Autore: Giovanni Orlandi

Testamento olografo. A chi compete l’onere della prova in caso di contestazione dell’autenticità ?

Con sentenza 15 giugno 2015 n. 12307 le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno composto il contrasto sorto in giurisprudenza e dottrina, a proposito della contestazione dell’autenticità del testamento olografo e individuazione dello strumento processuale richiesto.

Il caso di specie riguarda un testamento olografo in base al quale una vedova risultava unica beneficiaria dell’intero patrimonio del marito. Gli altri quattro eredi legittimi, sostenendo che il defunto versava in stato di incoscienza nel momento in cui risultava redatto il testamento, perché colpito da ictus, convenivano in giudizio la vedova beneficiaria impugnando il testamento che ritenevano apocrifo per mancanza di autenticità. Invocavano, quindi, il riconoscimento della loro qualità di eredi e l’attribuzione dei beni del de cuius, oltre alla declaratoria di indegnità della vedova e alla condanna della medesima alla restituzione dei frutti percepiti.

La soluzione prospettata dalla Corte rappresenta una terza via, intermedia tra le due che si erano contrapposte. Secondo  gli ermellini il successore legittimo che sia intenzionato a impugnare il testamento olografo per difetto di autenticità non può limitarsi a disconoscerlo e neppure è tenuto a proporre querela di falso, ma è comunque onerato di dimostrare il fondamento del proprio assunto in ossequio al principio che nelle azioni di accertamento negativo l’onere della prova compete a chi intende sostenere la nullità della scheda testamentaria. Riguarderà  chi invochi tale nullità, dunque l’eventuale erede pregiudicato dall’esistenza del testamento, provarne la non genuinità senza che per ciò sia necessario promuovere il giudizio di falso.

In questo modo secondo la Corte la soluzione consente di rispondere alle seguenti esigenze :

  • mantenere il testamento olografo definitivamente circoscritto nell’orbita delle scritture private;
  • evitare la necessità di attuare un difficile criterio di distinzione fra la categoria delle scritture private e non equiparare l’olografo a una qualsivoglia scrittura proveniente da terzi con quel che ne consegue in tema di prova;
  • evitare che il semplice disconoscimento di un atto caratterizzato da tale peculiarità ed efficacia dimostrativa renda troppo gravosa la posizione processuale dell’attore che si professa erede, riversando su di lui l’intero onere probatorio del processo;
  • evitare le lungaggini di un defatigante procedimento incidentale quale quello previsto per la querela di falso.

Va incidentalmente osservato che una sentenza di accertamento negativo dell’esistenza del requisito dell’olografia, una volta divenuta definitiva, fa stato solo fra le parti del giudizio, i loro eredi e aventi causa, mentre e il procedimento di falso produrrebbe  il risultato della definitiva eliminazione dal mondo giuridico della scheda, . Vero è, tuttavia, che è difficilmente immaginabile l’evenienza di un soggetto terzo, portatore di interesse, che sia rimasto estraneo all’ambito di applicazione della pronuncia di accertamento negativo dell’autenticità del testamento.

Testo integrale della sentenza

CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE – SENTENZA 15 giugno 2015, n.12307 –

Pres. Rovelli – est. Travaglino

Motivi della decisione

6. Per quanto di rilievo nel presente giudizio di rimessione a queste sezioni unite, A.B. ha lamentato (con il secondo motivo di ricorso) la violazione e falsa applicazione degli artt. 214 e seguenti e 221 e seguenti, cod. proc. civ., anche in relazione agli artt. 163, 345 e 112 cod. proc. civ. (art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.) sostenendo che, se la pronuncia impugnata avesse inteso confermare la sentenza di primo grado nella parte in cui individuava nella querela di falso e non anche nella verificazione di scrittura l’unico mezzo per infirmare il testamento olografo, tale motivazione doveva ritenersi censurabile alla luce del più corretto orientamento giurisprudenziale che riconosceva la possibilità di ricorso ad entrambi gli strumenti processuali (querela di falso e disconoscimento seguito dalla verificazione) per contestare la genuinità del testamento

6.1. Formulava, a tal fine, il seguente quesito di diritto:

Dica la Corte se all’erede legittimo deve ritenersi consentita la facoltà di disconoscere, ai sensi e per gli effetti degli arti. 214 e seguenti c.p.c., il testamento olografo fatto valere contro di lui, e se tale disconoscimento può essere esercitato anche in sede di azione di petitio heraeditatis, nel corso della quale l’erede legittimo esplicitamente contesti l’autenticità del predetto testamento.

6.2. Dello stesso tenore i motivi di impugnazione di B.A.G. , che, nella (più ampia) formulazione del quesito, chiede tra l’altro a questa Corte la conferma del principio di diritto secondo il quale il testamento olografo può essere disconosciuto ex artt. 214 e segg. c.p.c. dall’erede legittimo che disconosca l’autenticità del testamento e che l’onere della proposizione dell’istanza di verificazione del documento contestato incombe su chi vanti diritti in forza di esso.

7. Con ordinanza di rimessione n. 28586 del 20 dicembre 2013, la seconda sezione, investita dei ricorsi riuniti, e con riguardo al comune motivo relativo allo strumento processuale utilizzabile per contestare l’autenticità del testamento olografo, ha rimesso gli atti al Primo Presidente, che li ha a sua volta trasmessi a queste sezioni unite, ritenendo opportuna la risoluzione del contrasto esistente nella giurisprudenza della Corte di legittimità in subiecta materia.

7.1. Con il citato provvedimento interlocutorio si rileva che, sulla questione, si sono diacronicamente contrapposti due orientamenti.

7.2. Secondo un primo indirizzo, il testamento olografo, nonostante i requisiti di forma previsti dall’art. 602 cod. civ., trova comunque la sua legittima collocazione tra le scritture private, sicché, sul piano della efficacia sostanziale, è necessario e sufficiente che colui contro il quale sia prodotto disconosca (rectius, non riconosca) la scrittura, da ciò derivando l’onere della controparte, che alla efficacia di quella scheda abbia invece interesse (perché fonte della delazione ereditaria), di dimostrare la sua provenienza dall’autore apparente.

7.2.1. Si evidenzia in particolare che, alla luce di tale orientamento nell’ipotesi di conflitto tra l’erede legittimo che disconosca l’autenticità del testamento e colui il quale vanti diritti in forza di esso, l’onere della proposizione dell’istanza di verificazione del documento contestato incombe su quest’ultimo, cui spetta la dimostrazione della qualità di erede, mentre nessun onere, oltre quello del disconoscimento, grava sul primo, con l’ulteriore conseguenza che, sulla ripartizione dell’onere probatorio, nessuna rilevanza può attribuirsi alla posizione processuale delle parti – ossia se la falsità del documento sia fatta valere in via principale dall’erede legittimo che a tal fine abbia proposto l’azione, oppure se, introdotto dall’erede testamentario un giudizio per il riconoscimento dei propri diritti ereditari in forza della scheda testamentaria, questa sia stata disconosciuta dall’erede legittimo.

7.3. Un secondo orientamento, pur senza iscrivere il testamento olografo nella categoria degli atti pubblici, ne evidenzia tuttavia la (particolarmente elevata) rilevanza sostanziale e processuale, di talché la contestazione della sua autenticità si risolve in un’eccezione di falso, e deve essere sollevata soltanto nei modi e con le forme di cui all’art. 221 e ss. cod. proc. civ., con il conseguente onere probatorio a carico della parte che contesti la genuinità della scheda testamentaria.

7.4. L’ordinanza di rimessione non tralascia di osservare come queste stesse sezioni unite, con la sentenza n. 15169 del 23 giugno 2010, chiamate a risolvere un altro contrasto insorto sui modi di contestazione delle scritture private provenienti da terzi estranei alla lite, ebbero modo di indicare, sia pur in obiter, nella querela di falso lo strumento processuale idoneo a privare di ogni efficacia il testamento olografo, anche se proprio il detto carattere di obiter dictum ha impedito il superamento della contrapposizione tra i due indirizzi – tanto che in epoca successiva ad essa si leggono pronunce ancora orientate in un senso o nell’altro, pur nella consapevolezza del dictum delle sezioni unite.

7.5. Dalla constatazione dell’apparente insanabilità di un ormai pluridecennale contrasto tra i due orientamenti l’ordinanza di rimessione della seconda sezione civile ha tratto motivo per rimettere la questione a queste sezioni unite affinché provvedano alla sua ricomposizione, anche alla luce degli studi e delle conclusioni (a loro volta non univoci) cui è pervenuta la dottrina specialistica.

7.5.1. Non può tacersi che le singole indagini ermeneutiche sfociate nell’adesione all’uno o all’altro indirizzo appaiono ciascuna sorretta da argomentazioni che, singolarmente valutate, si caratterizzano tutte e parimenti per autorevolezza e persuasività, così che l’odierna questione non pare potersi ricondurre, sic et simpliciter, ad una superficiale scelta dello strumento processuale cui ricorrere per contraddire o impedire che il testamento acquisti efficacia nei riguardi di chi non ne è menzionato quale beneficiario, ovvero, su di un piano del tutto speculare, perché possa farsi valere nei confronti di chi, potenziale erede ab intestato, dalla efficacia di quell’atto veda compromesse, le proprie pretese ereditarie, consacrando definitivamente i diritti del successore chiamato nella scheda olografa.

7.5.2. La scelta de qua postula, difatti, la parallela indagine in ordine al valore, anche probatorio, delle scritture private che non provengono da nessuna delle parti in causa, e in ordine al riparto dell’onere probatorio.

7.5.3. E ciò perché il testamento olografo non è solo un documento che fonda, o contribuisce a fondare, sul piano probatorio, le ragioni della parte in causa, ma costituisce esso stesso il titolo in forza del quale il soggetto ivi menzionato diviene titolare di diritti soggettivi, e in ragione del quale si realizza la successione in locum et ius defuncti.

8. Ricostruendo funditus i termini del contrasto, emerge come parte della giurisprudenza di questa Corte, nel riconoscere al testamento olografo natura giuridica di scrittura privata, ammetta che la contestazione della autenticità della sua sottoscrizione possa legittimamente compiersi attraverso il semplice disconoscimento (i.e. il non riconoscimento) della scheda testamentaria.

8.1. La tesi trova un suo risalente precedente nella pronuncia di cui a Cass. n. 3371 del 16 ottobre 1975, secondo cui la parte che intenda contestare l’autenticità di una scrittura privata non riconosciuta non deve proporre querela di falso, occorrendo invece impugnare, in via di eccezione, la sottoscrizione mediante il disconoscimento, con la conseguenza che graverebbe sulla controparte l’onere di chiedere la verificazione e di dimostrare l’autenticità della scheda testamentaria. A fondamento di tale decisione la Corte pose la considerazione secondo cui lo strumento della querela di falso si rende indispensabile solo quando la scrittura abbia acquistato l’efficacia di piena prova ai sensi dell’art. 2702 cod. civ. per riconoscimento tacito o presunto, ovvero all’esito del procedimento di verificazione (e ciò anche nell’ipotesi in cui, contro l’erede istituito con un precedente testamento, sia prodotto un successivo testamento istitutivo di altro erede).

8.2. La giurisprudenza favorevole allo strumento processuale della verificazione ex art. 214 c.p.c., peraltro, non esclude tout court il ricorso alla querela di falso, riconosciuta come strumento alternativo rispetto al semplice disconoscimento (così, tra le altre, Cass. n. 3883 del 22 aprile 1994), ma mette a sua volta in rilievo – sulla premessa per cui l’onere probatorio ricade sulla parte che del testamento voglia servirsene e che a tal fine propone l’istanza di verificazione (salvo la diversa scelta della controparte di promuovere azione di querela di falso) – la non incidenza sull’onere probatorio della posizione processuale assunta dalle parti stesse (e cioè se l’azione sia esperita dall’erede legittimo che adduca in via principale la falsità del documento, ovvero dall’erede testamentario che voglia far valere i propri diritti ereditari e si trovi di fronte alla contestazione dell’autenticità del documento da parte dell’erede legittimo: Cass. n. 7475 del 12 aprile 2005 e n. 26943 dell’11 novembre 2008).

8.3. Tracce dell’orientamento in parola si rinvengono anche in epoca successiva al ricordato obiter di queste sezioni unite.

8.3.1. Secondo Cass. n. 28637 del 23 dicembre 2011, difatti – riaffermatosi in premessa che querela di falso e disconoscimento sono istituti preordinati a finalità diverse e del tutto indipendenti tra loro -, il testamento olografo non perderebbe la sua natura di scrittura privata per il fatto di dover rispondere ai requisiti di forma imposti dalla legge (ex art. 602 c.c.), volta che esso deriva la sua efficacia dal riconoscimento, espresso o tacito, che ne compia il soggetto contro il quale la scrittura è prodotta: quest’ultimo, per impedire tale riconoscimento e contestare tout court l’intera scheda testamentaria, deve dunque proporre l’azione di disconoscimento, che pone a carico della controparte l’onere di dimostrare, in contrario, che la scrittura non è stata contraffatta e proviene, invece, effettivamente dal suo autore apparente.

9. A questo indirizzo si contrappone l’orientamento che, pur non attribuendo valore di atto pubblico al testamento olografo, postula, per la contestazione della sua autenticità, la proposizione della querela di falso.

9.1 Anche tale filone interpretativo ha origini assai risalenti: si legge in Cass. n. 2793 del 3 agosto 1968 che la contestazione dell’erede legittimo si risolve in una eccezione di falso, da sollevarsi esclusivamente nelle forme di cui agli artt. 221 cod. proc. civ. e segg., atteso che il disconoscimento può provenire soltanto da chi sia autore dello scritto o da un suo erede – in tal senso, e prima ancora, Cass. n. 766 del 18 marzo 1966, secondo la quale il principio sostanziale dell’art. 2702 cod. civ. volto a disciplinare l’efficacia in giudizio della scrittura privata riconosciuta effettivamente o presupposta tale, e la procedura di disconoscimento e di verificazione regolata dagli artt. 214 e ss. c.p.c., sono istituti applicabili solo alle scritture provenienti dai soggetti del processo e alla ipotesi di negazione della propria scrittura o della propria firma da parte di quel soggetto contro il quale sia stato prodotto lo scritto. Quando invece l’atto non sia attribuibile alla parte contro cui viene prodotto, la contestazione della sua autenticità, risolvendosi in una eccezione di falso, necessita della relativa querela.

9.2. Sarà proprio questo risalente insegnamento a costituire a lungo una delle più solide basi su cui si fonda l’indirizzo giurisprudenziale favorevole al ricorso allo strumento disciplinato dagli artt. 221 e segg. cit.. Gli eredi legittimi che contestano l’autenticità della scheda olografa, secondo questa interpretazione (fatta propria anche da una parte della dottrina), devono, difatti, ritenersi soggetti estranei alla scrittura testamentaria, onde la loro esclusione anche dallo schema dell’art. 214, secondo comma, c.p.c..

9.3. Conferma indiretta della ratio di tale ricostruzione si trova nella pronuncia di cui a Cass. n. 1599 del 28 maggio 1971, la quale, pur concludendo nella specie per la legittimità del solo disconoscimento, a ciò perviene solo in ragione della qualifica di erede attribuita alla parte che in concreto ed in quel giudizio contestava un testamento olografo. Si legge, difatti, in sentenza che l’erede istituito col primo testamento, agendo con la petitio heraeditatis in quanto investito di un valido titolo di legittimazione fino al momento in cui non ne sia dichiarata giudizialmente la caducazione, conserva pur sempre la veste di erede anche nei confronti di altro soggetto che pretenda avere diritto alla eredità in base a successiva disposizione testamentaria, così che egli non può qualificarsi terzo fino al momento del definitivo accertamento della validità del secondo testamento, ed è legittimato a contestare l’efficacia del testamento posteriore mediante il mero disconoscimento, senza necessità di proporre querela, incombendo sull’altra parte che abbia proposto domanda riconvenzionale – tendente a far dichiarare la validità del secondo testamento e la conseguente caducazione delle disposizioni contenute nel primo – l’onere di provare tale domanda chiedendo la verificazione dell’olografo successivo di cui intende avvalersi.

9.4. L’indirizzo favorevole alla querela di falso, che tiene conto della provenienza della scrittura, risulta espresso in seguito da Cass. n. 16362 del 30 ottobre 2003, secondo cui la procedura di disconoscimento e di verificazione di scrittura privata riguarda unicamente le scritture provenienti da soggetti del processo e presuppone che sia negata la propria firma o la propria scrittura dal soggetto contro il quale il documento è prodotto, mentre, per le scritture provenienti da terzi estranei, come nel caso del testamento olografo, la contestazione non può essere sollevata secondo la disciplina dettata dalle predette norme, bensì nelle forme dell’art. 221 e segg. c.p.c., perché si risolve in una eccezione di falso.

9.5. Le argomentazioni a favore dello strumento della querela, principalmente incentrate sull’assunto della terzietà del soggetto rispetto al testamento olografo contro di lui prodotto, trovano una peculiare evoluzione interpretativa nella già ricordata sentenza di queste ss.uu. n. 15169 del 2010 (supra, 7.4).

Intervenendo sul contrasto relativo ai modi di contestazione delle scritture private provenienti da terzi estranei alla lite, la pronuncia ne ricostruisce l’efficacia probatoria inquadrandole tra le prove atipiche dal valore meramente indiziario, e, tenendo conto di tale valore probatorio, afferma che esse possono essere liberamente contestate dalle parti; ma, circoscrivendone l’analisi con particolare riguardo al testamento olografo, nega poi che un simile documento possa annoverarsi tra le prove atipiche per l’incidenza sostanziale e processuale intrinsecamente elevata riconosciutagli, ritenendo (senza che l’affermazione costituisca ratio decidendi della pronuncia) che la sua contestazione necessiti della querela di falso. 9.5.1. L’intero plesso argomentativo della sentenza rende peraltro tale obiter del tutto peculiare, poiché le stesse scritture provenienti da terzi finiscono per distinguersi in due sottocategorie – la prima, contenente la generalità delle scritture, a valenza probatoria ‘debole’, la seconda, comprensiva di atti di particolare incisività perché essi stessi titolo immediatamente esecutivo del diritto fatto valere, a valenza sostanziale e processuale ‘particolarmente pregnante’ -, per la contestazione di ciascuna delle quali si indica uno distinto strumento processuale.

9.6. L’orizzonte della giurisprudenza di legittimità si sposta così, alla luce della soluzione adottata, dal rapporto tra scrittura e soggetto (terzo) contro cui è prodotta al valore intrinseco del documento, in una nuova e più attenta consonanza con la relativa elaborazione dottrinaria.

9.6.1. L’indirizzo favorevole alla tesi della necessità della querela trova, infine, recente conferma nella pronuncia di cui a Cass. n. 8272 del 24 maggio 2012, predicativa della correttezza del rimedio processuale disciplinato dagli artt. 221 e segg. c.p.c. essendo il testamento un documento proveniente da terzi, e riaffermativa, nel solco delle Sezioni Unite, dell’incidenza sostanziale e processuale particolarmente elevata della scheda olografa, che giustifica il ricorso alla querela di falso per contestarne l’autenticità.

10. Il panorama giurisprudenziale si completa con l’antico enunciato di cui a Cass. n. 1545 del 15 giugno 1951, che, premessa la legittimità della proposizione di un’azione di accertamento negativo in ordine alla provenienza delle scritture private e del testamento olografo, afferma che l’onere della prova spetta all’attore che chieda di accertare la non provenienza del documento da chi apparentemente ne risulta l’autore, in consonanza con l’opinione dottrinaria secondo cui la contestazione della genuinità del testamento olografo si traduce in una domanda di accertamento negativo della validità del documento stesso.

10.1. La pronuncia (senza assumere tuttavia posizione esplicita sulla forma di tale accertamento negativo, se, cioè, dovesse o meno seguire le forme della querela di falso), fu oggetto di autorevoli consensi e di penetranti critiche in dottrina (in estrema sintesi, alla tesi secondo cui l’impugnazione per falsità del testamento olografo si risolve in una quaestio nullitatis, con conseguente applicabilità alla fattispecie della norma di cui all’art. 606 cod. civ. dettata in tema di nullità del testamento olografo per mancanza dei requisiti si replicò che l’olografo impugnato per falsità non è nullo per difetto di forma ma inesistente), non trovò ulteriore seguito in giurisprudenza, che vide così contrapporsi, come finora ricordato, la tesi della verificazione a quella della querela, con opposte conseguenze in ordine all’onere della prova, ripartito sul presupposto delle diverse finalità e dell’indipendenza dei due istituti.

11. La questione del riparto degli oneri probatori, in particolare, fu oggetto di approfondita disamina nella sentenza di questa Corte n. 3880 del 18 giugno 1980, ove si legge che la querela postula l’esistenza di una scrittura riconosciuta, mentre il disconoscimento, investendo la provenienza stessa del documento, mira a impedire che la scrittura medesima acquisti efficacia probatoria, con la conseguenza che chi contesti l’autenticità della sottoscrizione della scrittura onde impedire che ali ‘apparente sottoscrittore di essa venga imputata la dichiarazione sottoscritta nella sua totalità, deve disconoscere la sottoscrizione e non già proporre la querela di falso, mentre invece, allorché sia accertata l’autenticità della sottoscrizione, chi voglia contestare la provenienza delle dichiarazioni contenute nella scrittura di colui che, ormai incontrovertibilmente, l’ha sottoscritta, ha l’onere di proporre la querela di falso.

