Categoria: Penale

Omesso versamento di ritenute previdenziali.La Cassazione conferma che la nuova soglia di punibilità non abroga il reato.

(Cassazione Penale, sez. III, n. 649/17; depositata il 9 gennaio)

“Deve ritenersi che il legislatore non abbia affatto inteso abrogare il reato di cui all’art. 2, comma 1 bis, legge n. 638 del 1983 ma, lasciandone immutata la condotta omissiva, abbia inteso introdurre la necessità del superamento di un importo di per sé significativo, anche in ragione della mutata realtà socio – economica, caratterizzata da maggiori difficoltà di liquidità e del contemperamento con le esigenze connesse al sistema previdenziale – pensionistico, dell’indice di necessaria offensività della condotta.”

 La sentenza riguarda il reato di omesso versamento di ritenute previdenziali  che il Legislatore, con il D. Lgs. n. 8 del 2016, ha riformato introducendo una soglia di punibilità..

Allo stato, l’omesso versamento di ritenute previdenziali integra il reato ove l’importo non versato sia superiore a Euro 10.000 annui. La riforma, dunque, non solo ha introdotto una soglia di punibilità, ma ha ricollegato tale superamento al periodo temporale dell’anno.

La diversa struttura del reato determina un diverso momento consumativo che incide sul calcolo del termine di prescrizione: mentre nel precedente assetto normativo il reato si consumava in corrispondenza di ogni omesso versamento mensile, nell’attuale struttura la consumazione appare coincidere, alternativamente, o con il superamento, a partire dal mese di gennaio, dell’importo di Euro 10.000, ove allo stesso non faccia più seguito alcuna ulteriore omissione, o con l’ulteriore o le ulteriori omissioni successive sempre riferite al medesimo anno ovvero, definitivamente e comunque, laddove anche il versamento del mese di dicembre sia omesso, con la data del 16 gennaio dell’anno successivo.

Ciononostante, con la sentenza in epigrafe la Suprema Corte di Cassazione ha chiarito che le modifiche  introdotte con il D. Lgs. n. 8 del 2016 non hanno determinato l’introduzione di una fattispecie di reato totalmente nuova e diversa rispetto a quella di cui al precedente assetto normativo.

La Corte giunge a tale conclusione osservando che la nuova formulazione mantiene inalterato il nucleo caratterizzante il reato, ovvero la condotta omissiva del mancato versamento di ritenute previdenziali.

Inoltre, i Giudici di legittimità osservano che a tale esito deve giungersi in ragione del mantenimento della stessa sanzione già originariamente prevista.

Dott. Matteo Gambarati (Studio Legale Orlandi)

 

Testo della sentenza

Cassazione penale sez. III 20/10/2016 n. 649

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

  SEZIONE TERZA PENALE

  Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:              Dott. DI NICOLA Vito           –  Presidente   –                    Dott. ROCCHI   Giacomo    –  rel. Consigliere  –                    Dott. LIBERATI Giovanni        –  Consigliere  –                    Dott. GAI       Emanuela        –  Consigliere  –                    Dott. SCARCELLA Alessio         –  Consigliere  –                    ha pronunciato la seguente:                                                                      SENTENZA

sul ricorso proposto da:

             M.F. nato il (OMISSIS); avverso la sentenza del 26/02/2016 della CORTE APPELLO di PALERMO; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita in PUBBLICA UDIENZA del 20/10/2016, la relazione svolta dal Consigliere GIACOMO ROCCHI; Udito il Procuratore Genera e in persona del PASQUALE FIMIANI, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.

Fatto RITENUTO IN FATTO

  1. Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte di appello di Palermo, in riforma di quella del Tribunale di Trapani emessa nei confronti di M.F. ed appellata dal Procuratore della Repubblica di Trapani, dichiarava non doversi procedere nei confronti dell’imputato per l’omesso versamento delle ritenute previdenziali operate nei mesi di gennaio e febbraio 2007 perchè reato estinto per prescrizione; assolveva l’imputato dallo stesso reato per l’omesso versamento relativo agli anni 2006 e 2008 perchè il fatto non è più previsto dalla legge come reato, disponendo la trasmissione degli atti all’I.N.P.S.; dichiarava l’imputato colpevole del reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali operate nel periodo da marzo a dicembre 2007 e lo condannava alla pena di mesi due di reclusione ed Euro 200,00 di multa.

