso articolo 1 della legge di stabilità 2016, istitutivo di un Fondo (con una dotazione pari a 2  milioni  di  euro per  ciascuno  degli  anni  2016,  2017  e   2018) finalizzato   ad accompagnare alla quiescenza, entro l’anno 2018, i  lavoratori  del  settore  della  produzione  di materiale rotabile ferroviario che hanno prestato la loro  attività  nel  sito produttivo, senza essere dotati degli equipaggiamenti  di  protezione adeguati  all’esposizione  alle  polveri  di  amianto.

Il provvedimento legislativo dovrebbe entrare in vigore il quindicesimo giorno successivo alla pubblicazione (il 17/1/2017), oppure lo stesso giorno se ritenuto a efficacia immediata (il 2/1/2017).

Negli anni recenti il legislatore è ritornato più volte sulla questione dei benefici previdenziali e degli indennizzi dei danni conseguenti all’utilizzo dell’amianto (ormai generalmente vietato dal 1992) con provvedimenti contenuti in diverse Leggi finanziarie e di stabilità e altri provvedimenti.

 Risarcimento danni. Sì della Camera al d.d.l. sul risarcimento del danno non patrimoniale

 La Camera dei deputati ha approvato il 21 marzo 2017 il d.d.l. recante «modifiche alle disposizioni per l’attuazione del codice civile in materia di determinazione e risarcimento del danno non patrimoniale». Se anche il Senato darà la sua approvazione si applicheranno, per legge, le tabelle milanesi.

La proposta di legge stabilisce che tanto il danno non patrimoniale derivante dalla lesione temporanea o permanente dell’integrità psico-fisica, quanto il danno non patrimoniale derivante dalla perdita del rapporto di tipo familiare, devono essere liquidati dal giudice, con valutazione equitativa, sulla base delle tabelle, che vengono allegate alle disposizioni di attuazione del codice civile.

Si tratta delle tabelle elaborate dall’Osservatorio sulla Giustizia civile di Milano. La Commissione Giustizia ha modificato la tabella relativa al danno non patrimoniale per la morte del congiunto, aggiungendo al riferimento al coniuge un richiamo alla parte dell’unione civile.

In base alla proposta di legge, il giudice può, tenuto conto delle condizioni soggettive del danneggiato, aumentare l’ammontare della liquidazione fino al 50% dovendo motivare la propria decisione.

Inoltre, le nuove disposizioni potranno essere applicate ai procedimenti in corso all’entrata in vigore della legge, qualora il risarcimento non sia stato ancora determinato in via transattiva oppure non sia già stato liquidato dal giudice con sentenza, anche non definitiva.

Con decreto del Ministro della salute i valori di liquidazione del danno stabiliti dalle tabelle dovranno essere aggiornati ogni anno, in misura corrispondente alle variazioni degli indici ISTAT dei prezzi al consumo.