12. In una dimensione del tutto speculare rispetto alle posizioni della giurisprudenza, la dottrina specialistica si è a sua volta divisa tra i due citati e dominanti orientamenti, con argomentazioni che fanno di volta in volta riferimento:

– al rapporto tra provenienza della scrittura e parte in causa contro cui è prodotta;

– alla valutazione del documento per la riconosciuta incidenza sostanziale e processuale intrinsecamente elevata;

– all’esigenza di tener separato il piano del contenuto del testamento (concreto thema probandum) da quello dello strumento mediante il quale esso possa acquisire rilevanza agli effetti processuali.

Su di un piano più generale, ciascuna delle tesi proposte non appare poi insensibile al problema dell’efficacia delle scritture private e dei relativi strumenti di impugnazione.

13. La tesi favorevole all’indirizzo che reputa sufficiente il ricorso al disconoscimento colloca tout court il testamento olografo tra le scritture private.

13.1. Tale ricostruzione della scheda testamentaria è sostanzialmente univoca, salva l’attribuzione ad essa di quel ‘valore intrinsecamente elevato’ evidenziato da questa stesse sezioni unite nel 2010. Distinzione peraltro criticata da chi ne contesta il fondamento normativo, denunciando l’irragionevolezza dell’attribuzione ad alcuni documenti provenienti da terzi di un regime giuridico ‘rafforzato’ rispetto a quanto assicurato alle scritture private provenienti dalle parti – regime del quale si lamenta l’assenza di un efficace riferimento normativo che sostenga l’intrinseco grado di attendibilità del testamento olografo a giustificazione della necessaria proposizione della querela di falso, e la conseguente confusione concettuale tra il piano processuale e quello sostanziale (confondendosi cioè l’aspetto morfologico del documento e del suo contenuto con lo strumento processuale funzionale al suo riconoscimento sul piano della prova in giudizio).

Tale sovrapposizione concettuale conduceva, difatti, secondo tale orientamento, all’errore in cui incorrevano i sostenitori della necessità di ricorrere alla querela di falso, così criticandosi l’assunto secondo cui incombeva su colui che contestava il testamento olografo la prova del suo accertamento negativo, e ritenendosi invece sufficiente, al pari di ogni scrittura privata, il mero disconoscimento del documento.

13.2. L’indirizzo favorevole al semplice disconoscimento della scheda testamentaria apparve, peraltro, illieo et immediate destinato a confrontarsi con due delicate questioni.

13.2.1. La prima questione aveva ad oggetto il rapporto tra autore del testamento e parti in causa, poiché il testamento proviene pur sempre da un terzo rispetto alle parti del processo, perciò solo esulando, secondo i sostenitori della tesi della querela di falso, dalla fattispecie normativa di cui all’art. 214 c.p.c. – a tanto replicandosi che la scheda olografa, pur materialmente proveniente da chi non può assumere la qualità di parte in senso processuale o sostanziale, acquistando efficacia solo con la morte del suo autore, è pur tuttavia caratterizzata da una sua così specifica peculiarità che la posizione di ‘parte’ del destinatario della attribuzione deriva unicamente dalla devoluzione ereditaria, evidenziandosi poi l’esistenza di casi in cui il documento, pur non provenendo da alcuna delle parti in causa, non può essere considerato alla stregua di una scrittura di terzo estraneo alla lite.

13.2.2. Si è ancora opinato, avvertendo l’utilità di circoscrivere la qualità di terzo rispetto alla scrittura privata prodotta in giudizio (e dunque all’olografo), che, dall’esame esegetico degli artt. 2702, 2704 cod. civ., 214 c.p.c., e in una più ampia dimensione di teoria generale del diritto, il concetto di terzo ha natura relazionale, per tale intendendosi chi è estraneo a un qualsiasi rapporto o atto giuridico, così individuandosi tre diverse dimensioni in cui si colloca il concetto di terzo (e, specularmente, quello di parte), e cioè quella proprio della formazione della scrittura (che, considerando la convenzione come fatto storico puntuale, definisce ‘parte’ colui che abbia sottoscritto o vergato di suo pugno la scrittura, e correlativamente terzo chi non abbia né sottoscritto né vergato a mano la medesima), quella negoziale (afferente alla situazione giuridica di diritto sostanziale disciplinata dal contenuto della scrittura privata prodotta in giudizio, in tale prospettiva essendo parte la persona fisica/soggetto autore della dichiarazione), e infine quella processuale (quella, cioè del giudizio in cui la scrittura privata è prodotta, in questa accezione essendo ‘terzo’ la persona fisica che non in giudizio nel processo pendente).

L’espressione ‘eredi o aventi causa’ utilizzata dal secondo comma dell’art. 214 cod. proc. civ. andrebbe, pertanto, intesa in senso ampio, e comprensiva di tutti coloro che si trovino in una ‘generica posizione di dipendenza’.

13.2.3. La critica alla preclusione del disconoscimento imposta all’erede legittimo (formalmente terzo sino alla declaratoria di non autenticità o di falsità dell’olografo), si appunta ancora sull’erronea valorizzazione del nesso processuale tra il documento ed il soggetto, mentre anche il successibile ex lege, in ragione della propria posizione sostanziale, non sarebbe ‘terzo’ bensì soggetto contro il quale l’olografo è prodotto.

13.2.4. La posizione del successibile ex lege (se parte o terzo rispetto al testamento olografo che istituisca erede altro soggetto), dissolta in parte qua la differenza tra erede legittimo e quello testamentario ai fini del mezzo cui ricorrere per contestare una scheda olografa, diviene così oggetto di un accertamento giudiziale circoscritto alla fattispecie successoria (legale o testamentaria) invocata in proprio favore, onde il riparto dell’onere della prova andrebbe riferito unicamente all’effetto giuridico di tale fattispecie: costituendo proprio il negozio testamentario il tema della prova, dell’attore o del convenuto, il relativo onere graverebbe ipso facto su colui che vuoi far valere quel documento, con l’effetto che la parte nei cui confronti l’atto testamentario è prodotto può limitarsi al disconoscimento.

13.2.5. La seconda questione, a sua volta influente sull’elaborazione teorica che ha riguardo all’onere della prova, esplora il rapporto tra successione legittima e successione testamentaria, e la supposta preminenza della seconda sulla prima. Si afferma, così, che il tenore dell’art. 457, secondo comma, c.c. (a mente del quale ‘non si fa luogo alla successione legittima se non quando manca, in tutto o in parte, quella testamentaria’) attribuirebbe alle norme sul testamento valenza dispositiva, a fronte della valenza suppletiva della legittima. Per i fautori della querela di falso, questa preminenza inciderebbe in modo determinante sulla ripartizione dell’onere probatorio, perché la contestazione del testamento olografo si traduce in una azione di accertamento negativo volta che, a fronte della ‘posizione consolidata’ attribuita dal testamento all’erede vocato, chi voglia impugnarlo avrebbe l’onere di dimostrare la falsità della provenienza o la insussistenza dei requisiti di validità, in osservanza dei principi generali di ripartizione dell’onere probatorio prescritti dall’art. 2697 cod. civ.. La preminenza della successione testamentaria è stata, peraltro, autorevolmente contestata, sino ad invertirne il rapporto con quella legittima, attribuendo a quest’ultima funzione primaria (e conseguentemente carattere dispositivo alla sua disciplina), residuando alla vocazione testamentaria un carattere soltanto suppletivo: di qui, la legittimità del (solo) disconoscimento della scheda testamentaria.

14. La tesi favorevole all’indirizzo che reputa necessaria la querela di falso muove dalla premessa secondo cui il testamento olografo, costituendo una autentica prova legale, può essere ‘distrutto’, e oggetto di verifica, soltanto attraverso lo strumento processuale di cui agli artt. 221 ss. c.p.c..

14.1. Le posizioni dottrinarie contrarie al disconoscimento, meno numerose, non appaiono tuttavia meno autorevoli per la dovizia delle argomentazioni addotte, volte ad indagare funditus sugli aspetti, sostanziali e processuali, riconducibili alle peculiarità del testamento olografo.

14.2. Pur non dubitandosi della estraneità del testamento dalla categoria degli atti pubblici, ne viene pur tuttavia evidenziato il carattere sui generis sul piano sostanziale, reso manifesto innanzitutto dalla circostanza che la falsificazione della scheda olografa, nel diritto penale, è equiparata, quoad poenam, al medesimo reato avente ad oggetto gli atti pubblici, secondo quanto previsto dall’art. 491 c.p., mentre la stessa condotta criminosa, a differenza che per le scritture private, è perseguibile d’ufficio ai sensi del successivo art. 493 bis.

14.3. Non si omette poi di considerare che l’olografo produce immediatamente e direttamente effetti nella sfera giuridica del terzo, e costituisce, una volta pubblicato, titolo immediato di acquisto per l’erede e per il legatario, come prescritto dall’art. 620 quinto comma c.c., trattandosi di scrittura la cui efficacia non necessita dell’accertamento della autenticità, e comunque distinta da tutte le altre scritture private, per loro natura inidonee a costituire titolo immediatamente costitutivo di diritti verso i beneficiati.

14.4. AI riconoscimento del suo intrinseco valore sul piano sostanziale contribuisce, secondo tale orientamento, la stessa disciplina delle norme sulla pubblicità degli atti (in particolare, gli artt. 2648 e 2660 cod. civ.), che consentono la trascrizione dell’acquisto a causa di morte per effetto della sola presentazione del testamento e dell’atto di accettazione della eredità, restando così implicitamente confermata la non necessità di verificare l’autenticità della scheda, in evidente contrapposizione con il trattamento riservato alle altre scritture private, che possono trascriversi solo se autenticate o giudizialmente accertate, secondo il disposto dell’art. 2657 cod. civ..

14.5. Si è poi contestato che il procedimento di verificazione sia adeguato al disconoscimento del testamento, trovandosi il documento in deposito presso un notaio per la pubblicazione art. 620 cod. civ.): e se per la querela di falso l’art. 224 prevede il sequestro del documento quale misura più elevata per la sua custodia quando è tenuto presso un depositario, nessuna disposizione così rigorosa è prevista nel procedimento di verificazione.

14.6. Sul piano più squisitamente processuale, si poi affermato che la contestazione della autenticità del testamento andrebbe esercitata servendosi del più rigoroso strumento della querela non tanto per la efficacia probatoria del documento, quanto perché, in materia di contraffazione, l’azione di verificazione si risolverebbe in una iniziativa processuale identica nel contenuto alla querela, ma inammissibilmente libera dalle formalità essenziali che la legge prevede invece nella disciplina dettata dagli artt. 221 e segg. c.p.c.. E si è ancora posto l’accento sulla natura dell’accertamento – per i suoi riflessi sull’onere della prova — e sulla posizione di terzietà del successibile ex lege rispetto al testamento.

14.6.1. La soluzione della querela, difatti, conduce, secondo i suoi sostenitori, ad un più corretto riparto dell’onere della prova, che verrebbe a gravare su chi contesta il testamento olografo, in ossequio al disposto dell’art. 2697 e dell’art. 457, secondo comma, c.c., il quale ultimo prevede la successione ex lege solo in mancanza di vocazione testamentaria – risolvendosi la contestazione del documento olografo, come si è detto, in una domanda di accertamento negativo (così aderendosi alla tesi della preminenza della vocazione testamentaria rispetto alla legale). Quanto poi al rapporto tra erede ab intestato e testamento, si afferma che il disconoscimento di una scrittura non può provenire da terzi, poiché tale strumento è riservato alle parti contro cui il documento è rivolto, e agli eredi o aventi causa, che possono limitarsi a non riconoscere la scrittura o la sottoscrizione del suo autore. La fattispecie normativa si riferisce, difatti, ad una scrittura del de cuius prodotta contro gli eredi a fondamento di una pretesa eccepita nei loro riguardi, mentre, prodotto il testamento, deve escludersi che chi lo contesti possa qualificarsi, sic et simpliciter, erede, poiché detta qualifica in capo ai parenti che lo impugnano richiede proprio la dimostrazione della falsità del testamento: per il successibile ex lege non residuerebbe, dunque, che lo strumento della querela di falso per contestare l’autenticità del testamento olografo.

15. Gli arresti giurisprudenziali e il perdurante contrasto che li caratterizza, al pari delle divergenti conclusioni cui è pervenuta la stessa dottrina, sono lo specchio del complessità della questione posta al collegio, la cui soluzione sul piano teorico è destinata ad assumere un determinante rilievo nelle controversie per lesione di legittima ove assai di frequente si sollevano, in via di domanda o di eccezione, doglianze in ordine alla autenticità del testamento.

La peculiarità e la singolarità della questione sta poi nel fatto che tanto gli argomenti che sorreggono quanto le critiche che contestano ciascuna delle possibili soluzioni non mancano di autorevolezza e di forza persuasiva.

16. A sostegno della sufficienza del disconoscimento gli argomenti maggiormente convincenti appaiono quelli predicativi:

– della natura di scrittura privata del testamento olografo;

– della attribuzione al successibile ex lege della qualità di erede dell'(apparente) autore della scheda olografa;

– della netta distinzione tra il piano sostanziale, che riguarda più propriamente il thema probandum, e il piano processuale, che riguarda le modalità con le quali in un processo può trovare ingresso, con dignità di prova, il documento di delazione testamentaria.

17. L’indirizzo a sostegno della necessità della querela di falso trova invece fondamento:

– nella incidenza sostanziale e processuale intrinsecamente elevata che è riconosciuta al testamento, testimoniata da un plesso di norme la cui lettura depone (deporrebbe) in tal senso;

– nella esclusione in capo al successibile ex lege della qualità di erede (almeno sino a quando tale qualità non sia stata processualmente accertata), con conseguente inapplicabilità della fattispecie contemplata nell’art. 214, secondo comma, c.p.c..

18. Non vanno per altro verso trascurate le riflessioni critiche specularmente mosse alle argomentazioni favorevoli all’una e all’altra delle tesi che si propongono oggi come soluzione (senza apparente alternativa) della questione oggetto di giudizio.

18.1. Quanto al rapporto tra successore ex lege e scheda olografa, ed alla posizione dell’erede ab intestato, il vasto dibattito giurisprudenziale e dottrinale che, in seno alla teoria generale del processo, si agita in ordine alla stessa categoria concettuale di ‘terzo’, non sembra del tutto funzionale all’adozione di una soddisfacente soluzione del caso concreto. Non sembra, difatti, seriamente revocabile in dubbio che alcuni successibili, quali i legittimari, difficilmente possano essere qualificati ‘terzi’ ai fini della non riconoscibilità della sottoscrizione del de cuius. Mentre la stessa impugnazione del testamento olografo, la contestazione della sua provenienza e/o autenticità, è spesso proposta proprio da chi, pur beneficiario di una quota inferiore a quella spettantegli, è comunque (anche) un erede testamentario, sicché nei suoi confronti non potrebbe porsi alcuna questione di accertamento della sua qualità di erede.

18.1.1. Di conseguenza, non appare utile prospettare alternative che, a seconda della posizione assunta da chi contesta il testamento (escluso totalmente dalla eredità, erede legittimo compreso nelle categorie dei legittimari, erede testamentario sia pur per quota che non lo soddisfi), postulino poi l’adozione di soluzioni differenziate caso per caso.

18.1.2. Né appare senza significato considerare che una formale disamina del concetto di terzo conduce inevitabilmente a ritenere che quella posizione, ai fini dell’art. 214 cod. proc. civ., non andrebbe esaminata non dal punto di vista del soggetto parte della lite ma dell’autore del documento che si vuoi disconoscere – e sotto tale profilo il de cuius non è mai parte nel giudizio di impugnazione del proprio testamento -, e che l’erede in disconoscimento della scrittura o della sottoscrizione del suo autore sarebbe colui che subentra al de cuius nei suoi rapporti – e ciò presuppone che quel medesimo scritto si sarebbe potuto produrre nei confronti del testatore se ancora in vita.

E tuttavia risulta assai poco agevole affermare che, tra i documenti (siano essi negoziali oppure dichiarazioni di scienza) possa annoverarsi, sic et simpliciter, il testamento, formato dal medesimo de cuius, ma destinato a produrre effetti nella sfera giuridica dei suoi destinatari e non in quella dell’autore, acquistando efficacia dal momento del suo decesso e non prima. La ratio della distinzione tra scritture private, fatta propria dalle sezioni unite di questa Corte nel 2010, secondo cui ad alcune di esse andrebbe attribuito un valore intrinsecamente maggiore, trova proprio in tali considerazioni il suo fondamento, pur senza trascurare la legittimità delle critiche di chi contesta l’irragionevolezza dell’attribuzione ad alcune di esse di un regime giuridico ‘rafforzato’ rispetto a quanto assicurato a quelle provenienti dalle parti, anche alla luce della difficoltà di individuare un criterio da adoperare per la relativa classificazione.

18.2. Parimenti poco esplorabile, ai fini che occupano il collegio, si rivela la altrettanto delicata questione relativa alla preminenza della forma testamentaria su quella legittima o viceversa, secondo la lettura data dell’art. 457, secondo comma, cod. civ., e alle relative conseguenze in ordine all’onere dalla prova. Il percorso interpretativo che la caratterizza appare altrettanto impervio, e conduce a risultati assai poco certi, alla luce dei rilievi sollevati dai fautori dell’indirizzo favorevole al disconoscimento, i quali sottolineano come nella specie non si controverta sul valore della fonte della successione (legale o testamentaria, che resta il thema probandum), ma sullo strumento probatorio utilizzabile per dare ingresso nel processo al documento stesso.

19. L’indagine deve allora indirizzarsi verso l’analisi dei due più rilevanti aspetti della questione:

a) il valore sostanziale da attribuire al testamento;

b) il meccanismo processuale attraverso cui il testamento possa acquistare definitiva efficacia probatoria.

19.1. Privilegiando l’aspetto processuale della questione, sembra potersi concordare con l’assunto secondo cui, qualunque valore possa attribuirsi al testamento olografo, la sua contestazione avrà pur sempre ad oggetto il titolo della successione, e ciò riguarderà propriamente il thema probandum, mentre la opzione tra disconoscimento e successiva (eventuale) verificazione a carico di chi di quel testamento voglia valersi, ovvero querela di falso a carico di chi quel testamento voglia eliminare dalla realtà processuale, riguarda squisitamente il piano della prova, ossia lo strumento processuale funzionale a consentire che il testamento spieghi efficacia nel processo. Con la conseguenza che la sua natura di scrittura privata è destinata a privilegiare la prima soluzione.

19.2. Se invece viene si privilegia l’aspetto sostanziale della vicenda, appare valorizzata l’intrinseca, elevata e peculiare incidenza che il testamento spiega per sua stessa natura. E si è già avuto modo di osservare come, sotto tale profilo, non manchino conferme offerte dal relativo plesso di norme destinate a evidenziarne le differenze rispetto ad una ordinaria scrittura privata (dalla sua immediata esecutività e trascrivibilità, alla disciplina penalistica che ne accomuna le sorti al documento pubblico nella ipotesi di falsificazione). È indiscusso, anche da parte di chi finisce per propendere per la soluzione favorevole al disconoscimento, che il testamento olografo sia una scrittura il cui tratto formalistico, olografo, datato e sottoscritto ai fini della sua validità la rende una scrittura privata sui generis, i cui requisiti tendono a garantire la corrispondenza del contenuto del documento a quello della dichiarazione e la tutela della integrale autenticità di quest’ultima contro le manomissioni del terzo. Proprio all’olografia (di cui non si rinvengono altri riscontri) è attribuita una funzione specifica, ossia la funzione integrativa della ‘conoscenza’ dell’atto, nel senso che con essa vuoi garantirsi che il testo sia stato ‘conosciuto’ dal suo autore, in un significato dunque che va oltre la ‘presunzione di conoscenza’ delle normali scritture.

In favore di questo indirizzo, che conduce alla soluzione favorevole alla querela di falso, si rilevano ancora la maggiore coerenza dello strumento della querela (che, con la partecipazione al processo del Pubblico Ministero, assicurerebbe migliore armonia con la rigorosa disciplina penale prevista per la ipotesi di falsificazione dell’olografo, parificata al reato di falsificazione dell’atto pubblico); la maggiore coerenza in riferimento all’oggetto dell’indagine (poiché con la contestazione della autenticità dell’olografo l’accertamento non si limita mai alla sola sottoscrizione per stabilirne la provenienza, ma all’intero testo, investito di dubbi in ordine alla sua genuinità, e ciò in armonia con l’oggetto dell’indagine per l’ipotesi di querela di falso dell’atto pubblico); la maggiore adeguatezza agli effetti giuridici dell’olografo, il quale, a differenza di ogni altra scrittura privata, è immediatamente esecutivo ed immediatamente costitutivo di situazioni giuridiche soggettive, attive e passive, in capo al chiamato alla successione.

20. È convincimento del collegio che le inevitabili aporie destinate a vulnerare l’una e l’altra ipotesi di soluzione, tra quelle prospettate sino ad oggi in dottrina e in giurisprudenza, possano essere non del tutto insoddisfacentemente superate adottando una terza via, già indicata dalla giurisprudenza di questa Corte con la risalente sentenza del 1951 (Cass. 15.6.1951 n. 1545, Pres. Mandrioli, est. Torrente), e cioè quella predicativa della necessità di proporre un’azione di accertamento negativo della falsità.