La Corte osservava che il totale delle ritenute mensilmente non versate nel 2007 superava la somma di 10.000 Euro, cosicchè la condotta non poteva ritenersi depenalizzata; negava il decorso della prescrizione per il periodo marzo – dicembre 2007, ricordando che il reato si consuma il giorno 16 del mese successivo a quello della ritenuta, che il termine di prescrizione è sospeso durante i tre mesi successivi alla diffida e che, sia nel corso del giudizio di primo grado che in quello di appello, il termine era stato ulteriormente sospeso.

La Corte ricordava che la diffida INPS era stata notificata in carcere all’imputato unitamente all’avviso di conclusione delle indagini preliminari.

Venivano negate all’imputato le attenuanti generiche; la pena base veniva fissata, per il mese di giugno 2007, in mesi uno e giorni sei di reclusione ed Euro 120,00 di multa, con aumento di giorni sei di reclusione ed Euro 20 di multa per ciascuno dei reati relativi agli altri mesi in contestazione.

  1. Ricorre per cassazione il difensore di M.F., deducendo violazione dell’art. 157 c.p., e del D.L. n. 463 del 1983, art. 2, comma 1 bis.

La Corte territoriale avrebbe dovuto dichiarare prescritti anche gli omessi versamenti relativi ai mesi di marzo, aprile e maggio 2007 e, quindi, assolvere l’imputato per quelli dei mesi successivi, tenuto conto che il totale delle ritenute evase dal giugno al dicembre 2007 non superava la somma di 10.000 Euro.

Il ricorrente contesta che la prescrizione rimanga sospesa durante i tre mesi successivi alla diffida ed osserva che, con riferimento all’omesso versamento relativo al mese di marzo 2007, il decreto di citazione era stato emesso dopo il decorso del termine ordinario di prescrizione.

In un secondo motivo, il ricorrente deduce violazione di legge e vizio di motivazione.

La diffida da parte dell’I.N.P.S. non era stata notificata regolarmente all’imputato che, pertanto, non ne era venuto a conoscenza; la Corte aveva ritenuto superato il dato in conseguenza della notifica dell’avviso di cui all’art. 415 bis c.p.p.: ma non si trattava di atto equipollente.

Di conseguenza non era preclusa la facoltà di ricorrere alla causa di non punibilità prevista dall’art. 2, comma 1 bis cit..

In un terzo motivo il ricorrente deduce violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla mancata concessione delle attenuanti generiche e alla quantificazione della pena.

Diritto CONSIDERATO IN DIRITTO

  1. Il ricorso è infondato.

In primo luogo deve affermarsi che, a seguito della riforma della norma incriminatrice operata dal D.Lgs. n. 8 del 2016, la soglia di punibilità di riferimento è stabilita in Euro 10.000 Euro annui; ciò comporta che, anche se i reati relativi ad alcuni mesi sono estinti per prescrizione, per valutare la punibilità della condotta, occorre ugualmente avere riguardo alla somma delle ritenute non versate nel corso dell’intero anno (Sez. 3, n. 14729 del 09/02/2016 – dep. 11/04/2016, Ratti, Rv. 26663301).

In realtà, la riforma operata ha inciso in maniera rilevante sulla struttura del reato e, quindi, anche sulla data della consumazione e della conseguente decorrenza della prescrizione.

Stabilendo che l’omesso versamento delle ritenute previdenziali integra reato ove l’importo sia superiore a quello di 10.000 Euro annui, il legislatore non si è limitato semplicemente ad introdurre un limite di “non punibilità” delle condotte lasciando inalterato, per il resto, l’assetto della precedente figura normativa (che, come noto, nessun limite prevedeva), ma ha configurato tale superamento, strettamente collegato al periodo temporale dell’anno, quale vero e proprio elemento caratterizzante il disvalore di offensività che viene a segnare, tra l’altro, il momento consumativo dello stesso; in altri termini, il reato deve ritenersi già perfezionato, in prima battuta, nel momento e nel mese in cui l’importo non versato, calcolato a decorrere dalla mensilità di gennaio dell’anno considerato, superi l’importo di 10.000 Euro senza che, peraltro, attesa, come si è detto, la necessaria connessione con il periodo temporale dell’anno, le ulteriori omissioni che seguano nei mesi successivi dello stesso anno sino al mese finale di dicembre possano “aprire” un nuovo periodo e, dunque, dare luogo, in caso di secondo superamento, ad un ulteriore reato. Tali omissioni, infatti, contribuiscono ad accentuare la lesione inferta al bene giuridico per effetto del già verificatosi superamento dell’importo di legge sicchè, da un lato, non possono semplicemente atteggiarsi quale post factum penalmente irrilevante e, dall’altro, approfondendo il disvalore già emerso, non possono segnare, in corrispondenza di ogni ulteriore mensilità non versata, un ulteriore autonomo momento di disvalore (che sarebbe infatti assorbito da quello già in essere).

