Categoria: Diritto alimentare e legislazione vitivinicola

L’IGP “Piadina Romagnola”: un caso didattico

Una società italiana con sede a Modena, attiva sin dal 1974 nella produzione di piadine mediante metodi industriali, ha impugnato davanti alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea il Regolamento esecutivo n. 1174/2014, con il quale la Commissione europea ha registrato l’IGP “Piadina Romagnola” o “Piada Romagnola” (1). A norma del regolamento l’indicazione può essere utilizzata solamente in riferimento a piadine prodotte in Romagna, indipendentemente dal fatto che venga impiegato un metodo artigianale ovvero industriale.

Per la società ricorrente il citato Regolamento comporta uno svantaggio concorrenziale; infatti, mentre la stessa, avendo sede a Modena, resta inevitabilmente esclusa dalla possibilità di utilizzo dello strumento giuridico in argomento, di questo se ne possono invece avvalere le società, pur sempre impegnate nella produzione di piadine con metodi industriali, attive nel territorio romagnolo.

Il 23 aprile 2018 il Tribunale UE, ritenendo opportuno non affrontare la questione relativa alla sussistenza o meno dell’interesse ad agire in capo al ricorrente, ha respinto il ricorso nel merito, così ponendo fine alla c.d. “saga della Piadina Romagnola” (2). La decisione in commento risulta particolarmente interessante in quanto interviene su diverse questioni, sostanziali e procedurali, valevoli non soltanto per l’IGP “Piadina Romagnola” e per il relativo (e sofferto) processo di registrazione ma, più in generale, per la registrazione di qualsiasi IGP.

In particolare, i giudici dell’Unione, nel pronunciarsi sul primo motivo di impugnazione, hanno affrontato due diverse questioni: la prima, di carattere sostanziale, riguarda la rilevanza del metodo di produzione utilizzato, artigianale o industriale, al fine della verifica del legame tra qualità e territorio; la seconda, di natura procedurale, attiene il riparto di competenze tra autorità nazionali e Commissione europea nel procedimento di registrazione delle IGP (3).

Con il primo motivo di ricorso, infatti, la società ricorrente lamentava che la Commissione avesse proceduto alla registrazione dell’IGP “Piadina Romagnola” anche con riferimento alla piadina prodotta con metodo industriale, nonostante il disciplinare (documento che, assieme all’atto unico, deve necessariamente accompagnare la domanda di registrazione) non contenesse elementi tali da far ritenere che quest’ultima gode di reputazione. La ricorrente, in altre parole, contestava il fatto che nel valutare la domanda di registrazione avanzata dalle autorità italiane, la Commissione avesse ritenuto sussistenti elementi idonei a giustificare anche il legame tra la piadina prodotta con metodo industriale e la sua origine geografica.

Il Tribunale UE ha respinto tale motivo di ricorso, chiarendo, innanzitutto, quello che è il riparto di competenze nel processo di registrazione di una IGP, processo avente natura bifasica. Al punto 34 della sentenza si legge:“la decisione di registrare una denominazione come IGP può essere adottata dalla Commissione solo se lo Stato membro interessato le ha presentato una domanda a tal fine e che una siffatta domanda può essere presentata solo se lo Stato membro ha verificato che essa è giustificata. Tale sistema di ripartizione delle competenze si spiega in particolare con la circostanza che la registrazione presuppone la verifica che sia soddisfatto un certo numero di requisiti, tra cui quello relativo al legame tra il prodotto e la zona geografica di cui trattasi a causa della reputazione del prodotto attribuibile al fatto che esso proviene da tale zona geografica, il che richiede conoscenze approfondite di elementi particolari dello Stato membro interessato che le autorità nazionali possono meglio verificare”.

Ne consegue, e ciò emerge tanto dall’impianto sistemico del reg. n. 1151/2012, quanto dalla stessa giurisprudenza comunitaria, che la Commissione è tenuta unicamente “a verificare, prima di registrare una denominazione come IGP, da un lato, se il disciplinare che accompagna la domanda che le è stata presentata contenga gli elementi richiesti dal regolamento n. 1151/2012, in particolare dall’articolo 7, paragrafo 1, dello stesso, e se tali elementi non siano viziati da errori manifesti e, dall’altro, sulla base degli elementi contenuti nel disciplinare, se la denominazione soddisfi i requisiti di cui all’articolo 5, paragrafo 2, del medesimo regolamento”.

Ciò premesso, l’estensore procede ad individuare le ragioni che hanno portato il Tribunale a ritenere che la piadina gode di una reputazione che giustifica il riconoscimento dell’esistenza di un legame tra tale prodotto e la sua origine geografica, indipendentemente dalla questione se sia fabbricata mediante i metodi artigianali o industriali.

Al riguardo, viene osservato, preliminarmente e in via generale, che “se la reputazione di un prodotto può essere stabilita poiché esso possiede determinate proprietà in quanto proviene dalla zona geografica considerata, in particolare a causa dei fattori naturali od umani connessi a quest’ultima, e suscita quindi nei consumatori una determinata immagine attribuibile alla sua origine geografica, si deve considerare che esiste un legame, ai sensi dell’articolo 5, paragrafo 2, lettera b), del regolamento n. 1151/2012, tra detto prodotto e la zona geografica da cui esso proviene, indipendentemente dalle sue modalità di fabbricazione”.

Nella specie, secondo l’opinione dei decisori, “il documento unico e il disciplinare, che accompagnano la domanda di registrazione dell’IGP controversa, contengono indicazioni relative ai fattori umani, culturali e sociali, concernenti le conoscenze particolari di fabbricazione della piadina tramandate in Romagna di generazione in generazione nonché gli sforzi della popolazione della zona diretti a valorizzare questo prodotto come proveniente da detta zona, che sono all’origine della reputazione della piadina. Tali indicazioni devono essere quindi considerate come elementi che consentono di stabilire l’esistenza di un legame tra la reputazione del prodotto e la zona geografica considerata a causa della sussistenza dei fattori umani”. Infatti, “grazie a tali tecniche di fabbricazione della piadina, inizialmente utilizzate per il consumo immediato, poi per il consumo differito, e grazie agli eventi socio-culturali organizzati dalla popolazione, il consumatore associa l’immagine della piadina romagnola, qualunque ne sia la modalità di realizzazione, al territorio della Romagna”.

Riccardo Orlandi

Per il testo integrale della sentenza si rinvia all’indirizzo: http://curia.europa.eu/juris/document/document.jsf?text=&docid=201392&pageIndex=0&doclang=IT&mode=lst&dir=&occ=first&part=1&cid=2008190

(1) Regolamento di esecuzione (UE) n. 1174/2014, recante iscrizione di una denominazione nel registro delle denominazioni di origine protette e delle indicazioni geografiche protette [Piadina Romagnola/Piada Romagnola (IGP)], del 24 ottobre 2014. Disponibile all’indirizzo: https://curia.europa.eu/jcms/jcms/j_6/it/

(2)La c.d. “saga della Piadina Romagnola” è stata inaugurata nel 2011 con la presentazione da parte del Consorzio di Promozione e Tutela della Piadina Romagnola (Co.P.Rom) alle autorità italiane della domanda di registrazione della denominazione “Piadina Romagnola” o “Piada Romagnola”come indicazione geografica protetta. Per una ricostruzione critica dei successivi avvenimenti e vicissitudini giudiziarie si rinvia a V. Paganizza, Dalla padella alla brace: la Piadina Romagnola IGP, dal “testo” al Consiglio di Stato, in Rivista di diritto alimentare, 3, 2014, disponibile on-line all’indirizzo: http://www.rivistadirittoalimentare.it/

(3) Il procedimento di registrazione delle IGP era originariamente regolato dal reg. 510/2016. Tale regolamento è stato poi sostituito dal reg. 1151/2012 sui regimi di qualità dei prodotti agricoli e alimentari, consultabile all’indirizzo: https://eur-lex.europa.eu/homepage.html

Alimenti, quando può dirsi prevedibile un evento dannoso (per la presenza di cariche microbiche inferiori alla soglia limite ) ?