20.1. Pur nella consapevolezza delle obiezioni mosse ilio tempore a tale ipotesi di soluzione del problema, è convincimento del collegio che la proposizione di una azione di accertamento negativo che ponga una questio nullitatis in seno al processo (anche se, più correttamente, sarebbe a discorrere di una quaestio inexistentiae) consente di rispondere:

– da un canto, all’esigenza di mantener il testamento olografo definitivamente circoscritto nell’orbita delle scritture private;

• dall’altro, di evitare la necessità di individuare un (assai problematico) criterio che consenta una soddisfacente distinzione tra la categoria delle scritture private la cui valenza probatoria risulterebbe ‘di incidenza sostanziale e processuale intrinsecamente elevata, tale da richiedere la querela di falso’, non potendosi esse ‘relegare nel novero delle prove atipiche’ (così la citata Cass. ss.uu. 15161/2010 al folio 4 della parte motiva); dall’altro, di non equiparare l’olografo, con inaccettabile semplificazione, ad una qualsivoglia scrittura proveniente da terzi, destinata come tale a rappresentare, quoad probationis, una ordinaria forma di scrittura privata non riconducibile alle parti in causa;

– dall’altro ancora, di evitare che il semplice disconoscimento di un atto caratterizzato da tale peculiarità ed efficacia dimostrativa renda troppo gravosa la posizione processuale dell’attore che si professa erede, riversando su di lui l’intero onere probatorio del processo in relazione ad un atto che, non va dimenticato, è innegabilmente caratterizzato da una sua intrinseca forza dimostrativa;

– infine, di evitare che la soluzione della controversia si disperda nei rivoli di un defatigante procedimento incidentale quale quello previsto per la querela di falso, consentendo di pervenire ad una soluzione tutta interna al processo, anche alla luce dei principi affermati di recente da questa stessa Corte con riguardo all’oggetto e alla funzione del processo e della stessa giurisdizione, apertamente definita ‘risorsa non illimitata’ (Cass. ss.uu. 26242/2014).

21. Va pertanto affermato il seguente principio di diritto:

La parte che contesti l’autenticità del testamento olografo deve proporre domanda di accertamento negativo della provenienza della scrittura, e l’onere della relativa prova, secondo i principi generali dettati in tema di accertamento negativo, grava sulla parte stessa.

In questi sensi ed entro tali limiti il ricorso principale va accolto (con conseguente assorbimento di quello incidentale), e il procedimento rinviato alla Corte di appello di Roma che, alla luce del principio di diritto ora esposto, esaminerà le ulteriori questioni conseguenti alla sua applicazione.

P.Q.M.

La Corte riuniti i ricorsi, accoglie il ricorso principale nei limiti di cui in motivazione, assorbito quello incidentale, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di cassazione, alla Corte di appello di Roma in altra composizione.

Abuso edilizio. Tribunale di Milano di Milano, Sez. IV, 23 novembre 2016, n. 12549

“Il silenzio dell’amministrazione competente successivo alla presentazione di una denuncia di inizio attività ed alla revoca di un’ordinanza di sospensione di lavori non può ingenerare un errore di diritto scusabile quando l’attività professionale dell’agente (nella specie, direttore dei lavori) presupponga la conoscenza della normativa di settore ed il suo comportamento sia sintomatico dell’inosservanza dell’obbligo di adeguata informazione per conseguire la conoscenza della legislazione vigente in materia”

Nel caso sottoposto recentemente all’attenzione del Tribunale di Milano è stato contestato ad un direttore lavori, nonché progettista, il reato previsto e punito dagli artt. 110 c.c. e 44 co 1 lett. a) e b) D.P.R. 380/2001, per aver realizzato, in concorso con il proprietario di un immobile, lavori edili non ammissibili, in forza di un permesso di costruire poi annullato dalla Amministrazione Comunale perché ritenuto dalla medesima illegittimo.

All’imputato, inoltre, veniva contestato il fatto d’aver proseguito i lavori edificatori malgrado la notifica di un ordine di sospensione dei lavori, emesso dallo Sportello Unico per l’Edilizia del Comune di Milano.

La vicenda trae origine da un procedimento amministrativo suddivisosi in alcune determinanti tappe:

1) con permesso di costruire n. 153 del 02.03.2007, il Comune di Milano aveva autorizzato un intervento edilizio di manutenzione straordinaria, consistente nel frazionamento in due unità, di un’unità immobiliare posta su due livelli di un immobile.

2) in data 01.07.2008, alcuni condomini dell’immobile dello stabile con esposto inviato all’AC, alla ASL e ai Vigili del Fuoco di Milano, e per conoscenza alla Procura della Repubblica, contestavano l’idoneità del titolo edilizio-permesso di costruire.

3) Il Comune di Milano, dopo un procedimento volto all’annullamento d’ufficio del permesso di costruire annullava il precedente provvedimento autorizzatorio in data 06.02.2012.

4) Con sentenza dell’08.11.2012 il TAR della Lombardia annullava il provvedimento dell’AC di annullamento del permesso di costruire del 06.02.2012, su ricorso dell’imputato.

Quanto al reato di cui all’art. 44 comma lett. a), il Tribunale di Milano, nel mandare assolto il progettista, nonché direttore dei lavori, afferma, in coerenza con la più recente giurisprudenza di legittimità, l’astratta imputabilità dei reati urbanistici in capo all’esecutore di opere edili, anche se eseguiti sulla base di un permesso di costruire successivamente ritenuto illegittimo per violazione da parte dell’Amministrazione delle disposizione di cui al T.U. 380/2001 ( si veda Corte di cassazione n. 11045 del 18/2/2015).

Ciononostante, il Giudice osserva che nel caso di specie manca la prova della palese illegittimità del titolo sulla base del quale sono stati eseguiti i lavori edilizi; assenza, questa, che si riflette sul profilo della consapevolezza dell’imputato.

Quanto al diverso reato di cui all’art. 44 comma 1 lett. b), inerente la prosecuzione dell’attività edificatoria nonostante l’ordine di sospensione, il Tribunale ravvisa l’inesistenza di elementi probatori che attestino lo status dei locali al momento della notifica della sospensione.

A tale conclusione assolutoria il Giudice di merito giunge pur confermando la natura di reato di pericolo istantaneo della fattispecie de qua, da ritenersi consumato all’atto e nel luogo di oggettivo accertamento della realizzazione di lavori ad opera dell’agente in spregio alla pregressa emissione di un provvedimento inibitorio all’uopo notificato dal competente Ufficio Tecnico Comunale.

 

Dott. Matteo Gambarati (Studio Legale Orlandi)

 

TRIBUNALE DI MILANO

 

SEZIONE 4° PENALE

Composto dai Sigg. Magistrati

Dr.                     Oscar MAGI                 Giudice

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa penale contro

………………nata il 23/07/1964 a Milano, elettivamente domiciliata c/o

lo studio dell’aw. Andrea Orabona, libera, assente.

Difesa di fiducia dall’avv. Andrea Orabona, del foro di Milano, con studio in Milano vìa Francesco Sforza n. 15.

IMPUTATA

In concorso con ……..nei cui confronti si è proceduto separatamente .

 p.p. dagli art.li 110 e 44 co 1 lett a e b) D.P.R. 380/2001, perché, in concorso tra loro, quale  proprietario, quale progettista e quale  direttore dei lavori

realizzavano lavori edili ucl locale scmfnlcrrnlo in contrasto coi* le nonne del D.P.H. 380/2001, in forza del permesso di costruire 11. 153 del 02.03.2007 ( avente ad oggetto l’esecuzione delle seguenti opere di manutenzione straordinaria: frazionamento dell’unità immobiliare posta so due livelli ad uso laboratorio in due unità immobiliari con cambio di destinazione d’uso delle stesse , l’unità ai piano rialzato viene destinala ad uso abitazione e l’unità al piano seminterrato c destinala ad uso studio privalo…”), lavori non ammissibili nel locale seminterrato, indicato falsamente quale “laboratorio” invece di “deposito” nella relazione tecnica descrittivi] delle opere a firma deH’arch. €SSSKS8BDSG3B del <1.12.06, allegata alla richiesta di rilascio del permesso di coslmirc presentata il 6 12 06 allo Sportello Unico per l’edilizia del Comune di Milano, permesso poi annullato in data 6.2,12 per la non abitabilità/agibilità degli spazi al piano seminterrato, con ordine di demolizione delie opeie edilizie abusivamente realizzate ed il ripristino dello stalo quo ante desistendo dall’uso con pcrinane.nzH di persone del piano seminici rato entro il termine perentorio di 90 giorni

e comunque li proseguivano nonostante l’ordine di sospensione dei lavori emesso dal Settore Sportello Unico per l’Edilizia del Comune di Milano il 06.11. 2008 (notificalo il 17.11.08) e rinnovato in data 25.02 2009. In particolare, con i riferimento al piano seminterrato  come da sopralluogo del 03.03.09 c 19 12.11 della Polizia Locale di Milano; in particolare, con riferimento ili piano seminici rato, realizzavano, nonostante l’ordine di sospensione, opere edilizie consistile nella completa rislruttinazionc dei locali, con nuova suddivisione degli spazi, posa parquet di alla qualità in tutte le stanze, inslnilazione di sanitari sospesi, piano lavabo in cristallo e posa mosaici nel locale adibito a bagno, costruzione di scala in muratura e legno, posa di poile in legno, nuovo impianto elcttiico con illuminazione a faretli, nonché islallazionc di impianto di condizionamento; quest’ultinii lavori di finitura proseguili anche successivamente all’ordine di sospensione.

In Milano in epoca anteriore c prossima al 19.12.11

CONCLUSIONI

All’udienza del 23 novembre 2016 le parti concludono come da relativo verbale | d’udienza.

MOTIVAZIONI:

Con decreto di citazione diretta a giudizio del 7/03/201 ……..                  in qualità di

progettista e direttrice dei lavori delle opere edilizie contestato nell’imputazione, veniva chiamata a rispondere del reato in epigrafe descritto, in concorso con f||f|f|fc|uale proprietario dei locali.

Il procedimento si è svolto in assenza dell’odierna imputata .

All’udienza del 13/04/2016 la difesa di……………………………..                munita di procura

speciale, chiedeva procedersi nelle forme del rito abbreviato condizionato a produzioni documentali ed il Tribunale disponeva in conformità; la posizione era, dunque, stralciata con n. 4385/16 R.G. Trib. e giudicata con sentenza n. 8502 del 11 luglio 2016 avanti alla dott.ssa Amicone.

la difesa dell’odierna imputata all’udienza del 13/07/2016 prestava, invece, il consenso all’acquisizione degli atti del PM e rappresentava al Giudice che il procedimento a carico di………..si era concluso con una sentenza di assoluzione perché il fatto non sussiste.

All’odierna udienza, esaurita la discussione, le parti concludevano come in atti, e il Tribunale dava lettura del dispositivo.

Si riportano i passi salienti della motivazione della sentenza n. 8502/16 della dott.ssa Amicone a carico di^^p^pé^^nel procedimento n. 4385/16 R.G. Trib.

(…) Al fine di ricostruire la vicenda di cui è processo, occorre previamente ricordare le tappe del procedimento amministrativo di cui è processo:

  • Con permesso di costruire n. 153 del 2,3.2007, il Comune di Milano aveva autorizzato l’intervento edilizio di manutenzione straordinaria, consistente nel frazionamento in due unità, di un’unità immobiliare posta su due livelli nell’immobile d j|ji3gli|§i|^p.
  • Il Comune aveva contestualmente autorizzato, oltre al frazionamento il cambio d’uso da uso laboratorio per le duo nuove unità; quella posta al piano terreno, ad uso abitazione, e quella posta nel piano seminterrato ad uso studio privato.
  • Con successiva istanza di permesso di costruire in variante in data 8.11.2009 veniva richiesto dalla proprietà alcune modifiche delle opere, interne ed esterne, tra cui un collegamento tra le due distinte nuove unità immobiliari, e In data 1.7,2008, alcuni condomini dell’immobile dello stabile, con esposto inviato all’ A.C., alla ASL e ai Vigili del Fuoco di Milano, e per conoscenza alla Procura della Repubblica contestavano l’idoneità del titolo edìlizio-permesso di costruire relativo ad intervento di manutenzione straordinaria- ai fini dell’esecuzione di dette opere, che sostanzialmente comportavano l’aumento di s.l.p. trasformando il laboratorio in studio privato, e quindi in locale destinato alla permanenza di persone, e In data 10.11.2008, il Comune di Milano ordinava la sospensioné dei lavori e avviava il procedimento volto all’annullamento d’ufficio del pernfessò’di costruire in relazione alla sua inidoneità a consentire interventi del genere di quelli richiesti, e A seguito di sopralluogo ai fini della effettuazione della notifica de! provvedimento, in data 17.11.2000 (cfr, doc. 7 difesa) l’istr. Di PI, Scaltro Roberto comunicava allo SSUE che i lavori erano stati sospesi « Il permesso a costruire veniva annullato in data 6.2,2012.

« Con sentenza dell’8.11.2012 il Tar della Lombardia annullava il provvedimento dell’AC di annullamento del permesso a costruire del 6.2.2012, su ricorso dell’imputato, osservando che tale provvedimento, emesso dopo cinque anni dal rilascio del permesso a costruire, non risultava emanato entro un periodo di tempo ragionevole, e peraltro era privo di idonee e congrue valutazioni in ordine agli interessi del destinatario e degli interessati.

(…) La citata pronuncia de) TAR dell’8.11.2012, che ha annullato il provvedimento di annullamento del permesso di costruire, non ha sancito infatti la legittimità di quest’ultimo permesso, ma si è limitata a statuire l’illegittimità del suo annullamento, in quanto non emanato entro un periodo di tempo ragionevole, e senza idonee e congrue valutazioni in ordine agli interessi del destinatario e degli interessati.

Ciò detto, la prima questione posta all’attenzione del TribunaÌe, la Illegittimità del permesso a costruire n. 153 del 2.3.2007, o quanto meno, la sua intellegibilità per il committente, atteso che la penale responsabilità per reati edilizi non è esclusa neppure a fronte di attività edilizia effettuata in forza di provvedimento amministrativo illegittimo[1].

Nel dettaglio, come rilevato dal TAR nella citata pronuncia, l’immobile aveva validamente ottenuto, a seguito de] condono del 1986, richiesto rial precedente proprietario, la destinazione a laboratorio, sia al piano terra che al seminterrato.

Tale assunto è palesemente contraddetto dalle motivazioni dcH’annullamento del permesso che esclude l’operatività del condono, e della conseguente destinazione a laboratorio, per i locali posti al piano seminterrato.

Ma così non è, come osservato dal TAR posto che l’AC non poteva, nel 2008, retroagire annullando gli effetti del condono concesso nel 1986.

Già la modifica della destinazione ad uso laboratorio implica in aumento di s.l.p. (cfr. provvedimento citato annullato del 6.11.2008 7 sussegue/iti atti prodotti aU’Anmiinistrazione per ottenere i titoli abilitativi successivi,..dichiarano per i locali posti al seminterrato un uso laboratorio, generando così un aumento di superficie lorda di pavimento (leggasi aumento di volumetria) che ab origine non esisteva.”)

Con la richiesta di permesso a costruire n. 153 del 2007, pertanto, l’istante non realizzava l’aumento di s.l.p., in quanto già preventivamente ottenuta dal suo dante causa con la domanda di condono.

Del resto, comunque, la modifica della destinazione del seminterrato da laboratorio a studio privato non si traduce necessariamente, a giudizio del Tribunale, in modifica comportante aumento di s.l.p., atteso che, come del resto rilevato anche dalla Corte d’Appello di Milano, sez, I Civile[2] anche tale uso implica una permanenza, sia pure non a fini abitativi, di persone.

Manca pertanto nel caso di specie la prova della palese illegittimità del titolo, destinata a riflettersi nella consapevolezza da parte dell’imputato, che peraltro risulta semplice committente dei lavori.

Quanto alla seconda parte dell’imputazione, inerente alla prosecuzione dell’attività edificatoria nonostante gli intervenuti ordini di sospensione, nessuna conferma dell’accusa emerge in atti, principalmente perché manca una sicura attestazione della situazione dei locali al momento della notifica della sospensione; né dalla documentazione fotografica prodotta, inerente allo stato dei luoghi del 19.12.2011, emerge una sicura conferma quanto ai lavori edili ivi documentati, con riferimento alla loro data di effettuazione.

Nessun rilievo, ha evidentemente al riguardo, la situazione del mobilio ivi ritratto.

Lo stesso dicasi con riferimento alla istallazione del servizio igienico che, come efficacemente rilevato dalla difesa, risulta esser stato posizionato già nel 2009, come emerge dalla già citata sentenza della Corte d’Appello.

E’ appena il caso di osservare che l’esatta constatazione dei luoghi al momento della notifica della sospensione dei lavori costituisce presupposto indispensabile per la verifica della responsabilità dell’imputato per l’inosservanza dell’ordine medesimo3. Alla luce delle suesposte considerazioni, va esclusa la penale responsabilità per il reato contestato, dell’imputato, che va assolto mancando la prova del latto tipico, perché il fatto non sussiste.

Questo Giudice ritiene di dover aderire integralmente alla motivazione sopra riportata della sentenza a carico di……………..                                                              poiché la vicenda contestata è la medesima , pertanto non vi sono difformità di sorta a carico della posizione della imputata………..deve, dunque, essere assolta poiché il fatto

PQM

Visto l’art, 530 c.p.p,

ASSOLVE

dal reato ascritto perché il fatto non sussiste

INDICA

in giorni 30 il termine di deposito della motivazione della sentenza.

Milano

Il Giudice

 

[1]2  In tema di reati urbanistici, il silenzio della amministrazione competente successivo alla presentazione di una denuncia di inizio attività e alla revoca di una ordinanza di sospensione dei lavori non può ingenerare un errore di diritto scusabile quando l’attività professionale dell’agente (nella specie, direttore dei lavori) presupponga la conoscenza della normativa di settore e il suo comportamento sia sintomatico della inosservanza dell’obbligo di adeguata informazione per conseguire la conoscenza della legislazione vigente in materia. (Sez. 3, n. 11045 del 18/02/2015 – dep. 16/03/2015, De Santis e altro, Rv. 263288)

[2]3 doc. 2 difesa, p. 6 e ss.

31 atteso che il condominio di via Crivelli contestava in giudizio l’illeceità dell’allacciamento alla rete fognaria condominiale dei servizi igienici installati ne! piano seminterrato.

 

Segreto industriale, misure di segregazione, concorrenza sleale: sottrazione e utilizzazione di informazioni aziendali riservate (file e disegni tecnici). Tribunale di Bologna 27 luglio 2015

Con atto di citazione ritualmente notificato, la società ALFA s.r.l.,  ha convenuto  in giudizio XX e le società Beta s.r.l e Nuovi Gamma s.a.s., chiedendo che l’adìto Tribunale, previo accertamento del compimento da parte dei convenuti di attività di concorrenza sleale, boicottaggio e sottrazione/utilizzazione di informazioni aziendali riservate a norma degli artt. 2598 n. 3 c.c. e 98-99 CPI, inibisse ai convenuti, secondo le rispettive vesti e qualità, la prosecuzione degli illeciti sopra indicati con particolare riferimento ai file e/o disegni tecnici relativi all’attacco da scialpinismo denominato “NX” progettato e prodotto dall’attrice ed illecitamente attribuiti all’attacco Haereo GO progettato, prodotto, commercializzato e pubblicizzato dai convenuti, ordinando il ritiro dal commercio di tale ultimo prodotto, con conseguente condanna dei convenuti al risarcimento dei danni, al pagamento di una penale pecuniaria per ogni violazione delle disposte inibitorie e pubblicazione della emananda sentenza.

Il Tribunale di Bologna ha ritenuto insufficiente la misura adottata dalla società attrice, consistente nella conservazione dei disegni tecnici contestati in un computer privato, ad uso esclusivo dell’ex socio-amministratore e progettista, dotato di password.

Infatti, secondo un ormai consolidato orientamento giurisprudenziale (v. ad es. Trib. Bologna, Sez. Spec. Propr. Industr. ed Intell. 9/2/2010), il codice della proprietà industriale (D.lvo n. 30/05, all’art. 98), considera meritorie di tutela le informazioni aziendali e le esperienze tecnico-industriali, comprese quelle commerciali soggette al legittimo controllo del detentore, ove tali informazioni siano segrete.

Si tratta, quindi, di informazioni che, singolarmente o nella loro combinazione, siano tali da non poter essere assunte dall’operatore del settore, in tempi e a costi ragionevoli e la cui acquisizione da parte del concorrente richieda, per ciò, sforzi o investimenti.

Ebbene il Tribunale felsineo ha giudicato la misura di protezione non sufficiente in quanto la società si è avvalsa di uno strumento privato, in dotazione esclusiva del soggetto che aveva partecipato alla realizzazione dei disegni, e non, invece, di un strumento informatico aziendale, che, in quanto avrebbe potuto essere “direttamente gestibile e controllabile dalla società”.

Il giudice di prime cure, tuttavia, nella fattispecie ha ravvisato la configurabilità della concorrenza sleale, in quanto le informazioni oggetto di rivelazione al concorrente avevano comunque natura riservata, stante la relativa non facile accessibilità, ed il loro utilizzo che aveva attribuito al concorrente un indebito vantaggio. Ha quindi ribadito, secondo un l principio costantemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità, che costituisce atto di concorrenza sleale per violazione dei principî della correttezza professionale la condotta, potenzialmente dannosa, volta a carpire notizie riservate, anche non costituenti segreto industriale, relative ai processi produttivi e alle sostanze utilizzate per realizzare un dato prodotto da parte di un’impresa concorrente, senza necessità di accertare la presenza di prodotti simili sul mercato (Cass. Civ. Sez. I, 20/01/2014, n. 1100).

V’è da riferire, infine, che lo stesso giudice non ha accolto domanda risarcitoria formulata da parte della società attrice, a causa della mancanza di sufficienti allegazioni e prove atte a dimostrare i danni sofferti.