Ricorre, in realtà dunque, a ben vedere, alla stessa stregua di altre figure criminose (come, ad esempio, le fattispecie di corruzione o di usura: cfr. rispettivamente, per la prima, Sez. 6, n. 49226 del 25/09/2014, Chisso, Rv.261352; per la seconda, da ultimo, Sez. 2, n. 40380 del 11/06/2015, P.G., Tiesi in proc. Cardamone, Rv.264887), una fattispecie caratterizzata dalla progressione criminosa nel cui ambito, una volta superato il limite di legge, le ulteriori omissioni nel corso del medesimo anno si atteggiano a momenti esecutivi di un reato unitario a consumazione prolungata la cui definitiva cessazione viene a coincidere con la scadenza prevista dalla legge per il versamento dell’ultima mensilità, ovvero, come noto, con il termine del 16 del mese di gennaio dell’anno successivo.

Quanto sopra comporta dunque che, rispetto alla precedente figura di reato, il momento consumativo sia evidentemente diverso: mentre nel precedente assetto normativo il reato si consumava in corrispondenza di ogni omesso versamento mensile (cfr., da ultimo, Sez. 3, n. 26732 del 05/03/2015, P.G. in proc. Bongiorno, Rv. 264031), nell’attuale e nuovo la consumazione appare coincidere, secondo una triplice diversa alternativa, o con il superamento, a partire dal mese di gennaio, dell’importo di Euro 10.000 ove allo stesso non faccia più seguito alcuna ulteriore omissione, o con l’ulteriore o le ulteriori omissioni successive sempre riferite al medesimo anno ovvero, definitivamente e comunque, laddove anche il versamento del mese di dicembre sia omesso, con la data del 16 gennaio dell’anno successivo.

La struttura del “nuovo” reato come tratteggiata sopra, impone inoltre di tenere conto, al fine dell’individuazione o meno del superamento del limite di legge di 10.000 Euro, di tutte le omissioni verificatesi nel medesimo anno e, dunque, nella specie, anche di quelle eventualmente estinte per prescrizione: del resto, la mera declaratoria di estinzione del reato per ragioni connesse al decorso del tempo non può significare elisione della materiale sussistenza del fatto di omesso versamento.

La diversa strutturazione del reato comporta dunque che, con riferimento ai fatti pregressi, laddove l’omissione annuale non abbia superato l’importo di 10.000 Euro, debba applicarsi, in quanto norma sicuramente più favorevole, la nuova previsione normativa alla stregua dell’art. 2 c.p., comma 4, mentre, laddove l’importo sia stato superato, previgente norma e nuova norma debbano essere poste a confronto tra loro onde verificare quale delle due sia concretamente più favorevole con riferimento, in particolare, al momento consumativo determinante al fine di individuare la decorrenza del termine di prescrizione (tenuto conto peraltro, in entrambe le fattispecie, del periodo di sospensione di mesi tre di cui al D.L. n. 463 del 1983, art. 2, comma 1 quater, non inciso infatti dalle modifiche di cui sopra).

Nè le modifiche poste in essere dal D.Lgs. n. 8 del 2016, sono state di tale segno da avere comportato l’introduzione di una fattispecie di reato totalmente nuova e diversa rispetto a quella di cui al precedente assetto ed incompatibile rispetto a quest’ultima, con conseguente implicita abrogazione della stessa ex art. 15 preleggi, sì che dovrebbe, nella specie, farsi applicazione non già dell’art. 2 c.p., comma 4, bensì dell’art. 2 c.p., comma 2. In senso chiaramente ostativo rispetto a tale conclusione deve infatti essere evidenziato il mantenimento, in entrambe le figure, del medesimo nucleo caratterizzante il reato, ovvero la condotta omissiva del mancato versamento, rimasta chiaramente inalterata, senza che il mutamento del momento consumativo, inevitabilmente discendente, per quanto già spiegato, dalla diversa strutturazione quantitativo – temporale, possa condurre ad esiti diversi.

Nè può sottovalutarsi, nel senso concorrente alla conclusione qui esposta, il mantenimento della medesima sanzione già originariamente prevista.