Ogni qual volta un evento dannoso rientri nella prevedibilità ed evitabilità secondo regole di ordinaria diligenza il responsabile del ciclo produttivo (e dunque, nella generalità dei casi, il titolare) ne risponde,  a meno che non abbia delegato la responsabilità a singoli preposti in caso di aziende di grandi dimensioni sulla base di norme interne (nella fattispecie  era stata ravvisata la presenza di cariche microbiche in tramezzini)

(Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza n. 37436/17; depositata il 27 luglio)

Nel caso di specie il Tribunale di Genova aveva inteso ravvisare la responsabilità, penale, del  ricorrente in quanto tre unità oggetto di campionamento presentavano valori superiori a 10 ufc/g, “parametri chimico fisici che comportano la possibilità di moltiplicazione microbica del predetto batterio nel tempo in cui il prodotto è in vendita” (nella specie tramezzini).

In sostanza – pur prevedendo la normativa un limite soglia di cariche microbiche di 100 ufc/g in modo da   giustificare la conclusione  che il mancato superamento di tale  soglia durante il periodo di validità commerciale del prodotto escluda che possa configurarsi un illecito – nel caso di specie essendo stata rilevata la presenza di cariche microbiche, seppure inferiori alla soglia, a distanza di un certo periodo di tempo dalla data di scadenza, aveva fatto ritenere ai verbalizzanti che vi fosse la possibilità in detto arco di tempo di un proliferare delle cariche microbiche  con conseguente pericolo di superamento della soglia limite.

I giudici di legittimità, tuttavia hanno accolto il ricorso del commerciante (annullando la sentenza di condanna ) osservando che non era stata contestata l’ipotesi dell’incertezza sul mancato superamento della soglia di 100 ufc/g fino alla data di scadenza del prodotto (posto che all’epoca delle analisi i dati di riferimento rientravano invece nelle soglie ) .

Del resto il Tribunale aveva espressamente osservato che non vi era questione in ordine al rispetto, da parte del ricorrente, del sistema di controlli convenuto con le autorità sanitarie secondo il piano di campionamento concordato. Dunque doveva ritenersi rispettato il principio generale di cautela costantemente ribadito dalla giurisprudenza di legittimità secondo il titolare di una ditta di produzione e commercio di prodotti alimentari ha l’obbligo di rispettare non solo le disposizioni di legge che presiedono alla disciplina di quel settore di produzione ma anche le generali norme che impongono la massima prudenza, attenzione e diligenza nella produzione. Da qui il principio  sintetizzato nella massima enunciata in apertura.
Testo delle sentenza

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 4 aprile – 27 luglio 2017, n. 37436 Presidente Cavallo – Relatore Cerroni

 

Ritenuto in fatto

  1. Con sentenza dell’11 marzo 2016 il Tribunale di Genova ha condannato P.L. , in qualità di legale rappresentante della s.r.l. Laboratorio Gastronomico Dua A.A. e concesse le attenuanti generiche, alla pena di Euro 1400 di ammenda per il reato di cui all’art. 5 lett. c) della legge 30 aprile 1962, n. 283, stante la messa in commercio di tramezzini contenenti germi patogeni listeria monoctytogeneses. 2. Avverso la predetta decisione è stato proposto ricorso per cassazione, tramite il difensore, con tre motivi di impugnazione. 2.1. In particolare, col primo motivo è stata dedotta violazione di legge in quanto l’art. 5 lett. c) della legge 283 cit. puniva solamente chi, e non era la fattispecie come desunto dall’istruttoria, impiegava negli alimenti sostanze con cariche microbiche superiori ai limiti di legge. In specie, al contrario, i prodotti alimentari erano certamente, all’epoca della verifica, ancora in buono stato di conservazione e non risultavano superati i limiti di tollerabilità microbica previsti dalla legge. 2.2. Col secondo motivo il ricorrente ha contestato l’esistenza dell’elemento soggettivo del reato, dal momento che la ditta del ricorrente aveva svolto tutti i controlli necessari e previsti al fine di verificare la genuinità dei prodotti, non potendosi pretendere un controllo su ogni singolo tramezzino. In considerazione di ciò, si sarebbe così delineata una vera e propria responsabilità di tipo oggettivo. 2.3. Col terzo motivo infine è stato censurato l’immotivato rigetto della richiesta di applicazione della norma di cui all’art. 131-bis cod. pen., di cui invece ricorrevano i presupposti (assenza di precedenti penali, effettuazione di tutti i controlli necessari e peraltro non obbligatori, commestibilità dei tramezzini al momento delle analisi, carica batterica inferiore ai limiti). 3. Il Procuratore generale ha concluso nel senso dell’annullamento con rinvio relativamente alla richiesta ex art. 131-bis cod. pen..

Considerato in diritto

  1. Il ricorso è fondato nei termini che seguono. 4.1. Il contestato art. 5 lett. c) della legge 283 del 1962 stabilisce che “È vietato impiegare nella preparazione di alimenti o bevande, vendere, detenere per vendere o somministrare come mercede ai propri dipendenti, o comunque distribuire per il consumo sostanze alimentari:… c) con cariche microbiche superiori ai limiti che saranno stabiliti dal regolamento di esecuzione o da ordinanze ministeriali”. In particolare, le analisi erano state condotte su tramezzini prodotti ed immessi in commercio dalla società di cui l’odierno ricorrente era legale rappresentante, ed avevano fatto registrare in data 17 aprile 2013, laddove il prodotto scadeva il 12 maggio 2013, valori rispettivamente di 50 unità formanti colonia (ufc), 60 ufc, maggio 40 ufc e minore 10 ufc.. In specie, si trattava di sostanze alimentari (tramezzini) deteriorabili a norma del d.m. 16 dicembre 1993 in considerazione della composizione; in particolare, di alimenti pronti che costituiscono terreno favorevole alla crescita di listeria monocytogenes, come previsto dal Regolamento (CE) n. 2073/2005 della Commissione del 15 novembre 2005, “Sui criteri microbiologici applicabili ai prodotti alimentari”. Dal momento che i prodotti erano stati immessi sul mercato durante il loro periodo di conservabilità, il limite di tollerabilità era fissato in 100 ufc “se il produttore è in grado di dimostrare, con soddisfazione dell’autorità competente, che il prodotto non supererà il limite di 100 ufc/g durante il periodo di conservabilità”. Al riguardo, l’esito delle analisi doveva considerarsi non soddisfacente, atteso che – anche se l’analisi stessa aveva attestato che il prodotto si collocava nell’ambito del limite di 100 ufc/g – è pacifico (o quantomeno non è stata sollevata contestazione sul punto) che non era stata fornita alcuna dimostrazione circa la possibilità di rispettare il suddetto limite nel corso di validità del prodotto. Sì che erano state adottate le misure di salvaguardia e di allerta previste dalla normazione. Vero è quindi che, per quanto possa interessare, non sussiste dubbio circa il fatto che si sarà proceduto al doveroso ritiro ovvero comunque al richiamo del prodotto. Per quanto invero concerne la responsabilità di natura penale, è stato ripetutamente affermato, in tema di rapporti tra le fattispecie di cui alle lett. c) e d) dell’art. 5 cit., che non integra il reato di cui all’art. 5, comma primo, lett. d), legge 30 aprile 1962 n. 283, la presenza di cariche microbiche superiori ai limiti consentiti in sostanza alimentari insudiciate, invase da parassiti, in stato di alterazione o comunque nocive, ma realizza fattispecie prevista dalla lett. c) della norma citata, per la cui configurabilità non è sufficiente un’analisi qualitativa del prodotto, essendo necessario l’accertamento del superamento dei citati limiti di tolleranza (Sez. 3, n. 29988 del 13/07/2011, Pollini, Rv. 251253; Sez. 3, n. 46764 del 16/11/2005, Salvatore, Rv. 232654). Invero, come è già stato ricordato dal provvedimento impugnato, per la configurabilità del reato di cui all’art. 5, lett. c) cit., non è necessario l’accertamento della nocività delle sostanze impiegate, ma è sufficiente il mancato rispetto dei limiti imposti a garanzia della qualità del prodotto (Sez. 3, n. 44659 del 16/11/2001, Parisi, Rv. 220629). Alla stregua dei principi richiamati, che la Corte non ha ragione di revocare in dubbio ma che anzi intende consolidare, non può non essere rilevato che il Tribunale di Genova ha inteso ravvisare la responsabilità, penale, dell’odierno ricorrente in quanto tre unità oggetto di campionamento presentavano valori superiori a 10, “parametri chimico fisici che comportano la possibilità di moltiplicazione microbica del predetto batterio nel tempo in cui il prodotto è in vendita”. Va da sé che il ragionamento non appare condivisibile, laddove è stato assunto come parametro di riferimento il valore inferiore a 10 ufc/g che, in realtà, non è fissato da alcuno e che, se risponde ad evidenti ragioni di precauzione e di stima sanitaria, comunque non esclude la sussistenza di cariche microbiche ed è diverso dalla pura e semplice “assenza” di carica microbica. In altre parole, se 100 ufc/g si pone come limite invalicabile nel caso in cui sia assicurato il suo mancato superamento nel periodo di validità commerciale del prodotto, l’eventuale parametro minimo non è altrimenti ricavabile dal sistema se non operando esegesi, ragionevoli sì, ma estranee alle previsioni, atteso che il regolamento comunitario fissa altri riferimenti (ad es. “Assente in 25 g”) per le altre ipotesi colà richiamate. D’altronde il ricorrente è stato ritenuto responsabile alternativamente, ed in entrambe le ipotesi per fattispecie in sé non contestate ovvero non espressamente previste, perché non sussisteva certezza sul mancato superamento della soglia di 100 ufc/g fino alla data di scadenza del prodotto (all’epoca delle analisi i dati di riferimento rientravano invece nel range), e perché era stato rintracciato un valore superiore a 10 ufc/g. 4.2. In ogni caso, poi, non vi è questione in ordine al rispetto, da parte del ricorrente, del sistema di controlli convenuto con le autorità sanitarie secondo il piano di campionamento concordato, come è stato espressamente osservato dal Tribunale. Al riguardo, è stato ripetutamente osservato che il titolare di una ditta di produzione e commercio di prodotti alimentari ha l’obbligo di rispettare non solo le disposizioni di legge che presiedono alla disciplina di quel settore di produzione ma anche le generali norme che impongono la massima prudenza, attenzione e diligenza nella produzione. Ogni qual volta un evento dannoso rientri nella prevedibilità ed evitabilità secondo regole di ordinaria diligenza il responsabile del ciclo produttivo ne risponde (a meno che non abbia delegato la responsabilità a singoli preposti in caso di aziende di grandi dimensioni sulla base di norme interne; in specie il titolare di una ditta di produzione e vendita al dettaglio di formaggi è stato chiamato a rispondere dell’intossicazione determinata dalla presenza nel formaggio di stafilococco aureo presente nell’acqua bevuta dagli animali, nonostante che egli fosse in regola con i controlli della AUSL, perché tali controlli non danno la garanzia che i prodotti venduti fossero immuni da qualsiasi contaminazione)(Sez. 3, n. 5950 del 20/05/1997, Danesi, Rv. 208208; conf. Sez. 7, n. 21660 del 23/09/2016, dep. 2017, Bambini, Rv. 269777, secondo cui è stata ritenuta esente da censure la sentenza che aveva affermato la responsabilità dell’imputato per avere commercializzato una partita di alici contaminata da parassiti pericolosi per la salute la cui presenza era riscontrabile a vista, pur avendo egli provveduto a sottoporre gli alimenti a controlli a campione). Ma in specie, tra l’altro, dal provvedimento impugnato non risulta neppure emersa alcuna circostanza dalla quale era possibile desumere, come invece risulta nei precedenti richiamati, l’evento dannoso secondo i canoni della prevedibilità, nonché della evitabilità seguendo regole di ordinaria diligenza. 5. Alla stregua dei rilievi complessivamente svolti, e con assorbimento del terzo motivo di ricorso, la sentenza va annullata senza rinvio perché il fatto non costituisce reato.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non costituisce reato