 

TRIBUNALE ORDINARIO di BOLOGNA

QUARTA SEZIONE CIVILE

SEZIONE SPECIALIZZATA IN MATERIA DI IMPRESA

Il Tribunale, in composizione collegiale nelle persone dei seguenti magistrati:

dott. Giovanni Salina – Presidente Relatore

dott.ssa Anna Maria Rossi – Giudice

dott.ssa Daria Sbariscia – Giudice

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. 1658/2012 promossa da:

ALFA RACE S.R.L. (C.F. ***), con il patrocinio dell’avv. MACCAGNANI MASSIMO, elettivamente domiciliato in VIALE CARDUCCI N. 24 40125 BOLOGNA presso il difensore avv. MACCAGNANI MASSIMO.

ATTORE

contro

BETA S.R.L. UNIPERSONALE (C.F. ***), con il patrocinio dell’avv. NICOLINI GIOVANNI, dell’avv. BELLAN FEDERICO (BLLFRC73M23L219L), dell’avv. MASETTI ZANNINI DE CONCINA ALESSANDRO e dell’avv. CARTELLA ROBERTO (CRTRRT68R31H501E), elettivamente domiciliato in VIA DELL’INDIPENDENZA 27 40121 BOLOGNA presso il difensore avv. NICOLINI GIOVANNI.

CONVENUTO

XX (C.F.).

NUOVI GAMMA S.A.S. DI R.R. & C. (C.F. ***).

CONVENUTI/CONTUMACI

CONCLUSIONI

Le parti hanno concluso come da fogli allegati al verbale d’udienza di precisazione delle conclusioni.

FATTO E SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione ritualmente notificato, la società ALFA Race s.r.l., in persona del suo legale rappresentante pro-tempore, conveniva in giudizio, innanzi all’intestato Tribunale, XX e le società Beta s.r.l. Unipersonale e Nuovi Gamma s.a.s. di R. R. & C., in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro-tempore, chiedendo che l’adìto Tribunale, previo accertamento del compimento da parte dei convenuti di attività di concorrenza sleale, boicottaggio e sottrazione/utilizzazione di informazioni aziendali riservate a norma degli artt. 2598 n. 3 c.c. e 98-99 CPI, inibisse ai convenuti, secondo le rispettive vesti e qualità, la prosecuzione degli illeciti sopra indicati con particolare riferimento ai file e/o disegni tecnici relativi all’attacco da scialpinismo denominato “NX” progettato e prodotto dall’attrice ed illecitamente attribuiti all’attacco Haereo GO progettato, prodotto, commercializzato e pubblicizzato dai convenuti, ordinando il ritiro dal commercio di tale ultimo prodotto, con conseguente condanna dei convenuti al risarcimento dei danni, al pagamento di una penale pecuniaria per ogni violazione delle disposte inibitorie e pubblicazione della emananda sentenza.

L’attrice, in particolare, esponeva che, come accertato all’esito del procedimento cautelare promosso ante causam, la società Beta s.r.l., avvalendosi dell’opera dell’ing. XX, ex amministratore e socio della società ALFA Race s.r.l., nonché coprogettista dell’attacco denominato “NX”, aveva sottratto ed utilizzato informazioni tecnico-aziendali riservate inerenti a quest’ultimo prodotto al fine di impiegarli nella realizzazione e commercializzazione, in tempi estremamente brevi, di un attacco da scialpinismo tecnicamente sovrapponibile al primo in quanto riproduttivo delle medesime caratteristiche funzionali, tecniche e di design di quest’ultimo.

Lamentava, quindi, l’attrice che le condotte poste in essere dai convenuti le avevano provocato un ingente pregiudizio patrimoniale, conseguente soprattutto alla illegittima sottrazione di quote di mercato inaspettatamente attuata dalla società Beta s.r.l. in pochi mesi in un settore di mercato per questa del tutto nuovo, sfruttando la pluriennale attività di studio, progettazione e produzione in precedenza svolta da ALFA Race s.r.l., nonché un rilevante danno di natura non patrimoniale derivante dalla lesione della sua immagine commerciale consolidatasi in virtù della notorietà e rinomanza raggiunta dai suoi prodotti nei circuiti agonistici nazionali ed internazionali.

Si costituiva in giudizio la convenuta Beta s.r.l., la quale, contestando la fondatezza delle argomentazioni svolte dall’attrice, concludeva chiedendo l’integrale reiezione delle domande ex adverso formulate.

Nel corso del giudizio, celebrato nella contumacia dei convenuti Nuovi Gamma s.a.s. e XX, il G.I., espletati gli incombenti di cui all’art. 183 c.p.c., ammetteva le prove per interrogatorio formale e per testi dedotte dall’attrice, disponendo altresì c.t.u.

Infine, all’udienza del 5/3/2015, sulle conclusioni precisate dai difensori delle parti, il Giudice rimetteva la causa al Collegio per la decisione, assegnando i termini di cui all’art. 190 c.p.c. per lo scambio di comparse conclusionali e memorie di replica.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Giova preliminarmente dare atto che la società attrice, anche alla luce dei provvedimenti resi dall’intestato Tribunale in sede cautelare ante causam, non ha reiterato nel presente giudizio di merito le argomentazioni in precedenza svolte a sostegno delle dedotte responsabilità degli allora resistenti ed odierni convenuti a titolo di contraffazione di brevetto e di modello comunitario non registrato, di violazione del divieto legale di concorrenza e di concorrenza sleale per imitazione servile, limitandosi a riproporre unicamente quelle volte all’accertamento e alla declaratoria della responsabilità dei convenuti a titolo di concorrenza sleale per utilizzazione parassitaria di informazioni aziendali riservate e boicottaggio ex art. 2598 n. 3 c.c., nonché, nonostante le contrarie statuizioni assunte dal Giudice della cautela, quella a titolo di sottrazione ed uso di dati ed informazioni aziendali segrete di cui agli artt. 98-99 CPI.

Precisato nei termini suddetti il thema decidendum, appare evidente come le deduzioni e le domande qui (ri)proposte dall’attrice, soprattutto quelle in punto di appropriazione e sfruttamento di informazioni aziendali ex artt. 2598 n. 3 c.c. e 98-99 CPI, presuppongano, tra l’altro, il positivo accertamento del carattere riservato e/o segreto dei dati tecnico-aziendali di proprietà dell’attrice ed asseritamente sottratti e trasferiti, in modo illegittimo e scorretto, all’interno del ciclo produttivo della convenuta Beta s.r.l. a seguito e per l’effetto del passaggio alle dipendenze di quest’ultima dell’ex amministratore e socio di ALFA Race s.r.l., ing. XX.

A fronte di siffatte deduzioni, la società convenuta Beta s.r.l. ha, a sua volta, asserito che i particolari tecnici che, secondo lo stesso Giudice della cautela, sarebbero confluiti nell’attacco Haereo Go da essa progettato e prodotto, in realtà, erano noti e, quindi, facevano parte del c.d. stato della tecnica, già in epoca antecedente la data di realizzazione, presentazione e commercializzazione di tale ultimo prodotto, evidenziando, peraltro, come lo stesso Tribunale adìto in sede cautelare avesse escluso ogni ipotesi di contraffazione e, quindi, di interferenza tecnico-giuridica dell’attacco c.d. “Beta” rispetto all’ambito di tutela rivendicato dal brevetto nella titolarità dell’attrice, sia pure con motivazione ritenuta dalla stesa convenuta contraddittoria rispetto alla affermata concorrenza sleale per sottrazione ed utilizzazione di notizie aziendali riservate.

Infatti, secondo la tesi prospettata dalla convenuta, i particolari tecnici dell’attacco NX di ALFA Race s.r.l., asseritamente presenti nell’attacco Hareo Go, prototipato e presentato nel periodo ottobre-dicembre 2009, erano pubblici e da tempo diffusi nel settore di riferimento, e, quindi, avrebbero già fatto parte dell’arte nota o stato della tecnica, quantomeno a far data dalla pubblicazione della domanda di brevetto N. MO 2007 A 000365 del 28.11.2007 relativa al predetto attacco NX, avvenuta nel mese di maggio 2009.

A quest’ultimo riguardo, la convenuta ha precisato come la realizzazione del suddetto trovato fosse stata il frutto dell’attività inventiva svolta (anche) dall’ing. XX nel dicembre 2008 e maggio 2009, il quale, per ciò, sciogliendo ogni vincolo con ALFA Race (luglio 2009) e transitando subito dopo alle dipendenze di Beta s.r.l. nel corso della seconda metà dell’anno 2009, altro non avrebbe fatto che impiegare legittimamente nel suo nuovo rapporto di collaborazione professionale, il patrimonio di conoscenze ed esperienze professionali precedentemente maturato anche durante il legame socio-lavorativo con ALFA Race s.r.l.

Fatte queste premesse, per quel che concerne il primo profilo di responsabilità dedotto dall’attrice, come noto, l’illecito delineato dai citati artt. 98 e 99 CPI postula, in primo luogo, l’esistenza di dati, notizie ed informazioni aziendali, di natura tecnica e/o commerciale, dotate dei requisiti della segretezza intesa come loro non facile accessibilità da parte degli esperti ed operatori del settore di riferimento, della loro rilevanza economica e, infine, della loro sottoposizione a misure idonee a mantenerle segrete.

Infatti, secondo un ormai consolidato orientamento giurisprudenziale (v. ad es. Trib. Bologna, Sez. Spec. Propr. Industr. ed Intell. 9/2/2010), il codice della proprietà industriale (D.lvo n. 30/05, all’art. 98, considera meritorie di tutela le informazioni aziendali e le esperienze tecnico-industriali, comprese quelle commerciali, soggette al legittimo controllo del detentore, ove tali informazioni siano segrete, nel senso che non siano nel loro insieme o nella precisa configurazione e combinazione dei loro elementi generalmente note o facilmente accessibili agli esperti ed agli operatori del settore; abbiano valore economico in quanto segrete e siano sottoposte, da parte delle persone al cui legittimo controllo sono soggette, a misure da ritenersi ragionevolmente adeguate a mantenerle segrete.

Si tratta, quindi, di informazioni che, singolarmente o nella loro combinazione, siano tali da non poter essere assunte dall’operatore del settore, in tempi e a costi ragionevoli e la cui acquisizione da parte del concorrente richieda, per ciò, sforzi o investimenti.

In secondo luogo, occorre che le informazioni segrete presentino un valore economico, non nel senso che possiedano un valore di mercato, ma nel senso che il loro utilizzo comporti, da parte di chi lo attua, un vantaggio concorrenziale che consenta di mantenere o aumentare la quota di mercato.

In terzo luogo, occorre che le informazioni siano sottoposte, da parte delle persone al cui legittimo controllo sono soggette, a misure da ritenersi ragionevolmente adeguate a mantenerle segrete.

Sotto quest’ultimo profilo, si ritiene comunemente necessario che il titolare delle informazioni renda edotti i propri dipendenti e i propri collaboratori della natura delle informazioni e della necessità di mantenere il segreto sia come condizione contrattuale, sia come informazione comunque diretta a collaboratori e dipendenti (v. ad es. Ordinanza Trib. BO Sez. Spec. Propr. Industr. 28/9/2010).

Orbene, alla luce dei principi sopra richiamati e tenuto conto dei presupposti, oggettivi e soggettivi, richiesti ai fini della sussistenza del denunciato illecito, si ritiene che, nella fattispecie in esame, così come peraltro statuito dal Giudice della cautela con motivazioni ampie, esaustive e pienamente condivisibili da intendersi in questa sede di merito integralmente richiamate, non sia concretamente configurabile la dedotta responsabilità dei convenuti a norma dei citati artt. 98 e 99 CPI.

Al riguardo, appare quantomeno opportuno rilevare che tra le parti non vi è controversia in ordine alla appartenenza giuridica delle informazioni tecnico-aziendali in questione e, segnatamente, dei particolari costruttivi contenuti nei disegni tecnici prodotti in causa dalla società ALFA Race s.r.l..

Infatti, è pacifico ed incontestato che si tratti di elaborati progettuali, costruttivi e meccanici, la cui materiale (co)predisposizione da parte dell’ing. XX, all’epoca socio-amministratore ed anche progettista di ALFA Race s.r.l., è stata pur sempre e comunque effettuata per conto e nell’interesse della predetta società che, in tal modo, ne ha acquisito e mantenuto la proprietà.

Detto questo, in relazione ai requisiti sopra evidenziati e, segnatamente, in ordine alla notorietà e/o agevole acquisibilità da parte di esperto del ramo dei particolari tecnico-costruttivi (c.d. quid inventum) cristallizzati nei disegni elaborati a fini di deposito della domanda di brevetto ALFA e per la progettazione e produzione dell’attacco NX già all’epoca di divulgazione dell’attacco Hareo GO, è stata disposta ed espletata apposita c.t.u. diretta a verificare, sulla scorta dei disegni tecnici versati in atti dalla parte attrice sub all. nn. 33-44, 46 e 94 bis, quali fossero gli elementi tecnici in essi contenuti già pubblici a seguito della domanda di brevetto MO 2007 A 000365 del 28.11.2007 e quali fossero facilmente accessibili atteso lo stato della tecnica, specificando, in caso positivo, quali di tali aspetti ed elementi fossero presenti nei prodotti Haeréo dell’ottobre 2009 e dicembre 2010. Dalla relazione di c.t.u. in atti, le cui conclusioni appaiono ampiamente argomentate ed immuni da contraddizioni di natura tecnica e logica, risulta che i disegni ALFA, relativi all’attacco da scialpinismo NX, realizzati dal XX, prevalentemente, nell’anno 2008 e, in parte, negli anni 2009 e 2007, contengono tutte le informazioni, tecnico-costruttive, necessarie per la realizzazione dell’attacco (puntale e talloniera) da scialpinismo NX, in quanto recano le indicazioni relative alle quote, ai materiali e alle lavorazioni.

Tali informazioni, invece, non risultano suscettibili di acquisizione né attraverso la domanda di brevetto, né dallo stato della tecnica nota all’epoca di divulgazione dell’attacco Haereo Go prodotto da Beta s.r.l.

Infatti, come puntualmente evidenziato dal CTU, la domanda di brevetto in questione descrive il puntale del predetto attacco NX sia dal punto di vista strutturale, che dal punto di vista funzionale, ma non contiene alcuna informazione sulla talloniera, né contiene gli insegnamenti tecnici derivabili dal disegno meccanico (quote, lavorazioni, trattamenti ecc.), sicchè l’operatore privo della tavola dei disegni tecnici ALFA non è in grado di realizzare la leva o forcella così come prevista in progetto e le relative informazioni non sono, quindi, ricavabili neppure dalle figure allegate alla predetta domanda di brevetto, la cui presentazione non ha perciò reso pubblici gli elementi tecnici, invece, rinvenibili nei disegni ALFA.

Quanto allo stato della tecnica costituito dalle anteriorità indicate dalla convenuta ed asseritamente anticipatorie degli elementi tecnici propri dell’attacco NX (brevetti europei EP 0 199 098 B1 e EP 1 559 457 B1; documenti Dynafit TLT 1993-2007; serie di attacchi in commercio come meglio indicati in atti), il CTU ha chiaramente affermato che tali anteriorità, pur presentando alcune analogie costruttive, strutturali, funzionali ed estetiche a quelle dell’attacco dell’attrice, non contengono, però, gli insegnamenti tecnici derivabili, invece, dai disegni meccanici ALFA (quote, lavorazioni, trattamenti), che, per tale ragione, non possono definirsi agevolmente accessibili neppure in base allo stato della tecnica.

I particolari meccanici, tecnici e costruttivi contenuti nei disegni ALFA, in quanto frutto dell’attività progettuale svolta dalla società attrice, costituiscono indubbiamente informazioni aziendali, di tipo tecnico, atte a governare il relativo processo produttivo e, per ciò, appartengono al patrimonio di conoscenze ed esperienze tecnico-costruttive della società medesima, il cui contenuto, ancorchè eventualmente non sottoposto a speciali misure atte a mantenerlo segreto, in quanto non facilmente acquisibile da terzi e non destinato ad essere conosciuto e divulgato all’esterno, deve essere comunque considerato riservato.

Accertata positivamente la sussistenza del requisito della riservatezza delle informazioni tecnico-aziendali in questione, deve ritenersi pure sussistente il requisito della loro rilevanza economica in ragione, da un lato, del significativo grado di penetrazione del mercato raggiunto dall’attrice attraverso la commercializzazione degli attacchi cui si riferiscono i predetti dati tecnico-costruttivi, e, dall’altro, dell’indubbio ed evidente vantaggio concorrenziale acquisito dalla società Beta s.r.l. che, in pochissimi mesi (da luglio a ottobre-novembre 2009) è riuscita ad inserirsi in modo rilevante e con prodotti di sua diretta produzione, in un segmento di mercato ad essa del tutto inedito ovvero nel quale essa, fino ad allora, aveva operato non in modo diretto ma solo quale distributrice di beni prodotti da altre aziende, mantenendo così e, anzi, ampliando sensibilmente la propria originaria quota di mercato.

Tuttavia, come peraltro statuito dal Giudice della cautela, con provvedimento alle cui condivisibili motivazioni deve farsi integrale rinvio, nel caso di specie, non è ravvisabile o, comunque, non è sufficientemente dimostrata, la sussistenza dell’ulteriore requisito richiesto dalla lett. c) del citato art. 98 CPI.

In particolare, non vi è prova che la società attrice avesse predisposto dispositivi o presidii volti ad impedire l’accesso e la conoscenza dei dati tecnici riportati nei suddetti disegni, né che avesse quantomeno impartito specifiche direttive in tal senso.

Infatti, pur trattandosi di patrimonio conoscitivo e tecnico di proprietà dell’attrice non agevolmente accessibile ab esterno e, quindi, riservato, non vi è prova che lo stesso fosse stato anche reso e mantenuto segreto nel senso in cui quest’ultimo termine è stato impiegato dal legislatore ed interpretato dalla giurisprudenza.

Secondo la prospettazione difensiva dell’attrice, invece, il requisito in esame, di cui alla lettera c) del citato art. 98 CPI, dovrebbe ritenersi sussistente in ragione del fatto che le suddette informazioni tecniche e, segnatamente, i predetti disegni tecnici erano custoditi in un personal computer privato, dotato di password ed in uso esclusivo al socio- amministratore e coprogettista XX.

La circostanza allegata dall’attrice appare, tuttavia, insufficiente a conferire ai dati aziendali in esame il carattere della segretezza nell’accezione di cui alla lett. c) dell’art. 98 CPI.

Si tratta, infatti, di misura non adeguatamente protettiva, in quanto, in primo luogo, le informazioni de quibus erano state immesse in un computer privato ed in dotazione esclusiva al XX anziché in un sistema informatico aziendale direttamente gestibile e controllabile dalla società.

In secondo luogo, la sua operatività ed efficacia erano state interamente affidate allo stesso soggetto sul cui operato e, segnatamente sull’utilizzo dei dati e delle informazioni in questione non risulta che la società abbia esercitato alcun controllo, dato specifiche direttive o posto limiti atti a prevenirne un uso abusivo.

L’inadeguatezza della misura in commento, poi, appare in tutta la sua evidenza ove si consideri che la verifica e la vigilanza sull’uso legittimo di tali informazioni aziendali avrebbero potuto essere attuate dalla società soltanto per il tramite dello stesso utilizzatore che, così, avrebbe assunto, contemporaneamente, le vesti, tra di loro incompatibili, di controllato- controllore.

Misura, questa, peraltro, suscettibile di elusione da parte di esperto informatico, e, comunque, di per sé non impeditiva del trasferimento a terzi dei dati in questione a seguito e per effetto del passaggio da parte del detentore del predetto personal computer alle dipendenze di altra azienda concorrente.

Conseguentemente, alla luce delle considerazioni che precedono, nel caso di specie, non è configurabile a carico dei convenuti la dedotta responsabilità per l’illecito di cui agli artt. 98-99 CPI.

Tuttavia, l’espressa riserva contenuta nell’art. 99 CPI, che fa salva, in ogni caso, la normativa in materia di concorrenza sleale, consente di ritenere sempre configurabili le fattispecie di concorrenza sleale costituite dall’utilizzazione di notizie riservate o, in genere, dall’utilizzazione di know-how aziendale, a condizione che l’utilizzo avvenga secondo modalità scorrette e che sia potenzialmente foriero di danno concorrenziale, potenziale o attuale.

E ciò, deve ancora ritenersi, sia nei casi in cui siano presenti tutti i requisiti delle informazioni segrete postulati dall’art. 98 CPI, sia nel caso in cui tali requisiti non sussistano o non ricorrano tutti, sicchè la condotta illecita, in tali casi, può ricevere soltanto tutela obbligatoria e non reale (v. a d es. Trib. Bologna, Sent. N. 516/2010 del 9/2/2010; 1/3/2010; 6/7/2010).

Ciò, indubbiamente, rappresenta un’apertura ad una tutela delle notizie riservate più ampia di quella prospettata dal citato art. 98 CPI, così come nell’elaborazione giurisprudenziale risulta acquisito, tanto da ricomprendervi le semplici conoscenze richieste per produrre un bene, per attuare un processo produttivo o per il corretto impiego di una tecnologia (know-how in senso stretto; cfr. Cass. N. 85/1873; Cass. N. 92/659).

La configurabilità della concorrenza sleale richiede, quindi, in primo luogo, che le notizie rivelate a terzi o da questi acquisite o utilizzate fossero destinate a non essere divulgate al di fuori dell’azienda (v. Cass. civ. Sez. I, 13/10/2014, n. 21588), dovendosi, per ciò, trattare di informazioni riservate, nel senso, sopra delineato, di non facile accessibilità al loro contenuto. Costituisce, dunque, condotta di concorrenza sleale per violazione dei principî della correttezza professionale la condotta, potenzialmente dannosa, volta a carpire notizie riservate, anche non costituenti segreto industriale, relative ai processi produttivi e alle sostanze utilizzate per realizzare un dato prodotto da parte di un’impresa concorrente, senza necessità di accertare la presenza di prodotti simili sul mercato (Cass. Civ. Sez. I, 20/01/2014, n. 1100).