In definitiva, per concludere sul punto, deve ritenersi che il legislatore non abbia affatto inteso abrogare il reato di cui alla L. n. 638 del 1983, art. 2, comma 1 bis, ma, lasciandone immutata la condotta omissiva, abbia inteso introdurre la necessità del superamento di un importo di per sè significativo, anche in ragione della mutata realtà socio – economica, caratterizzata da maggiori difficoltà di liquidità e del contemperamento con le esigenze connesse al sistema previdenziale – pensionistico, dell’indice di necessaria offensività della condotta.

  1. Nel caso in esame, l’importo delle ritenute non versate nell’anno 2007 è in ogni caso superiore a 10.000 Euro, dovendosi prescindere dalla declaratoria di prescrizione effettuata per i primi mesi dell’anno.

Sempre rimanendo al tema della prescrizione, il ricorrente sostiene che il termine di prescrizione non è sospeso nei tre mesi successivi alla diffida da parte dell’I.N.P.S.: ma tale sospensione è espressamente prevista dal D.L. n. 463 del 1983, art. 2, comma 1 quater, fin dalla riforma operata nel 1994; il testo è rimasto identico anche a seguito della ulteriore riforma operata dal D.Lgs. n. 8 del 2016.

Di conseguenza, il termine di prescrizione non era decorso nemmeno per il mese di marzo 2007 e con riferimento a tutte le mensilità per le quali la Corte territoriale ha confermato la condanna.

E’ errata anche la deduzione in ordine alla tardività della notifica del decreto di citazione a giudizio rispetto al decorso del termine di prescrizione ordinario di sei anni quanto all’omesso versamento relativo al mese di marzo 2007: in effetti, alla luce della diversa struttura del reato all’epoca vigente, il reato si era consumato il 16/4/2007, cosicchè il deposito del decreto di citazione a giudizio, avvenuto il 4/4/2013, era tempestivo (per di più dovendosi tenere conto anche dei tre mesi di sospensione successivi alla diffida di cui si è già trattato).

  1. Anche il secondo motivo di ricorso è infondato: infatti, la diffida dell’I.N.P.S. era stata notificata unitamente all’avviso di conclusione delle indagini preliminari a cura del P.M..

Non si tratta affatto, come sembra ritenere il ricorrente, di valutare se l’avviso ex art. 415 bis c.p.p., fosse atto equipollente alla diffida, perchè, appunto, il P.M., avvedutosi che la raccomandata dell’Istituto previdenziale non era andata a buon fine, aveva provveduto a notificarla fisicamente all’imputato detenuto.

Anche il terzo motivo di ricorso è infondato: la motivazione della sentenza è ampia e logica nel giustificare il diniego delle attenuanti generiche e la quantificazione della pena.

PQM P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 20 ottobre 2016.

Depositato in Cancelleria il 9 gennaio 2017

 

 

Il falso in Bilancio valutativo secondo le Sezioni Unite.

(Cassazione penale, sez. un., 31/03/2016,  n. 22474)

Sussiste il delitto di false comunicazioni sociali, con riguardo alla esposizione o alla omissione, nel bilancio, di fatti oggetto di valutazione, se, in presenza di criteri di valutazione normativamente fissati o di criteri tecnici generalmente accettati, l’agente da tali criteri si discosti consapevolmente e senza darne adeguata informazione giustificativa, in modo concretamente idoneo ad indurre in errore i destinatari delle comunicazioni”.

La vicenda dalla quale deriva il principio di diritto appena richiamato trae origine dal Fallimento della S.p.a. Aquila Calcio. Nel caso in esame la procura della Repubblica contestava a due amministratori della società Aquila Calcio i reati di bancarotta fraudolenta distruttiva e documentale nonché di bancarotta da reato societario.

Con questa sentenza il Supremo Consesso è intervenuto per dirimere l’importante dibattito giurisprudenziale e dottrinale accesosi in seguito alla riforma dei reati societari operata dal legislatore nel 2015.

In particolare, a seguito delle modifiche apportate dalla l. n. 69 del 2015, non di poco momento era stabilire se il cosiddetto “falso valutativo” continuasse o meno a mantenere rilevanza penale.

Come noto, infatti, con legge 69/2015, art. 9, è stato espunto dagli articoli 2621 c.c. e 2622 c.c. l’inciso “ancorché oggetto di valutazione” e con ciò alcuni esponenti della dottrina, poi seguiti parte da una certa branca della giurisprudenza, avevano ritenuto che detta reformatio determinasse una vera e propria successione di leggi, con effetto abrogativo, limitato ovviamente, alle condotte di falsa valutazione di una realtà effettivamente esistente.