 

Alimentare . Vendita  di alimenti a temperatura ambiente nonostante  contrarie prescrizioni indicate sulla confezione.

 

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 23 novembre 2016 – 26 aprile 2017, n. 19596
Presidente Amoresano – Relatore Liberati

Ritenuto in fatto

  1. Con sentenza del 17 novembre 2014 il Tribunale di Pordenone ha condannato L. M. alla pena di Euro 3.000,00 di ammenda, in relazione al reato di cui agli artt. 5, lett. b), e 6, comma 3, L. n. 283 del 1962 (per avere, quale responsabile del punto vendita PAM di Spilimbergo, detenuto per la vendita su di uno scaffale di tale punto vendita, con temperatura tra 19 e 20 gradi, venti confezioni sottovuoto di formaggio a pasta dura TRENTINGRANA D.O.P., tra le quali ve ne era una con estese formazioni di muffa).
    2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso l’imputato, mediante il suo difensore di fiducia, che lo ha affidato a un unico articolato motivo, attraverso il quale ha denunciato l’insufficienza e l’illogicità della motivazione, con particolare riferimento alla valutazione delle risultanze istruttorie, essendo stata indebitamente e illogicamente affermata la responsabilità dell’imputato per avere detenuto per la vendita 20 confezioni di formaggio a temperatura non adeguata (tra cui una con tracce di muffa), in quanto, secondo quanto emerso dall’istruttoria, non vi era correlazione tra la temperatura di conservazione e la muffa riscontrata su un unico pezzo (dovuta a un difetto di sigillatura della confezione sottovuoto da parte del produttore); il formaggio in questione poteva essere conservato a temperatura ambiente senza particolari conseguenze (come chiarito dal responsabile della gestione e commercializzazione del Consorzio Trentingrana, produttore del formaggio detenuto per vendita presso detto esercizio commerciale); non era, inoltre, stato provato da quanto tempo il prodotto fosse stato esposto a temperatura ambiente; il pezzo di formaggio con le tracce di muffa era preconfezionato all’origine e non era visibile dall’esterno, se non per una piccola porzione, con la conseguente applicabilità della esimente di cui all’art. 19 L. 283 del 1962.

Considerato in diritto

  1. Il ricorso è inammissibile, essendo volto a sindacare gli accertamenti di fatto compiuti dal Tribunale, di cui è stato dato conto con motivazione adeguata e priva di vizi logici.
    2. Le censure sollevate dal ricorrente non tengono conto che il controllo demandato alla Corte di legittimità va esercitato sulla coordinazione delle proposizioni e dei passaggi attraverso i quali si sviluppa il tessuto argomentativo del provvedimento impugnato, senza alcuna possibilità di rivalutare in una diversa ottica, gli argomenti di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento o di verificare se i risultati dell’interpretazione delle prove siano effettivamente corrispondenti alle acquisizioni probatorie risultanti dagli atti del processo.
    Anche a seguito della modifica dell’art. 606, lett. e), cod. proc. pen. con la L. 46/06, il sindacato della Corte di Cassazione rimane di legittimità: la possibilità di desumere la mancanza, contraddittorietà o la manifesta illogicità della motivazione anche da “altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame”, non attribuisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare criticamente le risultanze istruttorie, ma solo quello di valutare la correttezza dell’iter argomentativo seguito dal giudice di merito e di procedere all’annullamento quando la prova non considerata o travisata incida, scardinandola, sulla motivazione censurata (Sez. 6, n. 752 del 18.12.2006; Sez. 2, n. 23419 del 2007, Vignaroli; Sez. 6 n. 25255 del 14.2.2012).
    3. Nella vicenda in esame il Tribunale è pervenuto alla affermazione di responsabilità dell’imputato a seguito del rinvenimento, presso il punto vendita di cui il ricorrente era responsabile, di 19 confezioni di formaggio a pasta dura “Trentingrana d.o.p.”, esposte per la vendita su uno scaffale a temperatura ambiente, nonostante la confezione di tali prodotti riportasse l’indicazione della necessità di conservazione in frigorifero a temperatura compresa tra 0 e + 8, e il manuale di autocontrollo della società PAM Panorama, titolare della rivendita, prescrivesse la conservazione dei formaggi a pasta dura in banchi refrigerati. Il Tribunale ha, inoltre, sottolineato che il formaggio contenuto in una di tali confezioni presentava tracce di muffa, concludendo, in modo logico, per la sussistenza del reato contestato, essendo evidente il cattivo stato di conservazione di tutte suddette confezioni alimentari.
    Il ricorrente, invece, come risulta dallo stesso ricorso, pur prospettando l’illogicità di tale motivazione, propone, in realtà, una rivisitazione del materiale probatorio, affermando che dall’istruttoria era emersa l’assenza di correlazione tra la temperatura di conservazione e la muffa presente sul prodotto di una delle confezioni, che il formaggio poteva essere conservato a temperatura ambiente, che non era comunque stato accertato il tempo di esposizione a tale temperatura, che il pezzo di formaggio su cui erano presenti le tracce di muffa era preconfezionato e non visibile dall’esterno, se non per una piccola porzione, che la presenza di muffa non era riconducibile alla temperatura di conservazione: tali rilievi sono tutti volti a censurare e sovvertire la ricostruzione del fatto compiuta dal primo giudice, che, sulla base della inidoneità delle modalità di conservazioni di tutte le 19 confezioni di formaggio esposte per la vendita a temperatura ambiente (dunque indipendentemente dalla presenza di muffe sul formaggio contenuto in una delle confezioni), ha ritenuto che tali prodotti fossero in cattivo stato di conservazione. Tale motivazione risulta conforme alle regole della logica e alle massime di esperienza, oltre che alle specifiche prescrizioni del produttore e del titolare dell’esercizio commerciale, e dunque le censure del ricorrente, piuttosto che individuare vizi della motivazione, sono dirette a conseguire una diversa valutazione delle risultanze di fatto correttamente considerate dal Tribunale, con la conseguente inammissibilità di tali doglianze.
    Poiché la responsabilità del ricorrente è stata affermata a causa della conservazione dei prodotti alimentari a temperatura non idonea, cioè a temperatura ambiente e non a quella compresa tra 0 e + 8, risultano chiaramente insussistenti i presupposti di applicabilità della esimente di cui all’art. 19 L. n. 283 del 1962.
    Tale disposizione, infatti, nel prevedere che “Le sanzioni previste dalla presente legge non si applicano al commerciante che vende, pone in vendita o comunque distribuisce per il consumo prodotti in confezioni originali, qualora la non corrispondenza alle prescrizioni della legge stessa riguardi i requisiti intrinseci o la composizione dei prodotti o le condizioni interne dei recipienti e sempre che il commerciante non sia a conoscenza della violazione o la confezione originale non presenti segni di alterazione”, attiene ai requisiti intrinseci o di composizione dei prodotti o alle condizioni interne dei recipienti, e non alle modalità di conservazione degli alimenti, che ricadono sotto la responsabilità del detentore, a cagione delle quali, e in particolare della inidoneità della conservazione a temperatura ambiente, è stata affermata la responsabilità dell’imputato, con la conseguente manifesta infondatezza della allegazione della configurabilità di tale esimente speciale, di cui nella specie non ricorrono i presupposti di fatto.
    4. In conclusione il ricorso in esame deve essere dichiarato inammissibile, non essendo consentita nel giudizio di legittimità, in presenza di motivazione adeguata e immune da vizi, la rivalutazione delle risultanze di fatto, ed essendo chiaramente non configurabile l’esimente speciale invocata dall’imputato.
    Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue, ex art. 616 cod. proc. pen., non potendosi escludere che essa sia ascrivibile a colpa del ricorrente (Corte Cost. sentenza 7-13 giugno 2000, n. 186), l’onere delle spese del procedimento, nonché del versamento di una somma in favore della Cassa delle Ammende, che si determina equitativamente, in ragione dei motivi dedotti, nella misura di Euro 2.000,00