Conseguentemente, deve ritenersi violato il regime di leale concorrenza, a norma dell’art. 2598 n. 3 c.c., anche da parte di chi risparmia, con la sottrazione di dati riservati, quei tempi e quei costi di una autonoma ricostruzione delle informazioni industrialmente utili: con il conseguente compimento di atti concorrenzialmente sleali in relazione ad ogni acquisizione avvenuta per sottrazione e non per autonoma capacità di elaborazione.

Sulla sussistenza, nel caso di specie, del requisito della riservatezza o, comunque, della non agevole accessibilità delle notizie tecnico-costruttive in questione, è sufficiente fare integrale rinvio alle esaurienti conclusioni rassegnate sul punto dal CTU ed in precedenza esaminate in tema di sottrazione di informazioni segrete ex artt. 98-99 CPI.

Inoltre, che vi sia stato un effettivo travaso di informazioni aziendali di proprietà dell’attrice nel ciclo produttivo della convenuta società Beta s.r.l. lo si desume agevolmente da una pluralità di circostanze di fatto che, per la loro gravità, precisione e concordanza, costituiscono elementi di valutazione di tipo presuntivo, comunque idonei, singolarmente e nel loro insieme, a fondare il libero convincimento del Giudice, anche in ragione della mancata allegazione e dimostrazione da parte della convenuta di elementi di segno contrario in grado di scardinare il predetto complesso indiziario.

In particolare, come correttamente enunciato dal Collegio in sede di reclamo, risultano significativi in tal senso l’individuazione nella stessa persona del progettista dell’uno e dell’altro modello; l’inesistenza di una soluzione di continuità tra l’uscita del XX dalla società attrice, la sua entrata in Beta s.r.l. e la presentazione del modello Haereo GO; la palese contiguità dei prodotti; la mancanza di una esperienza specifica e diretta nel settore da parte della convenuta, la quale, al di là di generiche affermazioni e produzioni di documenti relativi a prodotti del tutto diversi, non ha affatto dimostrato di avere una struttura che le consentisse di elaborare quel progetto e in tempi così rapidi; la capacità manifestata da Beta s.r.l. di entrare nel mercato esattamente dopo l’arrivo del XX.

Al riguardo, va soprattutto evidenziato come il CTU abbia riscontrato che gran parte dei particolari costruttivi, tecnici e meccanici dell’attacco NX di ALFA Race s.r.l., riportati nei disegni contenenti, come detto, informazioni tecnico-aziendali riservate di proprietà di quest’ultima, sono presenti nell’attacco Haereo Go prodotto dalla società convenuta.

Tale circostanza, unitamente alla non facile acquisibilità delle predette informazioni tecniche custodite nel personal computer in uso al XX, socio-amministratore e coprogettista ALFA, a sua volta trasmigrato alle dipendenze di Beta s.r.l. pochi mesi prima della concreta realizzazione e divulgazione dell’attacco Hareo Go dal medesimo incontestatamente progettato, costituiscono, nel loro complesso, plurimi elementi di fatto, gravi, precisi e concordanti, sulla base dei quali è più che ragionevole ritenere che la realizzazione dell’attacco di Beta s.r.l. e, quindi, il suo ingresso nel settore di mercato degli attacchi da scialpinismo, fino ad allora frequentato solo in via indiretta e non per prodotti di sua fabbricazione, siano stati resi possibili, con tempistiche così rapide (tre-quattro mesi) rispetto a quelle impiegate dall’attrice (due-tre anni), soltanto attraverso lo sfruttamento abusivo e parassitario dei predetti dati tecnici riservati di proprietà dell’attrice e trasferiti alla società convenuta dal menzionato comune ideatore-progettista, con evidente parassitario risparmio, di risorse, costi, tempi ed oneri, da parte dell’abusiva utilizzatrice.

I convenuti Beta s.r.l. e XX, quindi, in concorso tra loro ex art. 2055 c.c., si sono resi responsabili di atti di concorrenza sleale per contrarietà alla correttezza professionale, in violazione del disposto di cui all’art. 2598, n. 3, c.c.

Tale statuizione impone, poi, l’inibitoria invocata dall’attrice al fine di impedire ai suddetti convenuti l’ulteriore prosecuzione dell’illecito sopra accertato mediante il compimento di attività di progettazione, produzione, commercializzazione e pubblicizzazione di attacchi da scialpinismo contenenti i particolari costruttivi di cui ai suddetti disegni tecnici di proprietà dell’attrice e specificamente sottoposti a verifica peritale, con conseguente ordine di ritiro dal commercio degli attacchi già prodotti. Quanto alla convenuta società Nuovi Gamma s.a.s., rimasta contumace, dalle acquisite risultanze istruttorie risulta che la stessa si sia limitata a svolgere il ruolo di mero rivenditore dell’attacco Hareo Go senza però alcun coinvolgimento, diretto o indiretto, nella pregressa attività illecita di sottrazione ed impiego, a fini progettuali e produttivi, delle predette informazioni riservate, sicchè a suo carico non può fondatamente affermarsi alcuna responsabilità in ordine all’illecito denunciato dall’attrice.

A questo punto non resta che valutare la sussistenza degli estremi dell’ulteriore illecito prospettato dalla società attrice ex art. 2598 n. 3 c.c., di concorrenza sleale tramite boicottaggio c.d. “secondario”, asseritamente consistito nelle pressioni indebitamente operate dalla società Beta s.r.l. al fine di costringere, in particolare, la ditta Helium di Stefano Tschager e quella di tale Albert Heicher a recedere dai rispettivi contratti di procacciamento d’affari e di agenzia stipulati con l’attrice.

Orbene, come noto, l’illecito de quo ricorre allorquando esista tra le parti un rapporto di concorrenza anche nella forma del rapporto tra imprese operanti a diversi livelli”, il boicottante versi in condizioni di obiettiva forza contrattuale pur se non equiparabili alla situazione che sta alla base dell’abuso di “posizione dominante”, le condotte imputate a titolo di boicottaggio siano caratterizzate da un “quid pluris” rispetto alle normali prassi commerciali essendo rivolte “allo scopo esclusivo di escludere il concorrente dal mercato” e, infine, sussista un “accordo discriminatorio”, nel senso “che un soggetto abbia esercitato pressioni su altri soggetti, imprenditori, perché si astengano da rapporti commerciali con il boicottato, a sua volta imprenditore”.

Ed invero, anche a voler prescindere da ogni considerazione circa la effettiva sussistenza in capo alla società convenuta di una condizione di oggettiva forza contrattuale prossima anche se non necessariamente coincidente con una posizione di vero e proprio dominio, nella fattispecie in esame, pare comunque carente la prova dell’accordo discriminatorio volto a impedire o ad ostacolare le relazioni commerciali tra l’imprenditore concorrente boicottato e i terzi.

Infatti, dall’espletata istruttoria orale e segnatamente dalle deposizioni testimoniali rese dai titolari delle ditte asseritamente costrette o indotte a recedere dai rapporti contrattuali con l’attrice, risulta che la decisione di liberarsi da tale vincolo negoziale, sorto con l’attrice in modo peraltro del tutto autonomo ed in epoca oltretutto successiva rispetto a quelli precedentemente instaurati tra i medesimi terzi e l’odierna convenuta, sia stata, in realtà, il frutto di una loro, sia pur sofferta, ma comunque libera ed incondizionata determinazione imprenditoriale, scevra da pressioni da parte della società Beta s.r.l. e motivata, sul piano della convenienza economico- commerciale, dall’interesse di mantenere in vita il pregresso e più conveniente rapporto negoziale, rispetto al quale la più recente relazione contrattuale con l’attrice si sarebbe posta in termini di incompatibilità a causa delle condizioni di esclusiva previste dai nuovi accordi. Incompatibilità negoziale, questa, che la convenuta ha verosimilmente fatto presente ai propri agenti, in termini probabilmente forti, ma commercialmente comprensibili e non anomali rispetto alle prassi consolidate, richiamandoli al rispetto delle pregresse relazioni contrattuali anche al fine di conservare l’integrità della propria rete-vendita.

Ne consegue che anche la domanda in esame deve essere rigettata.

Quanto alla domanda risarcitoria formulata dalla società attrice, la relativa richiesta va, in gran parte, rigettata.

Con riferimento al lamentato danno da lucro cessante, va evidenziato come l’attrice non abbia adeguatamente e specificamente contestato e confutato le documentate allegazioni di parte convenuta circa il reale andamento del fatturato di ALFA Race nel periodo di compresenza nel mercato degli attacchi NX e Haereo GO, e, in particolare, quelle attestanti, da un lato, la sostanziale irrilevanza del calo di fatturato registrato dall’attrice per poche migliaia di euro nell’anno 2009-2010, non necessariamente imputabile, in assenza di prove in tal senso, alla peraltro recentissima presentazione e commercializzazione del prodotto Beta, e, dall’altro, il suo considerevole incremento nell’esercizio successivo, sintomatico, quest’ultimo, di una progressiva e positiva penetrazione del mercato da parte dell’attacco NX, rivelatosi, di fatto, insensibile alla coeva presenza di prodotti concorrenti simili.

Quanto all’allegato minor incremento dei predetti fatturati rispetto alle previsioni tendenziali di periodo, si tratta di mere supposizioni non supportate da dati concreti e riscontrabili.

In ogni caso, non è dimostrato che il mancato raggiungimento dei livelli di fatturato attesi dall’impresa attrice sia dipeso, sul piano eziologico, dalla produzione e commercializzazione degli attacchi Beta, tenuto soprattutto conto della duplice circostanza che l’attacco ALFA Race era anch’esso un prodotto di recente produzione e quello concorrente è stato compresente sul mercato per pochissimi mesi, e, precisamente, dalla fine dell’anno 2009 (epoca di presentazione e produzione dell’attacco Haereo GO) alla metà dell’anno 2010, epoca di adozione della misura cautelare di inibitoria.

Un arco temporale così ristretto, in assenza di elementi probatori di segno contrario, induce, quindi, a ritenere insussistente o, comunque, non direttamente imputabile alla convenuta il pregiudizio come sopra allegato dall’attrice.

Quanto alla richiesta di condanna della convenuta Beta s.r.l. al risarcimento del danno in termini di reversione degli utili che quest’ultima ha conseguito attraverso l’illegittimo impiego delle informazioni aziendali riservate abusivamente sottratte, al riguardo va rilevata la mancanza di sufficienti allegazioni e prove circa il fatto che gli utili che, per stessa ammissione di parte, sono stati effettivamente realizzati da Beta s.r.l. sarebbero stati, in tutto o in parte, conseguiti dall’attrice in assenza di condotte anticoncorrenziali della convenuta, atteso che anche il prodotto NX di ALFA Race era stato immesso sul mercato appena pochi mesi prima della produzione e commercializzazione dell’attacco Haereo Go, e che, inoltre, esso non rappresentava l’unico prodotto idoneo a soddisfare le esigenze ed i gusti dei consumatori di riferimento, esistendo, per allegazione della stessa attrice, altre aziende operanti nel medesimo settore, detentrici di ampie quote di mercato i cui prodotti erano anch’essi oggetto di forte domanda.

In relazione, poi, al danno asseritamente sofferto in conseguenza del passaggio del XX alle dipendenze delle convenuta, sul punto, è sufficiente evidenziare come non costituisca oggetto della presente causa alcuna ipotesi di responsabilità da storno di dipendenti.

Per quel che concerne, infine, il danno non patrimoniale lamentato dall’attrice in termini di pregiudizio all’immagine commerciale dell’impresa, va, al riguardo, rilevato un insanabile deficit assertivo e, soprattutto, probatorio dal quale discende inevitabilmente la reiezione della relativa richiesta, basata, appunto, su allegazioni del tuto generiche ed indeterminate, prive di concreto riscontro istruttorio.

Va, invece, accolta la domanda di risarcimento del danno c.d. emergente costituito, nel caso di specie, dagli oneri e costi sostenuti dall’attrice per il conseguimento della prova dell’illecito anticoncorrenziale sopra accertato.

In particolare, all’attrice va riconosciuto il ristoro del danno equivalente all’importo di € 429,00, speso dall’attrice per l’acquisto dell’attacco Haerèo G0 presso Nuovi Gamma s.a.s. (cfr. doc. 77 fascicolo cautelare).

Pertanto, i convenuti Beta s.r.l. e XX vanno condannati, in solido tra loro, al pagamento, in favore dell’attrice, a titolo di risarcimento del danno, della somma di € 429,00.

Trattandosi di importo dovuto a titolo di risarcimento del danno, costituente debito di valore, non liquidato all’attualità, la suddetta somma deve essere rivalutata secondo gli indici ISTAT dalla data del suo esborso da parte dell’attrice fino alla data della presente sentenza.

Inoltre, all’attrice spetta il risarcimento del danno da ritardato conseguimento della somma dovuta, da liquidarsi, in via equitativa, mediante attribuzione degli interessi di legge maturati sulla somma come sopra progressivamente rivalutata dalla data del fatto a quella della presente decisione.

Sull’importo come sopra complessivamente determinato, sono pure dovuti all’attrice gli ulteriori interessi legali dalla sentenza al saldo.

In ragione del tempo trascorso dall’epoca dei fatti, della loro ridotta estensione temporale e della loro indimostrata incidenza negativa sul patrimonio dell’attrice, si ritiene, invece, che le ulteriori misure invocate da quest’ultima, di pubblicazione della sentenza e di imposizione di penale pecuniaria, siano ipertrofiche e non consone alla reale entità della presente vicenda.

Infine, per quel che concerne le spese di lite, si ritiene che, in considerazione del parziale rigetto delle domande attrici e, comunque, dell’accertata responsabilità dei convenuti Beta e XX in ordine al l’illecito di cui all’art. 2598 n. 3 c.c., nel caso di specie, ricorrano le condizioni per disporre la loro parziale compensazione in misura del 50%, liquidando, come da dispositivo, il restante 50% a carico dei suddetti convenuti, in solido tra loro.

P.Q.M.

Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni altra istanza ed eccezione disattesa o assorbita, così dispone:

DICHIARA

i convenuti XX e Beta s.r.l. responsabili, in concorso tra loro ex art. 2055 c.c., di concorrenza sleale ex art. 2598 n. 3 c.c., per sottrazione ed utilizzo di informazioni aziendali riservate di proprietà della società attrice.

INIBISCE

ai predetti convenuti il compimento di attività di progettazione, produzione, commercializzazione e pubblicizzazione di attacchi da scialpinismo, comunque denominati, contenenti i particolari costruttivi di cui ai disegni tecnici di proprietà dell’attrice relativi all’attacco da scialpinismo denominato “NX e versati in causa sub all. nn. 33-44, 46 e 94 bis., ordinando il ritiro dal commercio degli attacchi da scialpinismo già prodotti da Beta s.r.l. e recanti i particolari costruttivi di cui ai suddetti disegni tecnici.

CONDANNA

i suddetti convenuti, in solido tra loro, al pagamento in favore dell’attrice, a titolo di risarcimento del danno emergente, della complessiva somma di € 490,00, rivalutata e maggiorata di interessi legali nei termini precisati in motivazione.

RIGETTA

tutte le domande formulate dall’attrice nei confronti della convenuta Nuovi Gamma s.a.s., nonché le restanti domande proposte nei confronti di XX e Beta s.r.l.

DISPONE

tra la società attrice ed i convenuti XX e Beta s.r.l., la parziale compensazione delle spese processuali in misura del 50% e, per l’effetto, condanna i convenuti XX e Beta s.r.l., in solido tra loro, al rimborso in favore dell’attrice del restante 50% liquidato in € 2.000,00 per spese e € 13.000,00 per compenso di avvocato, oltre accessori se e come dovuti per legge.

Così deciso in Bologna, nella Camera di Consiglio della IV Sezione Civile – Sezione Specializzata in Materia di Impresa, del Tribunale, il 22/07/2015.

Il Presidente est.

dott. Giovanni Salina

Pubblicata il 27/07/2015

 

 

 

 

Tutela del credito. La data certa del credito nell’ammissione al passivo del fallimento. Cassazione Sez.Un. 20 febbraio 2013, n. 4213

Come si evince dalla massima riportata in apertura, con l’importante arresto giurisprudenziale in commento gli ermellini hanno affermato i seguenti principi:

  1. il curatore del fallimento è terzo in quanto svolge una funzione di gestione del patrimonio del fallito rappresentando anche e soprattutto gli interessi della massa creditoria nella sua veste di incaricato istituzionalmente alla formazione dello stato passivo (il che implica che nei suoi confronti non può essere invocata la norma dell’art 2710 cc secondo la quale i libri contabili fanno prova tra imprenditori ed i rapporti inerenti l’esercizio dell’impresa);
  2. il requisito della data certa di scritture è configurabile come elemento impeditivo (e non costitutivo) del riconoscimento del diritto perché altrimenti si renderebbe impossibile o estremamente difficoltoso l’esercizio del diritto stesso da parte del creditore istante tanti caratteri peculiari dei rapporti commerciali in relazione ai quali il legislatore ha previsto agevolazioni probatorie per agevolare gli scambi;
  3. le riconoscimento del carattere impeditivo delle riconoscimento del diritto di credito implica che sollevata l’eccezione (sull’ammissibilità del credito) da parte del curatore (o del Giudice delegato) occorrer instaurare il contraddittorio tra le parti sul punto.

Alla luce dei principi sopra riferiti, il problema dell’ammissione del credito commerciale al passivo del fallimento può presentare non poche difficoltà ove si consideri che se ben vero che le fatture fiscali i documenti di accompagnamento sono equiparate le scritture contabili, secondo la giurisprudenza detti documenti pur se regolarmente tenuti, “non hanno valore di prova legale a favore dell’imprenditore che le ha redatte, spettando sempre la loro valutazione al libero apprezzamento del giudice, ai sensi dell’art. 116, primo comma, cod. proc. civ. . Non solo. Sovente, dalla stessa giurisprudenza, è stata ritenuta irrilevante ai fini dell’art. 2704 c.c. l’autenticazione notarile apposta alle fatture prodotte dal creditore poiché successiva alla data di dichiarazione di fallimento.

La sentenza in commento, pertanto, richiamando un principio già espresso in precedenza da altra pronuncia delle Sezioni Unite conclude affermando che il creditore, interessato all’insinuazione del proprio credito sulla base di documenti relativi a un rapporto commerciale sorto prima della dichiarazione di fallimento, deve agire rispettando la cd. “regola della certezza e computabilità” della data ex art. 2704 c.c.

Per mitigare il rigore di tale considerazione giova tuttavia sottolineare che la norma in oggetto non contiene una elencazione tassativa dei fatti in base ai quali la data di un atto tra privati non autenticato ( come una scrittura privata, un contratto o un credito) debba ritenersi certa rispetto a terzi, e molteplicii pronunce hanno ritenuto che debba essere demandata al giudice del merito la valutazione, caso per caso, della sussistenza di un fatto diverso dalla registrazione, idoneo, secondo l’allegazione della parte, a dimostrare la certezza della data (ex multis Cassazione Civile, Sezione I, 22 Ottobre 2009 n. 22430) .

Così si è ritenuto che in assenza delle situazioni tipiche di certezza previste dall’articolo 2704 del Codice Civile, il fatto idoneo a stabilire in modo egualmente certo l’anteriorità della formazione del documento in sede di contenzioso, potesse essere oggetto di prova per testi o anche per presunzioni, purchè, ha affermato la Suprema Corte in un recente arresto ( Cass. n. 19656 del 1 Ottobre 2015 ), il fatto dedotto in giudizio per integrare la prova sia munito di una certa attitudine probatoria, il che non succede quando le prove allegate siano rivolte, in via indiziaria e induttiva, a provocare un giudizio di mera verosimiglianza della data apposta sul documento.

 

Locazioni commerciali, deposito cauzionale. E’ legittimo il rifiuto della restituzione da parte del locatore al termine della locazione ? Corte di Cassazione, ord.3882.2014–

Secondo la Corte l’obbligo della restituzione del deposito cauzionale sorge nel momento del rilascio dell’immobile e, nel caso di specie, ritenuta la inappropriata applicazione degli articoli 11 della legge 27 luglio 1978, n. 392, e 416 del codice di procedura civile, invocata dalla difesa del ricorrente, ha  osservato  che la Corte d’Appello confermando la decisione del giudice di primo grado aveva  affermato [erroneamente] che , nella fattispecie, l’obbligo di restituzione del deposito cauzionale non era configurabile, “in capo al locatore, perché dalla corrispondenza esistente tra le parti risultava che il medesimo aveva  lamentato l’esistenza di danni cagionati dal conduttore, avanzandone anche generica richiesta di risarcimento”. Ha  ritenuto  per contro, il giudice di legittimità, che è da condividereil rilievo della società ricorrente secondo cui, una volta che la locazione si è conclusa con la restituzione del bene, il locatore non può rifiutarsi di restituire il deposito sulla base di generiche contestazioni o, semplicemente, riservandosi di agire in un separato giudizio per il risarcimento dei danni. Valgono, al riguardo, le sentenze di questa Corte secondo le quali l’obbligazione del locatore di restituire al conduttore il deposito cauzionale dal medesimo versato in relazione gli obblighi contrattuali sorge al termine della locazione non appena avvenuto il rilascio dell’immobile locato, con la conseguenza che, ove il locatore trattenga la somma anche dopo il rilascio dell’immobile da parte del conduttore, senza proporre domanda giudiziale per l’attribuzione, in tutto o in parte, della stessa a copertura di specifici danni subiti, il conduttore può esigerne la restituzione

Testo del provvedimento

Testo dell’ordinanza

Corte di Cassazione, sezione VI Civile – 3,  Ordinanza 13 novembre 2014 – 25 febbraio 2015, n. 3882 Presidente Finocchiaro – Relatore Cirillo Svolgimento del processo

È stata depositata la seguente relazione.