L’arresto a Sezioni Unite in commento, invece, ha posto fine alla disputa accogliendo la tesi opposta, secondo la quale la riforma non ha avuto l’effetto di escludere dal perimetro della repressione penale gli enunciati valutativi, i quali, viceversa, ben possono essere definiti falsi, quando si pongano in contrasto con criteri di valutazione normativamente determinati, ovvero tecnicamente indiscussi.

Dott. Matteo Gambarati (Studio Legale Orlandi)

Societario. Maggioranza fraudolenta a verbale, illecito penale

Cassazione penale Sentenza 12/01/2012, n. 555

Integra il reato ex art. 2636 c.c. l’adozione di provvedimenti da parte dell’assemblea sociale, la cui regolare costituzione sia stata fraudolentemente attestata nel verbale.

Interessante decisione della Suprema Corte in relazione al delitto di influenza illecita sull’assemblea.

 Questo il caso sottoposto al vaglio dei giudici di legittimità: la Corte di appello di Palermo confermava la sentenza di prime cure, la quale aveva affermato la penale responsabilità dell’imputato in ordine al reato di cui all’art. 2636 c.c., perché, quale amministratore unico di una s.r.l., aveva ripetutamente determinato le maggioranze nelle assemblee sociali con atti fraudolenti, di fatto impedendo a due delle tre socie di parteciparvi, condotte poste in essere con finalità di conseguimento di un ingiusto profitto. In particolare, si era appurato che l’imputato – marito di una delle tre socie della s.r.l. – a causa di perdite di esercizio che non voleva, nella sua veste, far emergere, aveva convocato le assemblee sociali del 2004 e del 2006, nel primo caso facendo figurare a verbale la presenza di una socia, che invece non era stata neppure convocata; nel seconda, attribuendo alla moglie la titolarità di quote sufficienti per la valida costituzione della assemblea, nonostante così non fosse. In entrambe le assemblee erano state prese determinazioni funzionali all’intento preso di mira dall’imputato, quali l’approvazione del bilancio del 2003 e la rinnovazione della carica di amministratore. Nel ricorrere per cassazione, tra i motivi di ricorso la difesa censurava la motivazione della sentenza d’appello, che, a suo avviso, confermato la sentenza di primo grado nonostante l’assenza di prova circa: la falsificazione di documentazione sottoposta ai soci, le interferenze sulla regolare formazione delle delibere assembleari, il ricorso ad artifici, la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato. La Cassazione ha respinto il ricorso prendendo le mosse dal dato normativo: nel prevedere il reato di “illecita influenza sull’assemblea” l’art. 2636 c.c., «punisce la condotta di chiunque compia qualsiasi atto di natura fraudolenta che di fatto determini in maniera alterata la maggioranza della assemblea dei soci, quando tale condotta è finalizzata al conseguimento di un ingiusto profitto». Sotto il profilo oggettivo, il reato è perciò integrato da «qualsiasi operazione che artificiosamente permetta di alterare la formazione delle maggioranze assemblea, rendendo così di fatto possibile il conseguimento di risultati vietati dalla legge o non consentiti dallo statuto della società» (in senso conforme, Cass., Sez. I, 3 marzo 2009) . Nel caso di specie, la Corte ha evidenziato come l’attività fraudolenta fosse consistita – come esattamente affermato dai giudici di merito – nella falsa rappresentazione della presenza della maggioranza dei soci alle assemblee, in una’occasione facendo figurare come presente, con la falsificazione della relativa firma sul verbale, una socia invece assente; nell’altra attestando la titolarità in capo alla socia, nonché moglie dell’imputato, di un numero di quote sufficiente a costituire la maggioranza, ciò che non corrispondeva alla titolarità reale. Quanto, poi, all’elemento soggettivo, il dolo in capo all’imputato era stato esattamente desunto dalle modalità dalla la condotta dell’imputato, la quale non trovava altra spiegazione se non in quella di poter agire indisturbato, senza, cioè, dover subire il controllo dei soci, che avrebbero potuto esautorarlo, e senza, soprattutto, rendere conto delle perdite subite. Proprio il non dovere sottoporsi al giudizio negativo dei soci comportava, per l’imputato, il vantaggio di continuare ad esercitare una carica altrimenti destinata ad essere revocata, carica che gli consentiva invece di controllare un’attività commerciale in cui egli aveva interesse, anche quale marito di una socia al 33 % del capitale sociale.