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

 

 

 

Alimenti. Frode in commercio. Porre in vendita prodotti dolciari da forno congelati o surgelati all’ origine senza tale indicazione integra il reato di tentativo di frode commerciale.

“Ciò che rileva ai fini della sussistenza del reato di frode in commercio, è la consegna dell’aliud pro alio, che si concreta certamente di per sé, allorché, come nel caso di specie, vengano consegnati prodotti sfusi, in quanto la condotta di averli previamente rimossi dalla confezione del produttore e posti in vendita senza alcuna indicazione di origine e provenienza induce il potenziale acquirente a ignorare tale caratteristica e concreta l’aliud pro alio, analogamente a quanto accade allorché si pongano in vendita prodotti all’origine congelati o surgelati senza tale indicazione, restando del tutto irrilevante il valore del bene , le sue caratteristiche di utilizzabilità e qualità.

” La circostanza che tali condotte integrino anche violazioni amministrative dal momento che il reato di frode nell’esercizio del commercio può concorrere con la normativa che disciplina e sanziona gli illeciti amministrativi atteso che quest’ultima opera su un piano e risponde ad una “ratio” diversi rispetto a quelli della fattispecie penale“.

(Corte di Cassazione 1 marzo 2017 avente numero 10015)

Pe la lettura della sentenza integrale vedansi:

http://www.italgiure.giustizia.it/xway/application/nif/clean/hc.dll?verbo=attach&db=snpen&id=./20170301/snpen@s30@a2017@n10015@tS.clean.pdf

Alimenti. Contraffazione della scadenza . Responsabilità per frode

Alimenti. Ritenuta la responsabilità per frode in commercio anche del dipendente

Cassazione, sentenza n. 3394/2017, Sezione Terza Penale

In un supermercato è stata rilevata una frode dovuta alla correzione della  scadenza di alcuni prodotti alimentari posti in vendita.  Il dipendente si è difeso  affermando di essersi limitato ad eseguire l’ordine impartito dalla responsabile della struttura.

Entrambi però sono stati ritenuti responsabili .

Secondo la Corte, infatti, non è invocabile l’esimente dello stato di necessità ( di cui all’articolo 54 del codice penale) per avere il ricorrente agito, in qualità di lavoratore dipendente, in quanto costretto dalla necessità di non perdere il posto di lavoro. Non è stato ritenuto ricorrere , nella specie, l’elemento essenziale, ai fini dell’operatività della scriminante, dell’inevitabilità del pericolo che, invece, poteva essere facilmente evitato, come hanno sottolineato i giudici del merito, denunziando la condotta illecita della responsabile della struttura, cosicché il ricorrente avrebbe potuto rifiutarsi di ottemperare all’ordine illecito impostogli e avrebbe potuto denunciare l’accaduto ad altri suoi superiori, posto che la predetta aveva anche in precedenti  occasioni e nei confronti di altri lavoratori impartito analoghi ordini illegittimi.
Testo della sentenza

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 23 novembre 2016 – 24 gennaio 2107, n. 3394 Presidente Amoresano – Relatore Di Nicola

Ritenuto in fatto

  1. A. T. e F. P. C. ricorrono per cassazione impugnando la sentenza indicata in epigrafe con la quale la Corte di appello di Palermo ha confermato per la prima e parzialmente riformato per il secondo la sentenza del tribunale di Palermo che aveva condannato i ricorrenti per il reato di cui agli articoli 56, 110, 515 del codice penale, perché, in concorso tra loro, la prima nella qualità di dipendente della “GI.DI. Giacalone distribuzione SRL” e responsabile del punto vendita “Eurospin” con sede in Palermo, e il secondo quale dipendente subordinato alla prima, detenevano per la vendita prodotti alimentari con la data di scadenza alterata, nella specie rappresentati da una decina di confezioni di hot dog, così compiendo atti idonei in modo non equivoco a commettere il reato di frode nell’esercizio del commercio non riuscendo nell’intento per cause indipendenti dalla propria volontà, in Palermo in data anteriore e prossima al dicembre 2009. 2. Per l’annullamento dell’impugnata sentenza i ricorrenti sollevano le seguenti doglianze, qui enunciate ai sensi dell’articolo 173 delle disposizioni di attuazione al codice di procedura penale nei limiti strettamente necessari per la motivazione. 2.1. La T., con un unico mezzo di annullamento, lamenta la violazione della legge processuale e il difetto di motivazione per aver la Corte d’appello fondato il giudizio di colpevolezza sulle propalazioni accusatorie del coimputato, C. F. P., erroneamente ritenute pienamente attendibili sotto il profilo intrinseco, nonché estrinsecamente riscontrate in modo individualizzante, senza aver, e in violazione dell’articolo 194 del codice di procedura penale, proceduto all’esame dei testi de relato, che avrebbero fornito le informazioni alle fonti utilizzate ai fini del riscontro e, prima ancora, senza che nel processo emergessero i nomi delle fonti dichiarative dirette, confezionando in tal modo una motivazione manifestamente illogica e lacunosa, in relazione ai fatti processualmente affermati. 2.2. Il C., con un primo motivo, denunzia la violazione di legge per eccesso di potere nonché, con un secondo motivo, lamenta l’inosservanza e l’erronea applicazione della legge penale per insussistenza dell’elemento soggettivo del reato, sul rilievo che non sarebbe possibile affermare che il ricorrente avesse, nella evidente e provata compromissione totale del suo libero discernimento, cognizione dell’antigiuridicità penale del comportamento impostogli dal diretto superiore sicché, non essendo stato ritenuto applicabile il disposto dell’art. 54 del codice penale, la motivazione confezionata dai giudici del merito si segnalerebbe per difetto di coerenza interna. Deduce, con un terzo motivo, inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità, e decadenza sul rilievo che non sarebbe stato provato in alcun modo che il ricorrente fosse il responsabile del banco frigo e neppure potevano essere utilizzate in tal senso le dichiarazioni auto accusatorie dell’imputato che avevano una valenza esclusivamente contra alios e giammai contra se. Con il quarto motivo, il ricorrente eccepisce la mancata assunzione di prova decisiva e, con il quinto motivo, lamenta la mancanza della motivazione in ordine all’applicabilità della causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto.