«1. La Serranò Scavi s.r.l., nella qualità di conduttrice di un immobile ad uso diverso da quello di abitazione, propose opposizione al decreto col quale il Presidente del Tribunale di Monza le aveva ingiunto il pagamento della somma di euro 14.581 in favore del locatore M.I.. Costituitosi il locatore, il Tribunale rigettò l’opposizione.

  1. Proposto appello dalla Serranò Scavi s.r.l., la Corte d’appello di Milano, con sentenza depositata il 17 aprile 2013, in parziale accoglimento del gravame, ha revocato il decreto ingiuntivo, condannando la parte appellante al pagamento della minore somma di euro 5.882,80 – così indicata nella motivazione, a correzione di un errore materiale di cui al dispositivo letto in udienza – nonché al pagamento della metà delle spese dei due gradi di giudizio. 3. Contro la sentenza d’appello ricorre la Serranò Scavi s.r.l., con atto affidato a due motivi. M.I. non ha svolto attività difensiva in questa sede.
  2. Osserva il relatore che il ricorso può essere trattato in camera di consiglio, in applicazione degli artt. 375, 376 e 380-bis cod. proc. civ., in quanto appare destinato ad essere parzialmente accolto. 5. Il primo motivo di ricorso denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ., sul rilievo che la sentenza in esame avrebbe riconosciuto, a favore del locatore, alcuni importi da questo mai richiesti. Tanto in base al rilievo che, essendo il locatore rientrato in possesso del bene alla data del 30 giugno 2008, residuava in suo favore solo il diritto a percepire i canoni dei mesi di maggio e giugno 2008, mentre la sentenza avrebbe riconosciuto una somma maggiore per altri titoli estranei al pagamento del canone.

5.1. Il motivo è inammissibile, in quanto pone all’esame di questa Corte un profilo nuovo, non discusso in sede di merito. Risulta dall’atto di appello, il cui contenuto la società ricorrente riporta, che le contestazioni oggetto di causa riguardavano altri profili (la presunta nullità del contratto, il carattere consensuale della risoluzione, la restituzione del deposito cauzionale e l’imposta di registro). Nulla risulta essere stato eccepito in sede di merito relativamente alle ulteriori voci che il locatore avrebbe asseritamente richiesto col decreto ingiuntivo (v. p. 5 del ricorso). Sicché la novità della questione ne determina l’inammissibilità. 6. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 11 della legge 27 luglio 1978, n. 392, e dell’art. 416 del codice di procedura civile.

6.1. Il motivo è fondato.

La Corte d’appello, infatti, nel confermare sul punto la decisione del Tribunale, ha osservato che l’obbligo di restituzione del deposito cauzionale non era configurabile, nella specie, in capo al locatore, perché dalla corrispondenza esistente tra le parti risultava che il medesimo aveva lamentato l’esistenza di danni cagionati dal conduttore, avanzandone anche «generica richiesta di risarcimento». È tuttavia da condividere il rilievo della società ricorrente secondo cui, una volta che la locazione si è conclusa con la restituzione del bene, il locatore non può rifiutarsi di restituire il deposito sulla base di generiche contestazioni o, semplicemente, riservandosi di agire in un separato giudizio per il risarcimento dei danni. Valgono, al riguardo, le sentenze di questa Corte secondo le quali l’obbligazione del locatore di restituire al conduttore il deposito cauzionale dal medesimo versato in relazione gli obblighi contrattuali sorge al termine della locazione non appena avvenuto il rilascio dell’immobile locato, con la conseguenza che, ove il locatore trattenga la somma anche dopo il rilascio dell’immobile da parte del conduttore, senza proporre domanda giudiziale per l’attribuzione, in tutto o in parte, della stessa a copertura di specifici danni subiti, il conduttore può esigerne la restituzione (sentenze 15 ottobre 2002, n. 14655, e 21 aprile 2010, n. 9442). 7. Si ritiene, pertanto, che il ricorso vada trattato in camera di consiglio per essere dichiarato inammissibile quanto al primo motivo e per essere viceversa accolto quanto al secondo».

Motivi della decisione

  1. La società ricorrente non ha presentato memoria in riferimento alla relazione depositata, mentre il suo difensore ne ha contestato il contenuto nel corso dell’udienza camerale fissata. A seguito della discussione sul ricorso, tenuta nella camera di consiglio, ritiene il Collegio di condividere i motivi in fatto e in diritto esposti nella relazione medesima e di doverne fare proprie le conclusioni. 2. Il ricorso, pertanto, è dichiarato inammissibile quanto al primo motivo ed è accolto quanto al secondo. La sentenza impugnata è cassata nei limiti del motivo accolto ed il giudizio rinviato alla Corte d’appello di Milano, in diversa composizione personale, anche per la liquidazione delle spese del presente giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il primo motivo di ricorso, accoglie il secondo, cassa la sentenza impugnata nei limiti del motivo accolto e rinvia alla Corte d’appello di Milano, in diversa composizione personale, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di cassazione.

 

Riforma della legge sulla crisi d’impresa e insolvenza

La Camera dei Deputati ha recentemente approvato il DDL. “Delega al governo per la riforma delle discipline della crisi di impresa e dell’insolvenza (relatori: Bazoli e Ermini) che fìssa principi e criteri direttivi e delega al governo la riforma delle procedure concorsuali. Il provvedimento è ora all’esame del Senato.

Riassumiamo le principali novità.

Meccanismi di allerta per impedire alle crisi aziendali di diventare irreversibili, ampio spazio agli strumenti di composizione stragiudiziale per favorire le mediazioni ira debitori e creditori, sostituzione del termine ‘fallimento’ con l’espressione ‘liquidazione giudiziale’. Una riforma ampia della crisi di impresa e dell’insolvenza che riscrive radicalmente la legge fallimentare del 1942.

Non più fallimento ma liquidazione giudiziale. La procedura di liquidazione giudiziale sostituisce l’attuale disciplina del fallimento. Dominus sarà il curatore, con poteri decisamente rafforzati: accederà più facilmente alle banche dati della PA, potrà promuovere le azioni giudiziali spettanti ai soci o ai creditori sociali, sarà affidata a lui (anziché al giudice delegato, cui si può eventualmente proporre opposizione) la fase di riparto detrattivo tra i creditori. Ci sarà però una stretta sulle incompatibilità. La procedura di liquidazione viene potenziata escludendo l’operatività di esecuzioni speciali e di privilegi processuali e limitando la possibilità di azioni di inefficacia e revocatorie. Infine, accertamento del passivo improntato a criteri di snellezza e concentrazione; massima trasparenza ed efficienza quanto alla liquidazione dell’attivo; misure acceleratorie per la rapida chiusura della procedura.

Allerta per prevenire la crisi. Per anticipare l’emersione della crisi d’impresa e facilitare una composizione assistita, viene introdotta una fase preventiva di allerta che può essere attivata direttamente dal debitore o d’ufficio dal tribunale su segnalazione (obbligatoria per fisco e Inps) dei creditori pubblici. In caso di procedura su base volontaria, il debitore sarà assistito da un apposito organismo istituito presso le Camere di commercio e avrà 6 mesi di tempo per raggiungere una soluzione concordata con i creditori. Se la procedura è d’ufficio, il giudice

convocherà immediatamente, in via riservata e confidenziale, il debitore e affiderà a un esperto l’incarico di risolvere la crisi trovando un accordo entro 6 mesi con i creditori. L’esito negativo della fase di allerta è pubblicato nel registro delle imprese. L’imprenditore che attiva tempestivamente l’allerta o si avvale di altri istituti per la risoluzione concordata della crisi godrà di misure premiali (non punibilità dei delitti fallimentari se il danno patrimoniale è di speciale tenuità, attenuanti per gli altri reati e riduzione di interessi e sanzioni per debiti fiscali). Dalla procedura d’allerta sono escluse le società quotate in borsa e le grandi imprese.

Regole processuali semplificate. In caso di sbocco giudiziario, si adotta un unico modello processuale per l’accertamento dello stato di crisi o di insolvenza: dopo una prima fase comune, la procedura potrà, secondo i diversi casi, evolvere verso soluzioni conservative o liquidatorie. Nel trattare le proposte, priorità viene comunque data a quelle che assicurano la continuità aziendale, purché funzionali al miglior soddisfacimento dei creditori, considerando la liquidazione giudiziale come extrema ratio. Si punta poi a ridurre durata e costi delle procedure concorsuali (responsabilizzando gli organi di gestione e contenendo i crediti prededucibili). Quanto al tribunale competente, il giudice sarà individuato in base alle dimensioni e alla tipologia delle procedure concorsuali, assegnando in particolare quelle relative alle grandi imprese al tribunale delle imprese a livello di distretto di corte d’appello.

Incentivi a ristrutturazione debiti. Il limite del 60 per cento dei crediti per l’omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti dovrà essere eliminato o quantomeno ridotto. L’abbassamento della soglia implica però l’esclusione della moratoria del pagamento dei creditori estranei e l’esclusione delle misure protettive (blocco procedure esecutive). Più in generale, si punta a incentivare tutti gli strumenti di composizione stragiudiziale della crisi, estendendo per esempio le convenzioni di moratoria anche a creditori diversi da banche e intermediari finanziari.

Concordato di natura liquidatoria. Il concordato preventivo viene ridisegnato ammettendo, accanto a quello in continuità, anche il concordato che mira alla liquidazione dell’azienda se in grado di assicurare il pagamento di almeno il 20 per cento dei crediti chirografari. Nel caso di concordato in continuità, il piano potrà prevedere una moratoria per il pagamento dei creditori privilegiati di durata anche superiore all’anno. L’adunanza dei creditori viene eliminata ricorrendo a modalità telematiche e le maggioranze saranno calcolate ‘per teste’ quando titolare di crediti pari alla maggioranza degli ammessi al voto sia un solo creditore. Al concordato preventivo delle società, infine, si applicherà una disciplina specifica.

Insolvenza gruppo di imprese. Viene prefigurata una procedura unitaria per la trattazione della crisi e dell’insolvenza delle società del gruppo e, anche in caso di procedure distinte, vi saranno comunque obblighi di collaborazione e reciproca informazione a carico degli organi procedenti. In pratica, se più imprese del gruppo si trovano in cnsi, sarà possibile presentare una sola domanda per l’omologazione di un accordo unitario di ristrutturazione dei debiti, 1* ammissione al concordato preventivo o la liquidazione giudiziale. Il ricorso unitario non esclude però l’autonomia delle masse attive e passive di ciascuna impresa. In sede di rimborso i finanziamenti all’impresa in crisi che giungono da altre società del gruppo saranno posposti di grado.

Norme salva-famiglie più ampie. Si riordina la disciplina del sovraindebitamento comprendendo nella procedura di composizione anche i soci illimitatamente responsabili e assicurando una gestione coordinata delle procedure riguardanti più familiari. Andranno poi disciplinate soluzioni che consentano la prosecuzione dell’attività svolta dal debitore o la sua eventuale liquidazione, anche ad istanza del debitore La vendita dei beni è però obbligatoria per il debitore-consumatore se la crisi deriva da malafede, frode o colpa grave ed è altresì esclusa l’esdebitazione (la liberazione dei debiti). Il debitore meritevole, solo per una volta e con l’obbligo di pagare se entro 4 anni sopravvengono utilità, può invece accedere all’esdebitazione anche quando non sia in grado di soddisfare i creditori. Nelle insolvenze di minor portata, salvo opposizione dei creditori, varrà l’esdebitazione di diritto (non dichiarata, quindi, dal giudice).

Concorrenza sleale, responsabilità per fatto degli ausiliari .

 

Concorrenza sleale, denigrazione, diffusione, per interposta persona,  di opinioni inerenti l’attività dell’impresa concorrente, responsabilità per fatto degli ausiliari .

Corte di Cassazione, I sezione civile, sentenza n. 18691 del 25.09.2015

La Corte di Cassazione con  la sentenza che si segnala  ha preso posizione in materia di concorrenza sleale affermando i seguenti principi:

  1. Ai fini della configurabilità della concorrenza sleale per denigrazione, le notizie e gli apprezzamenti diffusi tra il pubblico non debbono necessariamente riguardare i prodotti dell’impresa concorrente, ma possono avere ad oggetto anche circostanze od opinioni inerenti in generale l’attività di quest’ultima, la sua organizzazione o il modo di agire dell’imprenditore nell’ambito, la cui conoscenza da parte dei terzi risulti comunque idonea a ripercuotersi negativamente sulla considerazione che ha l’impresa presso i consumatori.
  2. Si devono apprezzare, ai fini della potenzialità lesiva delle denigrazioni, l’effettiva “diffusione”, il contenuto fortemente diffamatorio degli apprezzamenti stessi e la potenzialità espansiva della comunicazione per la scelta dei destinatari.
  3. La concorrenza sleale non è ravvisabile ove manchi il presupposto soggettivo del cosiddetto “rapporto di concorrenzialità”; l’illecito, peraltro, non è escluso se l’atto lesivo sia stato posto in essere da un soggetto (il cd. terzo interposto), che agisca per conto di un concorrente del danneggiato poiché, in tal caso, il terzo responsabile risponde in solido con l’imprenditore che si sia giovato della sua condotta, mentre ove il terzo sia un dipendente dell’imprenditore che ne ha tratto vantaggio, quest’ultimo ne risponde ai sensi dell’art. 2049 c.c. ancorché l’atto non sia causalmente riconducibile all’esercizio delle mansioni affidate al dipendente, risultando sufficiente un nesso di “occasionalità necessaria” per aver questi agito nell’ambito dell’incarico affidatogli.
  4. Ai fini della configurabilità della fattispecie di concorrenza sleale per interposta persona, non si richiede l’esistenza di uno specifico accordo ispirato a tali finalità tra l’imprenditore concorrente e il terzo, ma è necessaria e sufficiente una relazione di interessi tra detti soggetti tale da far ritenere che il terzo, con la propria attività, abbia agito in ragione di quegli interessi.

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott.          RORDORF     Renato                                                                                         –

Dott.          NAPPI             Aniello                                                                                        –

Dott. MERCOLINO Guido                                                                                  – rel.

Dott.     LAMORGESE         Antonio    Pietro  –

Dott.    NAZZICONE      Loredana               –

ha pronunciato la seguente:

sentenza sul ricorso proposto da

 ITALCOOP SOC. COOP. A R.L., in persona del presidente p.t.U., elettivamente domiciliata in Roma, alla via Monte Zebio 30, presso l’avv. CAMICI CLAUDIO, dal quale, unitamente all’avv. GIOVANNI del foro di Milano, è rappresentata e difesa in virtù procura speciale a margine del ricorso;      ricorrente –

contro

la Special Coop Italia Soc. coop. a r.l.,  B.G. e R.

 

 

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 30 aprile 2015 dal Consigliere Dott. Guido Mercolino;

  • udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DEL CORE Sergio, il quale ha concluso per il rigetto dei primi due motivi di ricorso e l’accoglimento del terzo motivo.
  • avverso la sentenza della Corte di Appello di Milano pubblicata il 15 maggio 2007.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

  1. – L’Italcoop Soc. coop. a r.l. convenne in giudizio la Special Coop Italia Soc. coop. a r.l., B.G. e R., per sentirli condannare al risarcimento dei danni cagionati da atti di concorrenza sleale consistenti nella costituzione della società convenuta, avente denominazione assonante ed oggetto sociale affine a quello di essa attrice, nell’uso di segni distintivi simili, nello storno di soci lavoratori, nello sviamento di clientela, nell’artificiosa pratica di bassi prezzi e nella sottrazione di documentazione.
    1. – Con sentenza del 6 dicembre 2001, il Tribunale di Milano accolse parzialmente la domanda principale, ritenendo sussistente unicamente la concorrenza sleale per sviamento della clientela, ravvisarle nella diffusione di una lettera circolare sottoscritta dal B., e condannando quest’ultimo e la Special Coop al risarcimento dei danni, da liquidarsi in separato giudizio; dichiarò invece inammissibile la domanda riconvenzionale proposta dai convenuti.
  2. Si costituirono i convenuti, e resistettero alla domanda, chiedendo in via riconvenzionale la condanna dell’attrice al risarcimento dei danni derivanti dalla diffusione di notizie false e denigratorie nei confronti della Special Coop e di B.G..
  3. – L’impugnazione proposta dalla Special Coop e dai B. è stata parzialmente accolta dalla Corte d’Appello di Milano, che con sentenza non definitiva del 28 dicembre 2004 ha dichiarato ammissibile la domanda riconvenzionale, confermando nel resto la sentenza di primo grado, e con sentenza definitiva del 15 maggio 2007 ha ritenuto sussistente la concorrenza sleale anche a carico dell’Ital-coop, condannandola al risarcimento dei danni arrecati agli appellanti, da liquidarsi in separato giudizio.
  4. A fondamento della decisione, la Corte ha ritenuto che dalle deposizioni dei testimoni escussi emergesse effettivamente la diffusione di notizie false ed apprezzamenti idonei a determinare discredito nei confronti della Special Coop e del B., attribuendone la paternità a G.D., il quale, nell’incontestata qualità di fiduciario e mandatario della società appellata, in occasione della riconsegna dei libretti di lavoro a due dipendenti passate alla Special Coop, si era lasciato andare ad affermazioni diffamatorie nei confronti del B., accusandolo di essere mafioso e di essere stato arrestato per aver sottratto denaro alla società; tali affermazioni, volte a scoraggiare il trasferimento, erano state fatte in modo subdolo e tendenzioso e in un contesto tale da indurre nelle lavoratrici un giudizio fortemente negativo in ordine alla persona del B. ed alle loro prospettive di lavoro presso la nuova società.
  5. – Avverso la predetta sentenza l’Italcoop propone ricorso per cassazione, articolato in tre motivi. Gl’intimati non hanno svolto attività difensiva.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

  1. – Con il primo motivo d’impugnazione, la ricorrente denuncia la violazione o la falsa applicazione dell’art. 2598 cod. civ., nonché l’omessa o insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, osservando che la sentenza impugnata ha imputato alla società frasi denigratorie proferite da un suo socio lavoratore, senza accertare se esse fossero state pronunciate per conto della società ovvero in collegamento con la stessa. Premesso che la controversia traeva origine dal recesso del B. dall’Italcoop, a seguito della sua estromissione dalla gestione della filiale di (OMISSIS) e dell’affidamento della stessa al G., afferma che l’incarico conferito a quest’ultimo, limitato a tale aspetto operativo, non consentiva di ascrivere ad essa ricorrente le frasi da lui pronunciate, non essendo stata dimostrata la riconducibilità delle stesse alla volontà della società o la sussistenza di un nesso di occasionalità necessaria con le mansioni affidate al socio lavoratore.
    1. – Il motivo è infondato.Alla stregua di tali principi, costantemente ribaditi dalla giurisprudenza di legittimità, non merita censura la sentenza impugnata, nella parte in cui, pur avendo accertato che le espressioni diffamatorie nei confronti del B. e denigratorie nei confronti della Special Coop erano ascrivibili al G., ne ha addebitato la responsabilità all’Italcoop, in virtù del rapporto di dipendenza intercorrente tra quest’ultima ed il predetto soggetto, nonché della circostanza, concordemente riferita dai testi, che le medesime espressioni erano state pronunciate in occasione della chiusura dei rapporti di lavoro con altri dipendenti. L’affermazione della ricorrente, secondo cui il G. subentrò al B. nella gestione della filiale di (OMISSIS) della Cooperativa, suona d’altronde come un’ulteriore conferma della circostanza, ritenuta pacifica dalla sentenza impugnata e desunta comunque anche dalle deposizioni dei testi, che l’autore dell’illecito agì in qualità di fiduciario o mandatario dell’Italcoop, alla quale pertanto la Corte di merito ha correttamente imputato gli effetti delle sue dichiarazioni.
    2. Com’è noto, il principio secondo cui la concorrenza sleale costituisce una fattispecie tipicamente riconducibile ai soggetti del mercato in concorrenza, pur escludendone la configurabilità in mancanza del presupposto oggettivo rappresentato dal cd. rapporto di concorrenzialità, non impedisce di ravvisare l’illecito in questione anche nel caso in cui l’atto lesivo del diritto del concorrente venga posto in essere da un soggetto (cd. terzo interposto) che, pur non essendo egli stesso in possesso dei necessari requisiti soggettivi, ovverosia della qualità di concorrente del danneggiato, si trovi con il soggetto avvantaggiato in una particolare relazione, tale da far ritenere che l’atto sia stato oggettivamente compiuto nell’interesse di quest’ultimo (cfr. Cass., Sez. 1, 6 giugno 2012, n. 9117; 9 agosto 2007, n. 17459; 8 settembre 2003, n. 13071). Qualora poi, come nella specie, l’autore dell’illecito sia un dipendente dell’imprenditore che ne ha tratto vantaggio, quest’ultimo è tenuto a risponderne ai sensi dell’art. 2049 cod. civ., sulla base del mero rapporto intercorrente con il soggetto agente, anche se l’atto non sia causalmente riconducibile allo esercizio delle mansioni affidate a quest’ultimo, risultando sufficiente che tra le stesse e l’illecito sia configurabile un rapporto di occasionalità necessaria, nel senso che il dipendente abbia agito nell’ambito dell’incarico affidatogli, sia pur eccedendo i limiti delle proprie attribuzioni o all’insaputa del datore di lavoro (cfr. Cass., Sez. 3, 4 aprile 2013, n. 8210; 12 marzo 2008, n. 6632; Cass., Sez. lav., 25 marzo 2013, n. 7403).
  2. – Con il secondo motivo, la ricorrente deduce la violazione o la falsa applicazione dell’art. 2598 c.c., nn. 2 e 3, sostenendo che, nel qualificare come atti di concorrenza sleale le espressioni riferite dai testi, la Corte di merito non ha considerato che le stesse non riguardavano i prodotti o l’attività della Special Coop, ma vicende personali del B., estranee all’attività prestata nell’ambito della Special Coop o al periodo in cui ne era socio, ed attinenti al rapporto intercorso con l’Italcoop; esse, non essendo rivolte ai clienti ma a soci lavoratori già transitati nella Special Coop, non integravano una forma di divulgazione illecita, e non erano quindi idonee a provocare discredito, né potevano cagionare alcun danno all’impresa concorrente.
    1. – Il motivo é infondato.Cass., Sez. 1, 8 marzo 2013, n. 5848; 30 maggio 2007, n. 12681).
    2. Nella specie, tuttavia, la potenzialità lesiva delle dichiarazioni denigratorie é stata affermata in virtù del loro contenuto fortemente diffamatorio e della loro destinazione ai dipendenti dell’Italcoop in procinto di trasferirsi presso la Special Coop, nonché della finalità dissuasiva della divulgazione, che. in quanto volta a scoraggiare l’assunzione di tali iniziative da parte dei lavoratori, é stata correttamente ritenuta sufficiente a dimostrare il carattere non occasionale della condotta e la portata espansiva della comunicazione, rivolta a soggetti determinati ma idonea ad estendere i propri effetti ad una pluralità di persone (cfr. al riguardo, Cass., Sez. 1, 29 luglio 1968, n. 2728).
    3. Ai fini della configurabilità della concorrenza sleale per denigrazione, non é infatti necessario che le notizie e gli apprezzamenti diffusi tra il pubblico riguardino specificamente i prodotti dell’impresa concorrente, potendo gli stessi avere ad oggetto anche circostanze od opinioni inerenti più in generale all’attività di quest’ultima, e quindi anche alla sua organizzazione o al modo di agire dell’imprenditore nell’ambito professionale (con esclusione, quindi, della sua sfera strettamente personale e privata), la cui conoscenza da parte dei terzi risulti comunque idonea a ripercuotersi negativamente sulla considerazione di cui l’impresa gode presso i consumatori. E’ pur vero che la lettera dell’art. 2598 c.c., n. 2, richiedendo la “diffusione” delle notizie e degli apprezzamenti denigratori, fa riferimento ad un’effettiva propalazione di fatti e giudizi tra un numero indeterminato, o quanto meno tra una pluralità di persone, in tal modo escludendo, in linea di principio, la configurabilità della fattispecie in esame nell’ipotesi di esternazioni occasionalmente rivolte a singoli interlocutori nell’ambito di separati e limitati colloqui (cfr.
  3. – Con il terzo ed ultimo motivo, la ricorrente lamenta la violazione o la falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ. e/o dell’art. 2598 cod. civ., rilevando che la condanna al risarcimento dei danni é stata pronunciata anche in favore di B.R., sebbene la relativa domanda fosse stata proposta soltanto dalla Special Coop e da B.G.; aggiunge che, nel riconoscere ai B. il predetto diritto, la Corte di merito non ha considerato che gli stessi non rivestivano la qualità di imprenditori, con la conseguente esclusione della configurabilità di un rapporto di concorrenza con essa ricorrente.
    1. – Il motivo è parzialmente fondato.Mentre peraltro alla Special Coop doveva essere senz’altro riconosciuta la qualità di soggetto passivo dell’illecito concorrenziale, in quanto società commerciale esercente un’attività in concorrenza con quella dell’Italcoop, non poteva dirsi altrettanto per B.G. e R., i quali, come è pacifico tra le parti, rivestono rispettivamente la carica di amministratore e la qualità di socio della società convenuta: la fattispecie prevista dall’art. 2598 cod. civ., presupponendo innanzitutto la sussistenza di un rapporto di concorrenzialità tra soggetti che esercitino contemporaneamente un’attività industriale o commerciale in un ambito territoriale anche solo potenzialmente comune, non è infatti configurabile nell’ipotesi in cui, come accade nella specie, uno di essi non sia in possesso della qualifica di imprenditore, svolgendo la predetta attività non già in proprio, ma attraverso una società. Nei confronti di B.G., che aveva costituito direttamente e personalmente oggetto delle dichiarazioni denigratorie, la mancanza della qualifica d’imprenditore non impediva tuttavia di affermare l’illiceità dell’attività posta in essere dal fiduciario dell’Italcoop, la cui portata diffamatoria, traducendosi nella lesione dell’onore e della reputazione dell’interessato, consentiva ugualmente il riconoscimento della responsabilità della società attrice, ai sensi degli artt. 2043 e 2049 cod. civ., indipendentemente dalla configurabilità dell’illecito concorrenziale. E’ solo nei confronti di B.R., dunque, che il difetto della qualifica d’imprenditore impediva di ravvisare qualsiasi responsabilità a carico della società attrice, non essendo da un lato configurabile rispetto a quest’ultima il rapporto di concorrenzialità richiesto dall’art. 2598 cod. civ., e non potendo la convenuta essere considerata soggetto passivo del reato di cui all’art. 595 cod. pen., in quanto le dichiarazioni diffamatorie del G. si riferivano esclusivamente all’amministratore della Special Coop. 4. – La sentenza impugnata va pertanto cassata, nei limiti segnati dai motivi accolti, e, non risultando necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., u.c., con il rigetto della domanda di risarcimento dei danni proposta da B.R..
    2. 5. – La mancata costituzione della Special Coop e di B. G. esclude la necessità di provvedere al regolamento delle spese del giudizio di legittimità nei rapporti tra gli stessi e la ricorrente. Nei rapporti tra quest’ultima e B.R., la peculiarità delle questioni trattate induce invece a dichiarare integralmente compensate tra le parti le spese dei tre gradi di giudizio.
    3. Come si evince dalle conclusioni rassegnate nel giudizio d’appello e riportate testualmente nell’epigrafe della sentenza impugnata, la domanda proposta in via riconvenzionale, pur trovando fondamento nell’asserita diffusione di notizie ed apprezzamenti idonei a screditare la Special Coop ed il suo presidente B.G., aveva ad oggetto la condanna dell’attrice al risarcimento dei danni in favore di tutti i convenuti: può quindi escludersi che, nel pronunciare la predetta condanna, la Corte territoriale sia incorsa in ultrapetizione, ravvisabile esclusivamente nel caso in cui il giudice di merito, interferendo nel potere dispositivo delle parti, abbia alterato gli elementi obiettivi dell’azione, sostituendo i fatti costitutivi della pretesa (cd. causa petendi) o emettendo un provvedimento diverso da quello richiesto (c.d. petitum immediato), ovvero attribuendo o negando un bene della vita diverso da quello conteso (c.d. petitum mediato) (cfr. ex plurimis, Cass., Sez. lav., 11 gennaio 2011, n. 455; Cass., Sez. 3, 22 marzo 2007, n. 6945; Cass., Sez. 2, 12 luglio 2005, n. 14552).

PQM

La Corte rigetta i primi due motivi di ricorso, accoglie parzialmente il terzo motivo, cassa la sentenza impugnata, e, decidendo nel merito, rigetta la domanda di risarcimento dei danni proposta da B.R.; dichiara interamente compensate le spese dei tre gradi di giudizio tra l’Italcoop Soc. coop. a r.l. e B.R..

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Prima Sezione Civile, il 30 aprile 2015.

Depositato in Cancelleria il 22 settembre 2015

Successioni e donazioni. Le liberalità d’uso possono essere condizionate dal valore del regalo ?

Cassazione sez, II civ., 19 settembre 2016, n. 18280

La liberalità d’uso prevista dall’art. 770, secondo comma, cod. civ. (non costituente donazione in senso stretto e perciò non soggetta alla forma propria di questa), sussiste quando la elargizione si uniformi, anche sotto il profilo della proporzionalità alle condizioni economiche dell’autore dell’atto, agli usi e costumi propri di una determinata occasione, da vagliarsi anche alla stregua dei rapporti esistenti fra le parti e della loro posizione sociale.  Tali liberalità trovano fondamento negli usi invalsi a seguito dell’osservanza di un certo comportamento nel tempo, e dunque di regola in occasione di quelle festività, ricorrenze, occasioni celebrative che inducono comunemente a elargizioni, soprattutto in considerazione dei legami esistenti tra le parti.    Con queste riflessioni è stata già anticipata la risposta alla parte più rilevante del secondo motivo di ricorso, che contesta l’adeguatezza della motivazione della sentenza, affermando che per le due festività esaminate (la Festa della donna e la festività di San Valentino)  sarebbero concepibili solo regali come mazzi di mimose oppure cioccolatini o inviti a cena.             L’affermazione è smentita dal ricordato insegnamento secondo cui la portata economica delle elargizioni va commisurata alla condizione dei soggetti, che nel caso di specie disponevano, come attestato in sentenza e implicito nelle difese svolte, di ingenti patrimoni e mantenevano un elevatissimo tenore di vita.

Il caso. Nella fattispecie un  abbiente signore aveva regalato alla propria compagna dei quadri d’autore ( tra le quali opere di Klimt, Picasso, Klee e Man Ray)  e alcuni gioielli di tra i quali uno  con diamanti per  13 carati.  In seguito all’interruzione delle relazione, il donante  ha  chiesto la restituzione di tutti i beni in quanto donazioni prive della forma  richiesta dall’art. 782 c.c..(l’atto pubblico). La Corte d’appello solo in parte aveva accolto le domande dell’attore  avendo escluso la natura di liberalità d’uso  in relazione ad un quadro di Picasso e all’anello da 13 carati  avendo ritenuto che solo tali donazioni costituivano apprezzabile depauperamento del patrimonio del donante e avrebbero richiesto forma prevista dall’art. 782 c.c..cioè l’atto pubblico.La Corte di appello aveva quindi condannato la convenuta al pagamento in favore dell’attore del controvalore del bene, che nel frattempo era stato venduto.

La Corte di Cassazione ha sostanzialmente confermato la pronuncia della Corte territoriale.

Testo della sentenza

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE II CIVILE

Sentenza 22 marzo – 19 settembre 2016, n. 18280

REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA CIVILE  Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. MATERA Lina – Presidente – Dott. D’ASCOLA Pasquale – rel. Consigliere – Dott. ORILIA Lorenzo – Consigliere – Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere – Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 16013/2011 proposto da: NELL’INTERESSE DELLA SIGNORA P.M.K.J. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MONTI PARIOLI 8A-10, presso lo studio dell’avvocato ADRIANA BOSCAGLI, che la rappresenta e difende; – ricorrente – Nonchè da: G.F.G. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ATTILIO FRIGGERI 106, presso lo studio dell’avvocato MICHELE TAMPONI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato EMIDIA ZANETTI VITALI; – controricorrente e ricorrente incidentale – avverso la sentenza n. 616/2011 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 03/03/2011; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 22/03/2016 dal Consigliere Dott. PASQUALE D’ASCOLA; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DE RENZIS Luisa, che ha concluso per il rigetto del ricorso principale e per l’accoglimento del quarto motivo e per il rigetto dei restanti motivi del ricorso.
Svolgimento del processo

La causa è sorta nel 2006 e concerne la richiesta di restituzione di tredici oggetti d’arte, tra cui opere di autori famosi quali (OMISSIS), che durante la relazione sentimentale tra le parti, protratta per parecchi anni, l’odierno resistente aveva consegnato alla ricorrente. Il tribunale di Milano nel 2009 ha accolto la domanda limitatamente ad un tavolo in noce intarsiato. La Corte di appello con la sentenza 3 marzo 2011 ha confermato la natura di liberalità d’uso della dazione di quasi tutte le opere, ormai in possesso della convenuta. 1.1) Ha però escluso tale natura quanto ad un quadro di (OMISSIS) del valore stimato di seicentomila Euro, asseritamente donato a chiusura di uno screzio tra le parti, perchè la donazione, avvenuta unitamente al regalo di un brillante da tredici carati, costituiva apprezzabile depauperamento del patrimonio del donante; avrebbe quindi richiesto la forma prevista dall’art. 782 c.c.. La Corte di appello ha conseguentemente condannato la convenuta al pagamento in favore dell’attore del controvalore del bene, alienato nelle more. La donataria ha interposto ricorso per cassazione affidato a un motivo. Il resistente ha svolto ricorso incidentale, affidato a cinque motivi. Fissata per la trattazione, la causa è stata rinviata su richiesta delle parti in vista di un possibile accordo. In vista dell’odierna udienza non è stata depositata alcuna memoria.
Motivi della decisione

2) La censura esposta dalla ricorrente denuncia vizi di motivazione della sentenza impugnata, in relazione alla ratio decidendi riassunta sub p.1. Essa sostiene che il quadro di (OMISSIS) e l’anello erano stati donati con atto qualificabile come liberalità d’uso e che la Corte di appello non avrebbe motivato adeguatamente in ordine alla proporzionalità dei doni con il tenore di vita degli interessati. A tal fine evidenzia tra l’altro che l’opera di (OMISSIS) nel 2006 era stata stimata soltanto 555.380,00 Euro; che la dazione era giustificata anche dalle spese sostenute dalla convenuta per l’organizzazione di una festa in onore dell’attore, da lui ingiustificatamente annullata; che altri due quadri regalati erano del valore di 400 o 450 mila Euro; che il patrimonio dell’attore era all’epoca di diverse decine di milioni di Euro; che il valore dell’anello era stato stimato dalla Corte di appello con immotivata illazione, ipotizzando un complessivo valore dei due beni superiore al milione di Euro. Il motivo di ricorso è da rigettare. La Corte di appello ha scrupolosamente esaminato gli elementi rilevanti per la decisione: la grande consistenza del patrimonio dell’attore; l’abitudine di questi di elargire regali costosi in occasione di ricorrenze; il rilievo della valutazione dei singoli beni. Con insindacabile apprezzamento di merito ha reputato che tra questa abitudine e il regalo di inusitato valore costituito dal quadro di (OMISSIS) e dal prezioso brillante vi sia “un vero iato”. Ha argomentato in proposito sia sulla base dello “sforzo economico” che il dono complessivo richiedeva, sia sulla base delle motivazioni del regalo, che non era di routine, ma era un “presente per ottenere il perdono a fronte di un comportamento incongruo”. 2.1) A fronte di queste esaurienti argomentazioni, le critiche svolte in ricorso costituiscono in sostanza una richiesta di rivisitazione delle valutazioni che spettano al giudice di merito. Ed infatti: non viene indicata alcuna risultanza di causa atta ad attribuire all’anello, che la stessa ricorrente definisce sfavillante, un valore inferiore a quello presunto dalla Corte di appello. Eppure la ricorrente è o almeno è stata in possesso dell’oggetto, avrebbe potuto farlo stimare, avrebbe potuto indicare un valore inferiore, offrendo argomenti atti a svilire un brillante di ben tredici carati, consegnatole nel contesto di relazioni del tipo che ella stessa accredita. Inoltre è incongrua la considerazione dell’annullamento della festa quale metro per commisurare la liberalità d’uso. Se infatti se ne dovesse tenere conto in modo decisivo, la dazione potrebbe essere qualificata come donazione remuneratoria, ugualmente bisognevole di forma pubblica, come prontamente rilevato in controricorso. Ed è la stessa ricorrente ad ammettere (pag. 20) che nel caso in esame si potrebbero configurare entrambe le ipotesi di cui all’art. 770 c.c.. Se ne desume che, una volta riscontrata l’anomalia della causale e l’anomalia del valore rispetto anche ai pur preziosi precedenti regali, la decisione della Corte di appello di qualificare questa elargizione come donazione di grande valore, non riconducibile al secondo comma, costituisce qualificazione correttamente motivata, che ha tenuto conto di tutti i fattori che sono diversamente valutati da parte ricorrente. La Corte di legittimità non può sostituirsi al giudice di merito con un proprio apprezzamento, potendo solo controllare la ragionevolezza e plausibilità delle valutazioni proposte dalla sentenza di appello, che risulta incensurabile. 3) Il primo motivo del ricorso incidentale denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 770 c.c.. Secondo l’attore, la Corte di appello ha errato nel qualificare liberalità d’uso i doni fatti per la ricorrenza della “festa della donna” o “per la festa di San Valentino”. La norma di cui all’art. 770, comma 2, dovrebbe essere applicata sulla base di criteri di rigore, rifacendosi a prassi consolidate nella società, al di là di “eventuali pratiche divenute comuni tra le parti”. Secondo il ricorso la nozione di liberalità d’uso sarebbe quindi rinvenibile, esemplificativamente, nel caso dei regali di Natale, ma non in relazione ad eventuali regali di Pasqua, restando esclusi in ogni caso i regali dovuti a comportamento stravagante, che contrasta con la consuetudine che deve presiedere alla liberalità d’uso. La doglianza, che presenta profili di inammissibilità perchè non risulta svolta in questi termini in appello, atteso che questo profilo non è trattato in sentenza, è comunque infondata. La liberalità d’uso si configura qualora sia disposta in determinate occasioni, quali le nozze, i compleanni, gli anniversari, in cui per consuetudine si è instaurata l’abitualità diffusa di un certo comportamento. La sussistenza delle condizioni per il manifestarsi di questi usi è verificabile diacronicamente, potendosi registrare adattamenti nel costume che sono recepiti dalla natura elastica della norma. Ne consegue che feste e ricorrenze affermatesi nel corso del tempo possono far sorgere e consolidare usi nuovi, che legittimano l’applicazione della disposizione in esame. Ciò è quanto hanno ritenuto i giudici di Milano nel configurare quale liberalità d’uso i regali fatti in occasione di due festività di conio non antico, quali la Festa della donna e la festività di San Valentino, da tempo impostesi con indiscutibile rilevanza in Italia e nel mondo occidentale. In occasione di esse, ma altrettanto potrebbe dirsi per le c.d. festa della mamma o del papà, è invalso l’uso di regali tra gli innamorati o in onore alle donne, in quanto regali che si giustificano, come hanno rilevato tribunale e Corte di appello (cfr sentenza impugnata pag. 21 e 27), in relazione al legame esistente tra le parti. E’ apodittico affermare che si tratti di stravaganti usi non riconducibili al disposto normativo ed è errato infatti affermare che regali di Pasqua – si pensi al regalo abituale dell’uovo di cioccolato, non di rado con sorprese preziose appositamente introdottevi – non corrispondano ad una consuetudine. Che le abitudini attuali registrino, anche in occasione di festività di più recente storia, l’uso del dono di fiori, dolciumi o piccoli gioielli è realtà incontestabile, che appartiene alle comuni conoscenze e che è stata affermata sia pur implicitamente anche nel caso di specie, mediante i richiami svolti a pag. 27. Ivi si è portata l’attenzione al costume sociale e familiare, evidentemente ritenuto sussistente, e alla circostanza che “l’entità dell’attribuzione” va commisurata alla condizione socioeconomica delle parti. Magistralmente Cass. 12142/93, nell’affermare che il rilevante valore dell’oggetto donato non è ostativo alla configurazione di una liberalità d’uso, ha avuto modo di spiegare che usi e costumi propri di una determinata occasione sono da vagliarsi anche alla stregua dei rapporti esistenti fra le parti e della loro posizione sociale. Sulla scorta di precedenti analoghi, la Corte di appello ha valutato la natura di queste elargizioni e il suo apprezzamento è ineccepibile. Il motivo va quindi rigettato ribadendo che: a) una liberalità d’uso prevista dall’art. 770 c.c., comma 2, (non costituente donazione in senso stretto e perciò non soggetta alla forma propria di questa), sussiste quando la elargizione si uniformi, anche sotto il profilo della proporzionalità alle condizioni economiche dell’autore dell’atto, agli usi e costumi propri di una determinata occasione, da vagliarsi anche alla stregua dei rapporti esistenti fra le parti e della loro posizione sociale. b) Tali liberalità trovano fondamento negli usi invalsi a seguito dell’osservanza di un certo comportamento nel tempo, e dunque di regola in occasione di quelle festività, ricorrenze, occasioni celebrative che inducono comunemente a elargizioni, soprattutto in considerazione dei legami esistenti tra le parti. 3) Con queste riflessioni è stata già anticipata la risposta alla parte più rilevante del secondo motivo, che contesta l’adeguatezza della motivazione della sentenza, affermando che per le due festività esaminate sopra sarebbero concepibili solo regali come mazzi di mimose oppure cioccolatini o inviti a cena. L’affermazione è smentita dal ricordato insegnamento secondo cui la portata economica delle elargizioni va commisurata alla condizione dei soggetti, che nel caso di specie disponevano, come attestato in sentenza e implicito nelle difese svolte, di ingenti patrimoni e mantenevano un elevatissimo tenore di vita. Quanto alla circostanza che non sarebbe stata fornita adeguata prova della consegna del quadro di (OMISSIS) per la ricorrenza di san Valentino, la censura si risolve nella richiesta di un inammissibile apprezzamento di merito. Basti dire che essa lamenta che sia stato valorizzato un messaggio di posta elettronica che alludeva a un San Valentino “in ritardo”, circostanza che è stata valutata dalla Corte di appello unendola al fatto che il soggetto del dipinto (“(OMISSIS)”) era coerente con quella festa. Dunque a fronte di una così logica e ineccepibile considerazione degli elementi dati, la Corte di cassazione non può ingerirsi nel giudizio di merito. 4) Con il terzo motivo l’attore deduce che la sentenza impugnata sarebbe affetta da vizi di motivazione perchè inizialmente controparte aveva qualificato liberalità d’uso solo le opere di (OMISSIS), affermando che le altre opere erano proprie. Aggiunge che la convenuta aveva addotto una lettera dell’attore 2001, in cui egli aveva soltanto manifestato la volontà di permettere alla convenuta di trattenere le altre opere, asportate senza il suo consenso. Solo in un secondo tempo la convenuta aveva allegato l’acquisto in forza di “donazioni d’uso”. Deduce che vi sarebbe contraddittorietà tra la lettera che autorizzava a trattenere quanto preso senza il suo consenso e la liberalità e lamenta che la Corte di appello non abbia considerato questo profilo. Anche questa censura è infondata. La lettera riprodotta in ricorso risulta infatti, per quanto si evince dal ricorso stesso (pag. 35), prodotta dalla convenuta a sostegno di legittima proprietà dei beni, non certo a riconoscimento di una precarietà della concessione negando la liberalità. Le correzioni di impostazione difensiva in corso di causa sono consentite se non rivelano intrinseca contraddittorietà. Ed invero non vi è incompatibilità tra negare la restituzione di un bene producendo un documento che esprime, secondo chi se ne avvale, già il titolo a trattenerlo e affermare poi che vi era altro titolo proprietario ex art. 770 c.c.. Il ricorso postula tale incompatibilità dando per scontato che vi fosse il riconoscimento di asportazione abusiva dall’appartamento (flat), secondo la tesi affermata dalla lettera, ma tale riconoscimento non si può certo ravvisare nella produzione della lettera proveniente dal G., che giovava a dimostrare la legittima proprietà. Dunque la risultanza invocata non aveva alcuna portata decisiva per negare che, a prescindere dal consenso alla detenzione già dichiarato nel 2001 dall’attore, la convenuta potesse, completando le difese, negare la restituzione adducendo altro, più confacente, titolo di acquisto. Bene ha quindi fatto la Corte di appello a trascurare questa discrasia difensiva, pienamente spiegabile con l’intreccio singolare dei rapporti tra le parti, l’oggetto (arredi domestici) della contesa e la sua complessità. 5) Fondato è invece il quarto motivo del ricorso incidentale, con il quale, in relazione al pagamento degli interessi sulla somma dovutagli quale controvalore del quadro di (OMISSIS), l’attore lamenta che la decorrenza sia stata fissata dalla sentenza al saldo. Deduce che la decorrenza degli interessi doveva essere fissata a partire dalla notifica dell’atto di citazione, avvenuta il 4 maggio 2006. La censura trova riscontro nel disposto dell’art. 1148 c.c., in forza del quale il possessore di buona fede (profilo su cui il ricorso espressamente dichiara di non voler sollevare doglianza, cfr pag. 40) può trattenere i frutti del bene solo fino al giorno della domanda giudiziale. Dal momento della domanda, una volta che venga riconosciuto il diritto alla restituzione della cosa, i frutti spettano al rivendicante. Sul controvalore del bene, anche secondo la regola generale di cui all’art. 2033 c.c., spettano interessi dalla domanda. Sul punto si può far luogo a decisione nel merito, poichè ex art. 384 c.p.c., non sono necessari altri accertamenti di fatto. 6) Resta respinto il quinto motivo, che invoca la responsabilità processuale aggravata ex art. 96 c.p.c., della ricorrente, non certo ravvisabile nel pur infondato ricorso, che esponeva una critica a un apprezzamento di merito intrinsecamente opinabile. 7) Le spese di causa devono essere compensate con riguardo a tutti i gradi di giudizio: per i primi due riprendendo quanto già ritenuto dalla Corte di appello; quanto al giudizio di legittimità, in considerazione della soccombenza reciproca per la più rilevante parte delle rispettive censure.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso principale. Accoglie il quarto motivo del ricorso incidentale, rigettati gli altri. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito, dichiara spettanti all’attore gli interessi dalla data della domanda. Spese di tutti i gradi di giudizio compensate tra le parti. Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Seconda Civile, il 22 marzo 2016. Depositato in Cancelleria il 19 settembre 2016.