Considerato in diritto

  1. I ricorsi non sono fondati. 2. Il primo ed il quarto motivo di impugnazione del C. sono inammissibili in quanto aspecifici. Al di là infatti della loro difficile comprensione, le censure sono state sollevate per la prima volta nel giudizio di legittimità e comunque non si concentrano su punti determinati della decisione impugnata cosicché non svolgono alcuna funzione critica rispetto all’apparato argomentativo della decisione censurata, non consentendo, in tal modo, al giudice dell’impugnazione di operare l’auspicato controllo sulla sentenza impugnata. 3. Il quinto motivo di impugnazione proposto dal C., circa il difetto di motivazione in ordine alla negata applicazione della causa di non punibilità (ex articolo 131-bis del codice penale), è inammissibile per manifesta infondatezza, posto che la Corte territoriale ha correttamente osservato che, sebbene il Tribunale avesse ritenuto di applicare la sola pena pecuniaria, la condotta dell’imputato conservasse un apprezzabile offensività per la pericolosità intrinseca della sua condotta, che aveva cagionato un vulnus alla sicurezza del mercato alimentare. La circostanza che il tentativo di frode posto in essere dall’imputato non sorti effetti pregiudizievoli in ragione del fatto che la sua condotta fu sventata prima di essere consumata, non esclude la obiettiva gravità della frode realizzata su diverse confezioni di Hot Dog ed estrinsecatasi in una condotta che aveva esposto a rischio l’incolumità e la salute di un elevato numero di potenziali consumatori. La motivazione, oltre a possedere i requisiti della adeguatezza e della logicità, è corretta anche in diritto perché l’articolo 131-bis del codice penale richiede, ai fini dell’applicabilità della causa di non punibilità, l’esiguità non solo del danno ma anche del pericolo di offesa al bene tutelato. 4. I restanti motivi, rispettivamente sollevati dai ricorrenti, possono essere congiuntamente esaminati, essendo tra loro strettamente connessi. Essi sono infondati. Per rendersene conto è sufficiente considerare come il C., all’epoca pacificamente responsabile del banco frigo del supermercato, riconobbe, per quanto emerge dal testo della sentenza impugnata, di essere l’autore materiale della condotta contestatagli, affermando, tuttavia, di aver agito su ordine impartitogli dalla T., ordine al quale avrebbe ottemperato per timore di subire ritorsioni sul luogo di lavoro da parte della coimputata. Quest’ultima, in occasione del proprio interrogatorio davanti alla P.G., e in sede di spontanee dichiarazioni, negò di aver posto in essere la condotta contestatale affermando di non aver mai dato delle direttive specifiche al dipendente quanto all’alterazione delle date di scadenza di confezioni di hot dog. 4.1. La Corte d’appello, con logica ed adeguata motivazione, ha ritenuto, quanto alla posizione della T., che la chiamata in correità del C. dovesse ritenersi intrinsecamente attendibile, in quanto quest’ultimo non aveva manifestato ragioni di risentimento nei confronti della coimputata, tali da poterlo indurre a formulare accuse calunniose, e le sue dichiarazioni rese nel corso dell’interrogatorio, e poi in udienza, si erano mantenute costanti e coerenti. Il C., poi, non aveva alcun» precipuo interesse a operare la contraffazione in questione onde, secondo la Corte di appello, la verosimiglianza che fosse stato indotto a porre in essere la condotta illecita su indicazione del suo diretto superiore che, pur non avendo potere di licenziamento, poteva provocare un giudizio negativo nei suoi confronti ed in estrema ipotesi indurre la dirigenza ad un suo licenziamento, avendo poteri di vigilanza sul personale dell’unità operativa. Inoltre, la Corte del merito ha sottolineato come la chiamata in correità del C. avesse trovato significativo riscontro nelle dichiarazioni del teste G., amministratore giudiziario della società GI.DI S.r.l. il quale aveva confermato che la T., quale responsabile del punto vendita in questione, si occupava di diverse funzioni, tra cui anche quella di controllare le date di scadenza dei prodotti esposti in vendita all’interno del supermercato e di segnalare eventuali carenze nella produttività del personale dipendente. A specifica domanda il teste aveva anche confermato di avere ascoltato tutti i dipendenti e di avere appreso che il C. aveva operato su richiesta e determinazione della T. riferendo di avere intrapreso, sulla scorta di tali informazioni, un procedimento disciplinare conclusosi con il licenziamento di quest’ultima, anche in ragione di altre violazioni, e una diversa sanzione disciplinare nei confronti dei lavoratori che avevano ottemperato alle sue prescrizioni illecite. La C., coadiutore dell’amministratore giudiziario e responsabile amministrativa della “GI.DI. Giacalone Distribuzione S.r.l.”, aveva, a sua volta, ricordato che erano stati rinvenuti nei banchi frigo circa una decina di confezioni di hot dog, pronti per la vendita, sui quali era stata contraffatta la data di scadenza, la quale era in origine anteriore di circa venti giorni, e nel magazzino furono rinvenuti i materiali utilizzati per cancellare l’originaria scadenza riportata sulle confezioni, riferendo altresì di avere sentito diversi dipendenti del punto vendita, i quali avevano confermato che la T. aveva dato, anche in altre occasioni e a soggetti diversi dal coimputato C., disposizioni di contraffare le date di scadenza dei prodotti alimentari, soprattutto nel caso in cui si trattava di prodotti in giacenza nel magazzino. La teste aveva ricordato che alcuni lavoratori presentarono al riguardo un documento scritto. Dalle concordanti informazioni offerte dai testi G. e C., i quali non avevano alcun interesse a riferire cose diverse da quelle apprese direttamente sul luogo di lavoro dai dipendenti dell’azienda, la Corte distrettuale ha tratto il corretto convincimento circa l’idoneità delle stesse a fungere da riscontro individualizzante alla chiamata di correità dell’imputato C., sottolineando che la testimonianza de relato, quale quella in oggetto, non è utilizzabile soltanto se, a richiesta della difesa, il giudice non dispone la citazione dei testi alle cui dichiarazioni è stato fatto riferimento, ma dall’esame dei verbali di udienza non emerge che la difesa avesse avanzato tale istanza, sebbene fosse agevole procedere all’identificazione dei lavoratori dipendenti del punto vendita. 4.2. Quanto alla posizione del C., alle rimostranze circa la mancanza dell’elemento soggettivo del reato ed al fatto di essere stato l’imputato costretto ad agire per l’ordine illegittimo impartito dalla coimputata, la Corte del merito ha affermato, condividendo l’analogo approdo cui era giunto il tribunale, che la giustificazione del C. di aver osservato l’ordine illecito impostogli dalla T. per timore di subire ritorsioni lavorative poteva essere presa in considerazione nel caso in cui ad ordinare la condotta vietata fosse stato un soggetto che rivestisse una posizione apicale nell’organigramma aziendale, in quanto il lavoratore non avrebbe avuto altri superiori ai quali denunciare il comportamento illecito impostogli. Tuttavia, nel caso in esame, il C. avrebbe potuto rifiutarsi di ottemperare all’ordine illecito impostogli e avrebbe potuto denunciare l’accaduto ad altri suoi superiori, posto che la T. aveva avanzato richieste irregolari anche nei confronti di altri dipendenti del supermercato e che alcuni di essi si erano rifiutati di adempiere alle sue indebite pretese. Sulla base di ciò, quindi, la Corte territoriale ha escluso che ricorressero, nel caso di specie, i presupposti della scriminante dello stato di necessità poiché, anche a voler ritenere che l’imputato avesse soggettivamente ritenuto di correre il pericolo di essere licenziato o di subire un pregiudizio nella sua posizione lavorativa in seguito al rifiuto opposto alla direttrice, certamente non ricorreva l’altro presupposto della scriminante ossia l’inevitabilità del pericolo che avrebbe potuto essere evitato, appunto, denunziando la condotta illecita della T.. Peraltro, il giudizio di responsabilità a carico dell’imputato è stato fondato sulla sua ampia confessione di essere stato l’autore materiale della contraffazione, in ragione della specifica richiesta avanzatagli dal suo diretto superiore, la coimputata T., cosicché neppure è giustificata la doglianza circa la carenza dell’elemento soggettivo, mentre la censura circa l’inutilizzabilità cantra se delle dichiarazioni auto ed etero accusatorie, oltre ad essere nuova e pertanto non ammissibile, è destituita di qualsiasi fondamento, trattandosi di confessione assunta senza alcuna violazione di norme processuali. 5. L’approdo cui è giunta la Corte del merito è dunque ineccepibile perché, quanto al fulcro della doglianza sollevata dalla T., la giurisprudenza di legittimità ha affermato che, in tema di testimonianza indiretta, il divieto posto dal comma settimo dell’art. 195 cod. proc. pen. non opera in maniera automatica ma solo quando il testimone non sia in grado di fornire elementi idonei ad una univoca ed immediata identificazione della fonte delle informazioni da lui riferite, e non sia possibile discutere, sulla base di dati certi e non seriamente controvertibili, dell’esistenza ed attendibilità di tale fonte (Sez. 6, n. 37370 del 14/05/2014, Romeo, Rv. 260251). Ne consegue che costituisce onere della parte richiedere l’esame del teste de relato, cosicché l’imputato, qualora abbia mostrato disinteresse alla conoscenza della fonte diretta, consentendo la legittima acquisizione del dato processuale costituito dal contenuto della prova orale, non può poi dolersi del fatto che, non essendo stata riferita nominativamente la fonte dalla quale il fatto sia stato appreso, non sia stato possibile escuterla e così inficiando il contenuto della testimonianza indiretta, con l’ulteriore conseguenza che l’onere di richiedere l’esame della fonte diretta vale tanto nel caso in cui questa sia nominativamente indicata, quanto nel caso in cui, come nella specie, sia facilmente identificabile ed alla sua identificazione non si sia pervenuti per il disinteresse mostrato dal soggetto cui la legge attribuisce il potere di chiedere l’esame del teste diretto. E’ pertanto esatta l’affermazione secondo la quale la dichiarazione de relato non è utilizzabile soltanto se, a richiesta della parte interessata, il giudice non abbia disposto la citazione dei testi identificati o facilmente identificabili alle cui dichiarazioni sia stato fatto riferimento (nel caso di specie, tanto il G. quanto la C. avevano riferito di aver appreso il fatto dichiarato, ossia dell’ordine illegittimo impartito dalla T. al C., da tutti i lavoratori del supermercato, dei quali era agevole procedere all’identificazione trattandosi di dipendenti del punto vendita). Né rilevano, al cospetto di una prova dichiarativa ampiamente riscontrata, le affermazioni, che si risolvono in censure fattuali il cui ingresso non è consentito nel giudizio di legittimità, circa l’interesse che il C. avrebbe avuto nell’accusare la T. e dell’eventuale assenza da parte di quest’ultima di un movente che avesse potuto sostenere la condotta denunciata dalla fonte di prova. Allo stesso modo, non è invocabile l’esimente dello stato di necessità, di cui all’articolo 54 del codice penale, per avere il ricorrente agito in qualità di lavoratore dipendente, in quanto costretto dalla necessità di non perdere il posto di lavoro. Infatti, non ricorre, nella specie, l’elemento essenziale, ai fini degl’operatività della scriminante, dell’inevitabilità del pericolo che, invece, poteva essere facilmente evitato, come hanno sottolineato i giudici del merito, denunziando la condotta illecita della T., cosicché il ricorrente avrebbe potuto rifiutarsi di ottemperare all’ordine illecito impostogli e avrebbe potuto denunciare l’accaduto ad altri suoi superiori, posto che la T. aveva anche in diverse occasioni e nei confronti di altri lavoratori impartito analoghi ordini illegittimi. Neppure risulta applicabile la scriminante di cui all’articolo 51 del codice penale perché, secondo un risalente ma ancora valido indirizzo della giurisprudenza di legittimità, tale disposizione, che trova la sua giustificazione nel divieto imposto ai cittadini di sindacare le norme giuridiche e di disubbidire agli ordini legittimi della pubblica autorità, considera non punibili i fatti preveduti dalla legge come reati, se siano commessi per adempiere ad un dovere derivante da tali norme ed ordini. Tuttavia, gli ordini, come si evince dalla precisa e chiara formulazione della legge, debbono emanare da una pubblica autorità, il che significa che i rapporti di subordinazione presi in considerazione sono esclusivamente quelli che sono previsti dal diritto pubblico. Nei rapporti di diritto privato, tra i quali sono compresi quelli che intercorrono tra i privati datori di lavoro e i loro dipendenti, non è applicabile la causa di giustificazione sopra indicata, perché manca un potere di supremazia, inteso in senso pubblicistico, del superiore riconosciuto dalla legge (Sez. 6, n. 133 del 22/10/1971, dep. 1972, Alunni, Rv. 119833). 6. Consegue il rigetto dei ricorsi e la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