 

 

 

Tribunale di Reggio Emilia. Contratti misti, come distinguere tra vendita e appalto. Risoluzione contrattuale.

Trib.le di Reggio Emilia Sentenza n. 1276/2016 pubbl. il 22/09/2016

Il caso esaminato dal Giudice del Tribunale di Reggio Emilia riguarda una fattispecie negoziale complessa, un c.d. contratto misto nel quale si fondono i singoli elementi causali di più fattispecie contrattuali utilizzate, vale a dire la compravendita e l’appalto. La fusione di tali elementi realizza un interesse unitario sul piano pratico ed economico.

In presenza di un interesse unitario, come nel caso di specie, secondo la giurisprudenza deve essere applicata la disciplina del contratto prevalente (Cass. 17 novembre 2010 n. 23215,  Cassazione Sez. Un. Civili , 12 maggio 2008, n. 11656). Questo orientamento è stato ribadito ulteriormente da una recente pronuncia della Suprema Corte, (Cass. n. 22828/2012) che è intervenuta regolando un caso di contratto misto, in cui coesistevano due fattispecie negoziali molto differenti.

Dunque il prevalere dell’una o dell’altra fattispecie contrattuale assume rilevanza in quanto determina la disciplina civilistica  applicabile al caso (ad es. in materia di vizi).

Una parte della giurisprudenza (tra le altre Cass. sez. 5^, n. 9320/2006) ritiene che   l’elemento distintivo tra compravendita e appalto sia rappresentato dalla prevalenza quantitativa dell’elemento materia  sull’elemento lavoro. Nella  fattispecie  il compito è apparso agevole per il prevalere del valore economico della prestazione di dare (materiale per pavimenti) rispetto al fare ( posa del pavimento).

Merita di essere segnalata anche una relativamente recente pronuncia della Corte di Cassazione secondo la quale   sono sempre da considerarsi contratti di vendita (e non di appalto) i contratti concernenti la fornitura ed eventualmente anche la posa in opera qualora l’assuntore dei lavori sia lo stesso fabbricante o chi fa abituale commercio dei prodotti e dei materiali di che trattasi (Cassazione civile, sez. II, 17/01/2014 n.872)

Assecondati tali principi, il Giudice. entrando nel merito della controversa vicenda. ha ritenuto che l’istruttoria abbia dimostrato “che Waterproofing Srl non abbia promesso qualità diverse ed ulteriori rispetto a quelle descritte nella scheda tecnica, tenuto conto del fatto che, da un lato, vi sono elementi per ritenere che il problema della corretta pulizia fosse stato fatto presente (“V. F. ha affermato che: (cap. 2) “la richiesta del signor Sempronio era di un prodotto dotato di amovibilità antiscivolosità e che doveva sopportare carichi pesanti e così io gli avevo proposto il modello GTI attraction però anziché tinta unita, con un decoro sale e pepe perché mascherava di più lo sporco rispetto alla tinta unita…….. e, dall’altro, tenuto conto del fatto che se una superficie deve essere antisdrucciolevole, è facile immaginare che non possa facilmente essere pulita con modalità di lavaggio manuali.”

Ha quindi ritenuto di rigettare la domanda di risoluzione del contratto per non averne ravvisato i presupposti, con conseguente condanna dell’opponente Beta al pagamento, in favore della Waterproofing. Srl della somma di € xxxx   oltre a quota parte delle spese processuali.”

Testo della sentenza

REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE DI   REGGIO NELL’EMILIA

SEZIONE PRIMA CIVILE

Il Tribunale, nella persona del Giudice dott. Luisa Poppi ha pronunciato ex art. 281 sexies c.p.c. la seguente

SENTENZA

nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. 3179/2012 promossa da:

BETA quale titolare ditta GAMMA, con il patrocinio dell’Avv. Caio, elettivamente domiciliato in VIA ALDO MORO N. 24 42013 CASALGRANDE presso il difensore Avv. Caio                                                 –  ATTORE

contro

WATERPROOFING SRL (C.F. ), con il patrocinio dell’Avv. ORLANDI GIOVANNI , elettivamente domiciliato in CORSO MAZZINI N.15 42015 CORREGGIO presso il difensore Avv. ORLANDI GIOVANNI    – CONVENUTO

CONCLUSIONI

Le parti hanno concluso come da verbale d’udienza.

Concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione

Con atto di citazione notificato in data 21/03/12, Beta titolare dell’impresa individuale Gamma, proponeva opposizione avverso il decreto n. 930/2012, emesso in data 09/03/2012, con il quale il Tribunale di Reggio Emilia le ingiungeva il versamento, a favore della società Waterproofing Srl, della somma di € 8.731,36, oltre interessi di mora, spese e competenze della fase monitoria.

Sosteneva l’opponente che il decreto ingiuntivo doveva essere dichiarato illegittimo se non altro perchè era stato versato un acconto di € 2.910,45 e , nel merito, che la pavimentazione utilizzata era priva delle qualità promesse, inidonea all’uso e, comunque, non realizzata a regola d’arte. Formulava, quindi, le seguenti conclusioni: “Voglia l’Ill.mo Tribunale di Reggio Emilia, per i motivi esposti in premessa: In via principale e nel merito: DICHIARARE nullo, invalido, illegittimo e di nessun effetto l’opposto decreto ingiuntivo n. 930/2012 del 08.03.12 del Tribunale di Reggio Emilia e, conseguentemente, revocarlo, respingendo le domande tutte proposte dalla WATERPROOFING SRL SRL, in persona del legale rappresentante pro tempore, con sede in Correggio (RE), Via……………., nei confronti di  Beta, in qualità di titolare della ditta individuale Gamma, corrente in……., Via …………, perchè infondate in fatto ed in diritto.

In via riconvenzionale: ACCERTARE la mancata corrispondenza, come sopra evidenziato, delle caratteristiche del prodotto fornito e posato da controparte alle richieste avanzate di Beta di conseguenza DICHIARARE la risoluzione del contratto stipulato tra le parti, per inadempimento di parte convenuta CONDANNANDO quest’ultima alla restituzione della somma già corrisposta da Beta ad € 2.910,45 oltre ad interessi come per legge ed al risarcimento del danno, quantificato in € 2.000,00 o in quella somma, maggiore o minore, che dovesse risultare in corso di causa, determinata anche in via equitativa ex art. 1226 C.C.. In ogni caso: con vittoria di spese, competenze ed onorari del presente giudizio”.

Si costituiva tempestivamente in giudizio l’opposta ed eccepiva la decadenza dal termine per la denuncia dei vizi e/o difetti di qualità, contestava il fondamento dell’opposizione e pertanto l’esistenza dei vizi e la con corretta esecuzione secondo la regola dell’arte del pavimento sul presupposto che il consulente dell’opponente aveva scelto in modo consapevole quel tipo di pavimento. Puntualizzava, inoltre, di non avere assunto impegni per quanto concerne le modalità di pulizia del pavimento e comunque per caratteristiche diverse da quelle previste dalla scheda tecnica del prodotto, consegnata all’opponente. Chiedeva, quindi, la condanna dell’opponente al pagamento della somma di euro € 5.820,91, oltre interessi di mora, -riconoscendo il mancato calcolo dell’acconto versato- e che fossero respinte le domande riconvenzionali proposte dall’opponente.

La causa veniva istruita mediante produzione documentale, audizione di testimoni e svolgimento di CTU.

Quest’ultima ha chiarito che la posa del materiale è stata eseguita con risultati tutto sommato soddisfacenti, ad eccezione di “alcune imperfezioni lungo i bordi ove i tagli non sono sempre perfetti e ove si rende necessario installare un profilo di finitura (cosa diversa dal battiscopa e da ritenersi parte integrante della fornitura, compreso nella voce “posa del materiale”: cfr. p. 19 CTU) con una spesa che si valuta in € 500 oltre IVA. Una volta installato il profilo di bordo si ritiene comunque il risultato complessivo accettabile sia dal punto di vista funzionale che estetico.”

Il punto centrale della vicenda, pertanto, rimane la difficoltà di pulizia del pavimento, oggettivamente riscontrata dal CTU, il quale ha affermato che la pulizia “non è particolarmente agevole e i migliori risultati si ottengono solo con una lavapavimenti con rotospazzola che garantisca un’azione particolarmente energica (…). Le pulizie manuali o con una lavapavimenti di caratteristiche standard non garantiscono risultati soddisfacenti e/o tempi di pulizia compatibili con le normale attività”.

Tale caratteristica (punibilità) deve ritenersi una qualità del prodotto fornito ed installato e, dunque, la sua assenza un eventuale “vizio” o “mancanza di qualità” del bene venduto.

L’eccezione di decadenza di cui all’art. 1495 c.c. formulata da parte opposta deve essere rigettata: infatti, le prove testimoniali e la produzione documentale (doc. 3 parte opponente) hanno dimostrato la reiterata denuncia dei vizi fin da un momento immediatamente successivo rispetto alla posa del pavimento (consegnato nel tardo pomeriggio del 2.9.2011 con inaugurazione del locale il giorno successivo) a cui sono seguiti reiterati sopralluoghi.

Deve, pertanto, stabilirsi a questo punto se possa o meno essere imputata a parte opposta Waterproofing Srl la scelta di quel materiale, rivelatosi poi inadeguato alle esigenze di quel tipo di esercizio commerciale (il pavimento viene definito dal CTU più adatto ad un utilizzo industriale che commerciale).

Dall’esame delle deposizioni testimoniali deve, innanzitutto, rilevarsi l’incapacità a testimoniare di Tizio, socio della Waterproofing Srl e consigliere di amministrazione (che, tra l’altro ha sottoscritto il contratto per conto di Waterproofing Srl): dalla visura camerale, infatti, emerge che la firma e la rappresentanza legale della società di fronte ai terzi spetta al presidente del CDA nonché indistintamente a tutti i componenti del consiglio di amministrazione in via tra loro disgiunta.

D’altro canto, la deposizione di Sempronio, allora compagno e attuale marito dell’opponente -per quanto in regime di separazione dei beni- deve essere valutata con estremo rigore in termini di attendibilità, seppure non di incapacità a testimoniare.

Il teste V.F. a proposito delle caratteristiche del prodotto ha così riferito: (cap 2) “la richiesta del Sempronio era di un pavimento dotato di amovibilità, antiscivolosità e che doveva sopportare carichi pesanti …”. Effettivamente tali caratteristiche risultano illustrate nella scheda del prodotto e sostanzialmente non sono state contestate.

Lo stesso teste ha dichiarato inoltre che “io avevo portato a Correggio presso il locale che sarebbe diventato la lavanderia Gamma i campionari e le schede tecniche da far visionare a un signore che credo fosse il titolare della lavanderia e che ho visto questa mattina davanti alla porta dell’ufficio del Giudice il quale sceglieva il tipo di prodotto”. ADR “eravamo presenti io, il signor Tizio, un signore che credo fosse il titolare della lavanderia perché le scelte le faceva lui e il posatore L.M.”

Il teste L. M., a sua volta, ha dichiarato: (cap.1) “si è vero, io ero presente nei locali della lavanderia a Correggio nell’estate del 2011 prima di agosto, quando il signor Sempronio ha scelto il tipo di pavimento. Oltre a me erano presenti anche V.F. e Tizio.”

Del resto, è la stessa difesa dell’opponente che conferma che Sempronio “ha seguito passo passo la realizzazione dell’intero locale come consulente della sig. Beta e ha, pertanto, affiancato la convenuta anche nella scelta della pavimentazione”.

Ed allora, non pare che l’istruttoria abbia dimostrato che Waterproofing Srl abbia promesso qualità diverse ed ulteriori rispetto a quelle descritte nella scheda tecnica, tenuto conto del fatto che da un lato che vi sono elementi per ritenere che il problema della corretta pulizia fosse stato fatto presente (“V. F. ha affermato che: (cap. 2) “la richiesta del signor Sempronio era di un prodotto dotato di amovibilità antiscivolosità e che doveva sopportare carichi pesanti e così io gli avevo proposto il modello GTI Attraction però anziché tinta unita, con un decoro sale e pepe perché mascherava di più lo sporco rispetto alla tinta unita.”; di seguito (cap. 3): confermo che il signore della lavanderia aveva scelto il colore grigio scuro uniforme”; infine (cap. 4) : “avevo detto al signore della lavanderia che le alternative possibili per le sue esigenze di non compromettere il pavimento sottostante non erano molte”; e (cap.5) . “Avevo consegnato tramite il sig. Tizio al signore della lavanderia una mattonella dimostrativa di 63,5 x 63,5 ad incastro

Tizio mi aveva confermato di avere fatto una dimostrazione”.), e dall’altro tenuto conto del fatto che se una superficie deve essere antisdrucciolevole, è facile immaginare che non possa facilmente essere pulita con modalità di lavaggio manuali.

Pertanto, e conclusivamente, il D.I. deve essere revocato in quanto l’importo ingiunto è certamente errato: € 5.820,91 contro la somma di € 8.731,36 richiesta nel decreto. Deve, infatti, essere conteggiato l’acconto versato, mentre nessuna prova è stata raggiunta in relazione ad un diverso accordo modificativo del preventivo portato nel ricorso monitorio.

Deve viceversa essere rigettata la domanda di risoluzione del contratto di cui non vi sono i presupposti, con conseguente condanna dell’opponente al pagamento, in favore di Waterproofing Srl,della somma di € 5.820,91, oltre interessi legali dalla domanda al saldo.

A tale proposito, deve precisarsi come non possa essere accolta la domanda di riduzione del prezzo formulata in sede di precisazione delle conclusioni: il contratto in oggetto, infatti, non può -per le sue prevalenti caratteristiche- essere qualificato come contratto di appalto.

Le spese del giudizio, tenuto conto della soccombenza reciproca, devono compensarsi per la metà, con condanna dell’opponente (prevalentemente soccombente) al pagamento della restante metà delle spese in favore dell’opposta, liquidate come da dispositivo, mentre le spese di CTU devono interamente porsi a carico di parte opponente

P.Q.M.

Il Tribunale di Reggio Emilia, in persona del Giudice Unico dott.ssa Luisa Poppi, uditi i procuratori delle parti, definitivamente pronunciando sull’opposizione proposta da Beta confronti di Waterproofing Srl  avverso il D.I. n. 930/2012, emesso in data 09/03/2012, ogni altra istanza, eccezione e deduzione disattesa, così provvede:

-accoglie parzialmente l’opposizione per le causali di cui in parte motiva e, per l’effetto, revoca l’impugnato decreto ingiuntivo n. 930/2012 , emesso in data 09/03/2012;

-condanna Beta al  pagamento in favore di Waterproofing Srl  della somma di € 5.820,91 oltre interessi nella misura legale dalla domanda al saldo;

-condanna Beta  al  pagamento della metà spese di lite in favore di Waterproofing Srl, che si liquidano nella misura -già decurtata – di € 2.410,00 , oltre al pagamento delle spese di CTU; compensa tra le parti la restante metà.

Sentenza resa ex articolo 281 sexies c.p.c., pubblicata mediante lettura alle parti presenti ed allegazione al verbale.

Reggio Emilia, 22 settembre 2016

Il   Giudice dott. Luisa Poppi

 

Tutela del credito. Un SMS può rappresentare prova del credito ?

Decreto ingiuntivo n. 4330/2016 del 24/11/2016 del Tribunale di Genova

Il Giudice “Rilevato che dai documenti prodotti il credito risulta certo liquido ed esigibile considerato che sussistono le condizioni di ammissibilità previste dall’art. 633, 634, 641 c.p.c. ma non quelle di cui all’art. 642 risultando gli sms prodotti di ignota provenienza…ingiunge a …..”

Il Tribunale, nella fattispecie, ha concesso il decreto ingiuntivo in forma  non provvisoriamente  esecutiva ravvisando in un  messaggio SMS un principio di riconoscimento del debito, ma non una prova certa.

Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza ligure perché il documento informatico, e dunque anche un SMS, possa fare piena prova, occorre poter riconoscere la provenienza e nella fattispecie la provenienza dei messaggi era possibile ma non accertata.

Fornire prova certa dell’effettiva provenienza di un messaggio da una determinata persona non è cosa semplice specie nell’ambito di un procedimento d’ingiunzione caratterizzato da istruzione sommaria e da assenza di contraddittorio.

Testo del provvedimento

Il Tribunale di Genova Sezione seconda In composizione monocratica

Numero 14885/2016 del Ruolo D.I.

Letto il ricorso per la concessione di decreto ingiuntivo depositato da

rilevato che dai documenti prodotti il credito risulta certo, liquido ed esigibile; considerato che sussistono le condizioni di ammissibilità previste dall’art. 633, 634, 04ic.p.c., ma non di quelle di cui all’an. 642 risultando gli sms prodotti di ignota provenienza;

Ingiunge a

« Caio    di pagare alla parte ricorrente, entro il termine di quaranta giorni dalla notificazione del presente decreto:

la somma di Furo 875,00 oltre interessi legali dalla dómanda al saldo; le spese di questa procedura di ingiunzione, liquidate in Furo 400,00 per competenze, in Euro 21,50 per esborsi, oltre spese forfetizzate al 15%, I.v.a. e C.p.a., oltre le successive decorrende;

Avverte

l.a parie debitrice:

  • che può proporre opposizione contro il presente decreto nel termine perentorio di quaranta giorni dalla notifica;
  • che in mancanza di opposizione la parte ricorrente ha diritto di procedere ad esecuzione forzata.*                                                                                          Il Giudice
  • Cosi deciso in data 22/11/2016