 

D.O.P. Denominazione di Origine Protetta (Parmigiano Reggiano, Grana Padano e e Pecorino Romano)

Un’impresa operante nel settore alimentare  ha proposto  opposizione avverso n. 13 ordinanze con cui il Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali aveva ingiunto il pagamento   della somma di Euro 32.500,00, a titolo di sanzione relativa all’illecito amministrativo di cui all’art. 1 lett. c.) D.lvo n. 297/2004, per aver prodotto, confezionato, posto in commercio o detenuto merce e materiale per etichettatura recanti riferimento a denominazioni d’origine protette (“Parmigiano Reggiano“; “Grana Padano“; “Pecorino Romano“) senza la necessaria autorizzazione del Consorzio titolare. Continue reading “D.O.P. Denominazione di Origine Protetta (Parmigiano Reggiano, Grana Padano e e Pecorino Romano)”

Denominazione di origine protetta, prodotti confezionati, etichette , illecito amministrativo

 

Tribunale di Bologna Sentenza n. 1653/2014 pronunziata il 07.05.2014 (depositata il 12.06.2014 )

 Secondo il Ministero delle politiche Agricole, Alimentari e Forestali l’autorizzazione del Consorzio a tutela della denominazione di origine protetta deve essere ottenuta per ciascun prodotto posto in commercio, cosicché l’impiego commerciale di prodotti in assenza di autorizzazione costituisce una diversa violazione, con rispettiva contestazione di illecito amministrativo, per ciascun prodotto considerato.

Nel caso di specie, distinte denominazioni d’origine protette (“Parmigiano Reggiano“; “Grana Padano“; “Pecorino Romano“) sono state utilizzate per etichettare e, quindi, contrassegnare migliaia di prodotti differenti per tipologia, natura e contenuto (sugo alla siciliana, pesto alla genovese, sugo alla sorrentina, ecc.), sussumibili in tredici gruppi omogenei.

Il Tribunale ha confermato le ordinanze ingiunzione con cui sono state irrogate le sanzioni ritenendo che l’utilizzo ripetuto e, nei termini sopra esposti, anche differenziato, costituisce per ciò una pluralità di condotte distinte, integranti un numero di illeciti amministrativi corrispondente a quello dei gruppi omogenei di prodotto recanti le denominazioni sopra indicate.

Infine ha ritenuto che  la locuzione “impiega commercialmente” non   implica  che il prodotto debba essere già stato posto in commercio e che nella fattispecie l’enorme quantità rinvenuta e sequestrata di prodotti confezionati, provvisti di etichette  recanti denominazioni d’origine protette a fini specificamente di presentazione promozionale e descrizione della merce, l’ubicazione di tali prodotti in luoghi non segregati, la validità ed idoneità merceologica ed alimentare della merce, costituiscono circostanze di fatto che, per gravità, precisione e concordanza, devono  indurre a qualificare la detenzione di detti prodotti come propedeutica all’imminente immissione sul mercato

La sentenza

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE ORDINARIO di BOLOGNA

SEZIONE SPECIALIZZATA IN MATERIA DI IMPRESA

Il Tribunale, in composizione collegiale nelle persone dei seguenti magistrati:

dott. Pasquale Liccardo – Presidente

dott. Maurizio Atzori – Giudice

dott. Giovanni Salina – Giudice Relatore

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nelle riunite cause civili di I Grado iscritte ai NN. r.g. 10770/2013  12482/2013  13447/2013 promosse da:

ALFABETA S.p.A. (c.f. …omissis…), con il patrocinio dell’avv. Sandra Gruppioni e dell’avv. Francesco Soncini (c.f. …omissis…), elettivamente domiciliata in Via Caprarie 7, 40124 Bologna, presso il difensore avv. Sandra Gruppioni.

XX (c.f. …omissis…), con il patrocinio dell’avv. Sandra Gruppioni e dell’avv. Francesco Soncini (c.f. …omissis…), elettivamente domiciliata in Via Caprarie 7, 40124 Bologna, presso il difensore avv. Sandra Gruppioni..

RICORRENTI

Contro

MINISTERO POLITICHE AGRICOLE ALIMENTARI E FORESTALI (c.f. …omissis…), con il patrocinio dell’avv. Fabio Fiorbianco presso il Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali, Via Quintino Sella 42, Roma.

CONVENUTO

CONCLUSIONI

Le parti hanno concluso come da fogli allegati al verbale d’udienza di precisazione delle conclusioni.

FATTO E SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con separati ricorsi ex artt. 22 e segg. L. n. 689/1981 e 120 c. IV D.lvo n. 30/2005, XX, in proprio e quale legale rappresentante pro tempore della società ‘Alfabeta’ S.p.A., proponeva opposizione avverso n. 13 ordinanze con cui il Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali aveva loro ingiunto di pagare, in solido, la complessiva somma di Euro 32.500,00, oltre spese, a titolo di sanzione relativa all’illecito amministrativo di cui all’art. 1 lett. c.) D.lvo n. 297/2004, per aver prodotto, confezionato, posto in commercio o detenuto merce e materiale per etichettatura recanti riferimento a denominazioni d’origine protette (“Parmigiano Reggiano“; “Grana Padano“; “Pecorino Romano“) senza la necessaria autorizzazione del Consorzio titolare.

In particolare, i ricorrenti, quali motivi di opposizione, deducevano : 1) illegittimità delle ordinanze oggetto di impugnazione per omessa audizione della parte interessata che ne aveva fatto richiesta ex art. 18 c. I L. n. 689/1981; 2) illegittimità delle predette ordinanze per erroneo frazionamento in una pluralità di reati della unitaria condotta addebitata ai ricorrenti; 3) illegittimità degli impugnati provvedimenti per mancata applicazione dell’esenzione di cui al citato art. 1 D.lvo n. 297/2004; 4) illegittimità delle suddette ordinanze per mancata applicazione retroattiva dell’autorizzazione concessa dai Consorzi titolari delle privative oggetto di causa; 5) illegittimità delle opposte ordinanze per insussistenza dell’illecito loro contestato.

Concludevano, pertanto, gli opponenti chiedendo che l’adìto Tribunale previa declaratoria di illegittimità delle ordinanze oggetto di gravame, revocasse i provvedimenti impugnati o, in subordine, riducesse la sanzione pecuniaria in proporzione al numero degli illeciti effettivamente sussistenti.

Si costituiva in giudizio il Ministero convenuto, il quale, contestando la fondatezza dei motivi di gravame ex adverso dedotti, concludeva chiedendo il rigetto della opposizione proposta da controparte.

All’udienza del 14/11/2013, il Tribunale, in composizione collegiale, disponeva la riunione dei procedimenti e, successivamente, all’udienza dell’8/5/2014, sentiti i difensori delle parti, tratteneva la causa in decisione, provvedendo come da dispositivo letto in udienza.

MOTIVI DELLA DECISIONE

L’opposizione proposta dai ricorrenti volta all’annullamento, totale o, in subordine, parziale, delle ordinanze-ingiunzioni di cui in premessa è infondata, in fatto ed in diritto, e va quindi rigettata.

Con il primo motivo di gravame, parte ricorrente ha dedotto l’illegittimità delle ordinanze oggetto di impugnazione in ragione della mancata audizione della parte interessata che ne aveva fatto richiesta ex art. 18 c. I L. n. 689/81, asserendo, secondo citato orientamento giurisprudenziale (Cass. Civ. Sez. 121.8.97. n. 7811), che l’incombente pretermesso costituisca condizione di validità del procedimento e dell’atto amministrativo, nel senso che la sua violazione produrrebbe un vizio insanabile di nullità del provvedimento.

La più recente giurisprudenza di legittimità, cui il Collegio aderisce, condividendo i principi enunciati, ha, tuttavia, statuito che “In tema di ordinanza ingiunzione per l’irrogazione di sanzioni amministrative [ … ] la mancata audizione dell’interessato che ne abbia fatto richiesta in sede amministrativa non comporta la nullità del provvedimento, in quanto, riguardando il giudizio di opposizione il rapporto e non l’atto, gli argomenti a proprio favore che l’interessato avrebbe potuto sostenere in sede di audizione dinanzi all’autorità amministrativa ben possono essere prospettati in sede giurisdizionale” (Cass. Sez. Un. n. 28.01.2010 n. 1786).

Infatti, il giudice adito mediante opposizione ex art. 22 L. n. 689/1981 ha cognizione piena nella valutazione delle deduzioni difensive proposte in sede amministrativa ed eventualmente non precedentemente esaminate oppure respinte senza alcuna motivazione, sicché il mancato uso della facoltà di cui al citato art. 18, comma I, L. n. 689/1981 non arreca alcuna lesione al diritto di tutela del trasgressore, atteso che, come detto, quelle ragioni potranno essere integralmente prospettate in sede giurisdizionale.

Con il secondo motivo, gli opponenti assumono l’illegittimità delle impugnate ordinanze per aver ingiustamente frazionato in una pluralità di illeciti ciò che, invece, la normativa dettata dall’art. 1, lett. c), D.lvo 19.11.2004 n. 297 sanziona in modo complessivo ed unitario.

Secondo i ricorrenti, la condotta integrante illecito amministrativo, infatti, consisterebbe nell’impiego di uno o più denominazioni protette per una stessa tipologia di prodotti (“sughi” per la pasta), al di là del fatto che l’ingiusto utilizzo avvenga in modo reiterato.

Al contrario, l’amministrazione convenuta sostiene come l’autorizzazione del Consorzio a tutela della denominazione di origine protetta debba essere ottenuta per ciascun prodotto posto in commercio, cosicché l’impiego commerciale di prodotti in assenza di autorizzazione costituisce una diversa violazione, con rispettiva contestazione di illecito amministrativo, per ciascun prodotto considerato.

Da un’attenta lettura dei verbali di contestazione redatti dal Nucleo dei Carabinieri di Parma si evince che, nel caso di specie, distinte denominazioni d’origine protette (“Parmigiano Reggiano“; “Grana Padano“; “Pecorino Romano“) sono state utilizzate per etichettare e, quindi, contrassegnare migliaia di prodotti differenti per tipologia, natura e contenuto (sugo alla siciliana, pesto alla genovese, sugo alla sorrentina, ecc.), sussumibili in tredici gruppi omogenei.

Tale utilizzo ripetuto e, nei termini sopra esposti, anche differenziato, costituisce per ciò una pluralità di condotte distinte, integranti un numero di illeciti amministrativi corrispondente a quello dei gruppi omogenei di prodotto recanti le denominazioni sopra indicate.

Considerato che la norma della lett. c) dell’art. i D.lvo 297/2004 sanziona l’utilizzo ai fini commerciali di “prodotti, composti, elaborati o trasformati“, occorre procedere ad un’attività interpretativa volta a valutare l’operato dell’autorità amministrativa.

Un primo possibile significato che può ricavarsi potrebbe essere quello per cui la disposizione in commento sanzioni la commercializzazione di ogni prodotto in assenza di apposita autorizzazione.

Tale interpretazione appare tuttavia in contrasto con il tenore letterale della norma stessa che utilizza il plurale (prodotti, composti, elaborati o trasformati) per indicare l’oggetto della condotta illecita.

Viepiù, qualora il Legislatore avesse voluto sanzionare attraverso differenti illeciti la commercializzazione di ogni singolo prodotto, avrebbe presumibilmente inserito il pronome indicativo “ciascun“, “ogni“, o altri, ed avrebbe conseguentemente utilizzato le parole prodotti, composti, elaborati o trasformati declinandoli al singolare.

Pertanto, una simile interpretazione appare fuorviante e deve essere respinta.

Una seconda esegesi dell’articolo in commento, che coincide con quella offerta dai ricorrenti, porterebbe a sanzionare, attraverso la previsione di un unico illecito, il comportamento complessivo di chi impiega commercialmente una o più denominazione di origine protetta.

In altre parole, la norma non sanzionerebbe la messa in commercio di ogni prodotto frazionando il comportamento illecito in più singoli illeciti differenziati.

Giova precisare che, se è pur vero che la disposizione in esame non contempla singoli illeciti differenziati per ogni prodotto commercializzato, è altrettanto ragionevole che la norma abbia inteso riferirsi a più prodotti, composti, elaborati o trasformati che rientrino nello stesso gruppo di prodotti omogenei.

Venendo quindi ad illustrare quella che è l’ultima interpretazione ricavabile dalla disposizione in esame, occorre far notare come la norma sanzioni quella condotta che abbia ad oggetto prodotti, composti, elaborati o trasformati “che rechino nell’etichettatura, nella presentazione o nella pubblicità” il riferimento ad una denominazione di origine protetta.

L’etichettatura, la presentazione, la pubblicità dei prodotti vengono, quindi, ad assumere un ruolo determinante nella fase applicativa della sanzione, poiché l’amministrazione procedente dovrà contestare tanti diversi illeciti quanti sono i gruppi omogenei di prodotti, ovvero gli insiemi di prodotti che presentano le medesime caratteristiche.

Conformemente all’interpretazione che è stata data alla lett. c) dell’art. 1 del D.lvo 297/2004, non può ritenersi, infatti, come i diversi prodotti costituiscano un solo gruppo di prodotti, rectius, di sughi.

Non appare neppure corretto ritenere, come sostiene invece parte ricorrente, che nel caso di specie avrebbero potuto essere considerate solamente tre le diverse violazioni poste in essere, l’una per l’utilizzazione della denominazione di origine protetta “Grana Padano“, l’altra per quella di “Parmigiano Reggiano” e l’ultima, infine, per quella di “Pecorino Romano“.

Tale argomentazione, che si fonda sulla correlazione tra prodotto ed ingrediente (rectius, denominazione di origine protetta), assume erroneamente l’univocità della lesione alla denominazione protetta, a prescindere dal numero di prodotti o dai gruppi omogenei di prodotti commercializzati.

Sennonché, come già detto, nel caso di specie sono ravvisabili diversi gruppi di prodotti aventi proprie caratteristiche di etichettatura, pubblicitarie o promozionali.

Del resto, secondo recente giurisprudenza di legittimità, in tema di sanzioni amministrative pecuniarie, la L. n. 689 del 1981, art. 8, prevede il cumulo cosiddetto “giuridico” delle sanzioni per le sole ipotesi di concorso formale, omogeneo od eterogeneo, di violazioni, ossia nelle ipotesi di più violazioni commesse con un’unica azione od omissione; non lo prevede, invece, nel caso di molteplici violazioni commesse con una pluralità di condotte.

In tale ultima ipotesi non è applicabile per analogia la normativa in materia di continuazione dettata per i reati dall’art. 81 c.p., sia perché la menzionata L. n. 689 del 1981, art. 8, al comma 2, prevede una simile disciplina solo per le violazioni in materia di previdenza e assistenza obbligatoria (evidenziandosi così l’intento del legislatore di non estendere detta disciplina ad altri illeciti amministrativi), sia perché la differenza qualitativa tra illecito penale e illecito amministrativo non consente che attraverso l’interpretazione analogica le norme di favore previste in materia penale possano essere estese alla materia degli illeciti amministrativi (Cass. Civ. 4 marzo 2011 n. 5252).

Per quel che concerne il terzo motivo di opposizione, l’esenzione invocata dai ricorrenti a norma dell’art. 1, lett. c), D.lvo. n. 297/2004, non è, nella fattispecie in esame, applicabile, in quanto il riferimento alla denominazione d’origine protetta è contenuto non solo tra gli ingredienti del prodotto confezionato, ma è operato anche e soprattutto a fini descrittivi e di presentazione promozionale della merce, con conseguente lesione dei diritti dei Consorzi titolari delle suddette privative.

In relazione al quarto motivo (insussistenza dei contestati illeciti per sopravvenuta concessione dell’autorizzazione), è sufficiente rilevare come il D.lvo n. 297/2004 sanzioni l’uso non autorizzato di DOP, quale illecito a consumazione istantanea, senza, tuttavia, prevedere l’efficacia sanante retroattiva del successivo eventuale rilascio della prescritta autorizzazione.

Né dell’invocata sanatoria può farsi applicazione in via analogica, ostando a ciò la specialità dell’istituto e della normativa che la prevedono.

Nel silenzio della disposizione normativa, se da un lato può ritenersi che la concessione dell’autorizzazione da parte del Consorzio valga a sanare i rapporti tra lo stesso e l’imprenditore, dall’altro non può affermarsi lo stesso per quanto concerne i rapporti tra il trasgressore e l’amministrazione procedente.

Quanto all’ultima censura, i ricorrenti contestano le ordinanze-ingiunzione loro notificate perché carenti di un presupposto normativo.

In particolare, affermando che la locuzione “impiega commercialmente” di cui all’art. 1 del D.lvo 297/2004 sarebbe da intendersi nel senso di “impiega a fini commerciali“, gli stessi eccepiscono che la effettiva commercializzazione sarebbe stata di fatto impedita proprio dall’intervenuto sequestro.

Parte convenuta, al contrario, sostiene che le operazioni di etichettatura svolte da controparte erano di per sé sufficienti a qualificare l’attività come impiego commerciale, in maniera diretta o indiretta, di denominazioni di origine protetta, sussumibile, pertanto, nella condotta punita dalla norma in commento.

In assenza di una interpretazione autentica, occorre nuovamente procedere ad un’attività esegetica della disposizione citata.

Una prima interpretazione che può trarsi dalla lettura della norma può essere quella fornita da parte convenuta che sostiene come anche le sole operazioni di etichettatura costituiscano attività di impiego commerciale.

Tale lettura, che si fonda sulla rilevanza che ha l’apposizione di un’etichetta nel sistema alimentare, appare in realtà troppo rigida e foriera di applicazioni fuorvianti.

Condividendo tale tesi, infatti, si potrebbe concludere per l’illiceità dell’attività di detenzione di confezioni recanti un’etichettatura contenente denominazioni protette anche per finalità estranee a scopi commerciali, quali quelle di valutarne l’efficacia comunicativa.

Un secondo significato della norma, fatto proprio dai ricorrenti, è quello per cui la locuzione sarebbe da intendersi come destinazione effettiva al commercio del prodotto.

Tale interpretazione, seppure più garantista nei confronti del trasgressore, porta ad escludere dall’ambito di applicazione della norma quelle condotte che, pur rientrando all’interno dell’attività commerciale del soggetto, appaiono come prodromiche o preparatorie alla messa in commercio del prodotto.

Nel caso di specie, invece, l’enorme quantità rinvenuta e sequestrata di prodotti confezionati, provvisti di etichette, come detto, recanti denominazioni d’origine protette a fini specificamente di presentazione promozionale e descrizione della merce, l’ubicazione di tali prodotti in luoghi non segregati e non inaccessibili, la validità ed idoneità merceologica ed alimentare della merce, costituiscono circostanze di fatto che, per gravità, precisione e concordanza, inducono a qualificare la detenzione di detti prodotti come propedeutica all’imminente immissione sul mercato, come peraltro può desumersi, sia pure ex post, dal sopravvenuto rilascio della necessaria autorizzazione da parte dei Consorzi di tutela su pregressa richiesta della società opponente che intendeva farne commercio.

Pertanto, alla luce delle considerazioni che precedono, le opposizioni proposte dai ricorrenti devono essere rigettate e, per l’effetto, le impugnate ordinanze-ingiunzioni devono essere integralmente confermate.

Infine, le spese di lite seguono la soccombenza e, quindi, come da dispositivo, vanno liquidate a carico degli opponenti in solido tra loro.

P.Q.M.

Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni altra istanza ed eccezione disattesa o assorbita, così dispone:

visti gli artt. 22 e segg. L. n. 689/1981

RIGETTA

le opposizioni proposte da ‘Alfabeta’ S.p.A. e da XX e, per l’effetto, conferma le impugnate ordinanze-ingiunzioni.

CONDANNA

parte opponente all’integrale rifusione delle spese di lite che si liquidano in € 1.500,00 per compensi di avvocato, oltre accessori di legge se ed in quanto dovuti.

Così deciso in Bologna, nella Camera di Consiglio della Sezione Specializzata in Materia di Impresa del Tribunale, il 7/5/2014.

Il Presidente

dott. Pasquale Liccardo

Il Giudice estensore

dott. Giovanni Salina